15
“Questo
Cane con tre Teste rappresenta
il passato, il
presente e l'avvenire,
che
contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose.”
[Zachary
Grey]
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
Marian
si voltò per assicurarsi che Biancaneve fosse ancora
dietro di lei.
Udiva
gli zoccoli dei cavalli e gli ordini dei soldati,
quindi sapeva che non erano lontani. Ma il tragitto che stava seguendo
Marian
era intricato, si perdeva nelle profondità della foresta,
dove gli alberi erano
più alti e nodosi, molto più fitti. Il sole sopra
le loro teste era sparito.
Solo foglie, rami spessi, altre foglie.
Biancaneve
era senza fiato, ma continuava a muoversi spedita.
Era abituata a scappare.
Marian
indossava una mantella con il cappuccio e si copriva
il volto con un fazzoletto rosso. Non aveva mai mostrato il suo viso
alla
bandita ricercata dalla Regina Cattiva, da quando l’aveva
aiutata a trovare una
via di fuga. C’era mancato davvero poco che la prendessero.
“Siamo
quasi arrivati.”, annunciò Marian. Le tremavano le
gambe, ma non poteva smettere di correre.
Biancaneve
annuì, cerea.
Poco
dopo, la foresta si aprì davanti a loro e Marian si
fermò.
“Dove
siamo?”, chiese Biancaneve, piegandosi sulle ginocchia.
“Al
sicuro. Questa è la foresta di Sherwood.”
Davanti
a loro, c’era una grande casa che non sembrava più
una casa, ma un rudere. La vegetazione si stava impossessando del tetto
e del
lato sinistro. Sui gradini scalcinati c’era un ragazzo con
una fitta massa di
riccioli scuri che cantava, mentre un bambino magro e cencioso lo
accompagnava
con un tamburello.
“Ogni
città qualche guaio ha, ma qui è là
c’è serenità... ma
non a Nottingham!”
Non
aveva una bella voce e non smise di cantare quando vide
le due donne avvicinarsi.
“Com’è
triste subir questa tirannia e non poter volare via...
dopo tanto pianto, dopo aver sofferto tanto... forse un po’
di gioia tornerà...
ma non a Nottingham!”
Biancaneve
era sicura che la gioia, di quel passo, non
sarebbe mai tornata da nessuna parte, non solo a Nottingham.
Un
uomo alto e con il viso tondo coperto dalla barba rossa,
comparve sulla soglia e scese i gradini, intralciato dal pancione
prominente e
costringendo il ragazzo canterino a spostarsi. L’altro
bambino sparì
all’interno, portandosi dietro il tamburo.
“Milady,
per tutti gli dei esistenti, finalmente! Pensavo che
vi avessero presa!” L’uomo indossava una vecchia
tunica marrone, stretta in
vita da una cintura di corda. Guardò Biancaneve. Anche lei
aveva il volto
coperto e lo scrutò con diffidenza, tesa come la corda del
suo arco nonostante
la stanchezza. “Oh, l’avete trovata! Salve anche a
voi, milady.”
“Ci
è mancato davvero poco.”, ammise Marian.
Appoggiò una
mano sulla spalla di Biancaneve e sorrise, sebbene lei non potesse
vederla
farlo. “Siete al sicuro, qui. Fra’ Tuck
è dei nostri.”
“Salve.”,
bofonchiò Biancaneve. “Non voglio mettervi nei
guai. Non mi fermerò a lungo.”
Fra’
Tuck sorrise, benevolo. “Voi siete la benvenuta qui, milady.
Dispiace a me di non potervi offrire una sistemazione migliore. Questo
è un
posto... che sta in piedi per miracolo, ecco.”
“Andrà
benissimo. Vi sono riconoscente.”
“E
scusate Cantagallo. Si mette a cantare quando sa che sta
arrivando qualcuno. È un avvertimento. Oppure lo fa per
intrattenere gli ospiti
e gli dei ce ne scampino.”
Cantagallo
non disse niente.
“Devo
tornare all’accampamento. Mio marito sarà
preoccupato.”
Marian si sistemò la faretra con le frecce a tracolla.
“Aspettate!”
Biancaneve si tolse il fazzoletto dal viso.
“Mostratemi il vostro volto. Almeno lo ricorderò e
potrò ricambiare il favore,
un giorno. Non eravate obbligata a salvarmi.”
“Non
posso.”, disse Marian, scuotendo il capo. “Mi fido
di
voi, ma non mostro mai il mio volto. E non è necessario che
sappiate chi sono.
Pensate a restare al sicuro.”
Oltretomba.
