14
“Tu
hai fatto molto bene ciò che dovevi,
Atreyu. Sono molto soddisfatta di te”
“No!” gridò Atreyu, quasi con furia.
“È stato
tutto inutile. Non c’è salvezza.”
[…]
Poi udì la voce che diceva: “Ma tu l’hai
portato.”
Atreyu alzò la testa. “Chi?”
“Il nostro Salvatore.”
[Michael
Ende, La Storia Infinita]
- Dove
siamo? – domandò Regina, una volta oltrepassata la
porta.
Una
luce crepuscolare, di un grigiore di piombo, colmava il luogo che si
era aperto
davanti a loro.
Era
una palude.
Qua
e
là c’erano mucchietti contorti di cespugli e
alberi i cui tronchi marci si
diramavano verso il basso in tante gambe storte, cosa che li rendeva
simili a
grossi granchi addormentati nell’acqua nera e melmosa. Era
difficile capire in
quali punti il terreno fosse solido e dove invece non era che una
superficie
acquosa coperta da una patina verde o da piante acquatiche. Coltri di
nebbia
navigavano tra gli alberi e dai rami pendevano liane simili ai
tentacoli di
qualche belva mimetizzata al fogliame.
Non
c’è salvezza.
Emma
batté le palpebre e si guardò alle spalle. Non
c’era nessuno. Non c’era più
nemmeno la porta attraverso la quale erano appena passate.
“Amor
Verus
Numquam Moritur.”
-
Hai
sentito? – domandò a Regina.
-
No.
Cosa?
Non
c’è salvezza.
Era
una voce. Una voce fantasma che fluttuava nell’aria. Era
fastidiosa e la
metteva a disagio, come se stesse cercando di penetrare ogni sua
difesa. Ma lo
faceva lentamente.
-
Sbrighiamoci.
– disse Emma. Allungò una mano, cercando quella di
Regina.
Lei
la
prese e intrecciò le dita alle sue.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
“Mia madre è cattiva.”
Archie
Hopper aveva avuto modo di confrontarsi
con una vasta gamma di pazienti in quanto psichiatra. Storybrooke era
una città
piccola, ma i problemi non mancavano. Ragazzi anche più
piccoli di Henry che
cercavano di giustificare comportamenti sbagliati con scuse assurde e
bugie nelle
quali nemmeno loro credevano. Adulti soli, intrappolati in qualche
dipendenza.
Ma
una partenza come quella non gli era mai capitata.
Erano alla terza seduta. Fino a quel momento, il figlio del sindaco non
aveva
mai espresso una simile emozione. Sembrava avercela con la madre
adottiva per
qualche motivo che Archie non era ancora riuscito ad afferrare.
Si
tolse gli occhiali, recuperò uno straccetto
dalla tasca della giacca e ripulì le lenti con cura.
‘Vede,
signor Hopper, io sono una madre. Faccio
del mio meglio con Henry. Ma sono preoccupata. Molto.’
Archie
non dubitava che Regina Mills lo fosse.
“Perché dici questo? Lei ha... forse detto
qualcosa che ti ha turbato?”
“Non
è per quello che dice.”
“No?”
“È
semplicemente quello che è.”
Semplicemente
quello che era. Regina Mills era
il sindaco. Era una donna complicata; tutta la città lo
sapeva. Metteva in
soggezione chiunque. Perché aveva potere. Avere quegli occhi
che potevano
nascondere qualsiasi cosa. Anche delle cose terribili. Aveva le mani su
tutto.
Una vera sovrana che dominava da sempre. Non riusciva a ricordare bene
il
giorno in cui era diventata sindaco...
Archie
aveva pensato ad un aggettivo per
descriverla, che non fosse ‘complicata’ o...
‘cattiva’.
Crepuscolare.
Ombrosa.
Lui
si schiarì la voce. Fissò per qualche
istante il proprio cane, Pongo, accucciato in un angolo. Era sveglio e
sembrava
stesse ascoltando la conversazione. “Cattiva... è
una parola molto... forte. Te
ne rendi conto, vero?”
“So
cosa vuol dire.”
Oltretomba.
Oggi.
