RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una
residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria
Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio
Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata
da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con
Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un
incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la
sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il
suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento,
non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa,
il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici
giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era
sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko.
A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza
e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è
accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si
erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere
casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a
fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva
provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai
il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità,
ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy,
ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity
chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto
morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai
e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al
bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni
per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si
suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione
distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che
Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi
si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra
Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose
peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei
Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è
anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando
Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di
essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff
e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone
che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni
prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e
al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era
sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici
possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare
la Solutio damnationis,
lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova
è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela
fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei
Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per Ilai Radcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela
fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco
ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima
di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre
non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi
inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale
sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois.
La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato
il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente
diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che
davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un
altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un
fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e
Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del
demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro.
La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei
è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato
Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti
alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive
un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di
qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley
confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di
un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel
punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy
e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e
Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro
vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente
ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del
suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua
volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per
mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto,
attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme,
l’onnipresente Eva Dubois nascosta in mille fogge
accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente
solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa
dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro
con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto
una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in
Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che
nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima
di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in
questo mondo, indica sempre il mare.
Capitolo 48: Disturbia,
step two: about serendipity (part II)
20 dicembre
Quando scese dal treno
di Hogwarts, per le vacanze di Natale del suo dodicesimo anno di vita, Rose
Weasley non era più una bambina.
Aveva dismesso incolume
le piume infantili per una creatura imberbe ed ancora informe che non sapeva
dirsi donna, ma nemmeno più fanciulla. Conosceva già la precisione
inconsapevole di piccoli gesti involontari che la facessero sentire “grande”:
le spalle più aperte, la schiena più dritta, l’attitudine di acconciare i
capelli meno nelle trecce e più in boccoli sciolti, la voce meno stridula e più
compassata come se sapesse chissà che profonda verità.
C’era poi anche
qualcos’altro: un muscolo nel petto che aveva preso a vivere in modo autonomo,
sconveniente, fastidioso, bruciando i polmoni quando avvistava qualcuno nei
corridoi di scuola.
Quel segreto stazionava
in lei come una goccia di rugiada dentro una rosa: lo custodiva gelosa,
lasciandolo decantare dentro come se il tempo lo potesse solo rendere ancora
più profumato di gioia candida. Con pazienza, aspettava la persona degna perché
lei si confidasse.
E credeva, con uno
slancio di fiducia, di averla trovata.
Non suo padre, che pure
era sempre stato il suo confidente preferito: divertente, scanzonato, ironico,
pronto a sollevarle i pesi dalle spalle a suon di rassicurazioni scherzose e
motteggi lievi.
Ma sua madre: l’algida,
perfetta, forse pure noiosa, Hermione.
Quella era una cosa
seria. E la mamma spandeva serietà come un’istitutrice tedesca. La mamma aveva
sempre le risposte, le piovevano nelle mani come pesci e pani in una parabola.
Rose Weasley, 12 anni
appena compiuti, si presentava all’appuntamento con la sua mamma d’alabastro,
convinta che la vita lontana da casa da quasi quattro mesi l’avesse resa pari
alla donna che l’aveva generata e che aveva sempre invidiato, temuto ed
adorato, sin da quando era nata. Hermione, finalmente, avrebbe riconosciuto in
lei una controparte affidabile e matura.
Accadde: ma non nel modo
che pensava lei.
Non accadde perché
Hermione vide in lei, ora, un’adulta. Ma perché Rose spiò in lei la donna, non
più la mamma rassicurante e scontata, tinteggiata sul fondo dei suoi anni di
bambina come un colore scuro e deciso, dai tratti sicuri.
Il treno entrò in
stazione con un rombo netto, Rose si alzò dal sedile con spavalderia,
sollevando il mento come faceva sempre Hermione. Guardò fuori dal finestrino,
in un lampo di colori sua madre emerse dal fondo di persone come un grigio
indistinto.
Non pensava che la
guardasse, non aveva ancora percepito il treno arrivare.
Fu solo un secondo.
Lontana dalla sua
famiglia che chiacchierava in un capannello cremisi, suo padre in testa come un
leone orgoglioso. Lei, invece, sua madre, era seduta poco più in là, su una
panchina. Piegata su sé stessa, i gomiti sulle ginocchia e le mani a
raccogliere il viso a coppa, come a tenersi assieme.
Respirava avida nel
collo della sua sciarpa grigia, il torace le si sollevava sotto il cappotto in
modo febbrile persino a vederla da lontano. Gli occhi, screziati di agata, ora
erano spenti, fissi, asciutti.
Quando sentì il treno,
fu come se fosse stata punta da un’ape a tradimento sulla schiena.
Si alzò rapida,
raggiunse gli altri in un balzello scomposto.
Quando Rose scese dal
treno, l’abbraccio di sua madre non aveva nulla di diverso. Sempre un po’
rigido, sempre profumato di vaniglia, sempre accompagnato da raccomandazioni
sollecite.
Rose, però, l’aveva
vista: non si scampava, ormai.
Aveva visto la Hermione
Granger dietro sua madre, non se la sarebbe più tolta dagli occhi. E
paradossalmente questo, la fece indorare di imperfezione lieta agli occhi della
figlia, così che, davvero, adesso lei desiderasse parlarle.
“Mamma capirà”, si disse
Rose. “Non è così perfetta, anche mamma è confusa e triste. Come adesso, anche
se mi abbraccia forte”.
Rose restò
nell’abbraccio di sua madre, amandola più di quanto avesse mai fatto.
Sfuggendo un’altra
somiglianza tra lei ed Hermione.
Anche lei guardava i
Malfoy da lontano e ne cercava gli occhi.
Non trovandoli mai.
Il
senso di colpa è un animale che si mangia famelico la coda tornando sempre
negli stessi posti, anche quando fai di tutto per evitarlo. Penso che, per
questo stesso motivo, l’assassino torna sempre sul luogo del delitto: è un
richiamo ancestrale che non può minimamente impedirsi. O forse, come suggeriva
il mito delle Erinni, furie vendicatrici delle colpe contro gli innocenti, è il
destino stesso e la vita che ti si ritorcono contro, portandoti a sbattere
sempre contro i medesimi nodi irrisolti, come se fossi un pesce che si dimena
dentro la rete di una barca.
Il
pomeriggio è cominciato innocente, permeato della gioia di riavere mia figlia a
casa: le stanze sono state inondate dalla luce spavalda che è Rose, qualcosa
che lei sprigiona da dentro come un manto inconsapevole di grazia, di cui si
rivestono tutte le cose. Mi sembra che persino gli oggetti più banali del mio
salotto, l’orologio azzurro, la tenda a righe tortora, il vaso di vetro
soffiato, ora cantino e brillino di lei. Allo stesso modo, reagiamo io, Ron
e persino Hugo, che prima della scuola con lei litigava sempre e comunque,
qualsiasi cosa facesse.
Rose
mi è subito sembrata diversa: i miei occhi di madre non hanno fatto fatica a
notare che sembra dimagrita, ma in quella maniera consapevole che può essere
solo dovuta ad un’attenzione femminile al peso. Gli occhi, azzurri come poche
cose al mondo, sono quasi sempre allungati da una linea sottile di matita nera,
ancora messa in modo goffo e distratto, dato che sbava sempre sull’angolo
esterno dell’occhio, causandole una macchia scura attorno alle ciglia che la fa
somigliare ad un panda.
Ma
la cosa più evidente di lei ad essere mutata, è la voce. Sapevo di ragazzini
che, d’improvviso, dismettono la voce stridula da bambini, per montarne una
grave, baritonale, fonda come se traesse origine dal fondo del torace. Era
successo a Teddy anni fa, ricordo ancora il sobbalzo che feci quando lo sentii
parlare di nuovo, dopo mesi di lontananza a scuola.
Ma,
a quanto pare, quella metamorfosi fonica ha interessato anche mia figlia, dal
sesso indiscutibilmente femminile: Rose, che aveva alla partenza un tono di
voce urlato, chiassoso, sempre acuto, ha invece assunto una voce cristallina,
lieve, soffusa, quasi come se nemmeno articoli le corde vocali a parlare, ma
lasci fare tutto a piccoli emissioni di fiato sfuggite per caso, quasi per
errore.
Avevo
anche notato, non senza un’ombra di piacere, che la mia bambina era molto più
interessata alla mia compagnia rispetto al solito; aveva sì abbracciato il
padre, pianto un po’ di nostalgia sulla sua spalla e commentato gli ultimi
risultati delle partite delle Holyhead Harpies, ma poi con risolutezza aveva preso a seguirmi in
ogni singola faccenda domestica, fedele guardiaspalle.
Spiandola con la coda dell’occhio, la vedevo aprire e chiudere le labbra come
un pesce rosso, a cercare evidentemente coraggio per dirmi qualcosa di
importante, qualcosa che, per intenderci, le arrossava le guance di carminio e
le faceva luccicare gli occhi come se avesse la febbre. Poi, con frustrazione,
si arrendeva, le spalle le si afflosciavano, montava un broncio ancora
infantile e proseguiva a rispondermi a tentoni alle domande sulla scuola, sulle
materie preferite, sugli insegnanti, la testa a mille miglia da qui.
Comprendendo
l’antifona, sapendo che se le avessi chiesto direttamente qualcosa, mi avrebbe
risposto stizzita, dicendo che non aveva assolutamente nulla da dirmi e che le
mie erano solo fantasie, avevo optato per la tecnica migliore tra tutte:
l’uscita mamma – figlia per comprare gli ultimi regali di Natale, con la
promessa di tè finale con biscotti allo zenzero che lei adorava.
Si
era ovviamente rianimata, probabilmente rincuorata dal fatto che, in assenza di
suo padre e di Hugo che trotterellavano per la casa, le parole le sarebbero
venute fuori meglio e prima.
Ed
è a questo punto che mi trovo adesso, alle sue parole. Le avevo già immaginate,
intuite. Avevo già focalizzato il loro contenuto ed il modo in cui le avrebbe
pronunciate. Già me la vedevo seduta di fronte a me nella sala da tè con le
mani che si torcevano frenetiche in grembo, il volto rosso, la testa bassa.
Tutto avrebbe ruotato attorno al nome di un ragazzo appena conosciuto, per il
quale avrebbe professato un eterno ed incrollabile sentimento che era nato come
un fiore a marzo, senza preavviso, solo con un grande senso di confusione,
profumata come la corolla di una primula.
Sapevo
che voleva risposte, punti fermi, consigli, e mi ero preparata come per una
lezione universitaria, scegliendo accuratamente le parole mentre mi vestivo e
mi truccavo, esercitandomi anche davanti allo specchio con le espressioni da
assumere al suo discorso, così da riportare diligenti all’ordine sopraccigli
indagatori e labbra accondiscendenti.
Quello
a cui non ero preparata, era il nome. Quello che adesso ancora aleggia tra me e
Rose, scolpito nell’aria dorata del pomeriggio come se fosse fatto di roccia
dura. Il nome che, senza che nemmeno lo conoscessi, mi si è incuneato nello
spazio tra i polmoni, come la spada di certe Madonne della mia infanzia, in
Sicilia.
“Scorpius
Malfoy, mamma. Credo… di essermi innamorata di lui”.
Quel cognome, oggi, adesso, a
bruciapelo, sembra una punizione celeste.
Mia figlia, colpita dal mio silenzio
e preoccupata che io disapprovi, si esibisce in un appello accorato in favore
del giovane Malfoy, elencandomi tutti i motivi per cui si è innamorata di lui.
Il mio sguardo vagante nella sala da tè si sofferma sulla macchia di rossetto
che ha sul polso, cosa che mi fa curiosamente sorridere: si sente un’adulta
fatta e finita al punto di potersi truccare, ma come una bambina si dimentica
di esserlo e si macchia gli abiti, imbranata ed assente.
Rose continua a raccontarmi di
Scorpius, del loro incontro, dell’amicizia con Albus,
ed io mi limito a cenni distratti con il capo per non farle intendere che
critichi il suo innamorato; in realtà, ciò che con estrema diligenza tesse mia
figlia sul ragazzino, non fa altro che riportarmi indietro all’immagine di suo
padre. E alle parole che, qualche settimana prima, gli ho rivolto in terrazza
dai miei suoceri, ricordandogli il tentato omicidio di Silente ed asserendo
convinta che era davvero sua intenzione assassinare il vecchio preside.
Deglutisco a disagio un paio di
volte, sorseggiando il tè al gelsomino che si è fatto freddo, scivola nella mia
gola come se avesse la consistenza della confettura.
Draco Malfoy mi ha inseguito nei
pensieri dall’ultimo giorno in cui ci siamo visti, ammantato da questo senso
greve ed acre di colpa che non mi lascia in pace, nauseandomi senza riposo.
Ormai anche la nausea che provo spesso, è diventata una sorta di compagna
quotidiana che mi avvisa di quanto io sia stata meschina nei suoi confronti.
Sono abituata all’autoanalisi, sono abituata a cercare ogni falla in me stessa
che sia il punto in meno nell’autentica perfezione da me bramata, ma non sono
abituata a sentirmi così fuori posto come in questo momento.
Sento di aver toccato una sorta di
limite, ed al contempo di fondo, che non ero nella posizione di toccare. Come
se ci fosse una sorta di patto tacito tra noi, che io ho infranto con
predeterminazione, solo per difendere me e il mio traballante matrimonio.
Non mi riconosco in ciò che ho fatto
a Malfoy, non è da me, non è assolutamente da me perdere così tanto il
controllo di me stessa da dire cose che non dovrei dire, senza pensarci su.
E il karma sembra essersi messo
d’impegno ad inseguirmi senza posa, scegliendo persino come sicario mia figlia che,
accalorata, prende fiato e continua a pontificare su Scorpius Malfoy. Ogni
sillaba di quel nome sa di sigarette e neve fresca.
Nel silenzio
di quella notte sentii persino il respiro trattenuto di Draco Malfoy,
quell’autentico tonfo nel petto, come se ci sprofondasse qualcosa nel buio,
affogando.
Ho pensato, certo, di scusarmi con
lui, è stato il primo pensiero dopo che quelle parole terribili avevano
lasciato le mie labbra. Ma si era rivelato molto più difficile del previsto.
