L'aveva
sognata, progettata e
desiderata per anni.
Negli ultimi vent'anni aveva impiegato ogni
sua risorsa per arrivare a quel momento, lì seduto su una
sedia blu
all'aeroporto di New York, con in mano un biglietto di sola andata
per un paese straniero.
Aveva avuto la sua vendetta, ma non era
dolce né soddisfacente come si era aspettato.
I suoi genitori non sarebberro di certo
tornati in vita, così come tutte le persone che erano morte
e
avevano sofferto a causa del Boss e del Rabbino. Il suo premio di
consolazione era sapere che almeno nessun altro avrebbe patito
ciò
che lui aveva patito per mano dei due gangster.
Era certo che
altri avrebbero preso il loro posto, ma era anche sicuro che non
sarebbe toccato a lui fermarli. Aveva riflettuto molto su quel punto
e si era già messo l'anima in pace prima di arrivare a New
York.
Ciò che rendeva amara quella vittoria
era non vedere Malia. Mancava ancora poco alla partenza e non vederla
poteva solo significare una cosa, cioè che Goodkat era
andato a
trovarla.
Gli
aveva risparmiato la vita, l'aveva
cresciuto e addestrato come se fosse figlio suo; gli doveva tanto ma
non sapeva se sarebbe riuscito a perdonarlo per ciò che
aveva fatto.
In fondo aveva improntato la sua vita a serbare rancore...
Il
brusio della gente attorno a lui si fece troppo forte da sopportare,
così si calò il cappello di lana sugli occhi e
nascose il viso tra
le mani. Qualcuno però gli diede una spinta e per poco non
cadde giù
dalla sedia.
Si levò il cappello e si alzò in piedi con tutta
l'intenzione di prendere a pugni quell'idiota, ma quando lo
guardò
in faccia dovette trattenersi dall'urlare.
«Sei... sei qui»
disse.
Malia poggiò a terra la valigia e si tuffò tra le
sue
braccia. Stiles si staccò quel tanto che bastava per darle
un
leggero bacio sulla fronte e poi l'avvolse in un caldo abbraccio.
*
«Dove vai?»
«Vado a
prendere il caffè».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le
ciambelle» confermò sorridendo, mentre si
abbottonava la
camicia.
«Con la glassa!» la sentì urlargli
dietro quando era
ormai sul pianerottolo.
Qualche giorno prima aveva visto
una tavola calda dall'aspetto accogliente a due isolati dal palazzo
di Nick. Era diretto lì quando il detective Hale gli aveva
teso uno
dei suoi agguati a sorpresa, e non cambiò idea nemmeno dopo
essere
stato gettato via dal furgone come un sacco dell'immondizia.
Entrò
da Metro Diner e ordinò due
caffè e quattro ciambelle di diversi gusti, sperando di
azzeccare
quello preferito di Malia.
Certo, Goodkat non ne sarebbe stato
entusiasta, preparavano quel colpo da anni e Malia era stata uno
splendido incidente di percorso, ma lui non aveva mai passato una
notte così bella come quella appena trascorsa. Era stato
bene, si
era sentito nel posto giusto al momento giusto. E in ogni caso, dopo
aver portato a termine la sua vendetta, sarebbe sparito nel nulla,
magari lasciandole un biglietto o qualcosa del genere.
Goodkat
non sarebbe mai venuto a
saperlo, in fondo era stato bravo a tenerglielo nascosto,
pensò
fischiettando mentre saliva le scale fino all'appartamento di Malia.
Il suo buonumore però si spense come la candelina su una
torta di
compleanno.
«La tua ragazza mi ha fregato. Mi ha fatto una foto.
Deve finire sotto terra» disse Goodkat, le mani in tasca e il
sorriso da Gioconda stampato in viso.
«Ok» annuì masticando la
sabbia del deserto.
Malia stava sonnecchiando sotto le
coperte, non si era accorta di lui che camminava avanti e indietro
per tutto l'appartamento, era ignara del caffè che stava
rapidamente
raffreddando sul comò e delle ciambelle che stavano
assumendo la
consistenza di una gomma da masticare.
