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Autore: Horror_Vacui    04/08/2018    2 recensioni
Cosa succede quando sei l'uomo sbagliato al momento sbagliatissimo? E se il momento sbagliato è proprio una guerra tra i due gangster più potenti di New York?
Tra intrighi di potere, assassini di professione e debiti da saldare, l'unica cosa che si può fare per sopravvivere è imparare le regole del gioco prima di eliminati.
Dal testo:
"Prese alcune fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei nel frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto."
*Basato sull'omonimo film di Paul McGuigan, conosciuto in Italia con il titolo "Slevin - Patto criminale"*
Genere: Commedia, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chris Argent, Malia Hale, Nuovo personaggio, Peter Hale, Stiles Stilinski
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Il naso pulsava come se il cuore gli si fosse spostato in mezzo alla faccia. Lo tastò per constatare che era rotto e lo tirò con delicatezza per rimetterlo a posto. Digrignò i denti, lasciandosi sfuggire una mezza imprecazione. Quel bastardo ci era andato giù pesante, il pugno gli era piombato addosso senza alcun preavviso e aveva fatto male il doppio.
Tolse gli ultimi residui di schiuma da barba dal viso e si passò una mano tra i capelli umidi, portandoli indietro. Prima o poi avrebbe dovuto tagliarli, cominciava a sembrare una ragazzina che ha giocato troppo con le forbici.
Un insistente e fastidioso bussare alla porta lo distolse dalla sua immagine riflessa, così si annodò un asciugamano in vita e corse ad aprire, sperando che fosse chi stava aspettando.
Girò la chiave nella toppa e una ragazza s'infilò nell'appartamento senza nemmeno salutare.
«Ci hai messo una vita» disse dirigendosi svelta in cucina.
«Be', in realtà io...» cominciò a dire e la sua voce la convinse a fermarsi.
Lo guardò dalla testa ai piedi con sorpresa, mentre le guance le si coloravano di un delizioso color pesca. Preso atto della figuraccia appena fatta, si strinse nel cardigan di lana arancione e incrociò le braccia al petto, sollevando il mento in posizione di sfida.
«Tu non sei Nick».
«E tu non sei muscolosa come immaginavo» disse divertito.
«Sono abbastanza forte da romperti di nuovo il naso».
«Be', come puoi vedere da sola, non serve» si strinse nelle spalle.
«Cosa ti ha fatto pensare che fossi muscolosa?»
«La tua bussata. Credevo che fuori dalla porta ci fosse un energumeno pronto a picchiarmi».
«E invece hai trovato me. Ti è andata bene» arricciò le labbra infastidita.
«Direi proprio di sì» ammise. «E forse è andata bene anche te» sorrise vedendola impegnata a scannerizzare i suoi addominali. A quelle parole lei distolse subito lo sguardo.
«Tu chi sei?» gli chiese.
«Mi chiamo Slevin».
«Che hai combinato al naso?»
«L'ho usato per rompere il pugno a un tizio» disse e la superò entrando in cucina.
«Dai, ti hanno picchiato?» domandò lei seguendolo.
Prese alcune fette di pane e ci spalmò sopra del burro d'arachidi. Lei nel frattempo si era seduta sul bancone e lo osservava incuriosita. Sotto il cardigan indossava dei semplici pantaloncini di cotone e una canottiera sottile. Aveva gambe lunghe e occhi da gatta, profumava di lavanda e biscotti: le pericolosa ragazza della porta accanto.
«Sì, però un po' me l'aspettavo» addentò il suo meritato panino.
«Come te l'aspettavi?!»
«Sai, visto che non c'è due senza tre... Prima ho perso il lavoro. Torno a casa e trovo che il mio palazzo è spacciato, tutta colpa di una razza incrociata di super termiti ecuadoriane, così vado da Lydia, la mia fidanzata».
«Senza preavviso?»
«Già, pensa che idiota, avevo la chiave e sono entrato. Vengo accolto da una sinfonia di cigolii e mugolii, vado in camera da letto e la trovo a novanta con il suo collega, Jordan. Ci stavano dando dentro di brutto, così tanto che non mi hanno sentito. Si sono inventati mille scuse, tutte inutili».
