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Autore: Kat Logan    05/12/2017    2 recensioni
Esiste realmente la quiete dopo la tempesta?
C'è chi cerca di costruirsi un nuovo futuro sulle macerie del passato e chi invece dal passato ne rimane ossessionato divenendo preda dei propri demoni.
[Terzo capitolo di Stockholm Syndrome e Kissing The Dragon].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Rei/Rea, Un po' tutti | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Did you give up when they shot you down?
Always trying to fight the feeling
Oh, but just falling, oh
Is it the end?
Or maybe the start?
Of something you never thought could happen in a million stars

But I won't give in, no
Oh, the future is now
No I won't give in, no
Time is waiting around
 
Safe Dream – Tep no
 
 
 


I polsi indolenziti e le mani ammanettate davanti al bacino. Ogni passo più pesante dell’altro nel procedere per il corridoio spoglio.
Il beep sinistro a segnalare lo sblocco del cancello e ogni leggerezza lasciata al di fuori di quelle mura inespugnabili.
Prigioniera dentro una fortezza nella quale aveva lei stesso deciso di barricarcisi e un groppo in gola tanto stretto da rischiare di soffocarla.
Haruka però teneva la testa alta.
Sapeva come funzionava lì dentro; a mostrare le proprie debolezze ci si sarebbe fatti sbranare. E lei non sarebbe stato l’ultimo pasto di nessuno lì.
 
26  ore prima
 
«Ma dici sul serio?! Tu vorresti rapinare una banca?» lo sguardo di ghiaccio di Akira da sottile si fece tanto grande che Haruka credette potesse esplodere e far schizzare le orbite altrove.
«E di grazia…» il moro prese un lungo respiro per poi far guizzare le pupille sulla sigaretta spenta che penzolava ancora dalle labbra della bionda.
«Perché non puoi rubare una bicicletta come fanno tutti in questo paese? Si finisce in prigione lo stesso, sai?».
«Non so se sia abbastanza» sbiascicò la bionda con aria di sufficienza.
«Se questo è un bislacco tentativo di farsi notare, beh cara mia…» Akira le diede una pacca sulla spalla facendo un secondo di pausa quasi volesse far durare il pathos della conversazione più del dovuto. «Ci riuscirai di certo».
«Lo scopo sarebbe quello di farsi azzuffare» tagliò corto lei. E nonostante apparisse tranquilla nel dirlo sapeva che la sua natura era sempre stata differente. Era l’istinto della fuga, la velocità, ad averla sempre accompagnata. Forse la vera sfida che avrebbe dovuto affrontare sarebbe stata combattere contro se stessa una volta per tutte e fare tutto il contrario di ciò che l’aveva tenuta in vita e al sicuro sino a quel momento.
«Ora che hai la fedina penale pulita. Haruka, mi sembra troppo estremo anche per te. Sul serio».
Sapeva di aver un osso duro davanti a sé ma Akira tentò lo stesso. Non gli piacevano i sensi unici, ogni situazione doveva avere almeno un’alternativa anche se nessuno dei due evidentemente riusciva a trovarla.
Haruka sbuffò. Giocherellò con la sigaretta spenta. Avvertì il sapore di tabacco sulle labbra e poi la ripose nel pacchetto malmesso nella tasca sul retro dei jeans.
«Hai fatto tanta fatica per redimerti. Sarebbe come aver fatto venti passi nel vuoto anziché in avanti. Io sono convinto delle tue buone intenzioni, per quanto idiote appaiano agli occhi dei comuni esseri mortali. Ma Haru, sul serio. Se vorrai tornare indietro dopo la malefatta come farai?».
«Non ce lo siamo mai chiesti» realizzò lei. «Non ci siamo mai preoccupati del dopo…».
Un tempo del dopo sarebbe importato a pochi o forse non avevano mai creduto di poterne avere uno.
Akira non poté controbattere eppure si sforzò.
«C’è sempre una prima volta…».
«Temo non dovrà essere questa» sorrise amaramente la giovane.
 