L’orgoglio mi frena come se fosse la catena di una bestia feroce che tiene
legata al laccio.
Penso sempre alla reazione tronfia
che avrebbe, alle domande che mi rivolgerebbe, alla giustificazione che dovrei
dare di una reazione eccessiva, che nemmeno io ho compreso così bene. Dovrei
forse dirgli che stava girando troppo attorno al cuore del discorso, ai dubbi
che avevo sul mio matrimonio? Impossibile, sarebbe come consegnare la testa al
boia.
Senza però quella spiegazione, la
mia richiesta di scuse perdeva consistenza, peso, valore, ed il mio gesto
assumeva davvero la dimensione di un puntiglio odioso da ragazzina saccente,
vogliosa solo di infliggere crudelmente una punizione.
Mi sono lambiccata per ore sul
punto, cercando parole, gesti, frasi, ed intanto ho disertato casa dei miei
suoceri, temendo di incontrarlo. Il soffitto, nelle notti bianche in cui non
riuscivo a prendere sonno, disegnava solo ulteriori momenti di umiliazione che
mi avrebbe inflitto per vendicarsi. Arrabbiata con me stessa per pensarci
ancora, mi voltavo febbrile nelle lenzuola, chiudendo gli occhi e dicendomi
spavalda che avevo solo detto la verità e che non c’era nulla di cui scusarsi.
Nessuno di noi sa davvero che cosa
avrebbe fatto Malfoy se non fosse stato interrotto.
E lui non ne ha mai parlato con
nessuno.
Perciò ci sta ogni supposizione,
anche delle peggiori. Era un suo dovere, al massimo, smentirmi.
Peccato che questa mia giustificazione
regga per otto secondi netti. Gli occhi si spalancano nel buio, le labbra si
mangiano freneticamente tra loro, lascio Ron nel letto a russare e cerco di
trovare allo specchio le parole giuste da rivolgergli.
Questo, in un giro eterno che dura da
giorni ormai.
Rose, intanto, di fronte al mio
perdurante silenzio, pensa bene di mettere il muso, incrociando le braccia
innervosita, interpretando la mia mancanza di reazioni come la più classica
delle rimostranze da mamma per il ragazzo di cui è così tanto innamorata.
Distinguendo il tremore del labbro inferiore che preannuncia l’inizio della più
grossa crisi isterica dai tempi della scomparsa dell’orso Kebab dalla sua
stanza, mi affretto a recuperare il tono della conversazione, deglutendo con
forza un paio di volte per far scivolare il nome di Malfoy in fondo allo
stomaco, assieme al tè gelido che ingurgito con foga.
“E’ molto bello che tu provi queste
cose, tesoro…” sussurro con partecipazione, chiudendo la mia mano sulla sua,
contratta freneticamente sul tavolo accanto al vaso di peonie bianche. Le
guardo per qualche istante, con l’impressione che mi ricordino qualcosa, ne
studio distrattamente un petalo come alla ricerca di… una sorta di… macchia
nera… ma non vedo nulla ed intanto la nausea mi riannebbia i sensi, quindi
desisto. Rose, intanto, convinta dalla mia affermazione, si rianima con calore,
accendendosi come un fuoco d’autunno, il viso come il compagno perfetto della
sua capigliatura scarlatta: “Lo pensi davvero, mamma? Non sei… delusa che sia proprio un Malfoy?”.
Sorrido incoraggiante,
accarezzandole con il pollice il dorso della mano: “Ma no, Rose, non pensarlo
nemmeno. Io, papà e zio Harry abbiamo lottato per anni perché il mondo
cambiasse, e perché tu potessi sentirti libera di provare affetto anche per
Scorpius”. Ometto volutamente con un accenno di confidenza il cognome del
ragazzo, così da non avere nuove reazioni inconsapevoli che mia figlia possa
fraintendere.
Ci pensa, però, Rose a finire il
lavoro che aveva già iniziato con la sua confidenza, andando direttamente al
punto con decisione: “Lui non è come suo padre, mamma. E’ gentile, dolce,
educato. Non è come mi avete parlato del signor Malfoy”.
Scorpius non
ha quegli occhi grigi che sembrano assieme di un angelo, e poi di un demone?
Non ha quelle parole che, dentro, scavano trincee come trivelle alla ricerca
dell’acqua? Quando non la trovano, si mettono a scartavetrare la pelle nuda,
così da mangiarti viva.
Non è così,
Rose, il tuo innamorato? È ancora innocente e puro come carta di riso, come il
sapore latteo dei neonati, come il fiore fresco di pioggia della prima alba?
Come ti
abbiamo parlato di Malfoy, tesoro, quando eri bambina?
Di un
bulletto egoista che prendeva di mira la tua mamma e il tuo papà,
tormentandoli?
Magari tu hai
pensato al giorno in cui ci saremmo potuti vendicare ed avere giustizia. Nelle
nostre storie hai fatto il tifo per noi, come se fossimo degli eroi di carta e
inchiostro dentro i tuoi fumetti o i tuoi libri, quelli che sceglievo
diligente, attenta al messaggio giusto.
La vendetta
è arrivata, Rose, glielo ho servita su un piatto di neve sporca e sigarette
alla vaniglia.
Peccato che,
nel suo fuoco amico, ha fatto a pezzi anche me.
Prima di
intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe: questo diceva
qualcuno.
Sembra che
lui stesso con quegli occhi mostruosi spali terra sulla mia testa,
seppellendomi.
Ricaccio indietro quei pensieri
assurdi, mettendomi i capelli dietro le orecchie con un gesto nervoso delle
dita, prima di chiedere un altro tè al cameriere. Poi, con un profondo sospiro,
biascico velocemente: “Rose, la nostra storia con il papà di Scorpius… è
qualcosa di diverso. C’era la guerra… il mondo… non è quello che conosci tu,
quello a cui tu per fortuna sei abituata. Non possiamo giudicare correttamente
una persona per quello che era in quel momento. C’erano troppe cose che
potevano pregiudicare l’onestà e la bontà di una persona, specie se si trattava
della sopravvivenza della propria famiglia. Credo… che per questo… non sia
facile parlare di chi era in quel momento… il signor Malfoy…”. Pronuncio il suo
cognome con un’emissione di fiato più forte, come a farmelo uscire velocemente
dal petto prima che prenda troppo spazio.
Rose mi guarda apparentemente
convinta seppure confusa, i suoi occhi azzurri mi guardano come se fossi una
sorta di enigma in cardigan rosso e sciarpa grigia.
Mi affretto ad aggiungere allora a
mo’ di spiegazione, consapevole che non può seguirmi in tutto il mio tentativo
di redenzione mentale: “Quello che intendo dire, Rose, è che non devi farti
condizionare da quello che eravamo noi a scuola. Te l’ho già detto alla
stazione, quando papà ti ha suggerito scherzosamente di batterlo in tutti gli
esami. Voi… siete un’altra cosa, tesoro. Non c’entrate con noi. Sii amica di
chi vuoi. Innamorati di chi vuoi. Non pensare a chi è figlio di chi”.
Finalmente Rose comprende che ha
avuto una sorta di benedizione da parte mia, con slancio si alza in piedi,
facendo cadere la sedia alle sue spalle. Mentre già mi inalbero per la sua poca
delicatezza, lei si getta tra le mie braccia, stringendomi forte ed
avvolgendomi nel suo profumo di pesca. “Grazie mamma…” sussurra dolce con un
accenno di pianto.
Commossa come solo la madre di
un’adolescente può essere di fronte alle dimostrazioni di affetto, quando esse
diventano sempre più sporadiche e rare, le accarezzo piano i capelli
stringendola a mia volta e baciandole la tempia.
“Mamma, posso invitare Scorpius a
Natale dai nonni?” mi chiede Rose infervorata, staccandosi da me. Le parole le
escono velocemente dalle labbra come saette di fiato, scampate dalla
costrizione della laringe. Si accavallano le sillabe per l’emozione e la cosa
mi intenerisce al punto che, in un rapido cenno del capo, le dico di sì senza
alcuna remora o esitazione.
Lei mi abbraccia ancora, saltella
sul posto e poi scappa via dal locale, dicendomi che deve assolutamente andare
da Dominique che le deve prestare un suo vestito da paura per incontrare Scorpius a Natale.
Resto con la mano aperta sospesa in
un saluto, anche quando la sagoma di mia figlia sparisce dietro l’angolo. Dopo,
quando me ne rendo conto, abbasso il braccio e lo lascio piegato sul tavolo, il
pugno contratto.
Ho mentito a mia figlia ed è la
prima volta nella vita.
Le ho detto di credere in un mondo
immacolato e vergine, che le donerà solo amore e gioia.
Non sa quanto sono stata bugiarda.
24 dicembre
Da sempre il piatto tipico della
Vigilia di Natale a casa Weasley è il rognone di vitello con le cipolle
caramellate: è il cavallo di battaglia di Molly, una sorta di bomba H
gastronomica di calorie e trigliceridi, il cui odore impregna persino le ossa,
anche se trascorri pochi minuti alla Tana.
Oggi, per l’occasione, nel salotto
sono stati fatti Evanescere tutti i mobili ad eccezione di un lungo tavolo
rettangolare, apparecchiato con tozze candele rosse e stoviglie spaiate. Rami
di vischio un po’ rinsecchiti pendono sbilenchi da ogni parte, l’ultimo dei
Tiri Vispi Weasley: al passaggio di una persona qualunque, esplodono stelle
rosse ed oro al suono dello schiocco rumoroso di un bacio. Sempre da tradizione, non appena si arriva
alla Tana, si opera la scissione vecchia di decenni tra appartenenti al
cromosoma XX ed appartenenti al cromosoma XY: le donne si rintanano tutte in
cucina, nei loro abiti scarlatti e nelle loro chiacchiere rumorose ed acute,
mentre si mescola, impasta, sminuzza, cuoce, soffrigge, insaporisce, più cibo
di quanto si mangerebbe mai in otto settimane. La regina incontrastata è Molly
che con rapidi colpi di bacchetta, mette in riga e in mostra il suo arsenale
alimentare.
È il suo momento, quello per cui
spasima ogni anno, arrivando quasi al collasso per la ricerca della perfezione,
simulando teatrali svenimenti per ogni persona che viene meno o non gradisca
qualcosa.
Ci sono rituali consueti, che vanno
ripetendosi di anno in anno: le caramelle alla fragola che finiscono prima del
pranzo, divorate da Ginny; il calcolo mentale dei giorni di digiuno che
attendono Fleur, dopo questa “catastrophe”;
la mia rimostranza di fronte al rognone e il candore stupito di Molly che
sostiene che io l’abbia sempre mangiato, cosa che naturalmente non ho mai
fatto.
Gli uomini, assieme ai ragazzi e ai
bambini, restano fuori nel giardino, intenti ad accendere qualsiasi cosa
contenga polvere da sparo: nel cielo notturno, lucido di neve inespressa,
brillano girandole fucsia, viola, argento, celeste. C’è sempre l’attrazione
dell’anno, la novità: un anno c’era stato un enorme drago argento ed oro che aveva solcato le montagne e le nuvole,
esplodendo dopo ore in una pioggia di coriandoli al gusto di pizza. Un altro
anno, era stato il turno di piccoli quadrifogli verde smeraldo, fioriti nel
giardino davanti a casa dei miei suoceri e che, rilucenti nel buio, esplodevano
di mille odori diversi se sfiorati o colti.
La costante sono sempre i visi
scarlatti per il freddo, le urla di mamme e mogli, l’immancabile influenza che
si prenderà qualcuno nel periodo immediatamente successivo tra Natale e
Capodanno.
Poi finalmente tutti a tavola: ogni
anno, ci sono sempre troppe poche sedie, troppe pietanze, troppi avanzi. E la
stanza straborda di mille conversazioni diverse vagamente intrecciate, confuse
in un modo quasi tattile, come una nebbia che condensa sulle cose rendendo
tutto indistinto.
Mi è sempre piaciuto il Natale, il
mio da bambina era una festività tripersonale che diventava solo vagamente più
frequentata se decidevamo di andare in Sicilia da mia nonna.
Quello dei Weasley era invece
caotico, rumoroso, colorato. Ed io lo avevo adorato fin dal primo momento.
Senza eccezione. Anche nel dubbio, anche nella tristezza, anche nella guerra,
anche nella frustrazione rabbiosa dei litigi con Ron: le discussioni finivano
sempre per risolversi nel calore famigliare, evaporando e sciogliendosi come
volute di fumo acre, mentre ci scambiavamo di malavoglia un bacio alla
mezzanotte, scoppiando a ridere poi come due adolescenti.
Quest’anno, però, senza che esista
un motivo apparente, mentre tutti i riti restano ancora in piedi, mi sembra di
essere in una specie di bolla d’aria dove tutto mi giunge attutito, offuscato,
sbilenco, ovattato, come se provenisse da un’altra dimensione. Persino i miei
movimenti mi paiono rallentati, alla moviola, e tutti devono ripetermi le cose
circa dodici volte prima che mi giungano davvero nel cervello, la sensazione
stopposa di camminare sulla gelatina.
In fondo allo stomaco, come il
presagio sventurato di Cassandra, sento il diffuso furore cieco dell’ultimo
Natale… così. Come se sapessi con
certezza che l’anno prossimo le cose saranno tutte diverse, completamente. La
ragione mi risponde che, certo, chissà cosa potrà succedere in un anno esatto e
che, in certo qual modo, tutto cambia alla velocità della luce.
È una costante, se uno ci pensa, non
è che ci vuole Natale per dirselo.
Ma, mentre vedo le labbra di Ginny
muoversi mentre mi dice qualcosa ridendo, qualcosa che non arriva alle mie
orecchie, comprendo che non è questo: non è quel avvertimento sulla fugacità
del tempo presente che, di tanto in tanto, ci coglie come una spada di Damocle
e ci spinge a rivalutare ogni singolo istante. Ed allora, con uno slancio
furente, ci si abbraccia di più, si dicono più ti amo o si perdona qualcosa che si considerava indimenticabile.
La sensazione che mi pulsa persino
nelle orecchie come un ronzio regolare, infido, sinistro, è di una sorta di
chiusura di un ciclo, di un mondo che finisce, di una vita che volta l’angolo e
che non sarà più la stessa. E che invece di portarmi ad essere più sollecita ed
attenta nei confronti dei miei cari, paradossalmente mi chiude in un isolamento
dorato, dove ogni parola è disturbo e molestia.