«E allora hai chiamato Nick».
«Esatto. Mi aveva detto che abitava da solo a New York in un appartamento piuttosto grande e, dato che la mia vita è a pezzi, mi è sembrata una buona idea ricominciare proprio in questa città. Così ieri notte ho preso il primo volo e sono arrivato stamattina, ma Nick non c'era e appena sono uscito dall'aeroporto un uomo mi ha dato un pugno e mi ha rubato il portafogli. E perciò eccomi qui».
La ragazza balzò giù dal ripiano e lo guardò di traverso: sembrava proprio un felino.
«Mmh, hai detto tre» disse andando verso la porta.
«Cosa?» il panino quasi gli andò di traverso.
«Hai detto “non c'è due senza tre”: hai perso il lavoro, devono demolire il tuo palazzo, Lydia ti ha tradito e sei stato rapinato, così fanno quattro» elencò le sue disgrazie contandole con le dita.
Mandò giù il boccone a fatica e bevve un sorso di latte dal cartone.
«Be' quando hai preso il via, hai preso il via. Questa è la terza rapina in due mesi».
«Interessante. Anche se lui non era il fenomeno delle rapine lampo, non brillava di certo in astuzia».
«Però mi ha rotto il naso».
«Ma ti ha lasciato la valigia» disse lei indicando il bagaglio aperto in corridoio.
«È pesante, forse non gli sembrava adatta a una fuga lampo».
Prese l'altro panino e andò a sedersi in salotto, seguito a ruota dalla ragazza. Lui si aggiustò l'asciugamano e lei lasciò che il cardigan cadesse poco sotto la spalla.
«Vero, ma c'è l'enigma del tuo orologio, parecchio fighetto».
«È un falso» sollevò il polso per mostrarglielo.
«Ma lui non lo sapeva».
«Forse non l'ha visto».
«Certo che l'ha visto, ti ha chiesto l'ora!» roteò gli occhi al cielo.
Lo stava riempiendo di domande, gli serviva qualcosa da bere, magari più forte del latte...
«Hai detto che sei alla terza rapina?»
«Sì, ecco... sai, io viaggio molto» aprì il frigo ma non c'era altro a parte bibite gassate, acqua e latte.
«Dov'è Nick?» gli chiese lei appoggiandosi allo sportello.
«Non lo so, dovevamo incontrarci in aeroporto ma non si è fatto vedere».
«E allora come sei entrato?!»
Astuta, molto astuta.
«La porta era aperta» spiegò semplicemente.
«La porta era aperta?» ripeté per nulla convinta.
«Sì, te l'assicuro».
«Aperta o chiusa male?» tamburellò le dita sulla plastica ingiallita e lo guardò dritto negli occhi.
«Non me lo ricordo» rispose e chiuse di colpo il frigo.
L'improvvisa perdita di equilibrio la costrinse ad aggrapparsi al suo petto per non cadere. Sentì un brivido attraversargli la schiena quando le unghie gli graffiarono le spalle, ma fu un attimo, lei si allontanò fulminea.
«Ops, scusa» non riusciva a smettere di sorridere, quella ragazza lo intrigava.
«Avevi detto aperta» lo rimproverò puntandogli un dito contro.
«Mmh, sì potrebbe essere... ma ehi, come ti chiami?»
Lei trasformò il dito puntato in una mano tesa verso di lui.
«Hai ragione, sono Malia. Sono la vicina di Nick ed ero venuta a chiedergli una tazza di zucchero» anche la stretta era forte e poderosa, come il suo carattere.
Gli diede le spalle e tornò in cucina, diretta al motivo per cui si era fiondata in quell'appartamento.
«E dov'è la tazza?»
«Ho detto che volevo un tazza di zucchero, se avessi avuto una tazza avrei chiesto dello zucchero».
«Touché» fu costretto ad ammettere la sconfitta, mentre il suo stesso sorrisetto divertito si dipingeva sulle labbra a cuore della ragazza.
La guardò armeggiare in cucina come se quella fosse casa sua, sapeva come muoversi e dove trovare ciò che le serviva. E poi il telefono squillò e Malia quasi si lasciò sfuggire lo zucchero dalle mani.