Emma
si
fermò con le mani sulle ginocchia e poi appoggiò
una spalla al tronco marcio di
un albero. Alzò gli occhi al cielo. Era basso e azzurro, ma
era un azzurro
cupo, pesante e la faceva sentire oppressa da un inspiegabile senso di
angoscia.
Non
c’è salvezza.
La
voce la seguiva. Era ovunque. Era nella brezza gelida che soffiava,
spostandole
i capelli. Era nel rumore del risucchio prodotto dai suoi stivali
quando
entrava in una pozza melmosa. Era nel suo respiro. E ripeteva sempre la
stessa
cosa.
Non
c’è salvezza.
-
Emma, continua a camminare. – disse Regina, sempre tenendola
per mano.
Emma
guardò giù e vide l’acqua stagnare tra
ciuffi di canne e bassi cespugli dalle
foglie così larghe da far pensare a piante tropicali.
Non
c’è salvezza.
Non
aveva idea se Regina sentisse la stessa voce, ma a giudicare dalla sua
espressione, c’era qualcosa che la infastidiva. Si voltava
spesso per
assicurarsi che nessuno le stesse seguendo. Serrava forte la sua mano.
Se Emma
si attardava, tirava per costringerla a proseguire.
-
C’è
qualcosa qui... qualcosa... – mormorò Emma.
-
Lo
so. Per questo devi continuare a camminare. Ignoralo.
Emma
ci provava. Ci provava davvero, ma era come se il suo cuore fosse
avvolto da un
bozzolo di ghiaccio. Il gelo si diffondeva nel suo petto, nel sangue.
Era come
un veleno.
Riprese
a camminare, ma dopo pochi passi sprofondò nel fango fino
alle caviglie e
rimase là.
-
Emma, ti prego. Non fermarti.
-
Io
credo... non posso, Regina. Non... posso andare avanti.
Non
c’è salvezza.
Non
c’è...
-
Non
fare l’idiota, Emma. Muoviti. Stai sprofondando.
Emma
era affondata fino alle ginocchia. Sabbie mobili. La tiravano verso il
basso.
“Euridice
non era più la stessa.”
“L’ambrosia le aveva permesso
di andarsene,
ma questo posto... l’aveva corrotta. Era rimasta qui per...
un po’ di tempo. E
tornare in vita può comportare delle conseguenze.”
Si
rendeva conto del pericolo, ma era come se non le importasse.
Improvvisamente
le sembrava tutto inutile. Tutto privo di senso. I ricordi peggiori
della sua
vita si assiepavano nella sua mente e non riusciva a scacciarli. Si
accalcavano
dietro agli occhi. Era una sensazione schiacciante. E si sentiva
spossata. Non
semplicemente stanca, ma distrutta. A pezzi.
“Euridice
non era più la stessa.”
Non
c’è salvezza.
-
Non
puoi lasciarti andare proprio ora, Emma! – esclamò
Regina, afferrandola per la
giacca. Strattonò il tessuto, sperando di liberarla dalle
sabbie mobili.
“Ma
questo posto... l’aveva corrotta.”
“Euridice
non era più la stessa.”
-
Non
c’è salvezza... – disse Emma, sollevando
la testa per guardarla negli occhi. I
suoi erano lucidi e arrossati. Era paonazza. Il medaglione che le aveva
dato
Marian incrociò i pallidi raggi di luce e mandò
un barbaglio rossastro. – Lo
senti anche tu, vero?
-
Non
ascoltare! Non sono venuta fino a qui per vederti sprofondare nelle
sabbie
mobili. Non ho estratto il mio cuore mettendolo su una maledetta
bilancia
per...
-
Io
non ho mai voluto questo. La Salvatrice... non l’ho mai
voluto. – Emma
sprofondò fino alle cosce. Non fece alcuno sforzo per
evitarlo.
Regina
gridò il suo nome e si aggrappò a lei.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
“Oh.
È un bel libro?”, domandò Archie,
levandosi gli occhi e tirandolo verso di sé. Il nome
dell’autore non c’era. Il
titolo era “Once Upon a Time”, in grandi lettere
dorate. “Posso?”
“Non
è solo un libro. È molto di
più.”,
sentenziò Henry.