Oggi
Di
Ade non rimaneva
più nulla.
Nulla,
a parte un
mucchietto di polvere, dal quale sporgevano i resti della Folgore
Olimpica,
ormai ridotta a pochi pezzi di cristallo opaco. L’arma di
Zeus aveva compiuto
il suo dovere ed era perduta.
Zelena
era caduta
all’indietro e sembrava in preda alle convulsioni. Il suo
corpo si contorceva e
gli occhi azzurri erano diventati bianchi, sporgevano dalle orbite
quasi
fossero pronti ad esplodere.
Accecata
dal lampo
esploso quando la Folgore aveva trafitto Ade, Lily barcollò,
cieca, per alcuni
momenti. Udiva delle grida e udiva l’ululato del portale, ma
il mondo pareva
svanito.
Infine,
sua madre la
scosse. Lily batté le palpebre più e
più volte, fino a quando non mise a fuoco
Malefica.
-
Mamma... – disse,
stordita.
Lei
strinse a sé la
figlia e si gettò nel portale.
Fiyero
agì più in
fretta che poté e raccolse Zelena da terra, caricandosela
sulle spalle. Lanciò
un’ultima occhiata all’Oltretomba e poi si
tuffò nel vortice, in procinto di
chiudersi.
Marian
aveva visto
tutto quello che era successo da un punto sopraelevato. Non aveva
voluto
seguire la famiglia di Emma al cimitero, aveva solo chiesto a Mary
Margaret di
dire a Robin che sarebbe andato tutto bene. Avrebbe trovato un modo per
passare
oltre.
Sapeva
cosa la
tratteneva.
E
sapeva anche che
non poteva fare altro, se non aspettare. Presto sarebbe successo
qualcosa.
“La
Regina ha ragione, Robin. Devi prendere tua figlia e
andartene.” Marian
era stata molto
chiara quando gli aveva chiesto di seguirla per potergli parlare a
quattr’occhi.
“Non
posso lasciare questo posto! E gli altri? Potrebbero
avere bisogno di me.”
“E
cosa potresti fare qui? Con una bambina piccola a cui
badare, che cosa potresti fare? Non lo vedi che non puoi fare
niente?”
Se
l’avesse
schiaffeggiato forse gli avrebbe fatto meno male. Ma Robin era
così. Bisognava
schiaffeggiarlo per permettergli di capire.
“Marian...”
“Ascoltami
bene, Robin. Tua figlia dovrebbe venire prima di
qualsiasi altra cosa. E anche Roland. Lui è solo. Ci hai
pensato?”
“Non
è solo. È al sicuro con...”
“Non
me ne importa niente delle maledette fate! Ha bisogno di
un padre. Avrebbe bisogno anche di una madre, ma io non posso andarmene
per
ovvie ragioni. Tu, invece, sì. Puoi portare in salvo la tua
bambina.”
Robin
era rimasto
là, davanti a lei, meditabondo, rimuginando a lungo. Non
sembrava più lo stesso
uomo che aveva sposato un’eternità prima. Il Robin
che aveva di fronte era
disorientato, confuso, amareggiato.
“E
tu? Cosa ne sarà di te?”
“Non
essere in pena per me, Robin.”
“Mi
chiedi un po’ troppo. Voglio essere sicuro che tu
possa...”
“Trovare
la via per il posto migliore? Nessuno può essere
sicuro di questo. Forse la troverò. Dì a Roland
che sto bene. Forse lui non si
ricorda di me, era molto piccolo quando...”
“Lui
ricorda. Te lo assicuro. Non molte cose, ma ricorda.”
La
discussione era
andata avanti a lungo. Marian aveva dovuto alzare la voce, aveva dovuto
ricordargli una promessa che Robin le aveva fatto anni prima.
“Ti
sei dimenticato quello che mi hai promesso quando ero
incinta di Roland ed ero malata? Spero che tu non l’abbia
fatto, Robin. Perché
io me lo ricordo benissimo.”
“Non
l’ho dimenticato.”
Marian
tornò in
città e attese.
“La
Salvatrice ha deciso di rischiare, allora. È passato del
tempo dall’ultima volta che qualcuno ha provato a
passare.”
Emma
pensò che la
voce che stava sentendo fosse la stessa che l’aveva
perseguitata mentre
attraversavano la palude, ma questa era diversa, molto più
alta e profonda, non
era né maschile né femminile.
Gli
occhi di fuoco
dell’enorme mastino la fissavano. La testa a sinistra
sembrava tenere d’occhio
Regina.
“Combatti
contro di me, Salvatrice. Solo tu ed io.”