«Oh, potrebbe essere Nick!»
Lui andò a rispondere, ma la cornetta gli restituì pochi secondi di silenzio e il click di chi ha riagganciato.
«Ha attaccato» sospirò rimettendola a posto.
«Ah, ho un'idea!» esclamò Malia prendendo il telefono. «L'hai usato da quando sei qui?»
«No».
«Perfetto» disse e compose un numero, quando ricevette risposta riagganciò con la scusa di aver sbagliato persona.
«Che cosa stai facendo?» le chiese con il tono paziente che si usa con i matti.
«Era l'hotel Cheval, quindi ora sappiamo l'ultima chiamata di Nick, non ci resta che scoprire chi l'ha chiamato. Colombo dice che ci sono tre cose...»
«Colombo?» quasi le scoppiò a ridere in faccia.
Malia lo guardò contrariata ma non si lasciò abbattere.
«Sì, Colombo. Era un detective di una serie tv».
«So chi è Colombo, ma cosa c'entra con Nick?»
«Lui dice che vanno esaminate tre cose sul luogo del delitto: cosa c'è ora che non c'era prima, cosa c'era prima che non c'è più e cosa è stato spostato».
«Questo è un luogo del delitto?» si guardò intorno spaesato, mentre lei componeva un altro numero.
«Per me Nick è nei guai» disse, attorcigliando tra le dita una ciocca dei suoi lunghi capelli castani.
La risata che stava trattenendo da un po' gli sfuggì senza che potesse far nulla per ricacciarla indietro.
«Non starai esagerando?»
Lei lo ignorò.
«Pronto? Oh, scusi ho sbagliato» mise giù la cornetta come se fosse diventata bollente. «Ha risposto di nuovo l'hotel Cheval!»
«Lui ha chiamato l'albergo e loro l'hanno richiamato, è normale» provò a tranquillizzarla.
«Allora forse è un indizio» disse e prese a camminare in cerchio.
«Di cosa?»
«Di quello che può essergli successo!»
«Forse non gli è successo niente».
«Ma forse sì! Dovevate incontrarvi e tu sei qui e lui no, la porta era aperta e succedono brutte cose quand... oh, cazzo!» esclamò guardando l'orologio. «Devo passare al lavoro, ma solo per un paio d'ore, poi torno così possiamo cominciare l'indagine» disse saltellando verso l'uscita.
«L'indagine? Non starai correndo un po' troppo?»
«Dai, ci divertiremo!» gli sorrise chiudendosi la porta alle spalle.
Era stranamente euforica per essere preoccupata, come se non avesse aspettato altro per tutta la vita.
Che poteva fare se non assecondarla? In fondo anche lui aspettava di incontrare una come lei da tutta la vita.
Distratto da quel pensiero – ma anche dall'immagine del suo seno nudo sotto la canottiera leggera –, non si accorse che qualcosa si stava muovendo a sud dell'Equatore, destabilizzando il fragile equilibrio del nodo all'asciugamano, che di fatto gli scivolò dai fianchi proprio nell'istante in cui la porta si riaprì.
Gli occhi furbetti di Malia ammirarono le sue grazie, mentre lui cercava di nasconderle di nuovo sotto il pezzo di stoffa traditore.
«Ti serve altro?» sorrise, provando a mascherare l'imbarazzo.
«Sì, scusa. La mia tazza di zucchero, ricordi?»
«Prego, conosci la strada» la invitò indicando con un ampio gesto la piccola cucina.
Malia non se lo fece ripetere e ciabattò fino alla credenza.
«Me ne sono accorta dopo aver fatto il caffè, stavo andando a comprarlo ma poi ho pensato “ce l'avrà Nick”» disse rigirandosi la tazza di zucchero tra le mani.
Lo guardava come si guarda un bocconcino alla crema e a lui non dispiaceva affatto.
«Già, Nick è sempre pieno di risorse» si morse le labbra, senza trattenersi.
Malia ridacchiò.
«Tu mi racconti la tua storia, io me ne vado senza zucchero, torno qui e metti in mostra il pisello e, anche se il caffè a questo punto sarà una porcheria, io voglio andare fino in fondo».