Credo di ravvisare ogni segno di
quel mondo che finisce nelle piccole cose che mi circondano, dandomene così una
spiegazione: dai capelli sempre più grigi di Molly e dal fatto che non riesca a
portare in tavola il grosso e pesante tegame di rognone, all’andatura sempre
più curva di Arthur che non lascia mai la sua poltrona preferita, fino a Rose
che non partecipa ai fuochi d’artificio di famiglia, restando invece a
sospirare contro il cielo in veranda.
Evito di ripensare a che cos’altro è
successo in quella veranda qualche giorno fa, stasera non si pensa a Malfoy, quello si starà rimpinzando di caviale e
champagne alla faccia mia, maledetto stronzo di un riccone, e cerco di dare
un peso a quello che mi circonda, riprendendo a gravitare diligente come un
membro della famiglia compito e coinvolto.
Mi decido evidentemente troppo
tardi, perché in quel momento Molly annuncia con voce squillante, ma in qualche
modo meno tonante del solito, di sedersi a tavola. Sospiro a lungo, imitata e
seguita da mia figlia che è appena rientrata in casa, le metto un braccio sulle
spalle, incoraggiandola. Le ho consigliato di chiedere a Ron di invitare qui
Scorpius una volta finito il cenone, contando sulla solita pinta di Acquaviola fatta in casa che si sarà scolato con i suoi
fratelli. Contavo, in realtà, anche sulla presenza salvifica di Teddy e
Victorie per impedire che perdesse le staffe, ma a quanto pare la ragazza non
si è sentita bene ed è rimasta a casa. Naturalmente, quindi, anche Bill, Fleur, Dominique e Louis hanno colto la palla al balzo per
saltare il luculliano pasto offerto da Molly, considerando che ogni anno erano
loro quelli a fare più storie per non ingurgitare quel calorico e troppo
condito cibo.
Per una volta, la nausea gravidica è
diventata contagiosa.
Mangio a piccoli bocconi, annuendo
di tanto in tanto ai discorsi dei miei cognati, sempre con quel senso di
estraniamento addosso che mi circonda come una sorta di pelle infetta. Le varie
portate mi passano davanti come sotto il tasto di avanzamento veloce, le tocco
appena, mi sembra che abbiano tutte lo stesso sapore insipido e scialbo.
Quando sto dando la colpa in modo
automatico del mio stato mentale al fatto che quest’anno mia mamma abbia deciso
di restare in Italia per Natale e di non venire qui, cosa che mi spinge a
decidere di chiamarla per sapere se stia bene, mi rendo conto che siamo
arrivati ad un altro dei tanti riti natalizi, inaugurato dopo la fine della
guerra.
All’inizio, il promotore era stato
Arthur, lo ricordo ancora seduto a capotavola, la posa severa, la schiena
dritta, il bicchiere di sherry stretto nella mano e brandito come se fosse il
Santo Graal.
Era il primo Natale dopo la
sconfitta di Voldemort, ed anche il primo che io e Ron passavamo da fidanzati,
ricordo le mani intrecciate sotto il tavolo, la fuga in dispensa per pomiciare,
la mia ricerca frenetica di un regalo e l’ansia che non gli piacesse.
E poi, tutti i miei pensieri
sparirono nel discorso toccante di Arthur che, partendo dal proprio figlio
Fred, propose un brindisi per tutti coloro che erano morti durante la guerra e
che non erano lì in quel momento a festeggiare con noi. Scorsero calde lacrime,
un accenno di applauso, un brindisi rumoroso e selvaggio come quell’impeto alla
vita che sentivamo forte, come un dovere verso chi non c’era più. Alla fine,
con la conta delle vittime sempre aggiornata, divenne un’abitudine natalizia.
I nomi dei caduti divennero alle
orecchie dei nostri figli una filastrocca di malinconia e dolore al sapore di christmas pudding.
Quando Arthur non fu più in grado di
restare a lungo in piedi e di tenere così alta la voce, il testimonio passò
inevitabilmente a Ron: c’erano i suoi fratelli maggiori ovviamente prima di lui,
ma era lui l’eroe di guerra. Ha sempre visto quel momento come qualcosa di
molto importante, al pari di un’investitura ufficiale che si era guadagnato
negli anni.
Anche quest’anno, quindi, sapendo
quanto ci tenga, cerco di focalizzare l’attenzione su di lui che richiama
l’ordine, facendo tintinnare con un cucchiaio il bicchiere di vetro
smerigliato.
Cade il silenzio, come di abitudine.
E le parole di Ron sono quelle di sempre: calde, commoventi, emotive. Sento un
singulto di orgoglio e fierezza per mio marito che, nella mia inconsistenza di
pensiero, sembra farmi ritornare a questo momento come se ci appartenessi per
diritto.
Non lascia fuori nessuno, nemmeno
chi è perito successivamente anche al di fuori della guerra, come Andromeda.
Tutti esplodiamo in un triste applauso, mentre come sempre George abbraccia
Molly in lacrime e singhiozzi al pensiero mai sopito di Fred.
Ron conclude con un sorriso mesto,
sollevando il calice: “Che il vostro Natale sia felice quanto e più del nostro.
E che continuiate a vegliare su di noi…”, poi, gettando un’occhiata sardonica
di soppiatto a tutti i presenti, come se stesse per rivelare un segreto,
sussurra afflitto: “E che possiate perdonarci… se diamo accoglienza ed
ospitalità ogni giorno ad uno dei vostri quasi
assassini. Non preoccupatevi. Non saranno mai come noi”.
Non comprendo subito a che cosa
alluda e nemmeno il resto della mia famiglia. Cade solo un silenzio fangoso,
viscido, ruvido, che sembra in contraddizione con tutto quello che c’è stato
fino a poco fa.
La consapevolezza mi giunge nello
stesso momento in cui, con un gran fracasso, sento il rovinare di una sedia che
cade per terra, risuonando sorda nell’aria circostante.
Rose si allontana, correndo
sconvolta, in lacrime. Le mani che stringeva in grembo nell’attesa di chiedere
il permesso di invitare Scorpius per Natale, sono sbiancate come bucaneve
congelati. Sibila solo, tagliente come la lama di un coltello: “Sei una
bugiarda, mamma”.
Le parole di Rose hanno l’effetto di
spaccare a metà il guscio ottuso che, amniotico, sembrava racchiudermi intatta
e lontana da qui. L’accusa fende il mio petto come una freccia alla ricerca del
bersaglio, che trova nel mio ventricolo sinistro. Mentre tutto si sgretola,
riappare l’aspetto ordinario delle cose e delle persone, con colori ed odori
persino più violenti del solito, che mi travolgono come se fossi al mio primo
giorno di vita.
Mi manca il respiro, come se
annegassi.
Cercando di recuperare ossigeno,
guardo affannata Ron, i suoi capelli rossi, le gote arrossate dalla foga del
suo discorso e dall’alcol ingerito, le orecchie paonazze. Tutto mi pare una
sorta di affronto personale, il fastidio mi incendia lo stomaco come una
petroliera in fiamme.
“Non potevi resistere, vero?”
inveisco a fatica, il respiro spezzato dall’ira, guardandolo in tralice, prima
di sbattere violentemente i pugni sul tavolo, i bicchieri tintinnano come
feriti “Te la stavi preparando da… quanto? Da quando Malfoy ha messo piede qui?
O da prima?”.
Attorno a me, solo Harry scuote il
capo con rimprovero, limitandosi solo a pronunciare il nome di Ron severamente.
Gli altri restano in silenzio, guardandosi le mani poggiate sulle ginocchia o
nello spazio sul tavolo tra un commensale e l’altro, nella solita omertà che
protegge il cucciolo, sebbene sia ormai già diventato un padre di famiglia che
dovrebbe pensare prima alla propria figlia e poi a tutto il resto.
Scossa dalla rabbia, come se fossi
un fuscello secco in un tornado, biascico senza prendere fiato, come se le
parole si accavallassero una sull’altra alla stregua di naufraghi che cercano
salvezza: “Tua figlia si è innamorata di Scorpius Malfoy. Già, dello stesso
Scorpius con cui le hai consigliato di mettersi in competizione, quando non era
nemmeno salita sul treno per Hogwarts…”, il viso di Ron sbianca come se il
sangue affluisse improvvisamente tutto altrove, da qualche parte lontana dal
suo corpo. Il silenzio attorno diventa ancora più denso, profondo, come un
liquido che non fa filtrare la luce.
“Ed io l’ho rassicurata che il suo mondo fosse diverso dal nostro. Che
lei potesse persino… provare affetto o innamorarsi per di chi credeva…” mormoro
ad un passo dalle lacrime che bussano già moleste dietro le palpebre pesanti “E
tu, oggi, mi hai reso una bugiarda con nostra figlia. Tu con i tuoi maledetti
rancori da ragazzino troppo cresciuto”.
L’insulto, ben congegnato dalla mia
testa abituata a colpirlo puntualmente dove fa più male, naturalmente ha
l’effetto di renderlo ben più prolisso ed aggressivo di quanto fosse stato fino
ad ora, mentre incassava e basta. Scaraventa il bicchiere di sherry per terra
infrangendolo in una cascata di gocce dorate ed argentate, e comincia ad urlare
in modo scomposto, infiammato dall’alcol: “I miei rancori?! I miei rancori? Qui non si parla di rancore,
Mione! Qui si parla di proteggersi a vicenda, come abbiamo sempre fatto in
guerra, come abbiamo sempre fatto tra noi, prima che tu te ne dimenticassi
completamente, con tutte le tue teorie egualitarie e liberali da fottuta
maestrina ingenua…”, Harry cerca di farlo calmare riportandolo seduto, ma
naturalmente non funziona.
Non funziona
mai.
Mi guardo attorno solo per vedere se
Hugo è ancora fuori in giardino con Fred Jr a sparare altri fuochi d’artificio,
le esplosioni ritmiche mi informano che è così, rilassando le mie spalle. Ron
continua, ormai senza controllo: “Sono fetidi assassini tutti loro, tutta la
loro marcia specie. E nessuno di noi ci dovrebbe avere nulla a che fare!
Nessuno, tantomeno Rose! Tantomeno tu, razza di stupida! Ti sei scordata cosa
ti diceva Malfoy nei corridoi? Ti sei dimenticata di quante volte ci piangevi
come una mocciosa sui suoi insulti? O quando ti hanno torturato a casa sua? Te
ne sei scordata, eh?”. Naturalmente, il gioco al massacro funziona sempre
perché è biunivoco.
L’accenno alla mia tortura durante
la guerra, è il colpo basso. Perché il corpo ricorda sempre di più di quello
che la mente vorrebbe dimenticare. Alle sue parole quindi, come una specie di
segnale di attivazione, riprendono a pulsare cicatrici e ferite, segni e
graffi, escoriazioni e lividi, come se fossero ancora tutti sparsi sulla mia
pelle.
E mi risale in gola il vomito della
bile e dell’odio, quello per cui l’impotenza di quel momento mi rimase dentro
le costole come un miasma tossico, spingendomi a pensare di diventare un Auror
per non sentirmi mai più così. Torna l’aspirazione segata in vita per l’amore
dell’uomo che ho davanti. Confondo l’odio e l’amore come sempre, come ogni
volta, come ogni maledetto momento in cui passiamo il limite e in cui passo al
setaccio ogni cosa per essere quanto più letale possibile.
Pensavo che
con Malfoy fosse stata la prima volta.
Colpire nel
modo peggiore, per non essere ferita.
Invece ho
fatto allenamento per anni ed anni. Con il mandante migliore.
Ron, ringalluzzito dal mio silenzio,
prosegue con tono appassionato, indicandomi dall’altra parte del tavolo con
l’indice tremante: “Non me ne frega un emerito cazzo di Teddy e della sua
riconciliazione famigliare. E non mi interessa nulla nemmeno di quello che ne
dirai tu, mia cara paladina delle cause perse. Andate ad adottarvi una schiera
di elfi domestici e fate una fottuta manifestazione di difesa, tu e tua figlia.
Ma non esiste che abbiamo a che fare con i Malfoy, più di quanto sia
necessario. Sono stato chiaro?!”.
L’urlo finale finisce con un pugno
forte sul tavolo che gli fa sanguinare le nocche. Solo allora, non prima, Molly
interviene con un canovaccio umido per fermare la blanda emorragia del figlio,
redarguendolo. Come un segnale nascosto, tutti si precipitano allora a
minimizzare, a consolare, a dirmi di stare tranquilla, a dire a Ron di non
esagerare, a rassicurare che siano solo cotte infantili che passano presto,
così che le parole di Ron prendano a fruttificare nei miei polmoni come spore tossiche
e la mia risposta resti invece lì, seppellita in una tomba vergine, marcendo
inutilizzata. Nei miei canoni, naturalmente, mi rendo conto di averlo lasciato
finire e vincere, nell’indolenza che, ad un certo punto dei suoi insulti, mi ha
raggiunto di nuovo dentro le ossa, sgonfiandomi come un palloncino bucato. Ora
so, per certo, che sebbene ostenti il trofeo della superiorità maschile, Ron si
è già pentito di quello che ha detto, spia la mia reazione, aspetta solo che io
dica qualcosa di troppo per farlo passare automaticamente, di nuovo, dalla
parte debole nella discussione: quella della vittima sacrificale che tanto gli
si addice e che si affibbia nelle chiacchierate confidenziali con cognati e
fratelli.
Questa volta, stanca come se avessi
percorso duemila chilometri a piedi, scelgo volutamente di deluderlo.
Pronunciando a tavola davanti a tutti, con una perfetta torsione della
bacchetta, a quarantadue minuti dalla mezzanotte, la formula della
Smaterializzazione.
Scompaio davanti ai loro occhi
sbigottiti come le girandole rosse ed oro che ancora esplodono nel cielo.
Nonostante la mia drammatica uscita
di scena, non appena arrivo a casa, mi rendo conto di aver lasciato entrambi i
ragazzi alla Tana e di non sapere come stia Rose. L’istinto mi dice di prendere
e tornare immediatamente indietro per andare a consolare mia figlia, ma poi
penso che sia maggiormente il caso che sbollisca da sola.