Si
accorse del suo ritorno solo quando
le si coricò addosso, sussurrandole all'orecchio.
«Malia, devo
dirti una cosa importante».
«Cosa c'è?» si tirò su a
sedere e
lui fece altrettanto.
Restarono
a guardarsi negli occhi per
un po', lei curiosa e in ansia di sapere cosa fosse successo, lui in
preda a un conflitto interiore che non gli permetteva di trovare le
parole giuste.
Infine chiuse gli occhi e sospirò, prendendole le
mani tra le proprie.
«Io non sono Nick Fisher».
«Sì, questo
lo so».
«E non sono neanche Slevin Kelevra. Non esiste nessuno
che si chiami così».
Il petto di Malia si gonfiò di sorpresa e
gli occhi castani si spalancarono. Lui le strinse le mani con
maggiore forza per non perdere la sua attenzione.
Le raccontò la
storia della corsa ad Aqueduct, senza tralasciare nulla, neppure la
storia dell'orologio che portava al polso. Non aveva alcun valore se
non quello affettivo legato a Noah, suo padre. Era l'unico oggetto
che gli ricordava ogni giorno quale fosse il suo unico obiettivo, la
vendetta.
Le spiegò che fine aveva fatto Nick e, anche in quel
caso, non tralasciò alcun particolare della mossa
Kansas
City.
Malia lo ascoltò in silenzio, ma il suo respiro era
più
pesante e le sue mani leggermente umide.
«Lo so che è difficile
da credere, so che potrò sembrarti un pazzo maniaco omicida,
che ha
ucciso il tuo vicino di casa e ha preso il suo posto per arrivare a
te ma... la verità è che tu non eri compresa nel
nostro piano. Sei
stata un imprevisto e ora io devo... devo
proteggerti».
«P-proteggermi? Da chi...?» chiese ma la risposta
si materializzò davanti ai suoi occhi prima ancora di
concludere la
domanda. «Goodkat».
Corse in bagno a sciacquarsi il viso, mentre
un vago senso di nausea le attorcigliava lo stomaco, poi
tornò in
camera e lo trovò in piedi con un espressione contrita a
sconvolgergli i lineamenti del viso.
«Io... io non so neanche
come ti chiami!» esclamò ricacciando indietro le
lacrime.
«Il mio nome è Mieczyslaw Stilinski, ma tutti mi chiamano Stiles».
«Bene,
Stiles. Ora dimmi che
hai intenzione di fare per "proteggermi"» mimò le
virgolette con le dita.
«Senti, so che sei arrabbiata ma devi
darmi ascolto e devi fare esattamente cosa ti dico io».
Malia
sentì la stanza girare tutta intorno a lei,
perciò andò di nuovo a
stendersi per evitare di cadere.
Stiles la raggiunse e le si
sedette accanto.
«Quando tutto sarà finito, lui verrà a
trovarti. Conoscendolo avrà già scoperto quali
sono i tuoi orari e
i momenti della giornata in cui sei da sola. Sarà
silenzioso, quindi
stai all'erta e non dare mai le spalle alla porta. Lui ti
sparerà
qui» poggiò il palmo della mano sul suo petto,
all'altezza del
cuore.
«Ho un... un giubbotto antiproiettile nell'armadio»
disse
Malia con voce neutra.
Stiles inarcò le sopracciglia fino
all'attaccatura dei capelli.
«Tu hai cosa?»
«Un giubbotto
antiproiettile. Il mio ex ragazzo era un patito di armi ed
esercitazioni per prepararsi alla fine del mondo. Sì,
insomma è un
regalo di compleanno. Avrei dovuto buttarlo insieme al resto della
sua roba quando abbiamo rotto, ma ho pensato che un giorno mi sarebbe
potuto tornare utile, quindi...»
Stiles si lasciò andare ad una risata
liberatoria, cadendo sul letto al suo fianco.
«Lo trovi
divertente? No, perché se non te ne fossi accorto la
situazione non
lo è per niente».
«Scusa, è che sei così piena di
risorse»
ridacchiò ancora in preda all'euforia.