«Ah sì?»
«Già» fece un pausa. «Sembra la scena di un quadro di Norman Rockwell».
«Cosa, il mio pisello?» ghignò malizioso.
«Che...? No! No, lo zucchero. I vicini che si prestano lo zucchero a vicenda, è molto “Casa nella prateria”. Il tuo pisello invece non credo sia molto adatto ad uno show per famiglie» disse e si
diresse per l'ennesima volta verso l'uscita.
«Oh, e grazie per lo zucchero, zucchero!» gli fece l'occhiolino e se ne andò, per poi riaprire subito la porta. Lui alzò un sopracciglio e si appoggiò al muro incrociando le braccia al petto.
«Be', che ci fai qui?»
«Volevo imbroccare il prossimo spettacolo» spiegò con candore.
«Non replico fino alle otto».
«Mmh, ok» disse con finta delusione e se ne andò sul serio.
Un tornado avrebbe causato meno scompiglio di quanto ne aveva portato lei in appena quindici minuti.
Decise che era meglio rivestirsi prima di beccarsi un raffreddore, ma quando voltò le spalle alla porta qualcuno bussò più forte di Malia. Doveva essere di nuovo lei.
«Non ci provare, non sono le otto» disse e aprì, ma invece di Malia si ritrovò attorno al collo la mano gigantesca di un armadio a due ante.
Il gigante lo sollevò di qualche centimetro da terra, spingendolo dentro l'appartamento. Accanto a lui c'era un altro uomo, più piccolo, con il viso affilato di una volpe. Puzzavano di sigari, cuoio e ferro e sembravano usciti dal Padrino, con le loro giacche di velluto a coste, i cappotti neri e i pantaloni eleganti.
«Il boff vuole vederti» disse il primo, stringendo le dita fino a fargli mancare l'aria.
«Chi?» chiese, provando a divincolarsi.
«Il boff!» gridò e lo lasciò andare con stizza.
Era grande e grosso, aveva i denti superiori così sporgenti che toccavano il mento e gli occhi piccoli e storti. Voleva risultare minaccioso, ma era difficile prenderlo sul serio con quel sibilo farfallino.
«Chi è il boff?» tossì e si massaggiò il collo indolenzito.
Se proprio doveva morire, tanto valeva divertirsi un po'. Fece un passo avanti, ma il piccoletto lo spinse sul divano. Aveva una grossa cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra e la bocca da parte a parte.
«Ehi, metti giù le chiappe!» lo rimbrottò quando provò ad alzarsi.
Ripeterono quella scenetta per un paio di volte, ma nemmeno l'altro riuscì a intimorirlo.
Erano gli scagnozzi più insulsi che avesse mai visto, così tonti che forse sarebbe riuscito ad abbindolarli con le parole giuste.
«Sentite, non sono quello che cercate, io non abito qui».
«Fì, però fembri quello che abita qui» disse quello grosso.
«Ma voi non sapete nemmeno che faccia ha!»
I due si guardarono confusi, poi il piccoletto trovò la risposta giusta in calcio d'angolo.
«Lui voleva dire che tu sembri che abiti qui».
Poté quasi vedere il lampo di fierezza attraversargli gli occhi mentre lo diceva.
L'energumeno annuì ghignando come una iena. «Fì, volevo dire proprio questo!»
«Sì, sembra che io abiti qui e invece no. Sono venuto a trovare un amico, sono arrivato giusto stamattina» provò a spiegare usando un tono amichevole.
Sembrò funzionare, perché i due fecero un passo indietro e gli permisero di alzarsi in piedi.
«Ok, fenti il ragazzo che sto cercando fi chiama Nick. Tu ti chiami?»
«Mi chiamo Slevin» disse esibendo il suo sorriso migliore.
«Ah».
Il gigante assunse un'espressione ancora più ebete.
«C-ce... ce l'hai un documento?»
Era fregato? Era fregato.
«Ehm, be' il buffo è che sono stato rapinato e...»
«EHI, fenti! Fenti questo vallo a dire a Faccia Calva, lui ti può sbudellare in fondo alla strada».