***     
 

Jadeite si sistemò il lungo ciuffo dorato che gli ricadeva sulla fronte e poi bussò due volte alla porta nonostante la presenza di un campanello.
Attese, sprofondando il mento nella sciarpa calda e di colpo si ritrovò a guardare il cielo sopra di lui.
Tokyo era immersa in un pallido grigiore che preannunciava un’unica cosa: neve. L’aria quel mattino era cambiata e schiaffeggiava forte le guance dei giapponesi.
«Oh» due labbra sottili si schiusero in una smorfia di sorpresa sulla soglia dell’abitazione, mentre il viso di Jadeite assunse un’espressione piuttosto contrariata.
«Che ci fai tu qui?» nemmeno un saluto, solo una nota di fastidio nella voce.
Sadao, appena ricurvo nelle proprie spalle sbatté le palpebre come se l’intruso fosse il biondo.
«Direi che ci abito, al momento per lo meno, si-signore».
Un uomo; no anzi: un mezz’uomo perché non ha nemmeno i peli della barba in viso che abita con una donna, all’incirca vedova, con cui non ha una relazione alla luce del sole…che diavolo di stramberia è questa?!
Quel pensiero attraversò tanto nitidamente la mente del biondo che se fosse stato possibile Sadao ne sarebbe quasi riuscito a scandire ogni sillaba soltanto guardando il viso dell’avventore.
«C’è Hino?» chiese tagliente Jadeite.
La giovane recluta accennò un gesto di timido assenso con il capo.
«Cos’è quello?» si lasciò sviare da curiosità.
«Un dono, che altro?!».
«Ma è un…».
«SADAO CHI E’?! L’ARIA E’ GELIDA!! CHIUDI QUELLA PORTA!».
La voce di Rei come tuono irruppe nella conversazione.
«o-oddio che sba-sbadato. Entri, signore. Fa freddo fuori!» e scostandosi dalla porta lasciò il passaggio libero al biondo col viso ancora corrucciato in quella smorfia di dissenso che pareva non volersene andare.
«Jadeite» Rei, a piedi nudi si bloccò tra il cucinotto e l’ingresso.
«Per te» senza troppi preamboli o fronzoli, esattamente come all’ospedale Jadeite le porse un regalo piuttosto singolare.
Un gracchiare insistente e un battito di ali infastidito provenne dalla gabbia che il giovane teneva sospesa tra il suo corpo e lo spazio che lo divideva dalla mora.
«Un corvo…».
«Già, lo è proprio» asserì Sadao inclinando il capo di lato e affiancandosi a lei.
Quella accoppiata fece saltare i nervi a Jadeite che odiava sentirsi il terzo incomodo. Lui era fatto per i riflettori, per risaltare in scena. Altrimenti si sarebbe piegato ad una stupida confezione di cioccolatini non a una cattura in piena regola nel bel mezzo del polmone verde della città.
«ESATTO EINSTEIN LO E’».
I due faticarono a non fare un passo indietro presi di sorpresa da un tono tanto alto di voce.
«I-io vado» borbottò piano Sadao infilando un paio di scarpe da ginnastica nere.
«Ehy attento a non scivolare con quelle. Credo nevicherà» lo ragguagliò Rei per poi tornare con lo sguardo puntato sulla figura di Jadeite.
Non riusciva a decifrarlo. Era un enigma che si era imposta di saltare a priori, prima per disinteresse ed ora perché aveva solamente dell’assurdo.
«To-torno presto».
«Fai con comodo. Con le donne non si può avere fretta!».
«Ha un appuntamento?» domandò schiarendosi finalmente la voce Jadeite.
«Lo avrà. Deve chiederlo».
«Sono ancora qui, non parlate di me come se me ne fossi già uscito!».
«Sbrigati. E fai attenzione» si raccomandò ancora una volta Rei.
«Le due cose cozzano» puntualizzò Jadeite.
«Come prego?».
Rei tornò a fissare il volatile intrappolato.
«Sbrigati e fai attenzione nella stessa frase. Non vanno d’accordo. Se gli metti fretta, non può essere anche prudente».
«E tu ti permetti di dare consigli? Hai un uccello con te…per me».
«Non è un uccello. È un corvo» sottolineò lui.
«Perché».
«Cosa».
«Perché proprio un corvo».
Sadao avvertì una certa tensione nell’aria e senza dilungarsi in ulteriori preparativi lasciò l’appartamento facendo il più piano possibile.
«Maledetta Ten’ō».
Rei scoppiò a ridere.
E quella risata fu qualcosa di tanto anomalo quanto magnifico alle orecchie di Jadeite, come se non avesse mai udito nessun’altro farlo.
«Ecco perché era così insistente» disse tra una sghignazzata e l’altra dandogli le spalle e avviandosi verso il piano della cucina.
«Vuoi un tè?».
Solitamente bevo solo birra Asahi.
«Certo».
Jadeite si scalzò le calzature per poi seguirla nella stanza.
«Quindi ha sbagliato o no?».
«Mi piacciono i corvi» sorrise Rei. «Ma non saprei dove metterlo, non è proprio piccolo da sistemare in un’abitazione».
«Potresti tenerlo lì» disse indicando la loggia oltre la finestra alle spalle di Rei.
«Se gli apri la gabbia e gli dai del mangime o dei semi, sono sicuro rimarrà. Oppure potresti prendere una voliera».
«Non è nato per essere prigioniero, soffrirebbe comunque in una voliera. Farò come hai detto e se vorrà rimanere qui libero o passare a trovarmi di tanto in tanto sarà il benvenuto».
Rei servì il tè fumante al suo ospite che un po’ titubante si apprestò a mettere l’animale in libertà.
«Sta qui il novellino?» Jadeite sviò il discorso, allungando un pezzo di pane al volatile che decise di sistemarsi sotto alla tettoia fissandoli con i suoi occhietti neri.
«Era tornato in casa con i genitori. Non volevo regredisse allo stadio di larva. Mi serve un aiutante sveglio».
«Per quello ci sono io» il biondo quasi gonfiò il petto a quelle parole.
«Tecnicamente sei il mio superiore, non il mio aiutante» borbottò lei fissando il liquido scuro nella propria tazza.
Un leggero sbuffo, più simile ad un sibilo scappò al di fuori delle labbra del biondo.
«Hanno così tanta importanza per te le scale gerarchiche?».
«Affatto» e il tono di Rei divenne da serio più leggero. Come se a pronunciare una parola dietro l’altra stesse diventando più semplice.
«Se così fosse non avrei fatto di testa mia e avrei fatto irruzione in quella serra. Avrei lasciato perdere, no?!».
«Se così fosse stato io non avrei avuto occasione di salvarti».
Gli occhi di Rei si puntarono nei riflessi chiari di Jadeite.
«Cosa ti fa pensare di avermi salvata? Io non avevo bisogno di aiuto!».
«Sadao sembrava ne avesse…».
Quel botta e risposta fece accigliare Rei che rimase con tanto di tazza a mezz’aria.
Era sempre stata lei la “polemica” con Setsuna. Quella che non voleva dargliene vinta nemmeno una e che aveva sempre la risposta pronta. Era sempre stata lei la testarda, l’osso duro della situazione. Setsuna e lei erano Yin e Yang, differenti ma complementari.
Lei e quel ragazzo amavano aver l’ultima parola sulla bocca. Erano fulmini e saette. Era chi tuonava più forte coprendo il rumore della pioggia che si era scatenata al di fuori dell’abitazione e batteva prepotentemente contro ai vetri.
Rei era fuoco, Jaeite benzina. Si alimentavano a vicenda creando solo esplosioni.
Che cosa diavolo potrebbe mai venirne fuori di buono?  Si chiese lei, senza accorgersi dei polpastrelli che a contatto con la ceramica della tazza bollente erano diventati rossi e di lì a poco avrebbe mollato la presa facendo cadere tutto e combinando un disastro.
Ma potevano esistere disastri più epocali di quello che era già la sua vita? Del tè bollente addosso sarebbe stato nulla al confronto.
«Prima o poi capita a tutti» Jadeite, si sporse verso lei sfiorandole il polso per poi poggiare la mano sulla sua.
«Prima o poi abbiamo tutti bisogno di essere salvati. In un modo o nell’altro, dolcezza». E Rei tenne il punto con le sue pupille nere. Tenne il punto per qualche secondo fino a che le falangi dell’altro non la costrinsero a poggiare la tazza sul tavolo e a liberare le sue da quella tortura bollente.
Non lo avrebbe mai ammesso. Non a voce, non davanti a lui. Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dargli ragione, ma una lacrima lo fece solcando silenziosa la sua guancia. Rei con quel tocco si sentì finalmente libera.
 