Lo
psichiatra aprì il volume e iniziò a
sfogliarlo. Una raccolta di fiabe. Da Cenerentola a Biancaneve. Dalla
Bella
Addormentata a...
“Capisce?”,
chiese Henry.
“Sì...”,
rispose Archie, guardingo. “Sono
storie. Dove hai trovato questo libro?”
“Non
l’ho trovato. Me l’ha dato la mia
insegnante. La maestra Blanchard.”
“Oh.
D’accordo. E c’è qualcosa in queste
storie
che ha attirato la tua attenzione?”
“Non
sono solo storie. Ci siamo anche noi in
questo libro. Regina, ad esempio, c’è. E anche
tu.”
“Io?
Scusa, Henry, sto cercando di seguirti, ma
vorrei che rallentassimo un attimo. Di cosa parliamo
esattamente?”
Henry
sfogliò il libro fino a quando non trovò
un’immagine della matrigna di Biancaneve che si faceva largo
in mezzo ad una
folla di persone accorse per il matrimonio del Principe Azzurro con la
sua
amata. La figura vestita di nero era snella e minacciosa.
Un’altra versione della
storia di Biancaneve?
“La
mia mamma è la Regina Cattiva.”
Archie
tenne gli occhi fissi sull’immagine.
“E
questo... questo sei tu, Archie.”
Il
Grillo Parlante.
Un
linguaggio. Ora capiva. Henry stava cercando
di esprimere le proprie emozioni attraverso un determinato linguaggio.
Identificare
le persone che conosceva con i personaggi delle fiabe era un modo
per...
spiegare come si sentiva. E il Grillo Parlante era la voce della
coscienza che
cercava di orientare Pinocchio verso le scelte giuste. Era possibile
che una
parte di Henry volesse che lui lo aiutasse.
‘Ho
cercato di avvicinarmi ad Henry, di non
fargli mancare niente’, gli aveva detto Regina Mills, quando
gli aveva parlato
del figlio per chiedergli se potesse darle una mano a gestire le sue
problematiche. ‘Ma lui... mi respinge. Sempre. E questo mi
ferisce. Vorrei
capire dove sto sbagliando.’
“Quindi...
tu pensi di essere Pinocchio?”
“No.”
Henry scosse energicamente la testa. “Io
non ci sono, nel libro.”
Oltretomba.
Oggi.
“Euridice non era più la stessa.”
Regina
raschiò il fondo delle sue riserve di energia, tirando Emma
per la giacca, nel
disperato tentativo di estrarla dalle sabbie mobili. Riuscì
a smuoverla di
qualche centimetro, ma lei non l’aiutava per niente. Quel
luogo l’aveva
svuotata di ogni certezza, di ogni speranza. Emma era un peso morto ed
era
fredda come il ghiaccio.
-
Emma, ti prego. – la supplicò ancora. –
Non capisci che è un altro tranello di
Ade? Non è reale. Non ascoltare.
E
continuava a sentire la presenza, intorno a sé, del
misterioso e pauroso potere
che abitava la palude. Qualcosa di antico. Tremendamente antico.
Emma
stava udendo una voce e percepiva tutto il peso di
un’angoscia che la
trascinava verso il basso. Ma anche Regina l’avvertiva. Da
quando si erano
inoltrate nella palude non aveva fatto altro che avvertirla. I brutti
ricordi
erano tornati a fiumi. E ruotavano intorno alle parole di Ade.
“Euridice
non era più la stessa.”
“L’ambrosia
le aveva permesso di andarsene, ma
questo posto... l’aveva corrotta.”
Regina
pensava ad Euridice e vedeva una specie di mostro sbucare dal buio.
Ma
il
mostro non era Euridice, il mostro era...
“È
un mostro, Regina. Se non lo fermi tu, lo
farò io!”
Daniel.
Aveva avuto l’impressione che qualcosa le stesse seguendo, si
era voltata più
volte per assicurarsi che non ci fosse nessuno e aveva dovuto farsi
forza per
ricordare che, se anche ci fosse stato qualcuno, non poteva trattarsi
di
Daniel, perché lui era passato oltre. Aveva raggiunto il
posto migliore. La sua
tomba al cimitero era rovesciata.
Rovesciata.
Rovesciata. Daniel sta bene.