Lo scagnozzo si agitò così tanto da riempirlo di sputi, ma nemmeno il suo compare sembrò capire a cosa si riferisse. Guardò prima lui, poi Slevin, poi di nuovo lui, poi di nuovo Slevin e alla fine partì alla carica.
«Senti, figlio di puttana...!»
«No, no, gli sto addoffo io, gli sto addoffo io!» lo spostò indietro con una manata.
«Lento, molla la presa!» gridò.
«Elvif, gli sto addoffo io!» ripeté lo scimmione per una decina di volte, finché l'altro non gli diede un calcio negli stinchi che lo fece calmare.
«Figlio di puttana» disse poi quello secco, puntandogli un dito contro.
«Io so solo che il Boss mi ha rifilato questo indirizzo e ha detto “Lento”, che sarebbe lui, “Elvis”, che sarei io, “portatemi il personaggio che trovate a questo indirizzo”. Me l'ha detto proprio oggi e tu, guarda un po', ti trovi qui oggi, quindi sei tu quello che devo portarmi via. Per me. Oggi».
«Ma io non sono Nick» disse Slevin, per niente impressionato.
«Sì, ma purtroppo per te, tu non sei il primo a dirci che non sei quello che stavamo cercando».
«Ok, possiamo chiedere a Malia, la ragazza che abita qui di fronte» fece per andare verso la porta, ma Lento gli mostrò il pugno ed Elvis lo prese per le spalle.
«Ehi ehi ehi, fermo fermo, aspetta! Nick, Slevin, Clark Kent, chiamati come cazzo ti pare. Potrebbe venire la Regina d'Inghilterra in persona, con il suo bel culo, le tette al vento e tutto il resto e se mi giurasse che tu sei il Principe Carlo, be' io dovrei portarti comunque dal Boss. E lo sai perché?»
«No» scosse la testa.
«Ordini» scandì piano. «Sai che sono gli ordini, vero?»
«Credo di capire il concett...»
«Gli ordini sono ordini
Voleva dire qualcosa di brillante, un'uscita a effetto che lo avrebbe salvato dai guai come quelle di James Bond.
«È da ignoranti usare la parola da definire nella definizione» fu la cosa migliore che gli venne in mente.
Elvis gli restituì il sorriso e poi gli piantò un pugno nello stomaco.
«Di' un'altra parola e ti spacco quella merda di naso, non mi prendi per il culo».
Sentì salire il panino al burro d'arachidi e lo ricacciò giù per non vomitargli sulle scarpe. Purtroppo però non era così bravo a mandar giù un altro tipo di vomito.
«Il mio naso è già spaccato!»
Il colpo gli rimbombò sui denti e sentì le ossa rotte scricchiolare una contro l'altra. Almeno sapeva una cosa: Elvis era uno che manteneva la parola.


«Posso dire solo una cosa?»
«Che c'è?!»
«Puoi alzare il riscaldamento? Fa veramente freddo» disse stringendosi le ginocchia al petto.
Avevano perso troppo tempo, quindi non gli lasciarono nemmeno un minuto per vestirsi, ma lo portarono fuori dall'appartamento in pantofole e asciugamano. Doveva essere un quartiere piuttosto malfamato o magari solo spaventato, perché nessuno dei passanti osò dire e far nulla mentre lo costringevano a salire in auto.
Elvis lo guardò dallo specchietto retrovisore.
«Ecco vedi, tu dovevi pensarci prima di mandare la lingua a passeggio, ti avevo avvertito».
«Lo so» disse, contorcendosi nel tentativo di trovare una posizione comoda.
«Ehi, smettila di sanguinare! Non sulla mia macchina, non su questa tappezzeria! Metti quel cazzo di ghiaccio su quel cazzo di naso!»
Il ghiaccio era quasi del tutto sciolto e la pezza in cui era avvolto era umidiccia di acqua gelida e sangue. L'odore ferroso del suo stesso sangue non lo avrebbe abbandonato per un bel po'.
Arrivarono in un ampio viale costeggiato da due identici e giganteschi edifici a mattoncini rossi. Fu come trovarsi davanti a uno specchio, una pallida imitazione delle due torri ridotte in cenere.