 
*** 
 
 
«No, no, no. Quelle. Quelle bianche» disse quasi frenetico Sadao a Makoto che posò per l’ennesima volta nel vaso una tipologia differente di fiore.
Sadao sudava freddo. Che fiori andavano bene per chiedere di uscire ad una ragazza? E se poi ad Ami i fiori non fossero piaciuti? E se fosse stata allergica?
Il panico dell’indecisione gli si disegnò in viso e ne venne a conoscenza perché la giovane fioraia lo interrogò per venirgli in aiuto.
«Se posso chiedere…qual è l’occasione? Ogni fiore ha un significato particolare…».
Sadao sentì il calore diradarsi dal collo alle guance e il rendersi conto di star arrossendo come un peperone nonostante fosse un individuo di sesso maschile giocò un ulteriore brutto colpo alla sua autostima.
«È…è per un appuntamento».
«Un anniversario? Un primo appuntamento o…»
«In, in realtà non so nemmeno se ci sarà, si insomma…è il primo, in teoria».
Makoto sorrise. Provò tenerezza per il ragazzo magrolino che gli si stagliava di fronte in preda all’ansia per una cosa tanto semplice.
«Il bianco è senz’altro adatto…simboleggiano un sentimento puro e sincero. Non la vuole prendere in giro giusto?».
Sadao sgranò gli occhi, più che offeso sbigottito.
«Non è mia intenzione fare cose…malfatte, ecco».
Makoto rise. «Allora i gigli sono ottimi» disse prendendone tre e tagliandone una parte di stelo.
«Se posso dare un consiglio…».
Sadao accennò un sì col capo.
«Aggiungerei qualche ranuncolo rosa».
«Hanno un significato?» domandò visibilmente interessato il giovane mentre lo sguardo vagava su tutti i petali e ramoscelli che lo circondavano.
«Si racconta che Gesù donò le stelle a sua madre e le trasformò in ranuncoli. A una ragazza le stelle piacciono sempre» sospirò la fioraia per munirsi poi di carta e fiocco per mettersi all’opera con quella piccola e delicata composizione.
 
Le labbra di Sadao formarono una piccola “o” di sorpresa.
«Se accetterà…ti devo un favore! Non credo avrei scelto così bene senza il tuo aiuto».
«Dovere!» esclamò sorridente Makoto porgendogli lo scontrino.
Sadao pagò il mazzolino e una volta uscito dal chioscetto si sentì urlare alle spalle «CHE LE FRECCE DI CUPIDO SIANO CON TE!».
 
 
***
 
 
18 ore prima
 
Minako prese a braccetto Ami dalla postazione delle infermiere trascinandola sino allo spogliatoio.
«Hai finito il turno vero?». Ami notò il suo fare più saltellante del solito e un sorriso che avrebbe potuto accecare chiunque si fosse fermato a fissare quella sfilza di denti bianchi.
«Ehm si. Tu?» domandò Ami.
«Tra poco!».
«E…vieni già a cambiarti?» indagò senza comprendere il perché di tanta fretta ed entusiasmo.
Era sempre bello andare a casa, ma dopo turni interminabili come quello, Ami, alle volte, non sapeva davvero dove trovare la forza per sentirsi ancora un essere umano e non un’ameba che anelava solamente un letto caldo.
«Ti presto il mio lucidalabbra rosa sta sera!» disse Minako porgendo all’amica un piccolo tubetto glitterato quasi fosse una sacra reliquia.
«Mina…devo solo andare a casa!».
«Ah…ah» l’indice della bionda si spostò da sinistra a destra in segno di diniego «questa sera puoi scordarti la maratona di serie tv col pigiamone di flanella!».
Ami, anche se non seppe come, trovò la capacitò di sbattere le palpebre in un’espressione interrogativa.
«E va bene e va bene. Te lo dico se insisti» Minako faceva tutto da sola. «Hai un appuntamento».
Ami, senza riuscire a trattenersi, scoppiò a ridere. Lo fece tanto rumorosamente da non riconoscersi e per tutta risposta, l’altra, rimase impietrita da tale reazione mettendo su il muso.
«Ok, non ti aiuto allora».
«Che…cosa?».
«Se non mi credi fai tu. Ma sarai impreparata!».
Ami con ancora un mezzo sorriso stampato in viso tentò di arrivare ad una soluzione logica per la reazione che si ritrovava davanti.
«Non…è…uno scherzo?».
«MA TI PARE?! TI HO DATO IL MIO LUCIDALABBRA!!!».
«E con chi avrei questo fatidico appuntamento?».
«Dio santo, Aino…» la testa bionda scosse la chioma legata sul capo e fece scoppiare una bolla rosa dalle labbra.
L’aria profumò improvvisamente di fragola e Minako riprese a masticare il proprio chewing-gum.
«Credevo fossi tu quella intelligente tra noi due».
«Mina, svuota il sacco».
«E tu muoviti perché il bel poliziotto sta arrivando con dei fiori».
«CHE COSA?!» Ami non riuscì a trattenere il volume della propria voce. Un fremito le percorse tutta la spina dorsale e per un momento l’aria decise di non arrivare ai polmoni.
Non era abituata a quella sensazione. Alla frenesia che si prova al primo appuntamento. Lei era sempre stata troppo tempo china sui libri o a passeggiare per i corridoi delle biblioteche per provare l’ebbrezza dei primi amori.
«L’ho visto dalla finestra. Sono sicura siano per te e non per qualcuno rilegato qui in un lettino d’ospedale».
«Non ho idea di cosa si faccia!» disse mettendosi le mani tra i capelli Ami.
«Per questo ci sono io!».
Ami ebbe il tempo di intravedere l’occhiolino dell’amica prima di finire spintonata sotto la doccia.
 