Era
poggiata a terra. Sta bene. Non è qui. Sta
bene.
Mai
si
sarebbe immaginata che Emma sarebbe stata la prima a cedere.
-
Regina, lasciami... – disse Emma. – Cadrai anche
tu.
Si
rifiutò di darle retta. Ormai era sprofondata fino
all’ombelico.
-
Regina... devi lasciarmi andare.
Storybrooke.
Qualche anno prima.
Non
era sicuro che la fortuna lo avrebbe
assistito.
Mary
Margaret Blanchard, la sua insegnante, era
una donna dolce, che raramente rimproverava i suoi alunni. Non
ricordava più
chi era stata, come tutti in quella città, ma Henry dubitava
che fosse
totalmente sprovveduta. Tuttavia, doveva tentare. Aveva bisogno di un
po’ di
soldi per prendere l’autobus e per quel sito internet. Era
costoso e lui non
aveva ancora una carta di credito.
L’ultimo
studente uscì dall’aula ed Henry
rimase da solo con l’insegnante. Andò verso la
cattedra.
“Posso
aiutarti, Henry?”
Poteva
ancora dirglielo. Poteva raccontarle
ogni cosa. La maledizione, la Salvatrice che era sua figlia, la Regina
Cattiva
che tanto la odiava... In fondo, era stata Mary Margaret a darle il
libro.
No.
Non
poteva dirglielo.
“Sì.”,
rispose lui. “Quel libro... sa, quello
che mi ha prestato...”
“Non
è un prestito, Henry. Puoi tenerlo.”
“Sì,
d’accordo. Ecco... è davvero un bel libro.
E quindi io pensavo...”
La
porta dell’aula si aprì di nuovo e un
bidello mise dentro la testa. “Signorina Blanchard... al
telefono. Può venire?”
“Oh,
certo.”, rispose Mary Margaret. Si voltò.
“Ti dispiace aspettarmi qui un momento?”
“Faccia
con comodo.”
L’insegnante
lasciò l’aula ed Henry ringraziò
chiunque avesse chiamato, distraendo sua nonna. Ma forse non era stato
solo un
caso. I cattivi non vincevano mai. E Regina era la cattiva che aveva
lanciato
la maledizione. Niente accadeva per caso. Ogni evento lo spingeva verso
la sua
vera madre, verso la Salvatrice.
Henry
fece una cosa che non aveva mai fatto in
vita sua. Odiava farlo, ma era per una buona causa. Aprì la
borsa di Mary
Margaret e frugò in tutte le tasche. Trovò
biglietti da visita, le chiavi di
casa e qualche altra cianfrusaglia. E trovò il portafoglio.
Lo aprì. La carta
di credito blu era nell’apposito scomparto.
Quanto
ci avrebbe messo Mary Margaret a
scoprire che la carta di credito era sparita?
Ma
se se ne fosse accorta subito, non avrebbe
potuto incolpare nessuno. Forse avrebbe incolpato sé stessa,
ma lui doveva
comunque sbrigarsi. Sarebbe corso a casa e avrebbe dato
un’occhiata al sito.
Avrebbe trovato sua madre. Ah e avrebbe cancellato le mail e i dati di
navigazione, nel caso a sua madre fosse venuta la brillante idea di
dare una
sbirciata.
Sua
madre, Regina.
Sua
madre, la Salvatrice.
Regina
aveva riscoperto il suo incubo peggiore e ne era preda, mentre Emma
continuava
a sprofondare; quando la Salvatrice aveva pronunciato
quell’unica frase...
“Devi
lasciarmi andare.”
...Regina
aveva chiuso gli occhi, perché la sensazione era
così vivida, il pensiero così
concreto, che non aveva osato guardare di nuovo Emma. Non aveva mollato
la
presa, ma aveva impiegato qualche istante prima di decidersi a
risollevare le
palpebre per fissare il suo vero amore. Era convinta che, abbassando lo
sguardo, avrebbe visto il viso congestionato di Daniel, così
come lo ricordava
dopo quella tragica resurrezione. Era convinta che avrebbe visto occhi
azzurro
scuri spiritati e pieni di una furia cieca che non era mai appartenuta
a
Daniel. Il suo Daniel.
