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Autore: SaintPotter    09/10/2017    2 recensioni
“ Lo scarlatto scoppiettio delle fiamme era ciò che di più vivo albergasse nel maniero. Il fuoco, alimentato dalla legna del caminetto, sembrava ardere, producendo quei brevi rumori ripetuti, ma non bruciava veramente. Era estate ed in quella stagione qualcuno si disturbava a lanciare l’Incantesimo Freddafiamma al focolare. Le fiamme non avevano il fine ultimo di riscaldare le pelli diafane degli abitanti del maniero, ma i loro cuori. Sempre che qualcuno, lì, avesse un cuore. ” ( ... ) “ Albus Potter era il fratello che Scorpius Malfoy non aveva mai avuto, era più lui la sua famiglia che Draco Malfoy. Era tutto, o quasi. Perché c’era qualcun altro. O meglio, c’era stato, ma poi era successo un disastro. Uno di quei disastri che parevano irrisolvibili. Un disastro gigante. E così Lily Potter si era ritrovata a diciassette anni incinta della figlia di Scorpius Malfoy ed ora, due anni ed un mese dopo, i due nemmeno si parlavano. ” ( ... ) “ Tutti soffrono. ” ( ... ) #TeamScorily.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Lily Luna Potter, Scorpius Malfoy, Un po' tutti | Coppie: James Sirius/Dominique, Lily/Scorpius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Everybody hurts

SaintPotter
 
 
 
 
 