Era
Cerbero a
parlarle. Una coscienza oscura e schiacciante le mandava messaggi,
mentre le
fauci sbavavano e le gole ringhiavano.
Emma
si guardò
intorno. Non c’erano armi. Sulla piattaforma c’era
solo il tronco monco
dell’albero dell’ambrosia, quella polvere marrone e
le pietre disposte a
spirale. Niente che potesse fare del male a Cerbero, che
avanzò ancora di un passo,
gettando la sua grande ombra su di loro.
E
con lui avanzò
l’odore.
Il
suo fiato era
terrificante. Pestilenziale. Come se dentro di lui fosse già
tutto corrotto e
decomposto.
Regina
si coprì
istintivamente il naso e la bocca.
“Cerchi
un’arma? Lascia che te ne dia una. È giusto. Un
combattimento alla pari.”
Immediatamente,
Emma
si accorse di stringere una spada nella mano destra.
-
Emma, non lo
fare... – disse Regina, guardando la lunga lama appena
ricurva.
“Deve
farlo, se vuole passare. Lo fece Orfeo. Ci provarono
molti altri. Ora tocca a lei. A meno che tu non abbia troppa paura di
me...”
-
Taci, cagnaccio
rognoso...
“Cara
Regina... mi ricordi mia sorella, Idra, quando mi
chiami cagnaccio. Avresti dovuto conoscerla per capire da quale pulpito
veniva
la predica... lei di teste ne ha nove.”
Cerbero
rise e la
sua risata era rumorosa come lo scoppio di una serie di petardi.
Poi
tacque di colpo.
La sua attenzione era tutta per Emma.
“Lascia
che ti dica una cosa, Salvatrice. Se mi sconfiggerai,
potrai passare. Se perderai... finirai dritta nel Tartaro. Niente posti
migliori per te. E ti porterai dietro anche la tua amante. Se perdi...
non c’è salvezza
né per te né per lei.”
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Muoviti!”, ordinò il soldato, dandole
una
spinta e costringendola ad accelerare il passo.
Era
molto difficile camminare dato che aveva la
testa infilata in un cappuccio e i polsi legati, ma a loro non
importava. Se
cadeva, l’afferravano per il mantello o per i capelli e la
minacciavano. Se
inciampava, ridacchiavano. Uno dei tre uomini la pungolava con la
spada.
Camminavano
da ore, ormai.
“Che
stai facendo?”, domandò una voce alla sua
sinistra.
“Le
sto dando da bere. La Regina vorrà
interrogarla. Se arriva svenuta dovrà aspettare e sai che a
lei non piace
aspettare, quando si tratta di interrogare prigionieri che potrebbero
sapere
qualcosa di Biancaneve.”
“Non
sprecare la tua acqua per una stracciona.”
“C’è
un fiume qui vicino. Possiamo fermarci per
qualche minuto e riempire di nuovo le borracce. Non lo senti?”
“Sinceramente
no.”
“Apri
bene le orecchie, allora.”
Una
mano le tolse il cappuccio. Marian sbatté
le palpebre, cercando di riabituarsi alla luce del sole. Erano ancora
nella
foresta, ma ben lontani da Nottingham. Il terreno era sassoso. La luce
filtrava
tra i rami bassi degli alberi.
Il
soldato alla sua destra si avvicinò con la
borraccia. Era giovane e di bell’aspetto, con la barba e i
capelli castani. Il
suo viso non era brutale e i suoi occhi sembravano stanchi, tormentati.
Le
mostrò la borraccia e le versò alcuni sorsi
d’acqua
in bocca.
“Grazie...”,
mormorò Marian.
Lui
si limitò ad un cenno del capo.
L’avevano
presa a meno di una lega dal punto in
cui era accampato Robin con i suoi compagni. Sulle prime aveva creduto
che
fossero uomini dello Sceriffo di Nottingham, ma era bastata
un’occhiata alle
armature per capire che era finita in un guaio ben più
grosso dello Sceriffo.
L’unica fortuna era che non aveva niente addosso che la
collegasse a Robin né
tantomeno al rifugio di Fra’ Tuck.
‘Mi
dispiace, Robin’, pensò.
I
soldati si fermarono a riposare vicino al
fiume, dove l’uomo che le aveva dato da bere
riempì nuovamente la borraccia e
poi si sedette accanto a lei.
Le
avevano rimesso il cappuccio quindi quando
il giovane parlò, Marian sobbalzò leggermente.