“Poni
fine a questo dolore.”
“Come?”
“Devi
lasciarmi andare.”
Un
furore incandescente, l’antitesi del gelo che le si era
diffuso nelle ossa,
montò dentro di lei.
No.
La
risposta era no!
Non
c’era Daniel davanti a Regina, c’era sempre Emma e
quando la strattonò per
l’ennesima volta... riuscì a smuoverla dalle
sabbie mobili, a strappare un
pezzo consistente del suo corpo dalla morsa melmosa.
Emma
sembrava fissarla, come instupidita.
-
Dammi
una mano, idiota! – gridò Regina. –
Nostro figlio ha bisogno di entrambe! Io...
io ho bisogno di te!
Nostro
figlio.
Io
ho bisogno di te. Nostro figlio.
Emma
puntò le mani contro due zolle erbose e si diede una
poderosa spinta.
L’angoscia la circondava, la soffocava persino, ma
trovò quel poco di forza che
le rimaneva e si issò fuori dalle sabbie mobili.
Nostro
figlio. Io ho bisogno di te.
Regina
le strappò quasi la giacca rossa di dosso, nel tentativo di
allontanarla dalla
trappola mortale in cui era caduta e, alla fine, Emma emerse, sfuggendo
all’abbraccio della palude.
-
Emma...
– mormorò Regina. Nonostante fosse imbrattata di
fango, prese il suo viso tra
le mani e se la strinse contro.
- Il
tramonto è vicino. – annunciò Ade,
osservando il cielo e la luce rossastra e
morente che incendiava le nuvole. – Non abbiamo
più tempo. Dobbiamo andarcene.
-
E
cosa ne sarà di Emma? – domandò
Killian, rabbioso. – Non possiamo andare via
senza Emma.
-
Ce
la faranno. – rispose Ade, quasi annoiato. – Emma
Swan è la Salvatrice... ed è
con il suo vero amore. Troveranno l’ambrosia e torneranno a
Storybrooke. Ve
l’ho detto. Le porte si apriranno per loro non appena Emma
avrà mangiato
l’ambrosia. Come fece Euridice.
Killian
aveva la stessa faccia di chi aveva appena morso un limone.
Mary
Margaret si voltò, scrutando tra le tombe del cimitero,
verso gli edifici,
sperando di vederle comparire. Non vide nessuno.
-
Andate avanti voi, se non vi fidate. Il portale si chiuderà
tra pochi minuti.
Non abbiamo molta scelta. Non se ne aprirà un altro.
– disse Ade. – Se quelle
due sono abbastanza testarde come credo, riusciranno a passare. Emma
passerà.
Henry
strinse il libro al petto. Regina gli aveva sussurrato di mettersi in
salvo
prima che il portale si chiudesse. Gli aveva detto che avrebbe lottato
insieme
ad Emma. E lui ci credeva. Ma... poteva davvero lasciarsi alle spalle
l’Oltretomba senza sapere che cosa stava succedendo alle sue
madri?
-
Se
non volete entrare in quel portale, con il vostro permesso... Zelena.
Vai tu
per prima. – Ade indicò il portale roteante con un
gesto della mano. Era un
grande occhio arancione che aveva sostituito il quadrante
dell’orologio. Un occhio
senza palpebra dentro al quale sibilava un vortice che attendeva solo
di
inghiottirli.
La
luce del tramonto si fece più intensa.
Invece
che fare ciò che il Signore degli Inferi le aveva chiesto,
Zelena sollevò la
folgore olimpica, puntandola contro di lui.
Una
volta che l’ebbe estratta dalle sabbie mobili, Regina non la
lasciò subito
andare. La tenne stretta contro di sé. Come se avesse voluto
assicurarsi che
fosse davvero lì, che fosse tutta intera e che non fosse
sprofondata in quella
palude.
Era
sicura che se Emma fosse sprofondata del tutto, il Tartaro
l’avrebbe
inghiottita.
Le
accarezzò i capelli biondi, mentre lei respirava
affannosamente contro la sua
spalla.
-
Stai
bene. – mormorò Regina, le labbra accostate
all’orecchio di Emma. Non era una
domanda. Aveva parlato soprattutto a sé stessa.
-
Sì.