***
 
 
«Esattamente come ai vecchi tempi!».
Haruka alzò il palmo per farlo scontrare con quello dell’amico che non aveva alcuna intenzione di accontentarla.
Akira era contrario, lo era estremamente.
Mise su il muso come un bambino che ha appena subito una ramanzina e tenne ben salde le braccia tatuate contro al proprio petto.
Nascondeva lo sguardo ghiaccio sotto ad un ciuffo corvino disordinato e tanto lungo che se Haruka non fosse stata presa dal suo piano folle lo avrebbe certamente deriso dandogli della ragazzina.
«Oh andiamo…» cantilenò la bionda sbattendo la portiera di un furgoncino grigio sgangherato.
«Non te la starai facendo mica sotto!».
Le aveva dato fin troppo corda e non aveva alcuna voglia di scherzarci sopra.
Akira era riluttante, ma lo stava facendo per amicizia nonostante significasse perderla e quello disegnato sul suo volto non era lo spettro di un capriccio quanto la presa di coscienza che sarebbe tutto finito. E lo avrebbe fatto nel peggiore dei modi.
«Te l’ho già detto che non sono d’accordo».
«Allora scendi».
«Sul serio?».
No che non era seria. Haruka probabilmente si sarebbe messa a singhiozzare se l’amico le avesse dato retta.
«Parti» sentenziò il moro. Mai e poi mai si sarebbe tirato indietro per lei. Erano cresciuti insieme e lo sarebbero stati fino alla fine.
«Pronto per un po’ di gas?» disse Haruka con un sorriso sghembo. Non si dovette sforzare per tirare all’insù l’estremità delle labbra. Nonostante la situazione lei si ricordava dei tempi delle corse clandestine, quelle che al suo fianco avevano sempre visto l’amico.
La ragazza pestò il pedale dell’acceleratore tanto bruscamente che Akira si sentì sbalzare all’indietro e fu costretto ad allacciarsi la cintura.
«Prendi» una mano sul volante e l’altra gli stava tendendo una cosa molliccia e informe.
«Ruka le mani sul volante!».
«Sì mamma».
«Hey!».
«Papà?».
«H-A-RRR, cazzo il camion!».
Haruka sterzò d’improvviso infilandosi in una stradina secondaria per poi prendere contro a due cassoni dell’immondizia.
«Rilassati».
Akira sbuffò.
«Sempre la solita».
«Prenditi sta cosa e metto l’altra mano sul volante giuro!» lo incitò lei.
Akira dubbioso le strappo di mano l’aggeggio informe per poi scoprire di aver tra le mani una maschera.
«Totoro. Sul serio?!».
«Quelle stile “la notte del giudizio” non le ho trovate. Accontentati!».
«Ma guarda che coincidenza!» commentò Akira non sapendo se mettersi a ridere o meno. «Niente selfie».
«Che guastafeste!».
La strada correva sotto alle loro ruote e Haruka rallentò appena la sua marcia.
«Tu quale hai?» chiese il moro guardando fuori dal finestrino e sentendo i battiti aumentare gradualmente nella cassa toracica.
«Super mario».
«Scommetto sarai una bomba sexy con i baffi».
«Ovviamente! Pronta per le telecamere!».
Un’altra svolta e una ancora. La strada come la loro vita si faceva sempre più insidiosa.
Akira frugò sotto il piumino slacciato.
«Prendila».
Haruka guardò con la coda dell’occhio la pistola lucente dell’amico.
«Non ho intenzione di ammazzare nessuno» borbottò lei.
«Si, ma io non ho intenzione che ammazzino te o ci vadano lontanamente vicini».
«Ho la pellaccia dura» Haruka con quel sorriso mentì. Cercò di ostentare sicurezza ma avvertì la paura stringerle le viscere fino a ridurle in poltiglia.
 
 
***
 
 
A Sadao sudavano le mani, o meglio, lo fece l’unica in grado di stringere il mazzolino di fiori che recava in dono.
Entrò in ascensore e prese un lungo respiro.
Si guardò allo specchio, mentre i numeri scorrevano nel monitor rossi scarlatti e attendeva di arrivare al piano dove sapeva si trovava solitamente Ami.
Forse avrebbe dovuto aspettare al di fuori delle porte d’ingresso, o forse sarebbe bastato fermarsi all’accettazione senza salire al piano. Troppi dubbi nella vita lo avevano fatto fuggire a gambe levate ma questa volta aveva deciso di portare a termine quel suo desiderio a costo di rimanerci scottato.
“La misura di un uomo è pari a quella del coraggio”; così gli aveva detto suo padre il giorno che era riuscito ad entrare in polizia. Forse lo immaginava già pronto a fare irruzione in qualche posto brulicante di delinquenti o ad arrestare i peggiori omicidi della città mentre gli sistemava la divisa. Senza immaginare che la maggior parte del tempo l’avrebbe trascorsa in centrale a correre dietro agli eroi veri. Quelli che sul campo ci stavano giorno e notte senza paura, quelli che non avevano orario, che confondevano il giorno con la notte perché la caccia al male non ha tregua, a quelli come Setsuna e molto probabilmente un giorno a quello che sarebbe divenuta Rei.
Rimase in apnea fino a diventare paonazzo e poi soffiò fuori tutta l’aria trattenuta nell’esatto momento in cui le porte scorrevoli si aprirono davanti a lui.
Un passo dietro l’altro come se stesse ancora imparando a camminare e intravide una massa di capelli dorati far capolino da quello che doveva essere lo spogliatoio delle specializzande.
«Ma guarda chi si vede!» il largo sorriso di Minako lo rassicurò. O almeno lo fece in parte, sino a che il cervello di Sadao non cominciò ad elaborare tutte le possibili reazioni che invece avrebbe potuto avere Ami nel vederlo lì.
«Co-come stai?» domandò con un sorriso intimidito.
«Alla grande! Se non fosse che non vedo da ore il mio uomo e che non posso tornarmene ancora a casa perché qualche pazzoide ha deciso di farsi ricoverare proprio qui!».
Sadao faticò a stare dietro a quel fiume di parole.
«Pazzoide co-co-come l’ultima volta?!».
«Oh spero di no. Mi auguro abbia le manette e che non sia armato in nessun modo. Forse siamo come in quel film, o era una serie tv?! Quella americana, quella di quel posto che attirava tutte le creature maligne…».
«Teen wolf? O Vampire diaries?» persino lo spirito nerd di Sadao era indeciso.
«Quello dei vampiri sì. Ma dimmi…quei bei fiori sono per…una persona speciale. Cioè una paziente? Sei venuto a trovare qualcuno?». Minako giocherellò alla finta tonta e sfoggiò la smorfia più ingenua del repertorio.
«Uhm…» Sadao deglutì rumorosamente mentre dall’altra parte della parete Ami stava mettendo i pratica tutti i consigli dell’amica per farsi trovare al meglio.
«No, beh io insomma…».
La misura di un uomo è pari a quella del suo coraggio.
 