“Vorrei
davvero aiutarvi, milady.” La voce era
calda e gentile. Profumava di foresta, lo stesso odore di chi aveva
trascorso
la propria vita nei boschi. “Ma non posso. Non posso
farlo.”
Oltretomba. Oggi.
La
testa centrale di Cerbero scattò in avanti e le fauci si
aprirono per
ghermirla.
Emma
si spostò più rapidamente che poté,
ignorando l’orribile tanfo emanato dalla
gola dell’essere. Mulinò la spada e
aprì uno squarcio in una delle grosse zampe
del mastino. Tuttavia, lui non sembrò rendersi conto del
colpo che gli era
stato inferto. Si gettò nuovamente su di lei. Gli artigli
l’acciuffarono per un
istante e aprirono uno strappo nel tessuto della giacca rossa.
Udì
il
grido di Regina, ma non riuscì a vederla, perché
il corpo di Cerbero le copriva
la visuale.
La
spada che le aveva dato il mastino era terribilmente pesante. La lama
era lunga
e l’elsa molto robusta, con una grossa gemma bianca
incastonata nel pomolo.
“È
la spada di Sigfrido. Si chiama Gramr. Non
trovi che sia stato molto generoso? Ti ho dato la spada di un
eroe.”
Emma
girò, guardinga, intorno a Cerbero, impugnandola con
entrambe le mani.
“Oh,
sì. È pesante. Ma è pur sempre
un’arma.”
Cerbero
se la ghignava. Emma lo attaccò, mirando al fianco, ma
riuscì solo a
graffiarlo. Il suo sangue era nero, proprio come la sua pelliccia. Non
appena
toccò il terreno, iniziò a fumare e un odore
ancor più nauseabondo del suo
fiato si diffuse sulla piattaforma.
“Una
volta hai ucciso un drago. Così mi hanno
detto. So che era più grosso di me.”
Cerbero
si gettò su di lei con tutto il suo peso e mancò
poco che finisse schiacciata.
Quando il mastino atterrò pesantemente, sollevando pietre e
polvere, la
piattaforma tremò sotto le enormi zampe. Emma
barcollò e cadde. Rotolò subito
via e si rimise in piedi. Approfittò di un momento in cui il
mastino era molto
instabile per affondare la spada nel collo della testa più
vicina.
La
testa destra emise un lungo latrato e andò a sbattere contro
la testa centrale,
nel tentativo di scrollarsi l’arma di dosso. Emma venne
catapultata contro ciò
che restava dell’albero dell’ambrosia e perse la
spada.
-
Emma!
Un
getto di sangue nero piovve a pochi passi da Regina, che ne
avvertì il calore
bruciante ed indietreggiò. La testa colpita si
voltò nella sua direzione,
mentre le altre due ringhiavano contro Emma.
Regina
non poté fare a meno di fissare quegli occhi di brace.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Siamo davvero desolati, Vostra Maestà.”
Marian
cadde in ginocchio e uno dei soldati le
tolse il cappuccio. Il sole l’abbagliò per qualche
istante. Una sagoma nera si
stagliò sopra di lei.
“Credevamo
fosse Biancaneve. Il mantello è
identico a quello che portava la bandita.” La voce del
soldato era la stessa di
chi si aspettava una terribile punizione per non aver portato a termine
qualche
compito importante.
L’uomo
gentile che le aveva dato da bere e le
aveva parlato era in ginocchio, come gli altri.
“Lo
vedo.”, rispose la Regina, stringendo il
manico di una frusta nella mano destra.
Maria
sollevò la testa, anche se sapeva che non
avrebbe dovuto.
Vide
gli stivali lucidi, i pantaloni in pelle
nera, un’elegante soprabito rosso con le maniche lunghe,
chiuso da tre grossi
fermagli intarsiati, la generosa scollatura, il volto ombreggiato dalla
tesa
larga del cappello.
Le
labbra piene si piegarono in un sorriso, ma
gli occhi seguitavano a fissarla con una furia indicibile.
L’aveva
sempre vista da lontano. Aveva udito
numerose storie di sangue e morte. Decine di villaggi bruciati dalla
sua sete
di vendetta. Vederla da vicino era una faccenda ben diversa.
Era
bellissima e terribile. Una bellezza
oscura, da predatrice costantemente affamata, desiderosa di distruggere
e
piegare. Le parve che tutte le tenebre del mondo si stessero addensando
intorno
a lei.
Marian
si rifiutò di abbassare lo sguardo.
“Avete
la possibilità di sopravvivere. Può
finire tutto adesso, se mi dite dove si nasconde Biancaneve.”
Lei
non parlò.
“Potrei
costringervi. Lo sapete bene.”