– rispose lei, comunque. Sollevò la testa per
guardarla.
Regina
si vide riflessa negli occhi della Salvatrice. Occhi stanchi, acquosi e
arrossati. Verdi, con vaghe sfumature azzurrate.
Unirono
le bocche nel medesimo istante. Regina scivolò in quella
calda di Emma senza
curarsi di essere delicata. Le lingue si cercarono con urgenza, i denti
morsero
le labbra e le dita di Emma si intrecciarono nei capelli
dell’altra.
Si
separarono solo quando ebbero bisogno di respirare.
-
Coraggio. Possiamo farcela. – le disse Regina, appoggiandole
le mani ai lati
del viso.
Emma
annuì e la baciò un’ultima volta. Poi
proseguirono.
Ben
presto la sensazione di angoscia che l’aveva quasi uccisa
iniziò a scemare,
lasciando il posto ad una spossatezza incredibile, anche se Emma
continuò a
mettere un piede davanti all’altro. Regina camminava poco
più indietro.
I
tratti paludosi cedettero il passo a tratti più asciutti ed
erbosi. Il terreno
molle diventò più solido. Presero ad avanzare
sotto agli alberi. Intorno non si
udiva più alcun suono. Nessun rumore sospetto.
Emma
si fermò, girandosi verso Regina. – Ci sono...
degli scalini.
Erano
alti,
stretti e ripidi. Cominciò a salire e Regina la
seguì, ma l’impressione del
terreno che sfuggiva sotto i piedi le dava un senso di sgomento.
...dieci,
undici, dodici...
Il
vento si fece più gelido, tagliente. Intorpidiva la faccia.
Nel guardare su, Regina
si accorse che il cielo era scuro, punteggiato di stelle. Non sapeva
quanto
tempo fosse passato esattamente, né se il tempo scorresse
nello stesso modo in
quel luogo e nel resto dell’Oltretomba. Forse il portale si
era già chiuso e
loro avrebbero dovuto trovare un altro modo per uscire. Sperava che
Henry fosse
tornato a casa...
...venti,
ventuno, ventidue...
Emma
incespicò e passò la mano lungo la parete di
roccia per ritrovare l’equilibrio.
Chi
ha intagliato questi scalini? Perché? In
cima c’è l’ambrosia?, si
chiese, tastando meglio la roccia, accorgendosi che era strana,
scheggiata e
tutta scanalature.
Pelle
rugosa. Ecco cosa sembra. Pelle morta...
Scostò
la mano, sfregandola sui jeans e guardandosi alle spalle per
assicurarsi che
Regina stesse bene.
-
Vuoi
riposarti? – le domandò Emma, dolcemente. In
realtà era lei la prima a volersi
stendere da qualche parte. Voleva stendersi e chiudere gli occhi.
Dormire. Le
ginocchia erano molli come gelatina. La testa la stava supplicando di
smettere.
Era sporca di fango fino alla cintura.
-
Ho
l’aria di chi ha voglia di riposarsi dopo tutta la strada che
abbiamo fatto? –
rispose Regina, piccata. – E poi siamo quasi in cima.
Emma
sorrise. Ricominciò a salire. Mancava poco.
...ventisei,
ventisette...
-
Ventotto. – concluse Emma.
Gli
anni della maledizione. Gli anni che aveva quando era arrivata a
Storybrooke
con Henry per spezzarla. Gli anni che aveva quando Regina era corsa
fuori ad
abbracciare il bambino di dieci anni che era fuggito per cercare la sua
vera
madre. Gli anni che aveva quando...
“Lei
è la madre biologica?”
“Salve.”
Afferrò
Regina per un braccio e l’aiutò a salire
l’ultimo gradino.
Emma
si guardò intorno. Erano su una grande piattaforma erbosa e
disseminata di
ciottoli, che si protendevano davanti a loro come una lingua scura. I
ciottoli
formavano un disegno. Una spirale.
Al
centro della spirale c’era...
-
Questo non è possibile. – disse Regina.
Emma
barcollò in avanti, pensando: ho
perso i
miei pensieri felici e ora precipito.
La
sensazione era proprio quella. Non più l’angoscia
provata nella palude, ma di
precipitare, anche se aveva terreno duro e sassoso sotto i piedi.