Se ha ereditato questo lato sia da
me che da Ron, so che è la scelta migliore. Al momento penso che vorrebbe impalare
entrambi i suoi genitori, diventando felicemente orfana.
Per maggiore mia tranquillità,
comunque, mando un gufo a Ginny dicendole di controllarli entrambi, specie
adesso che Ron sarà sbronzo e furioso, nonché intento a demolirmi completamente
davanti alla sua famiglia. Lei mi risponde subito scrivendomi di tornare.
Non puoi
passare la mezzanotte per conto tuo, cavolo!
Nel buio della mia casa, con
diligenza brucio il suo messaggio con la punta della mia bacchetta.
Non se ne
parla proprio. Nella mia testa, implacabili come
quadratini di celluloide, rivedo ogni singola scena della litigata, passandola
al setaccio come sabbia di fiume per il cercatore d’oro.
Cerco bisbigli, sussurri, parole. E
trovo solo silenzio. Impenetrabile. Ed è la cosa peggiore del mondo.
Mi fa ribrezzo quello della mia
famiglia che non ha pensato nemmeno per un istante di intervenire alle parole
di Ron, sicuramente con la scusa per cui era alticcio e non voleva dire quello
che stava dicendo. Mi risponderebbero con un’alzata di spalle, imponendomi con
l’atteggiamento verecondo della moglie ritrosa, di avere pazienza e sopportare.
Forse le mie cognate, dall’alto delle loro più moderne esperienze matrimoniali,
se ne uscirebbero con i loro aneddoti di sopportazione coniugale al limite
della santità, dicendomi che quello che Ron ha detto, è assolutamente nulla in
confronto. “Una volta, Percy…” di qui, “Quella
volta, Fred” di là o “Non ne parliamo
poi di Harry, Mione”, e tutto diventerebbe una sorta di incidente da
dimenticare facilmente.
Non so perché, ma ho l’impressione
che le sole che non contribuirebbero al quadretto, sarebbero le mie cognate
assenti: Fleur e Cora. Loro penso che paradossalmente
avrebbero persino scornato Ron come un ragazzetto discolo.
A ripensarci, però, la cosa che
maggiormente stride nelle mie orecchie come una sorta di melodia stonata, è il mio di silenzio. Quell’accettazione
pigra e sbiadita di tutto quello che mi stava dicendo Ron in modo passivo ed
incolore, anche se mi feriva: sono sempre abituata ai siparietti dialettici di
ore, ai sillogismi convincenti, alle orazioni spavalde che dovevano
inevitabilmente portare al risultato finale. Il fatto che me ne stia stata in
silenzio, come una bimbetta scornata, mi fa ribollire di rabbia come prima
reazione, spingendomi quasi a tornare alla Tana per urlare come una straccivendola.
Ma la seconda reazione è un’ulteriore fiera apatia, davvero come se non mi
importasse nulla di quello che Ron stesse dicendo. Ed è una spina dolente sotto
pelle che mi fa sanguinare più della furia, della rabbia e della tristezza che
non riesco a provare.
Davvero non
mi interessa più nulla di quello che dice o pensa di me?
Siamo
arrivati anche a questo?
Per darmi tregua, mi dico spavalda e
convincente che la mia assenza di risposte era motivata solo dal fatto che,
tecnicamente, stavo difendendo Malfoy e non è che io sia del tutto convinta
della sua innocenza. D’altronde, come faccio a non sentirmi ipocrita
rimproverando Ron, se io stessa pochi giorni fa gli ho sputato in faccia la sua
fama di quasi assassino?
Respiro profondamente, la casa buia
mi rimanda l’eco di quel sospiro trattenuto: se non ho intenzione di tornare
indietro, rimanere a casa è la peggiore delle soluzioni possibili. È ovviamente
il primo posto dove verranno a cercarmi e a riprendermi, non appena
comprenderanno che non tornerò indietro.
Peccato che, nella notte di Natale,
chi non si trova collocato nella casella miracolosa della propria amorevole
famiglia, è come un pezzo spaiato di un gioco da tavolo. Minimo, sarà
inopportuno, molesto, finanche sgradito, in qualsiasi posto sceglierà di
andare. Le strade, illuminate dalla luce rara di una luna ghiacciata, sono
deserte, i negozi chiusi, gli amici impegnati altrove.
Medito persino di andarmene in
ufficio, approfittando dei turni notturni al Ministero, imbastendo una
convincente scusa, cosa che risulta patetica anche mentre la sto pensando.
Nel salotto buio, sempre più nervosa
ogni minuto che passa, vado avanti ed indietro come una bestia braccata,
cercando di trovare la quadra del cerchio. Ed è a quel punto, mentre infilo la
sciarpa grigia con l’idea di andare davvero in ufficio, che qualcosa si
affaccia nella mia mente.
La quadra
del cerchio. Il posto dove andare.
Le associazioni si moltiplicano come
funghi, innaffiati da semi invisibili.
Quando poi arrivo all’ultima
definizione, è come se mi esplodesse lo stomaco. Sento la nausea consueta, ma è
nulla in confronto a tutto il resto che ribolle e fermenta dentro di me.
Mi fermo al centro esatto del
salotto, il torpore passa come una nube sotto il sole.
So perfettamente dove andare, dove
sarò assolutamente inopportuna, molesta, finanche sgradita.
Ma dove quel silenzio ostile, quello
della mia stessa bocca, si scioglierà, come miele nel latte caldo. Si affaccia
nella mia mente la quadra del cerchio, il posto dove andare.
Ed infine il
motivo che cerco.
Hermione
Granger sapeva perfettamente dove il suo amico e cognato, Harry Potter, eroe
del mondo magico, tenesse nascosto il Mantello dell’Invisibilità. Era stato lui
stesso a dirglielo quando si erano trasferiti nella nuova casa. Era come una
specie di anatema contro il destino avverso rivelare la sua collocazione,
perché dopo la guerra loro non ne avevano avuto più bisogno.
Il Mantello
serviva solo per le emergenze, mai per altro.
E le
emergenze erano solo Maghi oscuri desiderosi di vendetta omicida.
Quindi,
finché restava lì, nascosto dalle marachelle dei figli, sapevano di essere al
sicuro.
Hermione
Granger, nella notte di Natale del suo trentaseiesimo anno di età, ruppe quella
santa e tacita promessa fatta all’amico di infanzia: mentre cercava la chiave
di scorta dell’abitazione dei Potter e faceva irruzione dentro l’appartamento,
sentiva come se avesse sciupato con feroce ingordigia qualcosa che, fino a quel
momento, sapeva di fiducia, abbandono, sicurezza.
Poteva dire
di avvertirne il peso, come una coltre salmastra dentro la gola, non la faceva
quasi respirare. I suoi passi nelle stanze vuote, fino al nascondiglio del
cimelio donato dalla Morte, le parvero pesanti e goffi come quelli di un ladro
maldestro, poco avvezzo al crimine, molto abituato al pentimento. Eppure non si
fermò mai, neanche quando con le dita che tremavano, spostò l’asse sconnessa
del parquet sotto il letto dei Potter, estraendone il Mantello.
Lo soppesò
tra le dita, era leggero e lieve come il respiro di una nuvola, era come lo
ricordava. L’odore, stantio di naftalina, si era associato nella mente
all’infrazione delle regole, alla trasgressione, al pericolo di essere
scoperti: tutto ciò che, di fondo, anche adesso, faceva rima con quel cuore in
gola e con quel viso accaldato, mentre formiche rosse di eccitazione si
arrampicavano lungo gli arti inferiori.
Eppure,
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, sapeva bene in una parte recondita
di sé stessa che non si trattava solo di quello. Non era solo un ricordo
giovanile, che si presentava nel bel mezzo del momento meno indicato dell’anno.
La nausea la
annebbiava al punto che quel pensiero restava sconfitto, sepolto, sotterrato,
implorando di non venire fuori, scongiurando di restarsene lì, incolore e
grigio come le cose che non si comprendono o non si vogliono conoscere.
Lei,
naturalmente, non era masochista. E non fece eccezione. Non si avventurò sotto
le coltri seppellite di sé stessa alla ricerca del motivo per cui, tra tanti
posti, nella sera dove ogni persona desidera la propria casa, lei avesse scelto
di andare lì.
Nel posto
che meno sapeva di casa al mondo: il posto dove meno avrebbe dovuto avere
desiderio di andare, specie nella notte di Natale.
Malfoy
Manor.
Nel buio, Malfoy Manor riluce come
una perla nera, solitaria ed austera come il suo proprietario. Quando il
contraccolpo della Smaterializzazione passa, assieme allo sfarfallio negli
occhi, controllo con attenzione che il Mantello mi copra completamente,
d’improvviso vergognosamente conscia dell’idea assurda che mi è venuta in
mente. Una parte di me, nemmeno tanto piccola e nemmeno tanto poco savia,
continua a guardare le mie azioni dall’esterno e a giudicarle senza ritegno.
Notte di
Natale. Famiglia mollata su due piedi. Corsa nel cuore della notte nella casa
del peggior nemico dei tempi della scuola. Rischio concreto di beccarsi una
Maledizione senza perdono da Mangiamorte pseudo-redento, ubriaco di cherry e
scotch, in pieno stile Natale alcolico.
Scrollo il capo senza ritegno come
se fosse pieno di acqua, con l’obiettivo poco serio di far uscire fuori ogni
spinta alla razionalità che la mia mente brama. Quando si tratta di Malfoy, è
come se il mio cervello mollasse gli ormeggi e partisse per una vacanza attorno
al globo.
La cosa bizzarra è che dovrei
definirla dimenticata come sensazione, probabilmente è qualcosa risalente ai
tempi della scuola, ma invece sembra qualcosa di stranamente familiare, alla
stregua di una abitudine.
Cosa naturalmente impossibile, dato
che non frequento Malfoy da anni.
Riassumo mentalmente che,
evidentemente, era qualcosa di così traumatizzante da ragazzina che il segno mi
è rimasto anche da adulta. In realtà, non mi sembra questa la spiegazione
corretta, ma nel moto consueto di nausea che mi prende alle cose senza
motivazione, la accetto in mancanza di alternativa.
E’ comunque questa sorta di
abitudine monca che mi fa restare ben piantata qui, davanti al cancello della
villa, come se avessi ogni diritto e dovere di essere qui.
Lo faccio
per mia figlia. Devo sapere con chi ha a che fare, mi dico quando quel coraggio insolente manca,
causandomi un moto nervoso dei piedi.
Manca ormai poco a mezzanotte e le
finestre del castello sono tutte illuminate di una luce calda e festosa che non
pensavo sarebbe mai appartenuta a questo luogo: nei miei ricordi, quelli che
premono per entrare come mendicanti lerci, questo castello è oscuro, immerso
nelle tenebre, soffocato dall’oscurità e mangiato dai tarli di una dittatura
malvagia.
Ora, invece, è la casa di una
famiglia con un ragazzino dodicenne, dove spesso mio nipote Teddy viene a far
visita, dove forse si mangiano dolcetti alla zucca la sera di Halloween e si
beve cioccolata alla cannella nelle serate fredde, dove ci sono calze con nomi
cuciti sopra e cassetti di pergamene dei tempi della scuola. I riverberi delle
luci del primo piano, argento, verde, blu e viola, suggeriscono la presenza di
un tronfio albero di Natale, probabilmente colmo di pacchetti.
Noto subito quanto le cose siano
cambiate e quanto questo, probabilmente, sia merito della moglie di Draco,
Astoria Greengrass: nel giardino, intravedo alberi di magnolia, cespugli di
fresie, rampicanti di edera. Tutto è costantemente in fiore, portato allo
stremo da un eterno ciclo di fioritura. I ciottoli bianchi nei vialetti sono
cosparsi di petali profumati, fluttuanti nel vento freddo della sera. Le siepi
quadrangolari che delimitano l’esterno della proprietà sono disseminate di
piccole luci tremule oro, ne tocco una con curiosità: sembrano candele ma sono
come fiamme sospese nel buio che non bruciano la pelle.
Sicuramente, l’ultimo grido delle
decorazioni natalizie di Diagon Alley.
Ripenso con un po’ di vergogna
frammista a nostalgia al vischio rinsecchito della Tana, quello che ha visto i
bambini crescere, sposarsi e metterne al mondo degli altri, restando sempre
lì.
Dall’interno della villa, giungono
nenie natalizie al pianoforte e voci concitate ed allegre, tutte in attesa
della mezzanotte. Devono esserci almeno un centinaio di persone.
Nella mia lucida follia, credo di
non aver considerato la probabile difficoltà ad entrare nell’abitazione di un
Purosangue tra i più ricchi ed aristocratici del mondo magico, sicuramente
preoccupato della sua sicurezza e della sua riservatezza. Il cancello, infatti,
è ovviamente chiuso e non vedo nessun pertugio da cui potermi intrufolare
all’interno senza correre il rischio di attirare l’attenzione di qualcuno.
Mi sgonfio come un pesce spinato,
naturalmente potrei benissimo farmi annunciare e chiedere di vedere Malfoy
immediatamente, ma penso che, come minimo, sarei presa per pazza. Dubito che
lui abbia rivelato alla sua cerchia fidata di amici le sue ultime
frequentazioni, senza contare che anche se ciò fosse accaduto, sarebbe comunque
vista come un’intromissione bella e buona che mi sia presentata qui, di notte,
la sera della vigilia di Natale, con un motivo così volatile tra le mani da farmi
sentire un’imbecille.
Mentre medito su questo, pensando
contemporaneamente a come poter entrare ugualmente e a come poter sparire senza
perdere del tutto la dignità, alla maniera di un segno del destino il cancello
si apre con un cigolio metallico, che risuona tutto attorno come una campana a
morto.
Naturalmente, ispirata, prima ancora
che si apra del tutto, mi intrufolo dentro velocemente, respirando di qualcosa
di frammisto tra il sollievo e l’eccitazione.
Solo allora, notando la presenza di
qualcuno accanto a me, mi do pena di guardarmi attorno per capire di chi si
tratti. Mi paiono due figure, sebbene siano scarsamente illuminate dalla luce
della luna: una delle due, più bassa e magra dell’altra, è ancora ferma nel
gesto di puntare la bacchetta contro il cancello nell’atto di aprirlo. Indossa
un mantello color glicine di pesante lana d’angora, un tessuto prezioso che
costa svariate centinaia di sterline.