7
 


 
Scorpius Malfoy, al contrario del suo migliore amico, aveva pranzato in orario, era andato a pagare il suo nuovo anno di studi universitari e un po’ per il sonno, un po’ per essere sicuro di non cominciare a pensare ai suoi genitori, decise di farsi un pisolino. Alle quattro del pomeriggio era di nuovo in piedi e stava sfogliando un libro di Pozioni. Per la seconda volta nella giornata, avrebbe potuto chiedere aiuto ad Albus, invece decise di fare il lavoro sporco e mettersi a cercare una pozione che avrebbe fatto al caso suo. Quella che più gli si avvicinava era l’Amortentia, ma non avrebbe mai potuto rifilarne una a Lily Potter, non era mica cretino!, quindi lasciò perdere. Dopo mezz’ora decise che aveva fatto abbastanza e che avrebbe continuato più tardi. Stava per andare ad annoiarsi in camera sua quando…
«Signor Malfoy?» lo disturbò il suo elfo domestico.
«Sì, Irvin?»
«Ecco… ecco…» balbettò quello, torturandosi come al suo solito le mani. Non che avesse una cattiva notizia da dargli, almeno questa volta. O meglio, dipendeva dai punti di vista. Draco Malfoy, per esempio, non avrebbe gradito quella visita. «Ha… ha ospiti! La signorina Weasley l’attende alla porta.»
«Quale Weasley?» osò chiedere, avviandosi verso l’ingresso.
«Quella carina» rispose, per poi correggersi. «Coi capelli rossi e ricci, le lentiggini sul viso e…»
«Va bene, va bene, ho capito.»
L’elfo sparì, quindi Scorpius andò ad aprire la porta a Rose Weasley, “quella carina”, gentile un po’ troppo con gli elfi domestici, come c’era da aspettarsi con una madre come Hermione Granger che già durante i suoi anni a scuola s’era messa a creare quella che Scorpius non ricordava se si chiamasse “C.R.E.P.A.” o “M.U.O.R.I.M.A.L.E.”, ma vabbè, insomma, quella!
«Weasley», la salutò, spostandosi per farla entrare.
«Ciao, Malfoy» rispose quella, entrando nel maniero con un educato «con permesso».
Si accomodarono nel salotto del maniero su due poltrone diverse e che si fronteggiavano.
«Carino l’incantesimo» disse lei in riferimento al fuoco freddo che bruciava nel caminetto. Solo lei avrebbe potuto far caso ad un particolare del genere. Lui rispose con un mezzo sorriso. «Come stai?» gli chiese poi.
«Non c’è male» mentì lui, anche se certamente non stava così male come quella mattina. Scrollò le spalle. «E tu?»
«Bene, grazie! Credo di aver trovato un lavoro fisso!» Effettivamente, questo era il motivo della sua visita.
«Credi?» domandò incerto, non comprendendo se lei fosse esattamente felice o no per quella novità di cui lo stava informando.
«Sì, be’… per questo sono qui, speravo tu potessi confermarmelo.»
«Da quando Rose Weasley fa o non fa qualcosa perché glielo dico io?»
Lei sorrise furbescamente, ma non ribatté in alcun modo ironico. Avevano smesso di punzecchiarsi al terzo anno, quando erano finalmente diventati amici e lei lo sapeva che lui non parlasse più con amarezza quando si rivolgeva a lei.
«Non sono sicura se accettare. È un lavoro a casa Nott!»
Nott? I Nott suoi parenti? Scorpius inarcò un sopracciglio, intimandola così a continuare.
«Tuo zio ha bisogno di una maestra privata per il figlio più piccolo, Cyrus» spiegò lei. «Vogliono dargli un’educazione da Purosangue e farlo studiare a casa anziché mandarlo alle elementari. Tra l’altro… come hai fatto anche tu, dico bene?»
«Sì» rispose Scorpius, che stava cominciando a capire. «E così hanno chiesto a te.» Non volle informarsi di come lei avesse avuto i contatti eccetera eccetera, ma una domanda gli sorse spontanea. «E l’insegnante privato che c’è stato fino ad ora?»
«Mi pare abbiano litigato, ma non ho voluto chiedere i dettagli.»
Scorpius annuì e lei fece lo stesso, prima di alzare ed abbassare le spalle. Portò le mani sulle proprie cosce, coperte da una gonna bordeaux che stava da Dio sotto quella canotta bianca e su quelle ballerine dello stesso colore, e prese a girarsi i pollici.
«Perciò…» riprese lei, incerta su come continuare, ché voleva solo chiedergli se dovesse accettare o meno.
«Ti hanno chiesto anche di fargli le lezioni di pianoforte?» la interruppe però Scorpius, ricordando che il cuginetto dovesse anche continuare a suonare lo strumento e che l’amica lo suonasse. Da quanto ne sapeva, le aveva insegnato a farlo sua madre, ma poi aveva preso anche lezioni private in estate tra il suo terzo e sesto anno. Lei gli diede conferma con un cenno della testa.
«Cyrus mi pare abbia otto anni, quindi… a che età si impara a leggere e scrivere?»
Rose rise, dicendo che il signor Nott l’avesse già informata che suo figlio sapesse già leggere e scrivere e su cosa dovesse fare lei. «E comunque ne ha nove» volle anche correggerlo, alla fine. Scorpius annuì di nuovo.
«Be’, è fantastico!» concluse lui, battendo le mani e raddrizzandosi sulla poltrona.
«Sì» gli venne incontro lei, «ma non è questo il problema. Lavorerei ogni giorno tranne il week-end e lo sai che il maniero è lontano e…»
«E tu hai paura di Materializzarti troppo!», rise.
La ragazza lo guardò male, assottigliando lo sguardo. Be’, a quanto pare nessuno era perfetto: Hermione Granger non se la cavava con la Divinazione e non era la migliore nel Volo e sua figlia faceva abbastanza schifo (inaspettatamente) in Antiche Rune ed aveva passato per miracolo l’esame di Materializzazione e Smaterializzazione, spaventata com’era dall’idea di potersi Spezzare.