L’albero
dell’ambrosia era stato abbattuto.
Rimaneva
solo un pezzo del tronco e una granulosa polvere marrone intorno ad
esso.
Emma
si chinò, come in sogno, raccogliendone una manciata.
-
L’ambrosia... – mormorò Regina, con una
voce che non sembrava più nemmeno la
sua. – L’ambrosia è...
-
È
morta. – le rispose Emma. – L’ambrosia
è morta.
Gli
altri fecero un passo indietro e tutti estrassero le armi. Uncino
puntò la
spada, Fiyero afferrò velocissimo una freccia dalla faretra
e Mary Margaret
spinse Henry dietro di sé, impugnando l’arco.
-
Zelena... – Il sorriso di Ade vacillò e
cercò inutilmente di rifiorire.
-
Che
cosa sta succedendo? – domandò Lily, voltandosi
verso il portale, che era
ancora aperto, ma il sole stava scendendo rapidamente e presto sarebbe
tramontato del tutto.
-
State indietro! – gridò Zelena. – Questo
è compito mio. È ciò che avrei dovuto
fare fin da quando ha messo piede nel mio palazzo ad Oz!
-
Zelena... – ripeté Ade, sollevando le mani.
– Metti giù la folgore. Non
c’è
pericolo.
-
Invece sì! Perché l’ho visto.
– L’arma divina sorretta da Zelena si accese,
emanando un’intensa luce azzurrata e sprigionando i primi
lampi.
-
Visto?
-
Quando ti ho baciato. Prima che la maledizione si spezzasse e il
marchio di Era
scomparisse... ho visto che cos’hai intenzione di fare!
– Strinse di più la
Folgore Olimpica. – Vi ucciderà. Vi
ucciderà tutti non appena saremo tornati a
Storybrooke. E dopo avervi uccisi trasformerà Storybrooke
nel suo quartier
generale e darà inizio alla guerra contro Zeus! Come ha
sempre desiderato!
-
Lo
sapevo che non potevamo fidarci. – disse Killian, avanzando
verso Ade.
-
Non
muovetevi, capitano! Non è affare vostro. –
Zelena, per un attimo, diresse la
Folgore verso il pirata, che si tirò indietro, ma sempre
impugnando la spada.
-
Che
ne è di Emma e Regina? – chiese Mary Margaret.
– Ha mentito anche sull’ambrosia?
-
No.
– rispose Ade, prima che potesse farlo Zelena. –
L’ambrosia esiste.
-
Ne
rimane ancora un po’, vuoi dire. Visto che hai abbattuto
l’albero dopo che
Euridice è riuscita a fuggire. – Zelena era
totalmente fuori di sé, i suoi
occhi dardeggiavano, azzurri come l’arma che voleva usare
contro di lui. – Lui
pensa che non la troveranno. O spera che non accada. Ma in ogni caso
aveva già
deciso cosa fare.
-
Ho
strappato quel contratto. L’ho fatto per te. -
provò a dire Ade, scandendo le
parole come se stesse parlando una lingua sconosciuta.
-
L’hai fatto perché volevi spezzare la maledizione
con il bacio del Vero Amore.
Ade
allargò le braccia. - Io ti amo, Zelena. Non avrebbe mai
funzionato, se questo
non fosse vero. Loro... possono dirti che non lo è, ma io...
-
Perché
non ci uccide subito? Perché non ci ha uccisi tutte le volte
che ne ha avuto
l’occasione? – chiese Killian.
-
Perché non può farlo. La sua maledizione
è... complicata. – Ogni parola le
costava uno sforzo enorme, tanto che arrivò alla fine della
frase esausta. Le
Folgore era pesante. Le tremavano i muscoli del braccio. Le fischiavano
le
orecchie. Le sembrava che la faccia di Ade fosse una faccia orribile,
deformata
dal potere emanato da quell’arma. – Se avesse
ucciso dei vivi nel suo regno, il
suo cuore si sarebbe trasformato in pietra. Considerando tutto
ciò che ha fatto
in passato, non mancava molto perché accadesse. Ucciderci
avrebbe voluto
dire... rimanere bloccato qui per sempre. Un cuore di pietra...