Ami passò l’ultimo strato di lucidalabbra e uscì dalla stanza.
Incrociò direttamente lo sguardo buono e scuro di Sadao e si domandò come qualcuno potesse avere due occhi così. Traboccanti di tutte le cose belle che il mondo può offrire scartando quelle che fanno paura alla gente.
«Volevo chiedere ad Ami se le andava di uscire» non un balbettio incrinò la sua voce.
Sadao fece un passo in avanti verso Ami e superando di una falcata Minako che assistette alla scena con lo stesso godimento di un fan che arriva alla scena romantica del suo film preferito.
«E questi sono per te. Visto che non ho stelle da offrirti».
Ami arrossì violentemente nel prendere il mazzo di fiori e Sadao si sorprese subito dopo di quella sicurezza che aveva fatto uscire come un fulmine a ciel sereno.
«È una storia che mi ha raccontato la ragazza dei fiori…» ora stava tornando lui, insicuro e un po’ impacciato.
«Mi piacerebbe uscire, sì».
Il viso di Sadao s’illuminò. Era come aveva promesso il giorno prima di essere dimesso. Lei avrebbe accettato il suo invito e così fu.
 
*** 
 

L’inverno soffocava la luce del tardo pomeriggio, così come Haruka faceva con le cose belle della vita tramutando tutto in un vero disastro.
Appostò l’auto pensando di essere stata un’idiota. La più grande del pianeta probabilmente.
Si pentì del suo egoismo. Si pentì di aver allontanato Michiru e non aver dato una possibilità a quella bambina che aveva voluto tanto disperatamente.
Haruka battè il cranio due volte contro il poggia testa del sedile spingendo lontano da lei con le mani il volante. Strinse i denti scoprendone l’arcata e Akira rimase a guardarla in silenzio prima di dire qualsiasi cosa.
«Haru…».
«No» lo bloccò lei subito per poi gettargli le braccia al collo.
Akira le strinse la vita come a sostenerla e in quell’abbraccio caldo e confortevole Haruka ancora una volta trovò il coraggio che avrebbe rischiato di scivolarle via a causa della paura.
«Non dirmi che siamo ancora in tempo per tornare indietro» la voce di Haruka si fece incrinata ma il suo orgoglio non le avrebbe permesso di versare una sola lacrima.
«Devo farlo».
Akira rimase zitto.
«Così non siamo al sicuro. Nessuno di noi lo è».
«Ma così non lo sarai tu» soffiò lui contro il suo collo.
«Mettiti quella dannata maschera di Totoro» ribatté lei riprendendo quel poco di controllo che rimaneva.
«Non sei brava con i sacrifici, lo sai vero?».
«E tu fai schifo con gli addii amico mio» disse lei con mezzo sorriso, per poi togliere la sicura dalla pistola che le aveva dato Akira.
«Se puoi non fare un buco in testa a nessuno o la pena sarà infinita».
Probabilmente lo sarebbe stata in ogni caso ma Haruka tacque. Doveva entrare nel carcere di Chiba ad ogni costo e quello era l’ultimo favore che chiedeva all’amico.
«Dietro di me».
«Agli ordini mia regina» scherzò lui indossando lo strambo travestimento che l’amica gli aveva fatto avere.
Haruka balzò giù dal furgone con l’agilità di una gazzella brandendo l’arma per poi fare irruzione nella banca che aveva scelto per il suo piano folle.
«TUTTI A TERRA, IDIOTI BEN VESTITI!».
 
Akira avrebbe voluto darsi una manata in faccia.
Ha detto sul serio… “idioti ben vestiti”?
Nemmeno nei suoi giorni peggiori da Yakuza Haruka aveva mai usato un insulto tanto ridicolo.
«Tu bellezza. Metti quei bei soldoni per me nella borsa del mio amico». La bionda indicò con la canna della pistola una delle ragazze addette alla cassa.
Aveva l’età di Minako più o meno e Akira, porgendole la borsa che aveva preparato Haruka in macchina, pregò perché quella messa in scena finisse presto.
Non c’era l’eccitazione del colpo. L’adrenalina che esalta i poco di buono nel fare i loro colpi. Akira riusciva solo a pensare che stavano perdendo miseramente tutto quello per cui avevano combattuto così a lungo.
«Okay…rimanete tutti immobili come statuine fino a che non ce ne saremo andati se non volete che finisca male».
Haruka fece cenno ad Akira di uscire con i soldi.
«Occhi chiusi…contante tutti fino a venti e il vostro brutto sogno sarà finito».
Il suo era appena cominciato e per farlo partire le mancava solo un’ultima cosa da fare.
Tutti nella stanza ubbidirono. Lei voltò le spalle alla giovane cassiera e si levò dal volto la maschera di super Mario guardando dritto nella telecamera di sicurezza.
Adesso la polizia sapeva chi doveva catturare, adesso era di nuovo una ricercata.
 