Figuriamoci,
in questa casa ci sarà riunito stasera almeno la metà del PIL magico
dell’Inghilterra.
Il cappuccio violaceo cela il viso
di quella che, dall’abbigliamento, suppongo essere una donna. Depone anche in
quella direzione l’acutezza di singhiozzi appena trattenuti, provenienti da
essa. L’altra figura, invece, anch’essa coperta da un mantello con cappuccio di
colore scuro, sta trattenendo la prima per il polso, biascicando delle parole
che di primo acchito non comprendo, dato che sono frammiste da un respiro corto
e quasi sibilante, come se stesse per avere un attacco di asma.
Ovviamente, deve trattarsi di un
litigio tra innamorati, giunto a fagiolo della mia decisione di intrufolarmi al
Malfoy Manor non invitata.
Scrollo le spalle noncurante, non ho
l’indole della pettegola incallita alla Leda, quindi decido di lasciare i due
amanti alla loro discussione natalizia, senza curarmi di indagarne i motivi.
Sto già per incamminarmi lungo il viale d’ingresso, attenta che i miei piedi
non facciano rumore sui ciottoli, che un nome attira la mia attenzione sopita:
“Non puoi farmi questo, Blaise. Non puoi pretendere di continuare a farmi
questo… anche oggi… sempre…”.
Mio malgrado, sebbene voglia restare
indifferente, comprendo che uno dei due avventori sia Blaise Zabini, intento
dunque a litigare con sua moglie Daphne Greengrass, la cognata di Draco Malfoy.
Li conosco sommariamente, lui lavora al Ministero e spesso è capitato di
incrociarci a ricevimenti, cerimonie o premiazioni. Sono sempre seri, sono
sempre l’immagine patinata della rivista di moda, lei non sorride nemmeno per
sbaglio e lui ha sempre l’aria disgustata, come se avesse sotto il naso una
torta d’anguilla. Se non ricordo male, hanno due figli, un maschio ed una
femmina, esattamente identici a loro.
Voltandomi indietro, sebbene non lo
riconosca nel buio dato che mi dà ancora le spalle, la sagoma alta ed imponente
mi suggerisce che devo averci visto giusto, sembra Zabini.
Quello che, però, mi lascia
sconvolta, con la gola secca e la bocca impastata, è riconoscere l’altra figura
sotto il cappuccio violetto. La donna, infatti, guarda negli occhi Blaise,
porgendomi il viso che, nella luce adamantina della luna e delle luci del
giardino, mi appare evidente come una meteora nel deserto.
E’ indiscutibilmente Pansy
Parkinson, non credo di averla più vista da anni, eppure sembra non essere
cambiata di un giorno: stesso sguardo arcigno, stessi occhi scuri pieni di
ombre nere, stesso incarnato pallido su cui spiccano rosse le labbra, come un
taglio nel sangue. Provo persino un moto di invidia del tutto gratuita ed
inconsueta per la giovinezza dei suoi tratti, ancora longilinei e sottili come
quelli di una ragazzina, cosa enfatizzata dai capelli castani a caschetto,
corti sotto le orecchie.
Dopo, però, ogni ammirazione cessa
bruscamente. Pansy ha gli occhi rossi, cerchiati. A lunghi e scuri rivoli, il mascara
crolla sulle guance macchiandole di nero. La magrezza delle guance pare
qualcosa di imposto, scomodo, malato. Le labbra, poi, ad un secondo sguardo,
sono bianche come quelle di una morta, mangiate tra loro come frutti aspri. Ed
il fulgore degli occhi che aveva a scuola, come una piega d’orgoglio da
sfoggiare come un talismano, pare evaporata come neve al sole.
La guardo quasi non capacitandomene,
sembra tutto stridente su quel viso di porcellana, come se non c’entrasse
nulla. A prima vista, pare bellissima come la statua di una dea, dopo capisci
che la dea è morta ed è rimasto solo il marmo levigato di un cadavere
imputridito. Ha qualcosa nell’espressione che mi ricorda qualcuno di preciso,
ma non capisco come possa venirmi una tale associazione di persone, visto che
non hanno nulla a che vedere tra loro.
Mi ricorda
il viso di Dean Thomas, giovane come un ragazzino, ma vecchio nel cuore di
mille anni.
Cerco di fare mente locale per
rammentare il destino della Parkinson e trovo poche notizie sparute, figlie
delle chiacchiere con Ginny: ridevamo spesso del fatto che non fosse ancora
sposata, né tantomeno fidanzata. Avevamo concluso ciniche che la rovina della
sua famiglia doveva averle inimicato metà dei rampolli del mondo magico,
condannandola al nubilato, senza peraltro che lei decidesse di abbassare i suoi
standard elevati della ei-fu-ereditiera.
Ora, sentendomi crudele come solo le
parole a Malfoy mi avevano fatto sentire, comprendo che forse il motivo era un
altro. Un motivo che a che fare con la mano che Blaise Zabini continua a
tenerle artigliato sul polso, mentre lei cerca di divincolarsi.
Nella mia distrazione, Blaise deve
aver fornito qualche giustificazione, qualche spiegazione. Lei urla, grida,
piange, però mantiene la voce bassa e vellutata come per non sconfessarlo
ancora, come a proteggerlo, nonostante tutto. Stringo i pugni colta dal nervoso,
pregandola quasi nel buio di mandarlo a quel paese, di graffiarsi le corde
vocali per sbattergli contro tutto il suo disprezzo, di attirare così
l’attenzione di qualcuno che riveli così la sordida relazione clandestina.
Ma Pansy resta sempre soffusa e
soffice nel tono, alla fine si arrende ad una promessa che suona vecchia e
stanca persino mentre la sento io per la prima volta. Blaise le mormora nei
capelli che aspetterà che passino le feste di Natale, che trascorra almeno il
compleanno di Daphne, che Jacob ed Arielle, i suoi figli, siano cresciuti un
po’. Lei, vinta come un’aquila dagli artigli mozzati, annuisce senza forze,
forse neanche per assenso, solo per stanchezza e rassegnazione, accettando il
diamante tagliato a cuore che lui le regala, infilandoglielo al dito come una
fede nuziale.
Pansy lo guarda come si guarda un
pezzo di vetro, pronto a tagliarti la mano.
“Dovresti sposarti anche tu,
invece…” aggiunge Blaise spronato, finalmente più calmo “Il matrimonio… quella è un’altra cosa. Io e
te lo sai che siamo ogni cosa”.
La dichiarazione mi trasmette un
tale senso di disagio e claustrofobia che, frettolosa e rapida, mi allontano,
non preoccupandomi nemmeno di essere silenziosa: al mio passaggio, i ciottoli
battono ritmici come un cuore in corsa, ma Pansy e Blaise non se ne rendono
conto, di nuovo persi nel loro mondo grande come una scatola di scarpe.
Penso che
nemmeno ad una come lei, avrei augurato un destino del genere.
Scaccio da me la sensazione che la
coppia mi ha trasmesso, arrivando nel porticato della dimora. Anche la porta
d’ingresso è cambiata diventando di acero bianco, con una ghirlanda di arance
secche e bacche di cannella, in occasione delle festività natalizie. La spingo
con delicatezza e, come mi aspettavo, non è chiusa: la apro d’impeto alla
maniera di una corrente di vento molesta e, proprio per non correre rischi, la
lascio aperta dopo essere entrata. Un elfo domestico, sollecito, corre subito a
chiuderla, incespicando nelle sue stesse scarpe.
Ad accogliermi, è un calore fondo ed
intenso come se in ogni stanza ci fosse un camino acceso al massimo: le donne
che mi sfilano davanti, infatti, sono tutte in abito da sera, scollate e con la
schiena scoperta come se fossimo in giugno. E’ tutto un brillare di oro, seta,
diamanti, smeraldi, rubini e zaffiri, che fanno paio ed eco alle decorazioni
delle pareti, fatte di puro ghiaccio luccicante e che non si scioglie
ovviamente, nonostante la temperatura mite. Gli uomini, eleganti come se
fossimo nella prima classe del Titanic, sono tutti vistosamente alticci e ridono
e scherzano a voce altissima, coprendo persino la voce da usignolo della
soprano che, nel salone sulla mia sinistra, proprio accanto al pianoforte, sta
intonando le note di “Holy Night”.
Tutto è così opulento da fare male
alle orecchie e agli occhi: le decorazioni di ghiaccio, la mobilia di ebano e
cristallo, gli alberi di Natale in ogni stanza, il vischio annodato attorno
alle colonne e al corrimano della scala, senza contare nemmeno la lunga
tavolata ricolma di ogni genere di cibo esistente e possibile.
Non credevo di poterlo dire, ma mi
manca il Manor di prima, quello lugubre, silenzioso e non disgraziatamente
irritante per le cornee.
Del resto, la casa urla Greengrass
da ogni angolo: non ci sono più arazzi recanti la progenie dei Malfoy, né
tantomeno trofei di caccia o artefatti antichi, tipici della lunga tradizione
famigliare. Tutto appare pacchiano e moderno, senza storia, senza passato, solo
sospeso in un godereccio presente. Tutto non è meno che luccicante, lucido,
brillante. L’aria è appestata di una mistura tra profumo di abete, sudore ed
arrosto di maiale.
Come le linee immaginarie che nei
quadri portano al centro della scena, tutto fa convergere l’attenzione verso la
regina della casa, Astoria. Mi avvicino a lei, cautamente, guardandola con
attenzione, dato che la conosco solo di nome e di vista.
Istintivamente, la prima reazione
che ho al suo cospetto è un’inspiegata sensazione di gelo, come se fossi caduta
nell’acqua ghiacciata di un lago. Mi riavvolgo stretta nel mantello, quasi a
ricavarne una sorta di calore. Proseguendo nell’esame, però, concludo subito di
non essermi persa granché: la moglie di Draco è una bella donna sicuramente,
bionda, alta, magra, da un affilato sguardo azzurro. Ma non ha niente di più di
questo, aggiungendoci anche il costoso vestito in broccato viola con ametiste
coordinate in parure.
Pare semplicemente… ornamentale.
Seduta nel salotto come una regina
in trono, ride stupidamente con le sue amiche, portandosi vezzosamente una mano
curatissima sulla bocca, mentre addenta pasticcini alla fragola e panna, che
nemmeno Maria Antonietta nel film della Coppola. Trattiene spesso per un
braccio un ragazzino che, dopo essermi avvicinata, si presenta con la sua
somiglianza con il padre: deve trattarsi naturalmente di Scorpius Malfoy,
versione imbronciata. È lui ovviamente che studio meglio, considerando la cotta
di mia figlia. È un ragazzino grazioso, dal volto ancora efebico e
fanciullesco: ha i capelli biondissimi come quelli del padre, lisci e lucidi
esattamente come i suoi. Gli occhi, invece, non hanno i toni grigi di Malfoy
senior, ma quelli azzurri della madre, qualcosa che ne addolcisce molto lo
sguardo, rendendolo meno affilato di quello del padre. Sembra piuttosto alto
per la sua età, cosa non molto percettibile adesso, visto che è seduto
scompostamente, mentre sbuffa all’indirizzo della madre, sgualcendosi
continuamente il completo di velluto verde bottiglia, cosa che Astoria non
manca di fargli notare nelle pause tra le sue risate stridule.
Quel piccolo moto di fastidio, più
che giustificabile di fronte all’idiozia di quella donna, me lo rende simpatico
oltre misura, facendo onore alle scelte sentimentali di mia figlia Rose.
Come diamine
ha fatto Malfoy a sposarsela, Dio santo…
E’ quel pensiero che, prepotente, mi
riporta alla mente il motivo della mia visita, dopo che le luci e i colori
sembrano avermi annebbiata e offuscata, come una falena ipnotizzata. Esplode in
quel momento la mezzanotte, annunciata da una cascata di petali rossi ed
argento che invadono la casa di odore di rosa ed anice, cosa che riacuisce la
mia nausea. Mi guardo attorno per qualche secondo, ma, mentre scoppiettano
attorno a me abbracci ed auguri, mi rendo conto che Malfoy non è qui, nel
salone, con famiglia ed amici.
Mi allontano bruscamente dalla
stanza, timorosa che qualcuno mi urti, facendomi scivolare via il mantello o
rivelando semplicemente il mio essere corporea ma invisibile, e resto poggiata
allo stipite della porta, osservando tutte quelle manifestazioni di affetto
eccessive e sguaiate. Per un attimo, penso a quelle che mi sto perdendo io, a
casa mia, e mi chiedo ancora che cosa ci faccia qui a spiare la vita e la
presunta felicità altrui. Seguo tutte le linee paonazze di quei volti per un
po’, giocando a riconoscere qualcuno che conosco ed aspettando che Malfoy
compaia a salutare la sua famiglia augurando loro “Buon Natale”, ma i minuti
passano e lui non ricompare, apparentemente senza che nessuno se ne preoccupi.
Il posto
designato è vuoto e noi siamo altrove.
La somiglianza tra me e lui mi
colpisce infida alla bocca dello stomaco, la metto a tacere mentre intercetto
il dialogo tra Scorpius e la madre.
“Mamma, non dovrei andare a chiamare
papà?” chiede il ragazzino speranzoso, ballando sui piedi dalla voglia di
allontanarsi.
Astoria, con un tono severo ma al
contempo stridulo come quello di un’aquila in posizione di combattimento, parte
con un’invettiva contro il marito che, nel caos generale, non sento appieno.
Distinguo solo l’ammonimento a Scorpius di non muoversi da lì e l’imprecazione
contro Malfoy a starsene di sopra a fare l’asociale snob.
E’ di sopra,
quindi.
Di corsa, vogliosa anche io di
fuggire dalla confusione generale e dal timore che qualcuno mi sfiori per
sbaglio, salgo velocemente la scala di marmo, coperta da un lunghissimo tappeto
verde di velluto che attutisce i miei passi. Quando la scala termina e metto il
piede sull’ultimo gradino, i suoni provenienti dal piano inferiore cessano
all’improvviso, facendo cadere la casa nel silenzio più fondo, come se non ci fosse
nessuno a parte me.