Un altro energumeno dalla pelle d'ebano li accolse quando accostarono di fronte a uno dei due edifici, in una mano teneva un giornale, nell'altra il mitra nascosto sotto il loden scuro.
Slevin si guardò intorno e si rese conto che quella non era l'unica guardia posta di fronte agli ideali cancelli di quell'ideale castello. Ne contò almeno altre cinque, tutte armate.
L'atrio all'interno era semplice ed elegante, per nulla sfarzoso, dava l'impressione di forza e sicurezza. Le pareti chiare, il parquet, il legno di noce e i tappeti persiani: era come trovarsi all'interno di una banca, la più grande e affidabile della città.
Elvis e Lento lo spinsero dentro un ascensore e si fecero un viaggetto fino al super attico.
Le porte si aprirono su un corridoio in marmo bianco e nero, circondato da due pareti ricoperte di faretti dorati. Era quella la via per l'inferno? Lui la stava percorrendo in pantofole, con un asciugamano alla vita e il naso rotto e sanguinante... ma c'erano margini di peggioramento.
Entrò nella stanza in fondo al corridoio, era ampia e arredata come tutto il resto. In piedi davanti a una delle grandi finestre c'era l'ennesimo uomo alto e scuro. Era largo il doppio di Lento e aveva un'espressione più incazzata di quella di Elvis. Aveva due opzioni: convincerlo della propria innocenza o uscire da quel palazzo dentro un sacco della spazzatura. Nella migliore delle ipotesi.
«Senta, i suoi ragazzi Elvis e Lento hanno pizzicato l'uomo sbagliato. Io non sono Nick Fisher».
«Signor Fisher!» esclamò una voce alla sua destra. Lì c'era una scala a chiocciola nera e lucida, da cui scese un uomo anziano e distinto.
Teneva in mano un bastone da passeggio dall'aspetto costoso e lo faceva dondolare ad ogni gradino con eleganza. La sua ombra proiettata sulle pareti e sul gigantesco specchio di fronte alla scala, lo faceva apparire più ingombrante e minaccioso di quel che era in realtà.
«Lei ha presente lo Shmoo, signor Fisher? Era un fumetto che mi piaceva da bambino. Lo Shmoo era una creatura adorabile: deponeva le uova, dava il latte e moriva di pura estasi quando un affamato lo guardava, perché adorava essere mangiato. Poteva assumere qualunque sapore tu desiderassi».
Lo raggiunse e lo guardò negli occhi. Gli venne in mente una parola: carisma. Quel vecchio emanava carisma da ogni poro della pelle stanca. Il suo sguardo fiero e sicuro pareva trapassarlo da parte a parte, come se fosse capace di entrargli nella testa e carpire ogni suo più piccolo segreto.
Il sangue gli si gelò nelle vene e la lingua gli si paralizzò tra i denti.
Non ricevendo risposta, l'anziano riprese a parlare e a muoversi intorno alla stanza.
«Le pelle di Shmoo, tagliata fine, diventava cuoio sottile; perfino i baffi di Shmoo erano ottimi stuzzicadenti. In sostanza, lo Shmoo soddisfaceva tutti i desideri del mondo» si fermò accanto all'altro uomo, vicino la finestra.
«Ho usato l'esempio dello Shmoo solo perché è attinente alla ragione per cui è stato portato qui».
«Mi scusi, ma lei chi è?» disse, ritrovando la voce e la parlantina.
Se nella vita aveva imparato qualcosa era che un animale ferito non sopravvive a lungo nella giungla.
«Io sono il Boss» rispose l'altro, senza scomporsi di fronte alla sua palese arroganza.
«Credevo che fosse lui il Boss» indicò quella che era evidentemente una guardia del corpo.
Il Boss squadrò la guardia dalla testa ai piedi e poi domandò: «Perché? Ci somigliamo?»
Avrebbe risposto “touché”, ma preferì non rischiare di indisporre troppo un uomo con così tanto potere. Spostò il suo peso da un piede all'altro, mentre il Boss prendeva posto dietro la scrivania.
«Dunque signor Fisher, lei voleva dirmi qualcosa?»