«Non prendermi in giro!» tentò di zittirlo e ci riuscì, minacciosa com’era quando si imbronciava. Era anche adorabile, però – Scorpius doveva ammetterlo.
«Allora suppongo che dobbiamo trovare una soluzione al problema.»
«Il problema» ci tenne a precisare, «è che il signor Nott ha già trovato una soluzione.»
«E non è grandioso» ricorse lui, «perché…»
«Perché dovrei dormire al maniero.»
Ci fu un lunghissimo istante di silenzio in cui i giovani si guardarono, lei sconcertata e lui sconvolto, poi Scorpius iniziò a ridere fragorosamente. Lei rispose sbuffando.
«Quindi tu e Ryan diventerete ottimi amici!» convenne con ironia. Lei, se possibile, lo guardò peggio di prima.
Ryan Nott, un coglione di prima categoria, uno dei pochi studenti di Hogwarts che Rose Weasley, ai tempi, non fosse mai riuscita a sopportare. Ed aveva buone ragioni per farlo!
Ryan Nott era… oh, ma non parliamo di lui, adesso! Non si parla alle spalle della gente... con Ryan lo si fa proprio davanti e gli si sputa pure in faccia.
«Smettila di ridere!» lo rimproverò lei, perciò Scorpius dovette sforzarsi per fare come gli era stato ordinato.
«Scusa» disse, anche se la risata era proprio inevitabile. «Ricapitoliamo, tu sei qui per chiedermi se sia fattibile lavorare per i miei zii vivendo cinque giorni su sette nello stesso territorio di Ryan Nott?»
Sembrava una barzelletta. Dovette trattenersi dal riderle di nuovo in faccia. Alla fine Scorpius si limitò a sorriderle divertito ed annuire.
«Be’, ti pagherebbero oro. Letteralmente. Fossi in te accetterei!»
«Credi non vorrò suicidarmi al secondo giorno?»
«Speriamo di no!» asserì lui, piegandosi un po’ in avanti, la schiena curva, giusto per diminuire un po’ le distanze trai due. «Puoi farcela, Weasley!»
Rose tirò un gran sospirò, quindi annuì una nuova volta e confermò. «Posso farcela.» Anche se non ne era troppo sicura.
«Quando inizieresti?»
«Tra due settimane. Ma Nott mi ha chiesto di andare lì già un po’ prima per ambientarmi e cercare di farmi subito simpatica a Cyrus. Cioè, non simpatica simpatica, simpatica severa ma giusta
«Gentile da parte sua.»
Gentilissimo.
La settimana successiva Rose Weasley avrebbe iniziato a vivere il suo incubo e chissà se avrebbe presto preso per davvero in considerazione l’idea del suicidio. Comunque, non che non fosse già un inferno anche a casa sua, dato che i suoi genitori non facevano altro che litigare da mesi, ormai. Hermione e Ronald Weasley erano diventati cane e gatto (Grattastinchi La Vendetta in confronto non era niente) ed ogni giorno Hugo e Rose rischiavano la vita, prendendosi in testa magari un elettrodomestico babbano, magari un incantesimo…
Proprio in quel momento, infatti, gli adulti di casa Weasley-Granger si lanciavano insulti, oggetti e Schiantesimi, ad un certo punto anche il gatto. Solo Merlino sapeva come Grattastinchi La Vendetta potesse ancora essere vivo. Quei due stavano facendo più casino di quanto ne avesse fatto Fred Weasley in Casa Potter, quella mattina. Fred Weasley che ovviamente adesso era in casa propria a sfottere sua sorella perché avesse il ciclo. Roxanne naturalmente già meditava un piano per far diventare suo fratello una ragazza per un mese e fargli subire le pene degli inferi che ai maschi non erano concesse.
Nel frattempo, in Casa Potter, il disastro non c’era più e non volava anzi neanche una mosca. Alex si era addormentata di nuovo e Lily ne aveva approfittato per riposarsi anche lei, mentre Albus era in salotto con la tv babbana accesa ed alcuni libri di Pozioni Avanzate sulle gambe. Non riusciva a studiare e non per il volume di quel programma stupido che stava guardando che era troppo alto, bensì perché non riusciva a non pensare a che diavolo di fine avesse fatto suo fratello. (Quello era il suo programma preferito! Che tristezza! James, torna a casa!) Ormai non erano passate solo poche ore, ormai ne erano passate troppe (almeno per lui) ed aveva disturbato ogni santo essere vivente di cui avesse il numero di telefono per lasciargli almeno venti messaggi, tutti più o meno uguali, in cui chiedeva “hai visto quel coglione di James?”. Aveva anche spedito alcune lettere ai suoi amici Purosangue o comunque troppo stupidi per avere un cellulare, ma niente, la metà della gente non aveva visto James e l’altra metà o non gli rispondeva o lo faceva mandandolo a fanculo e chiedendo di smetterla di essere così molesto.
Alla fine, decise di inviare un messaggio a sua madre.
“Ciao, mammina cara” scrisse, ma lo cancellò perché Ginny si sarebbe certamente preoccupata troppo al solo leggere queste parole diabetiche del cazzo.
“Mamma, c’è un problema. Non è morto nessuno e la casa non è ancora stata incendiata, puoi stare tranquilla”, poi decise di cancellare quel “ancora”, quindi continuò. “Però, anche se nessuno si preoccupa, personalmente credo che la situazione sia abbastanza grave. James è scomparso. Da stamattina non risponde e nessuno ha idea di dove sia e cosa faccia, né se sia vivo. Sai, non sembrava stare troppo bene ed ho paura che sia nei guai…
Albus.”