Mi volto bruscamente su me stessa,
distinguendo sempre la folla di persone che ballano e festeggiano appena ai
piedi della lunga scalinata, le cui labbra si aprono e chiudono senza produrre
alcun suono. Anche la musica non si sente più.
Un
incantesimo Insonorizzante. Ed anche di quelli potenti.
Il primo piano del Manor sembra
somigliare maggiormente a quello dei miei ricordi. Tappezzeria rosso sangue,
legno scuro di porte, quadri nei corridoi dall’aspetto antico e prezioso con
raffigurazioni di scene di lotta o caccia, senza contare i numerosi ritratti di
progenitori ed antenati defunti. Al posto d’onore, con un mazzo di rose bianche
dall’odore pungente, torreggia il ritratto di Lucius Malfoy nel pieno della
grazia e della gloria: non è un ritratto magico, resta fermo nella stasi del
tempo, come le fiamme del camino alle sue spalle che si riflettono negli occhi
grigi.
Cerco di indovinare dove si possa
nascondere Malfoy e quale possa essere la sua stanza, facendo anche affidamento
sui miei antichi ricordi della mia prigionia qui: in realtà, non trovo nulla di
utile, considerando che nella mia spiacevole permanenza, ero stata gentilmente
parcheggiata nelle segrete per quasi tutto il tempo.
Cammino cauta nel lungo corridoio,
attenta agli scricchiolii sul parquet, accostandomi ad ogni porta per cercare
di captarne qualche rumore all’interno, fino a quando l’ultima porta fa
filtrare ai miei occhi una piccola lama di luce ondeggiante assieme a delle
voci sussurrate ed attutite.
Resto con la mano tesa, quasi con
l’intento di bussare e di annunciare la mia presenza, ma invece rimango
immobile, congelata, ascoltando anche contro la mia volontà. Distinguo infatti
nettamente due voci, la prima è indiscutibilmente quella di Malfoy, profonda, roca, strascicata, come se si
annoiasse anche ad aprire bocca. Mio malgrado, riconoscere la sua voce mi
fa sudare freddo e caldo assieme, aprendo di istinto la dimensione enorme di
quello che vuol dire la mia presenza qui, in casa sua. La seconda voce, invece,
è sottile, lieve, impercettibile, marchiata di dolcezza femminile frammista ad
un tono amaro e sarcastico: è davvero difficile sentirla compiutamente,
attraverso la porta chiusa. Pare solo un sospiro leggero, poco più forte di
quello che serva per respirare, e ne intuisco le parole solo da quello che dice
Malfoy in risposta.
“Avevo pensato che, di comune
accordo, avessimo lasciato le paternali all’infanzia…” sta dicendo adesso
Malfoy, il tono scocciato e slavato, come se non gli appartenesse davvero.
Credo che ci stia mettendo dentro tutte le tracce della noia al rimprovero
subito, ma qualcosa filtra comunque, qualificandosi indubbiamente come una nota
fonda di malinconia e tristezza, così insopprimibili da scappare fuori.
La donna sussurra di nuovo qualcosa,
ma ancora fatico ad intendere che cosa stia dicendo. Le parole stavolta vengono
smorzate da un colpo roco di tosse, così forte da sembrare che la pieghino in
due. Avverto dei rumori nella stanza, come se Malfoy si fosse alzato e fosse
andato a prendere qualcosa, probabilmente un bicchiere d’acqua.
Quando la crisi sembra passata, lo
sento riprendere incolore: “Lo vedi che succede ad eccedere nelle tue cure
materne non richieste? Lasciami campare sereno, madre”.
Madre… certo,
naturalmente… Narcissa Malfoy. Vive ancora con loro, dalle parole di Teddy lo
dovevo intuire. E da quello che ci ha detto lui… non sta bene di salute. Ecco
perché Malfoy è qui… è rimasto con sua madre.
Un groppone di inaudita tenerezza mi
si arena non richiesto in gola, alla maniera di un peso troppo grande che non
riesco a deglutire. D’istinto, mi torna in mente la malattia di mio padre e la
sua morte cinque anni fa, cosa che mi spinge a trattenere le lacrime, già
germogliate sotto le palpebre chiuse. Mentre ricaccio indietro quel ricordo, mi
colpisce lo slancio di empatia che avverto per Malfoy e, sebbene vorrei provare
disagio ad immaginarlo figlio sconvolto dalla malattia della madre ma così
devoto da trascorrere quanto più tempo possibile con lei, stranamente non sento
nulla di inconsueto ad immaginarlo così. So del legame con sua madre, l’ho
sempre saputo. In fondo, Cissy rinnegò Voldemort solo per il bene di suo
figlio. E Malfoy trascorre il tempo alla Tana, anche se aborrisce solo l’idea,
perché sua madre ha chiesto che lui seguisse il matrimonio di Teddy.
L’amore puro e sincero che si
dimostrano, non potrebbe quindi stupirmi.
Mi stupisce solo che, al pensiero
che lui trascorra qui la sua notte di Natale, lontano dal lusso e dallo sfarzo
che sua moglie ha garantito per loro, mi paia tutto inevitabile, come se fossi
certa che Malfoy di fronte all’agonia della madre, non l’avrebbe lasciata sola
un istante. E non so questa certezza da dove arrivi se ho sempre pensato il
peggio possibile di Draco Malfoy.
Sposto il peso del corpo da un piede
all’altro, quasi vergognandomi di me stessa e dei miei pensieri, sebbene siano
i migliori che abbia avuto da anni a questa parte su Malfoy. Un rossore
incomprensibile mi raggiunge le guance al pensiero.
Dentro, intanto, sento un tramestio
di passi e qualche raccomandazione solerte, prima che la porta si apra,
accompagnandosi ad un “Buonanotte” soffocato di Narcissa. Faccio appena in
tempo a scartare di lato appiattendomi contro il muro, che Malfoy esce dalla stanza
con un ultimo sorriso acido all’indirizzo della madre ed un altro motteggio
ironico. Entrambi scompaiono come fumo, non appena si richiude la porta alle
spalle.
E’ vicino, molto vicino, così tanto
che sento distintamente l’odore del costoso dopobarba che deve avere indosso.
Sotto il mantello, non visibile, mi chiudo la bocca con le mani per impedire
che qualche respiro di troppo caschi fuori, facendomi scoprire.
Perché ogni sacro fuoco che mi ha
spinto a venire qui, improvvisamente, si è spento come una candela smorzata dal
vento, solo guardando Malfoy.
Non è mai meno che inappuntabile: il
completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi
fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli
danno un’aria ancora più strafottente del solito. Tutto sicuramente calcolato,
per sembrare al meglio possibile e suscitare le reazioni femminili. Non ne
dubito.
E… insomma, ci riesce. Inutile
negarlo. Può essere uno stronzo di prima categoria, ma resta uno degli uomini
più affascinanti che conosca. Vorrei davvero trovargli un difetto, ma non è
possibile, ho già chiarito mentalmente che è decisamente un bell’uomo.
Stasera, però, non è questa la prima
cosa che noto di lui.
Chiunque, con un pizzico di cuore,
noterebbe di più.
Sebbene esteriormente paia
assolutamente perfetto, ad un’ulteriore occhiata vedo molto di più di quanto
vorrei, qualcosa che mi stringe le viscere come se fossero in una centrifuga.
I suoi occhi, prima di tutto. Non so
perché, ma da quando l’ho rivisto, sono sempre la prima cosa che guardo di lui.
Non saprei dire per quale motivo. Sono occhi di solito affilati, profondi, di
quel colore così particolare che ancora non mi capacito che, a scuola, non
guardassi continuamente. Possibile che a
scuola non avessi mai notato che avesse gli occhi… così?
Oggi, però, sono occhi stanchi,
morti, di vecchio consumato. Sono incolori, circondati da un alone rosso che fa
spiccare il grigio, ma in modo fastidioso quasi, come se non gli appartenesse
davvero.
E più guardo i suoi occhi, sotto il
mantello che mi protegge, e più lo stomaco mi stringe una morsa d’acciaio. Non
riesco a smettere di guardarli con il fiato sospeso, immobile, ipnotizzata come
le vittime del serpente. Le guance paiono più scavate, più magre: l’osso dello
zigomo spicca come un’escrescenza sbagliata. Le labbra sottili sono biancastre,
come quelle di un ammalato.
La giacca ha delle pieghe evidenti,
come se ci avesse dormito dentro, e curiosamente, quando lascia la stanza tutto
sommato flemmatico e pacato, sembra avere persino il fiato corto, come se
avesse corso per ore.
La prima cosa che fa, quando si
chiude la porta alle spalle, è poggiarsi con la schiena contro di essa,
massaggiandosi con l’indice e il pollice lo spazio tra gli occhi. Sembra stanchissimo,
il torace compatto sotto la camicia bianca va su e giù più volte di quante
possa contare. Non piange però, come mi aspetterei, come ricordavo che Malfoy
era solito fare quando eravamo a scuola per ogni più piccola sciocchezza:
metteva su quel broncio ridicolo da moccioso, piagnucolando molesto.
Stavolta, Malfoy non piange per
nulla, sebbene sembri che il dolore lo stia saturando come in un’overdose.
Resta solo lì, immobile, a sfregare le dita contro la fronte, aprendo e
chiudendo ellissi, come a far scivolare l’ansia e la preoccupazione lontane in
un punto dove facciano meno rumore.
Poi, come se non ci riuscisse, si
lascia cadere per terra a peso morto, scomposto, senza minima cura ed
attenzione. Resta a capo chino, la testa tra le mani, sempre con quel respiro
corto, quasi rantolante, le gambe piegate e lievemente divaricate.
Qualcosa, dentro me stessa, non so
dove, si spezza, producendo un rumore che le mie orecchie sembrano persino
udire distintamente. Pare un fragore assordante di vetri, o alternativamente il
soffio lieve di un petalo di fiore che casca al suolo. Ed un secondo dopo, solo
un secondo dopo, sento che non sono più in grado di chiamarlo mentalmente Malfoy.
Come se
questa immagine, questo dolore, fosse incompatibile con tutto quello che di lui
ho sempre pensato e creduto. E che corrispondeva a quel nome, a quel cognome, a
quella liquida seguita da una spirante che tanto mi irritavano le orecchie,
mentre lo ripetevamo nelle aule gremite, nei corridoi vuoti, nelle sale
calorose, dandoci sempre quel tono asprigno come se fosse l’origine di ogni
male. Dentro quel “Malfoy” stava ogni germe di marcio, sordido, sporco,
malevolo.
Nemmeno di
malvagio, che per il male vero e proprio ci vuole uno scatto maggiore di
purezza sorda, cieca. Solo di ipocrita, utilitarista, privo di qualsiasi
slancio di volizione e sentimento che non fosse puro e semplice calcolo e
vantaggio.
Qualcosa che
ho sempre scelto di ignorare, perché non ne valeva la pena.
Ora… non
riesco a smettere di guardarlo, come una bestia esotica in uno zoo.
Non posso
ignorarlo. Mai. E non posso chiamarlo più Malfoy.
Lo ripeto nella mia testa il suo
nome, come se lo conoscessi solo ora, come se quel dolore dipinto sul suo viso
me lo presentasse adesso come una persona nuova.
Draco. Scivolano come biglie lucide e rapide le lettere del
suo nome. Il loro sapore nelle mie labbra pare qualcosa a cui sono assuefatta,
sebbene il suo nome non l’ho mai pronunciato compiutamente neanche a me stessa.
Vibra la sillaba iniziale, facendo sussultare anche me sottopelle, come se
qualcuno mi sussurrasse segreti e sospiri sulla pelle tenera dietro le
orecchie. Draco. Draco. Draco. Lo
ripeto ancora, senza controllo, senza intenzione, la bocca che lo mima persino,
senza emettere un solo suono. La memoria si dimena sconfitta alla ricerca di
un’intimità che non comprendo, che il mio cervello non capisce.
“Hai deciso di farti vedere o devo
iniziare a parlare con la credenza, fingendo che tu non mi ascolti?”.
La voce di Draco mi sorprende come un petardo nella notte, facendomi
sobbalzare. D’istinto faccio un passo indietro e lo guardo da sotto il
mantello, cercando di intuire se stia davvero parlando con me, o se invece
qualcuno non sia spuntato nel corridoio senza che me ne sia accorta.
Ma Draco guarda proprio nella mia
direzione: gli occhi grigi, ancora un po’ rossi sul fondo, saettano a destra e
a sinistra nel punto dove sono io, cercandomi nella magia invisibile del
mantello. Medito di fingere silenzio, di restare al sicuro dentro l’indumento
incantato. Poi con un sospiro lungo e fermo, me lo faccio scivolare di dosso.
Fruscia via come una pelle vecchia.
Mi incasso nelle spalle distogliendo
lo sguardo da lui, piena di imbarazzo: “C-come… ti sei accorto… che… e-ero
q-qui?”. Pigolo come una bambina, rossa in viso come se stessi andando a fuoco.
Mi concentro completamente sul quadro appeso al muro accanto a me,
personificandomi completamente nella donna bionda che, per sempre, sarà sospesa
nel momento di distendere la gamba verso il cielo in un complicato passo di
danza.
“Granger, respiri così rumorosamente
da poterti esibire nell’imitazione di un mantice in piena attività…” borbotta
Draco, la sua voce appare più stanca del solito e vibrata come se la tenesse
con tutte le sue forze ferma, non riuscendoci appieno. Quando mi azzardo a
tornare a guardarlo, sbuffa come disgustato e soggiunge caustico: “E quel tuo
dannato profumo… lo riconoscerei pure ad occhi chiusi, odori come uno
stramaledetto cupcake”.
In tutte quelle parole, Draco non ha
accennato minimamente a sollevarsi in piedi. Resta seduto per terra, scomposto,
i capelli spettinati e gli occhi sbiaditi. Mi sento come se lo stessi spiando
dal buco della serratura, cosa che a conti fatti non è nemmeno così lontana dal
reale. Il rossore del viso aumenta ancora di temperatura, diventando una specie
di fiammata incandescente che si propaga dal mio viso, raggiungendo collo,
spalle e schiena.
Ballando sui piedi che non so tenere
fermi, mormoro rapida presagendo il resto: “Giusto per curiosità preventiva…
hai intenzione di Schiantarmi per
aver messo piede qui, stasera, nel bel mezzo dei festeggiamenti di Natale?”.