«Io? A dire il vero è lei che mi ha fatto venire qui» si strinse nelle spalle.
«Sì, ma dicevo prima, quando pensava che io fossi lui».
«Non pensavo che lei fosse lui, pensavo che lui fosse lei. E stavo cercando di farle capire che hanno preso l'uomo sbagliato».
Il Boss poggiò entrambe le mani sui braccioli e si mise comodo sulla sedia di pelle verde bottiglia.
«L'uomo sbagliato per cosa?»
«Per qualsiasi cosa voglia da me».
«Lo sa cosa voglio da lei?»
«No».
«E come sa che ho preso l'uomo sbagliato?»
«Be', perché io non sono quello...»
«Forse voglio darle 96.000 dollari. Ho preso sempre l'uomo sbagliato?» ghignò.
A Slevin scappò una risatina.
«Vuole darmi 96.000 dollari?»
Il Boss si alzò, fece il giro della scrivania e gli si piazzò di fronte, faccia a faccia.
«No. E lei vuole darmi 96.000 dollari?»
«No, dovrei?»
«Non lo so, dovrebbe?»
L'aria divenne più pesante e all'improvviso sentì caldo, nonostante fosse praticamente nudo. Deglutì a fatica, la gola sempre più secca, e strinse forte le mani dietro la schiena.
«Non lo so... dovrei?»
Il Boss fece schioccare la lingua contro il palato.
«Be', per farla breve...»
«Breve mi sembra una parola grossa» disse di getto.
«Scommetto che è stata quella lingua lunga a procurarti quel naso, quindi facciamo così: dimmi che idea ti sei fatto sul perché sei stato portato qui» lo invitò a parlare con un gesto della mano.
Esitò un attimo, studiando l'espressione del Boss, ma lui sembrava piuttosto serio, quindi...
«Ho come l'impressione che lei abbia l'impressione che io le devo 96.000 dollari».
«No, tu devi a Slim Hopkins 96.000 dollari. Tu li devi a Slim, Slim li deve a me... tu li devi a me».
«E non si può parlare con questo Slim?»
Il Boss e la guardia del corpo si scambiarono una veloce occhiata e in meno di dieci minuti si ritrovarono nel seminterrato del palazzo. Un posto buio, freddo e sporco che gli fece venire i brividi per diversi motivi, compresi gli occhi morti di un uomo dentro una cella frigorifera.
Era come quella che si trova nei macelli, solo che al posto della carne c'era un uomo con un buco in fronte e i vestiti sporchi di sangue. Il Boss levò la brina dal vetro con una mano.
«Ehi Slim, conosci questo ragazzo? Slim?» chiese al cadavere.
«È inutile,» scosse la testa «da quando gli hanno sparato è diventato sordo».
«C-cos'è che ha reso Slim sordo?» disse Slevin con un voce malferma.
Il Boss lo guardò come se fosse ingiustamente impressionato.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché io le devo 96.000 dollari e ho un leggero problemino a metterli insieme».
«Ah, per quello! Ok, dai non ti preoccupare, facciamo che pareggiamo a 90.000».
«Molto generoso, ma il problemino rimane lo stesso» disse con un filo di voce.
«Mh, va bene. Allora facciamo che io ti cancello l'intero debito in cambio di un piccolo favore».
«D-dipende dal favore».
Il Boss gli diede una manata sulla schiena, che bruciò fino alle ossa.
«Sei con le spalle al muro, eppure non ti arrendi e provi a dettare le condizioni. Tree, chiama l'ascensore, il ragazzo è più freddo di Slim e non vogliamo mica rischiare che muoia».
Una volta tornati nell'appartamento il Boss andò dritto alla scrivania, prese una cornice e gli mostrò la foto che racchiudeva.
«Questo era mio figlio. Hai notato che ho detto era?» disse serio e Slevin quasi poté toccare l'aura di cupa tristezza che emanava.
«Sì» annuì abbassando lo sguardo.
«Perché ora è morto. Ammazzato con un proiettile in testa sulla porta di casa. Relegato all'imperfetto dell'essere. Spedito da un “è” a un “era” prima di colazione».
«Bel problema».
«Già, è un bel cazzo di problema. E sai cosa significa questo?»