“Il
mio cuore è protetto. Non potete
prenderlo.”
Regina
ci provò comunque, allungando una mano
ad artiglio per affondarla nel suo petto. Si scontrò con una
barriera magica
che le spedì una fitta lancinante su per il braccio.
“State
bene, Maestà?”, domandò subito un
soldato, accorrendo per aiutarla.
“Certo,
idiota. Dove avete trovato questa
stracciona?”
“Non
lontano dal villaggio di Nottigham.”
“Cacciatore...
andate laggiù e setacciate ogni
casa. Io mi prenderò questa prigioniera e... tutto sommato
penso che la userò
per aprire qualche bocca. Scommetto che c’è molta
gente che protegge
Biancaneve. Se vedranno cosa potrebbe capitare a chi la nasconde...
forse
parleranno.” Regina menò un colpo di frusta,
colpendola in faccia. Marian
lanciò un grido.
Il
Cacciatore strinse le labbra e fu costretto
ad obbedire.
Oltretomba. Oggi.
Emma
voltò lentamente la testa. Attraverso una cortina di sangue,
scrutò
l’avversario e vide l’enorme zampa piombare su di
lei e i lunghi artigli in
cerca della carne da lacerare.
Rotolò
sulle pietre e, nonostante il dolore, raggiunse la spada e strinse
l’elsa.
Sferrò un manrovescio furibondo e il mastino
incassò appena sotto la testa
centrale. Cerbero arretrò, digrignando tutti i denti.
Allora
Emma si accorse che solo due teste erano concentrate su di lei. La
terza
guardava Regina, che sembrava in trance, con gli occhi sbarrati e le
braccia
mollemente abbandonate lungo i fianchi.
-
Regina!
Si
rese conto anche di un’altra cosa. La testa al centro portava
un grosso collare
di ferro, nel quale era incastonata una gemma e...
Solo
che non era una gemma. Era un pezzo di ambrosia.
L’unico
pezzo di ambrosia rimasto.
Le
fauci di Cerbero si aprirono ed Emma fu costretta a farsi da parte. La
zampa la
colpì alla schiena, scaraventandolo contro il tronco monco
dell’albero.
Tuttavia si rialzò subito e si spostò velocemente
verso la terza testa. Sentiva
le orecchie sibilare e aveva la bocca piena di sangue.
“Dove
corri, Salvatrice?”
Emma
lo ignorò e si avventò sulla testa che aveva
preso di mira Regina.
Foresta
Incantata. Più di trent’anni fa.
“Hai ancora una possibilità.
L’ultima.”, disse
la Regina, camminando avanti e indietro, lentamente, dinanzi al
patibolo. “Non
do molte possibilità ai prigionieri. Dovresti coglierla al
volo. Soprattutto se
hai una famiglia.”
Marian
guardava fisso oltre la testa della
donna che l’aveva condannata a morte. Guardava la folla
assiepata dietro ai
soldati neri. C’era più gente del giorno prima,
quando la Regina l’aveva
sbeffeggiata e aveva minacciato gli abitanti di un intero villaggio.
Aveva
mostrato la propria prigioniera con i vestiti impolverati, che
strizzava gli
occhi abbagliata dalla luce, annaspava e implorava aiuto. La
prigioniera che
non aveva abbassato la testa e aveva osato rivolgere la parola ad una
sovrana,
chiamandola mostro.
“E
sono sicura che tu ce l’hai. A giudicare da
quello che mi hai detto ieri...”
Marian
continuò a non aprire bocca. Però
spostò
lo sguardo su Regina. Poi fissò i soldati, cercando il
giovane gentile che le
aveva dato da bere e le aveva parlato. Avevano tutti le facce coperte
dalle
celate degli elmi, eppure pensava che lui non ci fosse. Nessuno aveva
la
faretra e l’arco. Erano per lo più armati di spade
e lance. Il giovane, a parte
le frecce, aveva un pugnale infilato nella cintura.
“Come
vuoi.”, concluse Regina.
Uno
dei soldati alla sua sinistra salì sul
palco improvvisato e lo strattonò perché
indietreggiasse fino a toccare il palo
di legno con la schiena. La costrinse a sollevare in alto le braccia e
legò i
polsi sopra la sua testa.
“Questo
è ciò che accade a chi nasconde
Biancaneve. Accadrà a tutti voi se verrò a sapere
che proteggete la bandita.”
Con
la coda dell’occhio, Marian vide l’uomo che
l’aveva legata prendere una torcia spenta. La immerse nel
bacile dove
scoppiettava il fuoco. Le fiamme attecchirono e la torcia si accese,
guizzando.