 
***
 

 
«Guarda Ami, ha cominciato a nevicare!».
Sadao aprì il palmo della mano catturando un fiocco gelato.
Alzò lo sguardo incuriosito come un bambino che guarda per la prima volta le stelle cadenti e rimase per un momento in contemplazione del cielo scuro che mandava loro piume bianche di ghiaccio.
«Ti piace la neve?» domandò Ami.
«Si. Abitavo fuori città da bambino e alle volte rimanevamo bloccati se la precipitazione era abbondante. Quello era l’unico giorno di scuola che mi era concesso saltare ed era l’unico in cui mia madre diventava un po’ meno severa. Era come se la neve col suo candore riuscisse ad ammorbidirla, non so come dire…».
Ami lo ascoltò rapita. Le piacevano le storie degli altri. In ospedale le era capitato spesso che qualche paziente di lunga degenza le raccontasse stralci della propria vita, ma sentire la storia di qualcuno che si desidera conoscere era cento volte più interessante di un libro di anatomia o di qualunque altro racconto.
«Facevamo gli angeli. Sai quando ti sdrai e…» Sadao mimò il gesto con il braccio senza fasciatura nell’aria ed Ami scoppiò a ridere.
«S-si insomma. Non posso usare anche le gambe da in piedi!».
«Si, problemi tecnici!» continuò lei ridendo. «Tranquillo, hai reso benissimo l’idea».
Sadao si sentì felice. Non deriso come era stato a scuola. Solo felice, con lei.
«Andiamo in un posto più caldo a guardare la neve?».
«Ottima idea».
Ami si accostò a lui, camminarono all’unisono come le note di una stessa sinfonia.
 
 
 
Michiru cullò tra le braccia Hotaru. Scostò una tenda con la spalla appoggiandosi all’infisso della finestra. Era da anni che non vedeva la neve.
«Tu hai sonno, vero piccolina?» domandò con un sussurro, guardando le palpebre della piccola farsi sempre più pesanti sino a chiudersi.
«Siete un bel quadretto» disse una voce alle sue spalle.
Michiru si voltò posando lo sguardo chiaro in quello del padre.
«Adoro la mia nipotina…» sostenne Yoshio alzandosi pesantemente dal divano. L’età stava pesando sulla sua schiena e lui pareva ogni giorno un pochetto più ricurvo su se stesso.
La figlia si domandò se non fosse anche a causa sua, se non gli avesse messo un peso in più accanto ai numeri che ogni compleanno si facevano sempre più grandi.
«Ma…?» Michiru sapeva interpretare quel tono alla perfezione.
«Ma Hotaru si merita una famiglia al completo».
L’onda blu si spostò verso il basso. I capelli di Michiru si piegarono sulla culla posando il corpicino di Hotaru sotto le coperte calde e profumate.
«Probabilmente non ne capisco niente…» borbottò lui. «Ma credo sia il caso finiate questa inutile guerra se…» una breve pausa.
«Se vi amate».
Gli occhi cerulei della ragazza si spalancarono a quelle parole. Era sicura che suo padre le volesse ancora bene, ma mai avrebbe creduto l’avesse in qualche modo perdonata o che avesse potuto accettare Haruka come parte della famiglia.
L’amore di un genitore è immenso e Michiru lo stava sperimentando in quell’esatto momento.
«Dammi retta. Non vale la pena di finire come me e tua madre. Avete la possibilità di essere una famiglia…».
«Papà…» Michiru poggiò la mano sulla spalla del padre. «Anche noi lo siamo…».
«Certo mia cara».
Gli occhi di un padre guardavano dritti in quelli di una figlia.
«Fatelo meglio però». Le rughe del suo viso si tirarono in un sorriso.
«E adesso aiuta questo vecchio con la sua giacca! Non posso prendere freddo e attaccare un raffreddore anche a mia nipote».
«Papà! Non darti del vecchio».
«Oh su su, Michiru non contraddirmi! Mi basta tua sorella di saputella in famiglia».
Michiru rise di gusto aiutando il padre con la fila di bottoni da allacciare.
«Fai attenzione. Nevica».
«Sarò vecchio! Ma non ancora un rimbambito».
Yoshio, uscendo sulla porta, baciò sulla fronte una delle due cose più preziose che la vita gli aveva regalato.
 
***
 

«Ma queste ruote terranno?» domandò Akira lanciando un’occhiata allo specchietto.
Due auto della polizia a sirene spiegate li stavano inseguendo emettendo lampi rossi nell’etere.
«Lo faranno» commentò Haruka spingendo i tergicristalli ad una velocità più alta per scacciare la neve dal vetro.
«Che idea di merda, Haru».
Haruka non aveva tempo per i ripensamenti o badare alle lamentele del suo compare. Doveva mirare dritto al suo obbiettivo a tutta velocità.
«Rilassati».
«Rilassarmi?!».
«Akira prendi quella cazzo di pistola» sentenziò passando un semaforo sullo scattare del rosso.
Lo stridere di una frenata brusca e un paio di clacson si levarono alle loro spalle.
Lei guardava dritto, occhi fissi sulla strada.
«Quando te lo dico ti butti».
«Cosa?!».
«Sei diventato sordo Akira?!».
Finalmente gli occhi cobalto abbandonarono l’orizzonte e intercettarono lo sguardo ghiaccio smarrito.
«Non avrai mica pensato che ti avrei portato dentro con me no?!».
La lancetta della velocità oscillò bruscamente verso l’alto.
«Prendi quella dannata borsa, la tua pistola e fai lo stuntman fuori di qui. I soldi serviranno e servi anche tu lì fuori mentre io sarò dietro alle sbarre. Siamo una famiglia o no, Akira?!».
«Cazzo se lo siamo».
«Non le deve capitare niente, okay?».
«Stai tranquilla su questo ma…».
«Abbiamo poco tempo per gli addii e quello di prima era già sufficiente».
«No Haru è che…»
«Cosa?!» Haruka era sfinita. Quel senso di tristezza la stava distruggendo quell’andarsene forzato e quell’inutile fuga la stavano portando al limite.
Il furgone sobbalzò al contatto con un rallentatore.
Davanti a loro un ponte, poi una curva con un’infinità di alberi che si estendevano fuori città.
Col favore del buio non l’avrebbero visto e se proprio fosse andata male il fiume avrebbe risolto tutto.
«Tre…»
«Voglio dire Haru, i soldi?! Non sei un cazzo di poliziotto ora?!».
La bionda fu costretta a rallentare appena o lui si sarebbe ammazzato.
«Due…Akira non cazzeggiare devi prepararti».
«Mi stai mettendo ansia, rispondi».
«Dio, vuoi sia così la nostra ultima conversazione?».
Avevano passato ormai più della metà del ponte. Haruka girò a destra la manopola della radio e si sintonizzò sulla stazione della polizia.
La luna era alta nel cielo ma loro potevano vederne solo uno spicchio perché le sagome scure degli abeti erano ormai vicine.
«Uno…»
Akira doveva saltare, al via doveva mollarla su quel furgone da sola.
«Sono solo per metà un poliziotto, anzi meno di metà. Lo sai…sono un dragone. Come lo sei tu in fondo».
 