E spedì. Poi se ne pentì perché la madre l’avrebbe ucciso. Ma... James era più importante!
Tentò di concentrarsi sul suo studio nell’attesa di una risposta che, tanto, sapeva non sarebbe arrivata presto, impegnata com’era sua madre a fare l’eccellente giornalista sportiva – di Quidditch, per l’esattezza. Tentò, sì, ma non ci riuscì. Tanto che prese a guardare il soffitto, come se lì in alto ci fosse una qualche sorta di dio, e prese a piagnucolare come quando da piccolo si comportava male pochi giorni prima di Natale ed aveva paura che Babbo Natale non gli volesse più portare nessun regalo.
«Ehy, Grande Capo Indiano! No, no, non indiano! Scusa! Non lo so se sei indiano, inglese, italiano, americano o… lasciamo stare! Ti prometto che la smetterò di distrarre Anya Patil durante le lezioni di Pozioni! E sarò uno zio migliore di tutti gli altri Weasley per Alex! E lo so che a scacchi con Scorpius imbroglio sempre e vinco Confondendolo, ma ti giuro che non lo farò più! Non prenderò più per il culo James perché è un pezzo di merda, anche se… in realtà è lui che prende per il culo me... ed è un pezzo di merda, ma andiaaaamo, Grande Capo! Fallo tornare, per favoooore! Lo so che manca anche a te, dai, daaaai!»
Sì, lui aveva superato i vent’anni.
Mentre questa patetica scenetta, forse anche un po’ tenera, andava avanti… volete sapere che fine aveva fatto James Potter?
«Che gran pezzo di merda» sbuffò James, pensando a come il fratello avrebbe potuto rovinare il suo piano. Piano che era più o meno quello di sparire dalla faccia della Terra per pensare a quello che aveva fatto e cercare di accettarlo, alla fine, rassegnato, e dimenticarlo, o convincersi che non l’aveva fatto di proposito, che non era colpa sua, che era solo colpa dell’alcool, e Lily… oh, Lily! Si sentiva un gran pezzo di merda. Lo era. James Potter aveva fatto un errore madornale e se la sorella fosse stata sobria ed avesse ricordato, chissà!, forse non avrebbe più voluto parlargli per il resto della sua vita, spaventata e disgustata da lui. Nemmeno lui effettivamente avrebbe voluto parlarsi. Era stato un gran pezzo di merda, solo un gran pezzo di merda. (Stava esagerando? Boh, che ne sapeva, Lily per lui era la persona più importante sulla faccia della Terra, non voleva ferirla neanche nel modo più insulso!) Stesso modo in cui aveva definito il fratello.
«Albus è solo preoccupato per te, lo sai.»
Sì, in fondo James lo sapeva. E gli voleva bene. Però restava il fatto che quello doveva solo stargli lontano, perché non era pronto a parlare civilmente con lui, non era pronto a sfogarsi, non era pronto a…
Scrollò le spalle, borbottando un distratto «lo so».
«Ma?»
«… “ma”?» ripeté lui.
«So che c’è un “ma”.»
James annuì.
«Ma adesso voglio stare da solo.»
Anche se non era del tutto solo. C’era lei.
«Grazie per l’ospitalità, Dominique.»
Si sporse in avanti per baciare le labbra di quella che non sapeva bene se definire o meno la sua ragazza, ma che certamente era la sua cugina preferita e l’unica ragazza che avesse mai amato, che ancora amava, anche se non glielo diceva mai. Lei si tirò indietro, qualcosa le impedì di rispondere a quel bacio, ma per non farlo preoccupare ci tenne a sorridergli teneramente.
Forse a Dominique non andava giù il fatto che al party lui avesse davvero potuto averci provato con chissà quante ragazze. Insomma, era tipico di James. E questo a lei faceva male. Perché no, non stavano insieme e lei, al contrario di lui, sapeva che lui non fosse il suo fidanzato, che la loro fosse una sorta di relazione aperta e che lo fosse per non far prendere a William, suo padre, l’ennesimo colpo, ché già tre anni prima, quando avevano fatto coming out, per la rabbia ed il disgusto dovuti al fatto che fossero cugini e si amassero, per poco non sbranava suo nipote. Che cosa immonda due cugini che si amavano, no? Forse Dominique era gelosa e non voleva dimostrarlo, soffriva in silenzio. Forse…
«Vado a preparare due caffè» disse, lasciandogli un bacio sulla fronte, perché oggi di baciare quelle labbra non se la sentiva. «Io ne ho bisogno, devo tenermi sveglia: più tardi ho un articolo da scrivere.»
James annuì, a lei grato, comprensivo, ma anche innamorato, ed anche distrutto e… sì, provava troppe cose assieme e per lui era una cosa nuova, ingestibile. Le permise di sparire in cucina e si sdraiò sul letto della cugina, intento a fissare il soffitto e pensare. Pensare al party della sera prima. Quel party maledetto.
Dominique, di là, si mise a preparare i caffè come aveva detto. Tremava un po’, ma si disse che dopotutto andava tutto bene, che non aveva motivo di stare male. Lei non era fragile. Non doveva esserlo. Lei era forte e non piangeva. Così non pianse, tenne gli occhi chiusi per alcuni secondi e decise di tenere dentro l’ennesimo problema, l’ennesimo dolore.
«Tutti soffrono» si disse piano alla fine. «Tutti soffrono, Dominique. C’è chi soffre più di te.»
Così, l’amaro in bocca, riuscì a mettere su il più tirato dei sorrisi ed in tempo evitò di sporcare il tavolo col caffè che rischiava di rovesciarsi. Per la precisione, su tavolo e giornale. Lei aveva già letto l’ultimo numero della Gazzetta del Profeta.


 




 

 

 
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