Draco in modo imprevisto ridacchia
tra sé e sé in modo tenue e pallido, cosa che mi spinge in modo automatico a
sentire le ginocchia scricchiolare, come se stessi per perdere l’equilibrio. E’
una sorta di riflesso condizionato, quasi incontrollabile. Lo guardo in viso,
mentre distoglie gli occhi, puntandoli su una crepa del parquet ebano.
La segue con le pupille, apparentemente
catturato da essa, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi,
quando oramai mi sono rassegnata a non avere risposta, biascica acido:
“Granger, se avessi voluto Schiantarti, lo avrei fatto dieci minuti fa, quando
ho riconosciuto l’odore di quella mistura alla vaniglia nel corridoio. Non ti
avrei fatto cominciare anche a parlare. Non è che brami l’emicrania che
mi procurano anche solo quattro sillabe pronunciate con la tua voce celestiale…”, sospira esausto, la voce
cascata fuori solo per abitudine “Si chiama masochismo
un comportamento simile… e necessita cure psichiatriche serie”.
“Penso che trarresti comunque
giovamento da delle cure psichiatriche serie” brontolo in risposta, il mio tono
gemello del suo. L’insulto è fiacco, sfibrato, confezionato solo per reggergli
un gioco che, senza accorgermene, ho cominciato a tenergli. Fingere di non vedere i tuoi occhi, grigi e
rossi. Fingere di non sentire la voce, che soffi fuori come se non ti
appartenesse. Fingere di non indovinare il sapore amaro che ti lega i denti,
come una medicina cattiva. Nonostante tutto, cercando conferme nei suoi
occhi, lentamente mi chino e mi siedo nel corridoio accanto a lui. Il suo
sguardo non dice né sì, né no. Sospira e basta quando prendo posto a poca
distanza da lui, osserva le mie scarpe nere di vernice, di nuovo senza vederle
davvero. La mano che tiene poggiata per terra, sulla mattonella scura, pare
bianchissima, sotto la pelle le vene sembrano strade nere nella foresta.
Di un altro,
di un amico, avrei preso quella mano tra le mie.
Di te invece
che si fa, Draco?
Di questo
dolore impossibile che noi figli sappiamo che arriverà, prima o poi?
Perché sei
qui da solo? Al punto da lasciarci me vicino a te? Non ci dovrebbe essere una
moglie, un figlio, un fratello, un amico?
Possibile…
che tu sia così solo?
Da
permettere persino a me di sederti accanto nella notte di Natale?
Quando parla di nuovo, ha la voce un
po’ meno torbida e un po’ più chiara, cosa che lo fa somigliare di più a sé
stesso. Mi guarda in tralice raddrizzando la schiena contro la porta della
camera di sua madre, prima di bofonchiare: “Ed ora che hai sparato la tua
battuta comica dell’anno, gradirei sapere che cosa ci fai qui. A casa mia. Con il Mantello dello Sfregiato
addosso. Se sei venuta a rubare qualcosa per il cenone della tua famiglia,
la mia deliziosa consorte sarà lieta di elargirti le cibarie avanzate…
conoscendo la mia carissima Astoria,
dovrebbe essere rimasto il necessario per la sopravvivenza dell’intero
continente subsahariano per otto mesi”.
Terrorizzata, sgrano gli occhi e
allontano di nuovo lo sguardo da lui, fissandolo sui miei polpacci semipiegati sotto le cosce. Meccanicamente, come mi è stato
insegnato sin da bambina, controllo l’orlo della gonna e lo tiro in basso. La
vista del vestito rosso di velluto, con l’orlo nero e lucido, mi riporta alla
memoria il cenone di Natale che ho lasciato alla Tana: i miei figli, mio
marito, i miei suoceri, i miei cognati.
Quella che, sempre, è stata casa
mia.
Invece ora sono qui, seduta per terra
in un corridoio silenzioso, in una casa dove sono stata torturata da ragazzina,
con un uomo che non è mio amico, che non è nulla per me. Mi salgono agli occhi
piccole lacrime di impotenza, che cancellano dalla mente persino il motivo che,
fino a poco fa, mi animava e che mi aveva fatto correre qui nel cuore della
notte.
Come se non
avessi davvero posto dove andare. E mi adattassi a stare in un posto che, con
me, non c’entra niente solo per convincermi di poter stare da qualche parte.
Quella consapevolezza mi graffia
dentro come le unghie di un animale selvatico. Brucia di sale e fuoco come una
ferita che sanguina, saturando di liquido i polmoni che faticano a respirare.
Mi stringo nelle spalle, la bocca asciutta, incapace di parlare, di dire
qualsiasi cosa. Il silenzio si espande come un veleno atmosferico, tossico e
letale, grattando nella mia faringe.
Fissando il pavimento, riconosco lo
stesso parquet della mia tortura.
Ed, ancora, il respiro mi si blocca,
soffocandomi, costringendomi ad un colpo di tosse più forte per riprendere a
raccattare ossigeno.
“Parla, Granger. Muoviti” Draco mi
incalza, la sua voce ad ogni sillaba recupera il nitore consueto che io invece
vado perdendo. Lo vedo con la coda dell’occhio persino muoversi un po’,
volgersi al mio viso, serrare la mascella e sputare fuori velenoso: “Non sono
nell’umore adatto perché mi affibbi un’altra gentile etichetta. Dopo assassino, vogliamo salire di livello a mostro, serial killer, traditore? Ecco
qua, ho già fatto tutto il tuo nobile lavoro. Vattene a casa prima che mi torni
lo spirito per commentare che sei qui, quando dovresti essere tra i tuoi
straccioni a farvi i santissimi auguri di Natale”.
Gli auguri
di Natale. Le tavole imbandite. Candele rosse e vischio un po’ secco.
Ron che mi
urla di tutto, perché oso difendere la famiglia Malfoy e l’amore virginale di
mia figlia Rose per uno di loro.
Il coraggio torna come una vampata
prima calda e poi fredda, accendendomi il viso e gli occhi. Mi volto verso di
lui che mi guarda sorpreso, gli occhi artigliati su una domanda che non osa
pormi. Ne leggo ogni parola nelle sue iridi, seppure non sappia che cosa
vogliano dire. Stringe d’improvviso le palpebre come vittima di una fitta di
dolore, chiude la mano sulla camicia bianca all’altezza del cuore.
“Ho bisogno di farti una domanda.
Una sola. E poi andrò via, te lo prometto” sussurro rapida, sporgendomi verso
di lui, approfittando del suo silenzio. Le mani, con cui ho fatto leva sul
parquet per issarmi in avanti, sono bollenti contro il pavimento ghiacciato, il
cuore mi assorda con il suo battito.
“Una domanda? Sei qui per una domanda…” constata Draco asciutto
guardandomi di sbieco, nelle sue parole vibra tutta l’idiozia che percepisce
nella mia motivazione. Per un attimo, mi studia persino meglio, gli occhi
socchiusi e sospettosi, come se cercasse altro oltre quella sterile
giustificazione. Probabilmente, ciò che legge nei miei occhi lo convince che si
tratta della verità.
Di nuovo, spasima stanchissimo,
portandosi annoiato una mano tra i capelli: “E cosa ti fa pensare che, ammesso
che voglia risponderti, sarò sincero? Mentirei.
E’ il minimo…”, incassa di nuovo un lungo sospiro tremulo, prima di fissare il
quadro di fronte a lui e ripetere ironico: “Ho una reputazione da difendere.
Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo
della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul
camino… Potter me la deve da tempo…”.
Un deja vù.
La sensazione assolutamente
incomprensibile di aver già vissuto questo momento.
Sebbene sia impossibile.
“Non
credi di sopravvalutarti troppo?” In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è
notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…” mi sento dire con una
parte remota della mia mente.
Gli studiosi lo chiamano “inganno
emotivo”: la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi,
richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà,
quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero
state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé.
“Invece
io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque
non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte…
il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy… nel
multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.
Nonostante gli studi abbiano
condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene
ancora che il Dejà Vù sia una sensazione che viene
provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse
un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che
realmente si sta percorrendo.
“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”.
“Questo
veramente si chiama DNA, Granger…”.
Mi riprendo da quelle stupidaggini
mentali con decisione, tornando alla ragione. Se è vero che io stasera debba
essere qui per un supposto disegno divino, è perché Draco Malfoy sembra sul
serio non avere nessuno. Ed io, in fondo, non sono così stronza da lasciarlo da
solo. La familiarità che provo è un mero riflesso della giustificazione che mi
sto dando per non essere così concreta e pratica da mollarlo al suo
destino.
Una parte del nervosismo che mi
hanno messo quei pensieri soffia dentro le mie parole. Le pronuncio inacidita,
stizzita, convinta sommamente di essere nel giusto. Schiocco la lingua
arrogante prima di dire: “Sarai sincero, Malfoy. Lo so. Non ti avrei ferito
tanto l’altra sera con le mie parole, se non fosse stato così”.
Lui mi guarda con un sorriso
sarcastico, come se avessi appena detto che la terra è quadrata ed interamente
composta da formaggio francese. Soggiunge profondamente scocciato: “Tu non mi
ferisci, Granger. Al massimo mi annoi.
Come stai facendo in questo momento. Avanti, datti una mossa. Che vuoi
sapere?”.
I suoi occhi mi osservano profondi,
non so come facessi a guardarlo a scuola senza la sensazione di una sciabola
puntata alla gola, pronta a squartarti la giugulare. Con quello sguardo, sembra
arrivare fin dentro la mia testa, dentro un punto morbido e delicato che non
conosco nemmeno io.
Una parte di me ne è terrorizzata,
un’altra… pure.
Perché non riesco a smettere di
guardarlo, anche se mi fa sentire così.
Sono
arrivata al punto che mi piace persino essere guardata da un altro uomo che non
sia mio marito? Lo penso
immediatamente con sgomento, negandolo cinque secondi dopo.
Draco Malfoy non mi guarda con alcun
tono di desiderio, attrazione o possesso fisico.
Ci mancherebbe.
Ha piuttosto degli occhi… curiosi. Persino nel rossore di un
pianto che ancora reprime, mi osserva come se inseguisse qualcosa. Sento
distintamente anche adesso lo sguardo che scorre indagatore sulle mie palpebre,
sulle ciglia, sul naso, sulle guance, sulle labbra.
Contrae lo spazio tra le sopracciglia
come se quello che vede non gli dia ancora una risposta.
Vorrei vedermi attraverso i suoi
occhi per capire che cosa sta cercando e cosa non trova.
Presagendo che il silenzio stia
durando fin troppo lasciandomi immobile a fissarlo, torno a guardarmi le mani
che torturo in grembo, l’intimità di quella situazione che mi abbaglia d’un
tratto. Vogliosa di finirla quanto prima, mormoro senza preamboli: “Lo avresti
ucciso sul serio, se avessi potuto?”. Non specifico di chi sto parlando. Lo sa.
Lo deve sapere. Se non capisce che
sto parlando di Silente, è già un’ammissione di colpa.
Vuol dire che stava per uccidere
qualcun altro, forse stavolta riuscendoci.
“Neanche se avessi avuto tutto il
tempo del mondo” la sua voce non tarda nemmeno mezzo secondo di riflessione,
convincendomi più di tutto il resto. Suona stentorea, potente, come se quelle
parole se ne fossero state nel suo petto in attesa di qualcuno che, davvero,
gliela facesse questa domanda. E, chissà perché, sono certa di essere arrivata
per prima.
Una specie di assurda felicità, come
un formicolio sotto la pianta dei piedi, mi colpisce imprevista, portandomi
automaticamente a sorridere. E’ un sorriso strano, antico, quasi dimenticato.
Non ricordavo di averlo nella mia scorta di gesti ed espressioni.
Gli credo subito, senza sforzo.
Senza nemmeno pensarci. Senza nemmeno chiedermi perché.
“Volevi… sapere solo questo, Granger?” mi chiede
autenticamente meravigliato, sorpreso. Non lo guardo ancora in faccia, timorosa
che veda ancora quel sorriso sul mio volto e lo usi a suo favore. Mi rendo
conto che, però, lui lo vede lo stesso, non ha mai smesso di guardarmi un
attimo. Quindi sollevo gli occhi, atteggiandomi ad un viso più quieto: “Sì…”.
Ancora, Draco mi guarda in attesa di
qualcosa. Ha una sorta di delicatezza negli occhi che, addosso a lui, pare
sbagliata. Dopo un po’ di estraniamento, però, mi sembra invece necessaria. Di nuovo, passa qualche
secondo prima che riprenda a parlare, mi si socchiudono gli occhi nel guardarlo
in viso, come se fossi sotto una luce troppo forte. Mi vedo dall’esterno,
seduta per terra con lui accanto, e per la prima volta spero che non arrivi
nessuno a pensare cose strane.
A me sembra tutto naturale e
normale, ma so che non è così che potrebbe sembrare. Continuo a dimenticare che
è la notte di Natale, che entrambi dovremmo essere altrove. Per la prima volta
da ore, mi chiedo se la mia famiglia non mi stia cercando. E prima della
preoccupazione per la loro ansia, giunge il sollievo di sapere che non mi
cercheranno mai qui.
Basta questo cauto sollievo a farmi
distogliere lo sguardo, mentre Draco, con un colpo di tosse, mormora con voce
aspra, come se avesse indovinato i miei pensieri: “Volevi sapere solo… questo… la notte di Natale? Dire che hai
un tempismo ottimo è un eufemismo, Granger… suppongo che le ricorrenze dalle
tue parti siano così patetiche che ad ogni piè sospinto mediti la fuga”.
L’incantesimo soffuso che ci avvolgeva
si rompe improvviso, come se uscissimo dal guscio imberbe di una pelle nuova.
Sento distintamente il moto di bile che mi sale lo stomaco e la sua voce mi
appare più stridula di quanto ricordassi.
Roteo gli occhi ovvia, incrociando
le braccia nervosamente: “Non essere idiota. L’ho fatto… per Rose. Lei… sembra
che si sia affezionata a tuo figlio, a Scorpius…”, esito un attimo prima di
continuare, ma poi per difendermi proseguo senza esitazione: “Oggi, a tavola,
Ron ha cominciato a…”.