Kohai; pensò Akira. Fratelli.
 
La spinta. Quella della mano di Haruka contrò la sua spalla mentre curvava e faceva sbandare su un lastrone di ghiaccio una delle due volanti. Fu quello il tocco che sentì prima di fare a cazzotti con l’asfalto.
 
***
 
 
12 ore prima
 
C’era un piccolo camino in mattoni nel salotto che aveva conquistato Michiru quando avevano preso quell’appartamento.
Le fiamme scoppiettarono ancora una volta al suo interno anche se di lì a poco se non ravvivate sarebbero morte e l’unica loro traccia d’esistenza sarebbe stata cenere.
Michiru si strinse nel panno sulla poltrona accanto alla culla dalla quale proveniva solo il respiro della piccola lucciola che assieme a quello sfrigolare di scintille erano gli unici rumori in quella notte invernale.
 
Aveva scritto un sms ad Haruka che ancora non era stato inviato.
 
Torna a casa.
 
L’unico desiderio che voleva vedere esaudito. Strinse il display al petto e con quello sentì la solitudine mangiarla viva.
Un bagliore di fari si scontrò con i vetri della finestra.
Michiru riaprì gli occhi che aveva stretto per pochi istanti un po’ come si fa quando si soffia sulle candeline per il compleanno.
Era il momento di abbassare le difese, di scacciare l’orgoglio.
Una strana sensazione le attanagliò la bocca dello stomaco.
Scalza si avvicinò alla finestra.
C’era la neve; poi c’era lei.
Haruka era immobile con i fiocchi bianchi sopra al capo e fissava in alto.
Michiru seguì la linea delle sue labbra che pian piano si sollevò un sorriso e lei fece lo stesso.
Poggiò una mano sul vetro come a carezzarle il viso e il cuore si fece d’improvviso più leggero.
Michiru aprì la finestra e il gelo le schiaffeggiò le guance e la punta del naso fino a farle divenire di un rosa intenso.
 
«Che ci fai lì?».
«Ti guardo, principessa».
Forse per l’ultima volta.
 
Ad Haruka scoppiava il cuore e per Michiru era lo stesso.
Per una la gioia, per l’altra un mix esplosivo. Felicità, sollievo, terrore e disperazione stavano bombardando Haruka. La guerra emotiva era la peggiore da combattere. Era come quella reale, dove potevi soccombere o sopravvivere ma Haruka non sapeva se da quella emotiva se ne usciva realmente anche perdendo.
 
“Aspetta” mimò Michiru con le labbra senza sapere di non aver tempo.
Chiuse la finestra. Si sbarazzò della coperta. Infilò solamente le scarpe da tennis accanto alla porta. Erano di Haruka, ma non ci fece caso. Fece di corsa le scale, senza contare i gradini, ma sentendo ogni singolo scandire del suo cuore.
Non aveva nemmeno il cappotto, solo il pigiama addosso. Sarebbero state sufficienti le braccia di Haruka a riscaldarla. Lo avevano fatto ogni notte accanto a lei.
Michiru aprì il portone.
 
Haruka era ancora lì, immobile e sorrideva esattamente come aveva fatto nel vederla oltre al vetro.
La bionda aprì le braccia e Michiru non si lasciò fermare dallo strato bianco e scivoloso che ricopriva il suolo.
Corse e non appena sentì la terra mancarle sotto ai piedi si fermò grazie al corpo di Haruka che le impedì di cadere.
Le falangi dapprima sulle sue braccia per impedirle di rovinare al suolo e poi attorno alla sua vita.
Michiru si sentì al sicuro e nuovamente completa.
Haruka la strinse forte come fosse l’ultimo giorno sulla terra.
Quando Michiru con la guancia ancora nell’incavo del collo dell’altra riaprì gli occhi, le vide. Le luci blu e rosse lampeggianti avvicinarsi e l’eco di una sirena in lontananza si fece ancora più vivido.
Boccheggiò.
Improvvisamente sentì anche il gelo della neve che incessante non aveva smesso di cadere si di loro.
«Ruka…»
«Zitta» e con quel filo di voce la bionda poggiò le labbra sulle sue. La baciò. Lo fece come fosse la prima e l’ultima volta assieme, come se un terremoto, uno tsunami o qualsiasi catastrofe le stesse per cogliere. Lo fece come se avesse trovato la pace sulla terra e stesse per piombare all’inferno.
Haruka la baciò e incastrò le dita nelle onde blu profumate. Le rubò il respiro poi glielo restituì e sentì Michiru farò lo stesso.
 
Un poliziotto sbatté lo sportello e quel rumore le riportò alla realtà, a quel momento.
Nel mare blu di Michiru si agitava una tempesta. Aveva paura, Haruka glielo leggeva in volto.
Non si lasciarono. Nessuna delle due allentò la presa dal corpo dell’altra.
«Che hai fatto?» bisbigliò.
La bionda le accarezzò le guance.
«Prenderai freddo…»
«Ruka, sul serio».
«MANI IN ALTO!» gridò uno degli uomini in divisa.
Haruka non le avrebbe detto nulla, non avrebbe fatto di lei un testimone da spremere.
«Sarete al sicuro. Tu e la bambina…sarete al sicuro, lo prometto».
Michiru confusa non riuscì a proferire parola.
Haruka credette che le stesse incidendo sul suo braccio i propri polpastrelli come ricordo, poiché la sua presa si fece più salda.
«Per te».
 