“Ultime
parole?”, domandò Regina, piegando le
labbra carnose in un sorriso di puro scherno.
‘Mi
dispiace’
Non
le disse a voce alta. Rivolse gli occhi al
cielo. Era azzurro, uno stormo di uccelli girava in circolo sopra le
fronde
degli alberi. Ci mise qualche istante a capire che erano corvi. Non
avrebbero
avuto niente perché il suo corpo sarebbe bruciato. Un
mucchietto di cenere.
Ecco cos’avrebbero trovato.
‘Mi
dispiace’
Era
per Robin, suo marito. E per Roland. Almeno
loro erano salvi. Nessuno l’aveva ricollegata al ladro che
rubava ai ricchi per
dare ai poveri. Né tantomeno a Fra’ Tuck.
Il
soldato accostò la torcia ai fasci di legna
ai suoi piedi. Marian avvertì l’odore acre del
fumo e il calore intenso del
fuoco.
La
legna scricchiolò e le fiamme si levarono,
abbrancando subito il vestito polveroso che indossava.
Alle
spalle della Regina, un bambino nascose il
viso nella gonna della madre.
Oltretomba. Oggi.
Emma
conficcò la lama della spada alla base del possente collo.
La
terza testa ululò di dolore e scattò
all’indietro per sottrarsi.
Regina
sussultò e cadde all’indietro, sollevando
mulinelli di polvere e riemergendo da
una visione in cui c’era solo fuoco e morte, odore di fumo e
carne bruciata.
Rientrò in sé stessa, dopo essere stata, per
poco, la stessa donna che aveva
condannato a morte Marian, tanti anni prima. Per qualche istante,
trafitta
dagli occhi di Cerbero, era stata la Regina Cattiva, la sovrana
spietata, piena
di rabbia, soffocata dalla sete di vendetta. Aveva sentito chiaramente
quell’antico dolore, quella furia cieca. Ne era sgomenta, ma
non era riuscita a
sottrarsi, in balia del potere di Cerbero.
Emma
gridò, mentre il mastino la trascinava lontano da Regina. Le
mani rimasero
saldamente ancorate all’elsa della spada e lei si
sentì sollevare in alto. La
lama era penetrata a fondo nella carne. I ruggiti di Cerbero le
urtarono i
timpani, conficcandosi nel suo cervello. La testa centrale
urtò quella ferita
ed Emma rischiò di perdere la presa, ma si
rifiutò di cedere. Strinse i denti e
poi piantò il piede nella carne di Cerbero. Si
issò sul dorso poderoso del
mastino e si aggrappò al pesante collare agganciato al collo
della testa
centrale.
Il
mastino
barcollò all’indietro, sradicò una
radice dell’albero dell’ambrosia e ruggì
di
nuovo.
Poi
una scheggia dolore le trapassò la testa. Toccò a
lei urlare, mentre scivolava
giù, inesorabilmente. Avvertì chiaramente gli
occhi di brace di Cerbero frugarle
nella mente, brucianti e feroci. Il dolore si diffuse in tutto il
corpo.
Emma
cadde sulle dure pietre.
“La
Salvatrice pensava che fosse così facile.”,
disse
Cerbero. La spada era ancora conficcata
in profondità, ma la voce che le parlava non tremava neppure.
Emma
era incapace di alzarsi. Aveva la vista offuscata. La testa le doleva
troppo e
le sembrava che le braccia fossero pesanti come macigni. Regina
urlò.
“Mi
dispiace. Non sei Orfeo.”
Cerbero
sollevò l’enorme zampa e sfoderò gli
artigli.
Avrebbe
potuto chiudere gli occhi, ma non lo fece. Sapeva che se fosse stata
sconfitta
sarebbe finita nel Tartaro e con lei anche Regina. Aveva perso. Avrebbe
guardato la sconfitta piombarle addosso. Avrebbero voluto chiedere
perdono ad
Henry. Chiedere perdono ai suoi genitori. Chiedere perdono anche a
Regina. Ma
non aveva tempo per quello.
Quando
la zampa calò su di lei pronta a dilaniarla, Emma
udì un sibilo e un fascio di
luce rossa esplose dal medaglione che portava intorno al collo.
Emma
ne rimane momentaneamente accecata. Sollevò lentamente un
braccio per
schermarsi gli occhi.
Cerbero
emise un triplice ululato di dolore e sobbalzò
all’indietro. Sangue nero spillò
dal petto del mastino. La spada di Sigfrido conficcata in uno dei colli
cadde.