«No, non saprei» incrociò le mani davanti a sé, temendo un colpo basso che non arrivò.
Il Boss si spostò di nuovo davanti alla finestra per guardare il palazzo di fronte.
«Lex talionis, la legge del taglione. È stato infranto un patto. Mio figlio è stato ucciso quindi lo stesso destino dovrà toccare al figlio del Rabbino».
«Al... al figlio di chi?»
«Del Rabbino».
Aveva ancora la gola secca da quando aveva visto quel cadavere nella cella frigorifera e sulla scrivania c'erano una brocca e due bicchieri pronti per essere riempiti.
«Perché lo chiamano il Rabbino?» chiese versandosi dell'acqua.
«Perché è un rabbino».
Il Boss gli rivolse un'occhiataccia proprio mentre stava per poggiare le labbra sul bordo del bicchiere.
«E chi è il figlio?» chiese per distrarlo, mentre rimetteva a posto la tanto agognata fonte di liquidi. Nudo, assetato, con il naso rotto e a rischio di morte, peggio di così non poteva andare, no?
«Yitzchok».
«Yitzchok il figlio del Rabbino» registrò mentalmente quell'informazione.
«Yitzchok la fatina» precisò il Boss.
«E perché lo chiamano “la fatina”?» chiese. Non che fosse difficile intuirne il motivo, ma fare domande lo aiutava a mantenere la concentrazione. Il Boss alzò gli occhi al cielo.
«Perché è una fatina!»
«Come? Ha le ali, sa volare, sparge polverina magica dappertutto?» ridacchiò.
«È una checca» .
«Ok, capito» sollevò le mani in segno di resa.
«Andiamo» disse il Boss, incamminandosi verso l'uscita.
Lo seguì svelto, nonostante avesse le pantofole e l'asciugamano stesse per cadergli.
«E il Rabbino che cosa ne pensa?» domandò riannodandolo in vita.
«Lui non lo sa».
«Lei lo sa, ma lui non lo sa».
«Tutti lo sanno».
«Tranne il Rabbino».
«Esatto».
Si sentiva più leggero ora che stavano attraversando a ritroso il corridoio con i faretti dorati.
«E io che ruolo ho?»
«Tu?» il Boss si voltò a guardarlo. «L'ammazza-fatine».
«I-io?» ora non sorrideva più.
«Tu».
Restò a bocca aperta, mentre la testa lavorava per mettere insieme i pezzi.
«Non esistono dei professionisti per fare queste cose?»
Il Boss scoppiò a ridere di gusto.
«Certo che esistono! Ma tu mi devi 96.000 dollari, quindi perché dovrei pagare qualcun altro se ho già pagato te?»
La sua faccia atterrita dovette far pena al Boss, che gli mise un braccio attorno alle spalle per accompagnarlo all'ascensore.
«Con i tuoi debiti non vai molto lontano, il che vuol dire che ti tengo nel taschino, ovverosia se tu non fai quello che io voglio che tu faccia, passerai dal mio taschino alla cella frigorifera. A Slim farà piacere avere compagnia e a me farà comodo lo Shmoo. Aspetto una tua risposta domattina».
Le porte dell'ascensore si aprirono e dentro c'erano Lento ed Elvis ad aspettarlo.
«C'è qualcos'altro?» chiese con il morale sotto le suole sbriciolate delle sue pantofole.
«Be' non penso sia necessario dire una frase banale o un cliché come “se chiami la polizia sei morto”» disse lapidario.
«Però l'ha detta».
«Però l'ho detta».

Le porte dell'ascensore si chiusero e il Boss restò solo con le sue guardie del corpo e una presenza celata dietro una delle porte a scomparsa tra i pennelli di legno.
«Allora, mi faccia capire se ho afferrato: io la pago una fortuna per ammazzare qualcuno e lei prende un altro per farlo?»
L'uomo uscì allo scoperto. Indossava un completo elegante che lo faceva somigliare ad Humprey Bogart in Casablanca e dai suoi occhi azzurro cielo non trapelava alcuna emozione.
«Non si preoccupi. Io ucciderò qualcuno» sentenziò gelido.
   
 
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