«A questo punto immagino
che per te non sia poi così difficile procurarsi una sacca
di
sangue...»
«Certo che no, ho diverse amiche in
ospedale. Il punto è che non sappiamo se mi
sparerà in faccia,
capisci? E la cosa più tragica è che ne sto
parlando come se la
cosa non mi riguardasse».
«Tranquilla, è un normale meccanismo
di difesa per non perdere la testa».
«Dovrei urlare, scappare in
strada a piedi nudi, oppure... oppure prenderti a pugni, odiarti e
lanciarti addosso ogni oggetto in questa stanza, ma...»
Stiles
avvicinò il viso al suo, per guardarla ancora più
da vicino.
«Ma?»
le domandò a un soffio dalle sue labbra.
«Ma non ci riesco».
*
Erano in piedi da un po',
stretti l'uno all'altra, quando si decise a raggiungerli. Sorprendere
la gente alle spalle restava una delle sue cose preferite in
assoluto.
Quando lo vide, Stiles si affrettò a mettersi tra lui e
la ragazza. Sembrava dire "uccidimi pure, ma non portare via
anche lei". Trattenne a stento un sorriso vedendo quella
scena.
Si era chiesto cosa avesse quella ragazza di tanto speciale
da fargli mettere a rischio ogni cosa, poi l'aveva guardata negli
occhi prima di spararle e aveva capito.
Malia Tate aveva lo
stesso sguardo di Stiles. Ti guardava negli occhi e sapevi che ti
stava giudicando, ma che era pronta ad affrontare la morte con stoica
rassegnazione, senza abbassarsi a piangere e supplicare.
«Pensavo
che non avresti capito» gli disse Stiles, sostenendo il suo
sguardo.
«Invece ho capito».
«Come hai fatto a scoprirci?»
«Sono un killer fuoriclasse, testa di cazzo. Come credi che
abbia fatto?» ghignò, poi mise una mano in tasca e
tirò fuori
l'orologio annerito di Noah Stilinski.
«Ho pensato che lo
volessi» disse porgendoglielo.
Nonostante fosse sporco, senza
vetro né lancette, Stiles se lo rimise al polso,
là dove era stato
negli ultimi vent'anni.
«Grazie» gli disse con voce rotta, poi
si salutarono con un cordiale cenno del capo, così come
avevano
stabilito.
Lui era un'ombra, un killer senza nome e quella sarebbe
stata la sua vita fino alla morte. Stiles aveva del talento, ma non
se l'era scelta quella strada, quindi era il momento per lui di
tornare a vivere alla luce del sole.
Era stato un buon figlio e a
lui non era dispiaciuto fare il padre, a modo proprio.
*
Il caldo torrido gli faceva
sudare la faccia sotto quegli occhiali scuri e tollerava a malapena i
baffi e quel dannato abito elegante, ma aveva un lavoro da sbrigare
ed era meglio farlo in un posto isolato.
Quel ragazzino era
strano, il più strano che avesse mai visto. Continuava a
fissare
l'orologio e non sembrava preoccuparsi di ciò che gli
accadeva
intorno.
Lo portò fuori città, al confine, dove c'erano
solo
terra ed erbacce, e gli disse di scendere dall'auto.
L'avrebbe
colpito alle spalle, come aveva già fatto in casi del
genere; ma
proprio mentre stava per premere il grilletto, il ragazzino si
voltò
a guardarlo e rimase fermo e impassibile di fronte alla pistola.
Quello sguardo, quel dannatissimo sguardo...
Mise giù la
pistola.
«Forza, sali in macchina».
Il ragazzino
ubbidì.
«Voglio andare a casa mia».
«Né io né te
torneremo a casa per un bel po', piccolo. Io sono Goodkat, puoi
chiamarmi Mr. Goodkat».
Mise in moto, accese la radio e la
sintonizzò sulla sua stazione preferita:
"Sono le quattro
e venti, qui su Radio WMNR, e questa è la mia nuova canzone
preferita. È di J. Ralph, si chiama 'Kansas City Shuffle'!"