-
Emma! – Regina la raggiunse e si inginocchiò
vicino a lei, aiutandola a tirarsi
su.
Emma
appoggiò la testa contro il suo petto e Regina la strinse a
sé. Si portò una
mano al ciondolo, quello che Marian le aveva dato prima che scendessero
nelle
profondità dell’Averno e che era appartenuto a
Murphy, il ciondolo che lo aveva
aiutato a mantenere la forma umana quando ancora viveva nella Foresta
Incantata. Lo aveva completamente dimenticato.
La
pietra al centro della fiamma era diventata nera. Era come un pezzo di
roccia
senza più alcun potere.
Cerbero
precipitò su un fianco, emettendo un ultimo ringhio. Nuvole
di polvere si
levarono quando il corpo si schiantò sulla piattaforma.
-
L’ambrosia...
– mormorò Emma. – Nel collare...
Regina
non perse tempo e andò a prendere la spada. Era pesantissima
e dovette reggerla
con due mani.
La
testa centrale del mastino si mosse appena quando Regina si
avvicinò. Le altre
due teste avevano gli occhi chiusi e le lingue penzoloni. Fili di bava
fumante
sgocciolavano sull’erba.
Vide
le iridi di brace che la seguivano, ma non ci fu alcun tentativo di
fermarla.
Regina
levò la spada e calò la lama sulla pietra al
centro del collare.
L’urto
fu violento e la catapultò in avanti, quasi addosso al
cagnaccio puzzolente, ma
il sigillo si ruppe in mille pezzi. La lama della spada, esaurito il
suo
compito, si sgretolò, diventando polvere bianca.
Regina
gettò via l’elsa.
L’ambrosia,
ciò che ne rimaneva, era dello stesso colore del miele.
Piccoli spicchi duri al
tatto, ruvidi, l’unica cosa che poteva salvare Emma e
riportarla indietro.
Regina
tornò dalla madre di suo figlio con l’ambrosia nel
pugno. Temette che avesse
perso i sensi e la scosse un po’. – Coraggio,
Emma... apri gli occhi.
Lei
sollevò le palpebre, guardandola confusamente.
Regina
la costrinse a schiudere le labbra e poi le mise un pezzo di ambrosia
sulla
lingua. – Non fare l’idiota proprio adesso e
mandala giù!
-
Ti
amo. – disse Emma, con un filo di voce.
Poi
inghiottì l’ambrosia.
Marian
era rimasta seduta ad uno dei tavoli del Granny’s, osservando
l’aria rossa
dell’Oltretomba dalla finestra. Le strade erano deserte.
Non
aveva idea di quanto tempo fosse passato. Ma il sole era tramontato,
era calata
la notte di porpora e poi era giunto un nuovo giorno.
Nulla
sembrava cambiato anche se Ade era morto.
Una
delle cameriere rimaste al Granny’s dopo la scomparsa della
Strega Cieca decise
che era il momento di un po’ di musica e si
azzardò ad accendere la radio.
Proprio mentre premeva il pulsante di accensione, la porta del locale
si
spalancò con un colpo secco.
Marian
si voltò di scatto, con una mano che già stava
muovendosi verso le frecce nella
faretra.
Una
luce bianca e potente vinse l’aria rossastra del regno di
Ade. Illuminò le
finestre e penetrò nel Granny’s , diffondendo
sbuffi di nebbia bianca sulle
piastrelle.
-
Che
cosa succede? – chiese la ragazza dietro al bancone,
indietreggiando. Un paio
di avventori la imitarono, pronti a scappare dal retro. – Che
cos’è?
Marian
non avvertiva nessun pericolo. Anzi, le sembrava bellissimo. Le parve
di udire
una voce che la chiamava, che la invitava ad entrare nella luce.
-
È...
per me. – disse lei, avanzando. Abbandonò
l’arco sul tavolo e la faretra sulla
poltroncina. – È il mio posto.
- Dove...?
– cominciò Zelena, sbarrando gli occhi.
Aveva
mal di testa, la gola secca e l’impressione di aver
dimenticato mille sogni,
mille avvenimenti importanti.
Ma
ne
ricordava uno, distintamente. La morte di Ade. La Folgore Olimpica che
trapassava il suo petto. La sensazione che il mondo si stesse
sfracellando in
mille pezzi.
Poi
si
guardò intorno, ancora intorpidita. Non era più
nell’Oltretomba.
Era
seduta in mezzo ad un corridoio bianco. Un corridoio che sembrava non
avere
inizio né fine, perché entrambe le cose si
perdevano nella nebbia. Era
fiancheggiato da due file di colonne di marmo, colonne possenti, la cui
sommità
era invisibile per via del biancore che occupava ogni cosa.