è un cuore che
non prova niente. Nessun sentimento.
Ade
strinse le labbra.
-
Andate via. Ci penso io!
-
Non
possiamo andarcene senza Emma e Regina! – gridò
Killian.
-
Certo che potete! Ce la faranno. Mia sorella era la Regina Cattiva e la
sua
amante è la Salvatrice... ci riusciranno! Sono eroi, no?
– Zelena aveva uno
sguardo folle, la pelle del viso era tirata e dimostrava almeno
cent’anni con
quella luce azzurra che le colorava il viso e le incendiava ancora di
più le
iridi.
Lily
doveva farlo. Aveva promesso ad Emma che l’avrebbe fatto. Non
voleva andarsene,
ma se si fosse tirata indietro, sarebbero rimasti bloccati
lì e non era ciò che
Emma desiderava per la sua famiglia. Guardò sua madre, che
annuì.
Lily
afferrò Henry e lo spinse nel portale prima che lui potesse
protestare. Il
libro gli cadde di mano e lei lo raccolse, scagliandolo nel vortice.
Poi
prese Mary Margaret e la strattonò così forte che
gridò, ma a Lily non
importava. Killian non ebbe bisogno della spinta. Si voltò
un’ultima volta
verso Storybrooke, come se sperasse di veder comparire Emma e poi
seguì gli
altri.
-
Non
puoi fare questo, Zelena. Loro non ti crederanno mai! Non ti aiuteranno
mai!
Non ti... ameranno mai! – Ade allungò le mani,
come se volesse abbracciarla.
-
Nemmeno tu. – sibilò Zelena. Piangeva, ora.
Piangeva davvero. Il battito
cardiaco le corrispondeva nelle tempie con una serie di tonfi
mostruosi.
-
Zelena...
Zelena
scagliò la Folgore Olimpica, centrandolo in pieno petto.
L’ambrosia
è morta.
Morta.
Morta. Morta.
Regina
girò intorno all’albero abbattuto, cercando in
ogni dove una traccia del maledetto
Cibo degli Dei. Cercò in mezzo alla polvere, tra le radici,
sotto le pietre.
Pensò di scavare per cercare anche sottoterra, ma non aveva
niente, nemmeno la
magia.
-
È
stato Ade. – mormorò Emma. – Quando
Euridice è riuscita a scappare, ha abbattuto
l’albero. Per impedire che qualcun altro ci provasse.
-
Deve
essere rimasto qualcosa! Non può essere completamente morta.
-
Regina...
Allora
risuonò un ringhio basso e furente.
Emma
tacque, mettendosi in ascolto. Regina si voltò verso il
ciglio della piattaforma
erbosa, con gli occhi sgranati e la bocca secca. Senza rendersene
conto,
schiacciò un mucchietto di ambrosia sotto lo stivale e la
polvere scricchiolò.
Il
guardiano dell’Oltretomba emerse dal crepaccio, piantando le
poderose zampe
anteriori nel terreno e spargendo il suo fiato mefitico dove un tempo
cresceva
l’albero dell’ambrosia.
“Te
l’ho detto, cara, nessuno sa come arrivare
all’uscita. E anche se riuscissi ad uccidere Cerbero, come
porterai fuori la
Salvatrice? Io credo che finirai nelle prigioni di Ade. Non
è una bella
esperienza... non che sia la cosa peggiore che possa
capitarti...”
Regina
non aveva più pensato alla sua conversazione con Crudelia.
Aveva pensato
unicamente a salvare Emma e non ricordava le sue parole. Il Guardiano.
L’uscita
era sorvegliata.
Emma
fissò l’enorme mastino nero.
La
testa centrale emise un latrato che scoppiò come un tuono,
facendo tremare ogni
cosa. Le altre due teste scoprirono file di denti aguzzi, mentre le
orecchie si
appiattivano sui crani. Tre paia d’occhi individuarono le
prede sulla
piattaforma. Erano occhi rossi, che ardevano come braci. La lunga coda
frustò
l’aria a destra e a sinistra.
Istintivamente
Regina cercò di formare una sfera di fuoco con la magia e
ovviamente non ci
riuscì.
Niente
magia. Niente armi.
Cerbero
avanzò...