«HO DETTO MANI IN ALTO».
«Cazzo. Ok, agente. Non c’è bisogno di armi io non ne ho e lei…beh lei non centra nulla!».
L’uomo scrutò Michiru e notandola in pigiama di certo non poteva essere la complice della rapina.
«Ok, Michi devo lasciarti andare».
«No, no, no. Ruka, no».
«Shht, principessa tutto okay. Tutto okay, non vorrai vedermi però con una pallottola piantata da qualche parte no? Devo alzare le mani come ha detto il signore».
«Haruka ma tu, tu sei…» Michiru la lasciò andare e il suo corpo perse un po’ di calore. «Sei un poliziotto. Diglielo…».
«No amore. No, più brava ad essere un dragone».
Haruka le diede le spalle. Sembrava uno scudo umano davanti a lei.
La neve prese a far rumore. Michiru poteva sentirsi ogni singolo fiocco posarsi sul terreno.
Poi la voce di Hotaru. Fu il suo pianto a ridestarla.
«Vai…».
Il poliziotto le si avvicinò tirando fuori un paio di manette, mentre un altro si accertò non avesse armi addosso.
«Vai da lei. Non si fa aspettare una ragazza che urla a in quel modo!».
Aveva la forza di scherzare. Era incorreggibile Haruka. E in qualche modo Michiru si sentì confortata da quel modo di fare. Come sei lei fosse sempre stata lì e non l’avesse mai persa. Come se niente potesse piegarla.
 
«Ogni cosa che dirai potrà essere usata contro di te» e Haruka disse l’unica cosa che avrebbero potuto usare come volevano perché mai sarebbe cambiata nella sua vita.
«Ti amo, Michi».
«Ti amo anche io».
 

***
 
 
Era passata l’intera notte. E in centrale era scoppiato il caos.
C’era chi non voleva mettere un poliziotto dietro alle sbarre e chi sosteneva lei non lo fosse mai stata. Per un processo ci sarebbe voluto troppo tempo e troppo poco sarebbe stato quello legale da farle passare dietro una celletta con qualche prostituta in attesa di una cauzione.
Era passata l’intera notte e per tutto il tempo lei non si era pentita di niente. Aveva pensato solamente a Michiru, al momento della loro riconciliazione. Al sapore di quell’ultimo bacio che ancora si trascinava dietro.
Per un momento si era appisolata e aveva giurato di poter sentire ancora il suo profumo e la presa delle sue dita sulle braccia. Poi un poliziotto sconosciuto l’aveva fatta alzare e l’avevano spinta su un furgone diretto al carcere di Chiba.
La neve aveva smesso di cadere ma fuori era tutto bianco. Quando l’imponente cancello li fece passare e lei poté finalmente scendere prese un lungo respiro di aria gelata.
Non sapeva quando lo avrebbe potuto rifare, non sapeva quando avrebbe sentito di nuovo sulla pelle i raggi del pallido sole e quel freddo pungente.
 
«Andiamo, detenuta». Una spinta e si ritrovò all’interno di quel posto di cui la prima volta non aveva nemmeno potuto varcare la soglia.
I poliziotti consegnarono alla guardiola le poche cose che aveva addosso e le chiusero dentro ad una scatola che avrebbe potuto rivedere solo una volta uscita di lì. Se mai fosse accaduto.
 
I polsi indolenziti e le mani ammanettate davanti al bacino. Ogni passo più pesante dell’altro nel procedere per il corridoio spoglio.
Il beep sinistro a segnalare lo sblocco del cancello e ogni leggerezza lasciata al di fuori di quelle mura inespugnabili.
Prigioniera dentro una fortezza nella quale aveva lei stesso deciso di barricarcisi e un groppo in gola tanto stretto da rischiare di soffocarla.
Haruka però teneva la testa alta.
Sapeva come funzionava lì dentro; a mostrare le proprie debolezze ci si sarebbe fatti sbranare. E lei non sarebbe stato l’ultimo pasto di nessuno lì.
«Katō aspetta qui con lei. Vado a prenderle un’uniforme».
 
«E poi ti faranno una bella perquisizione. D-e-t-e-n-u-t-a». Quella fu la cosa che la fece sobbalzare. Quella voce. Haruka poté ricordarla benissimo e lo fece anche la propria pelle, poiché poté avvertire la pelle d’oca.
Una massa di capelli rossi ricadevano sull’uniforme grigiastra che le si stava avvicinando scortata da tre agenti.
«Sei venuta a farmi visita, bellezza? Ti sei pentita di non aver colto l’occasione quando potevi avere tutto il potere che volevi?». La regina rossa non aveva perso la sua sicurezza era tale e quale all’ultima volta che l’aveva incontrata, solo il rossetto non era più al suo posto.
«Beh, troppo tardi…» Eudial sorrise malevola.
«Non l’ascoltare è fuori di testa questa stronza» le disse Katō.
Haruka ebbe un brutto presentimento.
La scorta di Eudial inserì la chiave nel cancello dal quale lei era appena entrata.
«Sto uscendo, dolcezza. Ma avrai sicuramente compagnia».
 
Haruka era incredula.
«Cosa vuol dire?».
«Dai su, cammina» incitò uno dei tre Eudial spintonandola fuori dal cancello.
«CHE COSA VUOI DIRE?!» urlò Haruka facendosi prendere dal panico.
La regina rossa smise di sorridere, lo fece solo per mandarle un bacio a distanza prima di venire trascinata altrove.
 
La guardia bloccò Haruka dicendole di calmarsi.
«Farai una bruttissima fine se cominci così». E Haruka finalmente né prese coscienza. Quello non era stato affatto un piano ben architettato, era una missione suicida.





Note dell'autrice:
 
Loganiane, è stata dura ma ci sono riuscita. Nonostante un cambio drastico di vita sono felicissima di essere riuscita a postarvi questo nuovo capitolo. Non so se si possa poi effettivamente chiamare capitolo, forse sono più 18 pagine di sclero e delirio vario. Ma come sempre sarò contentissima di sentire le vostre impressioni in merito. 
Posso dirvi che la parte finale relativo alla riconciliazione tra Haruka e Michiru l'ho scritto tutto di getto ascoltando due canzoni (una delle quali è l'intro del capitolo), io non so se sono riuscita a rendere l'idea perché era tutto un'enorme filmone nella mia testa con tanto di colonna sonora e a parole probabilmente non rende la metà, ma ehi...non so come farvi entrare nella mia scatola cranica! Come sempre sarò felice di trovarvi sulla pagina fb dove presto vi dirò qual'è l'altra canzone e vi svelerò un pò di simbolismi e robe varie relative a queste pagine.
Un salutone. Kat
   
 
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