Era
sola. Dov’era la sua bambina?
Una
piuma di pavone svolazzò sopra la sua testa e si
posò sul
pavimento liscio e lucido come uno specchio.
Una
piuma di pavone?
-
Finalmente. – disse una voce femminile alle sue spalle.
Zelena
evocò la propria magia per scagliarla contro Era, ma il
potere non le venne in
aiuto.
La
moglie di Zeus rise di gusto. – Niente magia, Signora degli
Inferi. Non qui. In
casa mia.
In
casa mia.
Signora
degli Inferi.
-
L’Olimpo?
-
Beh,
non proprio. Questa è l’anticamera
dell’Olimpo.
-
Ti
distruggerò... dov’è mia figlia?!
– gridò Zelena. La voce riecheggiò
lungo il
corridoio, si frammentò e tornò indietro come un
boomerang, sibilando tra le colonne.
-
Ma
sì, è solo la Signora dei Cieli quella che vuoi
distruggere. – Era si avvolse
meglio nel lungo mantello decorato da un’infinità
di piume di pavone. Ne aveva
una, rossa, anche tra i capelli corvini. – E la tua bambina
sta bene. Ma se
continuerà a stare bene... beh, questo dipende da te. Quindi
ti conviene aprire
le orecchie, Signora degli Inferi.
-
Io
non sono la Signora...
-
Invece sì. – Era la costrinse a terra quando
cercò di alzarsi. Le afferrò la
mascella, imponendole di guardarla. – Hai ucciso Ade con
un’arma divina mentre
si trovava ancora nel suo regno. Quando mi hai contattata tramite il
Flegetonte
ti avevo chiesto di aspettare. Di lasciare che abbandonasse gli Inferi.
Ci
avrei pensato io, ma tu non mi hai dato retta. A proposito, mio marito
voleva
ringraziarti. Ha di nuovo la sua Folgore.
-
Non
tornerò negli Inferi. – sentenziò
Zelena.
-
No.
Ti darò un vantaggio. Puoi passare i primi sei mesi nel
mondo dei vivi. Ma il
giorno del Solstizio d’Inverno ti presenterai a Caronte e
tornerai negli
Inferi. – Era parlava come se si fosse trattato di normale
amministrazione. – E
negli Inferi resterai per i sei mesi successivi. Perché
quello è il tuo regno
adesso. Poi potrai tornare a Storybrooke. O ad Oz. Non so, dove
preferisci. E
così via, fino a quando qualcun altro non
prenderà il tuo posto. Dubito accada
presto, in ogni caso. Solo le armi divine possono ucciderti.
-
Sono... sono immortale?
Era
fece spallucce e le girò intorno. – Tragico. Lo so.
Zelena
era talmente sconvolta che non sarebbe riuscita a rialzarsi nemmeno se
Era
glielo avesse permesso. – Non puoi... non lo farò.
Perché dovrei accettare? Non
sarò la regina di un branco di anime incapaci di gestire i
propri conti in
sospeso!
-
Invece lo farai. A meno che tu non voglia che io prenda tua figlia.
Zelena
allungò una mano ad artiglio verso la Dea, che la respinse.
-
Prenderò
tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più.
– La sua voce era calma e
crudele, le parole erano gelide, le scandiva come se stesse parlando
con una
ritardata. - Dopodiché... maledirò il figlio di
tua sorella. Maledirò la
Salvatrice e i suoi genitori. Li perseguiterò. Fino a quando
di loro non
rimarrà più niente. Rimarrai solo tu... e Regina.
La Strega Perfida e la Regina
Cattiva, perché questo sarete quando avrete perso tutto. Vi
farete a pezzi a
vicenda.
Zelena,
in cuor suo, maledisse Ade. Alla fine era riuscito a rovinarla.
-
Sono
felice che tu ci stia riflettendo su. Ti conviene. Tra sei mesi Caronte
ti
aspetterà e le porte degli Inferi si apriranno per te.
– concluse Era. – Puoi
aver spezzato una maledizione e cancellato il mio marchio, ma questo...
questo
va ben al di là di qualsiasi maledizione. Questo
è molto più antico di
qualsiasi incantesimo tu conosca. Il vero amore non può
più aiutarti. Niente,
se non la morte, potrà liberarti.
Prenderò
tua figlia, se rifiuterai. Non la
rivedrai mai più.
Era
si
incamminò lungo il corridoio, voltandole definitivamente le
spalle. – Lunga
vita alla regina!