“Ad insultare tutta mia progenie,
con gli epiteti più variabili?” completa lui canzonatorio “Mi sento meno in
colpa per aver cambiato tutte le parole di Weasley
è il nostro Re!, per renderla una nenia che
combattesse la stitichezza nel nostro gufo di casa”.
“Malfoy!” erompo scandalizzata,
anche qui sono pienamente consapevole che non ha mentito. Sicuro che esiste sul
serio questa canzone.
“Giusto… ho promesso di essere
sincero. Non mi sentivo in colpa”
pronuncia assertivo, prima di proseguire con tono dolciastro, simulando un
sorriso falso mentre finge di chiudersi un bottone del polsino: “E quindi cosa,
Granger? Volevi… difendermi?”.
Mi viene di nuovo da battere il
piede a terra per il nervosismo che mi procura, ma mi impongo di rispondere
calma e matura: “Voglio difendere i sentimenti di mia figlia. Non i tuoi. E potevo farlo solo… difendendo te e la tua
famiglia. Ma non sono riuscita a farlo perché… in fondo, io stessa ti ho
accusato delle stesse cose qualche giorno fa. E mi dispiace di averlo fatto.
Sarebbe stato giusto parlarne anni fa di questo, invece abbiamo tutti lasciato
che queste cose restassero a marcire sotto la cenere, finendo per far del male
solo ai nostri figli, di riflesso…”, respiro a fondo prima di soggiungere:
“Loro… devono essere liberi da tutto questo…”.
Lui, però, ignora volutamente tutto
il senso del mio discorso, persino le scuse che mi sono costate parecchio in
termini di orgoglio. Si allunga placido come un gatto sazio, incrociando le
braccia con aria rilassata, canzonandomi con voce gongolante: “Ed ora quindi…
ti ergerai come mia paladina verso il tuo marito straccione? Merlino e Morgana,
ho avuto il mio regalo di Natale in anticipo… vorrei avere delle Orecchie
Oblunghe per ascoltare il vostro prossimo delizioso scambio di opinioni”.
Prima dell’inevitabile fastidio di
avergli servito un tale vantaggio su un piatto d’argento, una spina bollente di
sollievo mi accende il basso ventre. Sta
scherzando. La voce è la sua solita voce, strascicata e molesta. Gli occhi
sembrano più chiari.
Per ora,
almeno, non stai ripensando a tua madre.
Forse è
questo il mio regalo di Natale.
“I Grifondoro
sono degli idioti…” bofonchio, poggiando la testa sulle braccia piegate sulle
ginocchia “Troppo altruismo senza corrispettivo”.
“Lo avrai il tuo maledetto
corrispettivo, Granger…” mormora lui, offeso come se lo avessi accusato di non
poter pagare un debito. Si spettina i capelli biondi ad arte, simulando
nonchalance: “Chiedi e ti sarà dato”.
Ci penso su qualche istante, come se
davvero stessi vagliando tra vari premi che mi sono stati offerti. Mi mordo
l’unghia del pollice, non ho granché su cui riflettere in fondo. Mi viene
scontato dire la sola cosa che ho in mente. Quella che, in fondo, è il vero
motivo per cui sono venuta qui stasera.
Torno a guardarlo a conferma della
serietà del mio proposito e delle mie parole. Draco, da qualche parte, lo
capisce perché chiude le labbra già aperte per sibilare un altro colpo di
ironia.
“Non
spezzate il loro cuore…” asserisco convinta, colorando le mie parole di un
tono tra la preghiera e l’ammonimento. Lui sembra capirlo, arriccia le labbra
con ferocia, mentre proseguo: “A Rose… e a Teddy. Ti sto affidando due delle
persone più care che ho al mondo. Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti
difenderò sempre”.
Di nuovo, non si lascia andare a
nessuna rassicurazione. Anzi, questa volta pare persino offeso, volta il viso
altrove e stringe un pugno sul parquet: “Solita Grifondoro
con un tatto nullo per gli affari. Questo…
lo avrei fatto comunque, checché ne pensi tu…”. Mi lancia un’occhiata traversa
che mi fa sentire un’idiota, prima di riprendere casuale: “Però confesso di
essere molto interessato a questa apertura di trattative, Granger. Potrebbe
rivelarsi utile. Quindi, fingiamo che
fossi intenzionato ad infliggere la peggiore sofferenza possibile ad Edward e
alla tua mocciosetta…”, si porta le mani alla base del collo, emettendo dei
versi strozzati di sofferenza: “Umpf, argh, che pena sarà non poter far loro del male. Impazzirò! Necessito di qualcosa di
maggiore sul piatto per essere convinto”.
“Che diamine vuoi ancora?” scoppio
frustrata, sbuffando.
Draco pare enormemente sicuro: “Aggiornamenti, Granger. Sul matrimonio
del secolo, quello che tu tanto approvi
ed appoggi…”, il tono melenso fa ovviamente riferimento alla nostra ultima
conversazione, dove ha compreso che disapprovo tutto di queste nozze.
Figuriamoci se non se lo ricordava. Lo incenerisco con lo sguardo, mentre
prosegue con un’alzata di spalle: “Suppongo che la tua discussione matrimoniale
nella notte più santa dell’anno, ti abbia mostrato abbondantemente quanto sono
poco gradito. E quanto io poco brami ripetere l’esperienza di assideramento sulla terrazza fatiscente dei
tuoi suoceri poveracci. Quindi, magari se mi aggiornassi sulle decisioni
intraprese, potrei evitare di presentarmi ad ogni squallida riunione e
chiedermi costantemente se non sto per essere avvelenato con la Burrobirra o con la semplice inalazione dell’aria fetida
che respirano in quella stamberga, così piccola da far circolare anche l’aria”.
Quando sto già per aprire bocca ed
urlargli di tutto, qualcosa mi colpisce con il lampo immediato dell’intuizione:
quel qualcosa fa rima con un colpo di tosse che proviene dalla stanza di Cissy
Malfoy.
Sta
peggiorando. Non vuoi lasciarla sola. Neanche per una promessa fatta a lei.
L’intensità perdurante del suo
sguardo mi fa capire che ci ho visto giusto.
Non lascio però filtrare nulla della
mia consapevolezza, rispondendogli rassegnata e sfibrata, come una che decide
di fare beneficienza ad un caso umano: “Sei di una simpatia contagiosa, Malfoy,
santo cielo. Comunque… d’accordo, va bene. Ne beneficerà anche il mio sistema
nervoso”.
“Quindi siamo pari”.
“Pari? E che vantaggi avrei da questa
contrattazione, scusa?”.
“Mi vedi di meno, non spezzo i
giovani cuori di Edward e Weasley-figlia, e mettiamoci và,
che ti devo anche un favore…” sciorina ovvio, contando sulle dita, prima di
ripetere: “Chiedi e ti sarà dato”.
“Me lo terrò da parte, Malfoy. La
sensazione di poterti chiedere qualcosa, in qualsiasi momento, è insolitamente
piacevole”.
Mi guarda con un sorriso che non gli
arriva agli occhi, sussurrando malevolo: “Mai fidarsi…”.
“…dei serpenti…” completo,
stupendolo non poco “Lo so, lo so. Me lo hanno detto una volta”.
“Dunque… affare fatto?” conclude,
alzandosi in piedi e porgendomi la mano destra.
Guardo incredula la sua mano, come
se scottasse: “Vuoi anche la stretta di mano? Non ti appesto così?”.
“Mi sento particolarmente
temerario…” mormora annoiato, guardandomi dall’alto in basso “Insolita
combinazione di festività stucchevole, emicrania da moglie vanesia e madre
moribonda: cogli l’occasione”.
Scuotendo il capo per l’assurdità
del quadretto che è capace di dipingere con freddezza, mi sollevo da sola da
terra, puntellandomi sulle mani. Poi, visto che resta ancora di fronte a me con
la mano tesa, la prendo con la mia, la tentazione di fargli una linguaccia da
bambina in risposta alla sua aria strafottente e fastidiosa.
Le sue dita, contro le mie, sono
calde, bollenti, come mai avrei potuto immaginare.
O come ho
sempre saputo?
Faccio in tempo a pensare solo
questo, prima che, risorta come una peste medievale, la nausea scoppi di nuovo
dal punto più profondo del mio petto, salendomi in bocca con un sapore marcio
di segatura. Artiglio la mano di Draco, come se fosse la sola cosa che mi
impedisse di cadere al suolo, distesa. Quando lo guardo, però, lo vedo come me:
piegato in due, una mano contratta sul torace, boccheggiante come se stesse
morendo sul colpo.
Vorrei aiutarlo, vorrei che aiutasse
me, ma non riesco a muovere un passo. Ricadiamo entrambi al suolo in ginocchio,
il tonfo mi raggiunge a malapena le orecchie, mentre mi pare che tutto si
rovesci come se fossimo dentro una casa di bambole.
Ed è lì che, senza preavviso, mentre
mi chiedo se non sto sul serio per morire, che accade.
Lampi. Lampi oro come occhi malati. Bianco. Bianco
tutto attorno, non esiste quel colore, non può esistere. Non è mai esistito.
“Il motivo che cerchi”. Un’altra mano nella mia, tutto tira dalla parte
opposta. La mano no, la mano tiene, trattiene, sostiene. Svanisce, piango, non
te ne andare, non mi lasciare. Sparisce. Scompare. Non è un’altra mano.
Si spezza tutto, mi spezzo io, si spezza il mondo.
Alex. Alexander.
Salta nelle pozzanghere anche quando gli dico di non
farlo.
Ancora oro, occhi con la pupilla stretta come quella
dei gatti.
“…il giunger palma a palma è il bacio dei pii
palmieri…”.
Non lo devo dimenticare.
Dimentico.
Occhi color dell’oro, lui ha superiori a cui far
riferimento.
Tutto esce fuori dalla testa come se fosse, di nuovo,
un sogno.
Resta qualcosa. Solo una cosa.
Lo chiamo ricordo.
Continua
a tenermi per il polso, finché con un strattone mi solleva violentemente dalla
posizione accovacciata in cui ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi
trattiene ancora con il braccio sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di
divincolarmi, adesso, mi sta facendo veramente male.
“Lasciami
Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!” urlo, graffiandogli con le unghie la
mano che mi stringe ancora. Ancora, è come se non mi avesse sentito, mi guarda
cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino della repulsione che dovrebbe avere
per il prolungato contatto fisico con me. I suoi occhi sembrano due pezzi di
granito freddo, sembrano non guardarmi davvero, sono talmente pieni di odio che
mi fanno rabbrividire. Mentirei, se dicessi che ci sono abituata. Non è vero,
Malfoy mi guarda così per la prima volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando
sulla mia pelle, mescolarsi ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto.
Liquidi e chiari come sono sempre stati, i suoi occhi sono gli specchi di
qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa,
sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso
pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di
nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere
lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata
ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla
vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi
ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi
ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare
assolutamente niente.
Torno in me, il corridoio esiste
ancora. Tutto esiste ancora. Anche io. Io esisto ancora.
Ma… anche
l’altra… esisteva.
Anche
l’altra... che ero io. Giovane, poco più di vent’anni. Occhi rossi, spalle
curve, una maglia da calcio addosso, una camera in bianco e nero che non ho mai
visto in vita mia.
Esisteva
lei. Che ero io. Con quel dolore dentro, con quel fardello dentro, con quella
paura dentro.
Di lui,
Draco Malfoy. Più giovane anche lui, bello sempre, arcigno sempre, duro,
scolpito nel ghiaccio come un dio crudele, enorme e gigante nella mia testa.
Esisteva
anche lui.
Non lo guardo, lo sento solo. Anche
lui, piegato in due come me. Lo ignoro, non mi importa.
La pelle del mio viso è bianca,
terrea, sudata di freddo.
Piango, singhiozzo, non ho
controllo.
Dico solo, tremando come una foglia:
“Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.
Ovviamente, come
tantissime altre volte, questo capitolo giunge tardissimo. Naturalmente ci sono
sempre scuse, spiegazioni e giustificazioni, ma questa volta ve le risparmio.
Piuttosto, a scanso di tragedie, d’ora in poi cercherò di impormi sempre una
scadenza per il prossimo capitolo, così da rassicurare voi e da gestirmi meglio
io. Perciò, posso già dirvi che il capitolo 49 arriverà il 23 aprile. Detto questo, se ancora ci siete, io vi devo come
sempre solo che ringraziare. Non smetterò di farlo. Le prime sono sempre le mie
meravigliose, oramai, amiche del gruppo PUT A SPELL ON HER EYES. Ci sarebbe
tanto e troppo da dire, ma in fondo lo sapete. Avete tutte un posto nel mio
cuore. Dalla prima all’ultima. E non sarò mai meno che grata di avervi
conosciuto. Poi, naturalmente ringrazio chi ancora recensisce questa storia,
cosa che mi inorgoglisce parecchio e che meriterebbe delle risposte più
articolate da parte mia. Mi riprometto sempre di farlo, ma puntualmente, forse
anche per vergogna, non lo faccio mai. Ci tengo quindi qui a ringraziare velocemente
fantasy666classics (grazie mille per il bellissimo augurio che mi hai fatto,
spero sul serio di diventare una scrittrice un giorno, anche se ci vuole ancora
moltissima strada da fare), shady_xx (Ilaria, tesoro!
Grazie mille per la tua bellissima recensione, il lieto fine esisterà,
tranquilla, è una cosa che ho sempre promesso. Essere paragonata alla saga di Kysa, mamma mia! E’ una cosa che non mi merito!), _Emme
(cara, mi hai fatto una tenerezza immensa, pensando soprattutto a cosa ancora
ti aspetta dopo il capitolo 37 che allora stavi leggendo! Grazie sul serio dei
tuoi complimenti, sono felice che tu ti sia sentita così coinvolta anche se in
maniera un po’ dolorosa. Andrà tutto bene, alla fine, promesso), sono le ultime
recensioni che ho visto e a cui non avevo risposto, ma vi ringrazio sul serio.
Che altro dire? Naturalmente, come mia abitudine, rinvio il POST SCRIPTUM con
ogni domanda e spiegazione al gruppo facebook, così
da non ammorbare questa pagina. Grazie di tutto, grazie come sempre, e grazie
sempre.