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Autore: Yoko Hogawa    13/07/2009    5 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a te, ci mancherebbe solo che sia venuto uno schifo

Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a te, ci mancherebbe solo che sia venuto uno schifo.

Ami Abrahel perché è comparso solo lui prima d’ora XD mi sa che amerai anche Eric, conoscendoti, da questo capitolo in poi.

Grazie mille per le considerazioni stilistiche, sono felice che non sia scialbo. E che Abrahel sia figo, per l’amor del cielo, non è un fatto da nulla U___ù.

 

lucy6: in una copia di quello che ho detto sopra, grazie anche a te per i complimenti stilistici; e sono altresì contenta che la premessa ti piaccia, davvero. Grazie mille per la recensione <3

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Saturday

 

Eric

The day I met Joshua Archer

 

 

Trovava che non ci fosse nulla di così entusiasmante in posti come quello.

La musica alta era fastidiosa, il caldo soffocante, l’odore di alcool e sudore quasi stomachevole.

Se si voleva parlare bisognava urlare, sovrastare in qualche modo quel costante rimbombo di bassi che facevano tremare la cassa toracica.

E, in ogni caso, era probabile che la persona con cui si voleva discorrere non fosse esattamente in sé per capire cosa si veniva detto.

Situazione in cui si trovava quasi ogni fine settimana.

Ogni santo venerdì sera in cui si faceva convincere dai suoi due amici schizzati ad andare al Rock Theater, discoteca di musica rock/dark/commerciale abbastanza famosa a pochi chilometri dalla costa.

E “abbastanza famosa” significava letteralmente “fin troppo affollata”; cosa non male se ci si vuole strusciare in mezzo a corpi sudaticci che si muovono a ritmo sincopato su una pista da ballo, oppure se si vuole bere fino a quando il fegato non si trasforma in una spugna imbevuta di etanolo… un po’ meno bella cosa, invece, se di rimanere quattro ore in mezzo al fracasso (perché ad un volume così alto era solo bordello, non era musica) non se ne aveva nessuna voglia.

Come lui, che in certi locali ci andava solo se ci veniva trascinato.

Cosa che succedeva perennemente, per l’appunto.

« Ehi Eric, un po’ di vita per Dio! » sbottò Douglas al suo fianco, circondandogli le spalle con il braccio muscoloso: « Cristo, sembri mia nonna » aggiunse.

Il castano si scostò un paio di ciuffi corti da davanti agli occhi, puntando le iridi scure direttamente sul viso squadrato dell’amico. « Non pretenderai che io mi ci diverta anche, in posti come questo » sputò, seccato.

Lo avevano preso proprio nella giornata sbagliata, poveri loro.

« Certo che ti ci diverti, santo Dio! Ci veniamo sempre e non ti ho mai sentito lamentarti » aggiunse l’altro membro del terzetto, Robert, terminando con dovizia di incastrare una buona manciata d’erba dentro una cartina.

« Sì, Cristo, ha ragione Rob » aggiunse Doug: « nemmeno io ti ci ho mai sentito ».

« Cazzo, ma volete lasciare in pace Cristo? » sbottò Eric, togliendosi con un movimento non rude il braccio di Douglas dalle spalle.

Lui si era lamentato, invece. Peccato che la maggior parte delle volte o lo ignoravano, o erano troppo sballati per starlo a sentire e capire veramente quel che dicesse.

La ragazza dietro ad uno dei tanti banconi tornò con le loro ordinazioni, sorridendo di scherno al tentativo malriuscito di Robert di abbordarla.

« Che c’è, che ti ha fatto di male Gesù? » sfotté lo stesso, infilandosi la paglia appena richiusa dietro l’orecchio, in mezzo ai ricci neri.

« A me proprio niente » rispose Eric, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans chiari. « Solo non mi piace molto che si usi come intercalare ogni qualvolta capita l’occasione, tutto qui. Sono sicuro che il vostro repertorio di parole colorite è notevole anche senza scomodare santi e beati » spiegò, fissando lo sguardo sul buttafuori in mezzo alla folla.

Quanto sarà stato alto quel tizio, due metri? E non aveva mandato via da quel posto quei due imbecilli dei suoi amici nemmeno una volta?

« Cazzo Er, che palle che sei » rispose l’amico, ingannando il tempo dell’attesa occupando le mani in un altro patchwork di erba e cartine: « se la tua carta d’identità non dicesse chiaramente che hai vent’anni, come minimo te ne darei quarantacinque » sfotté di nuovo, ridacchiando.

« Beh, qual è il problema? » chiese Eric, evitando per l’ennesima volta il braccio muscoloso di Doug in procinto di circondargli le spalle.

« Sei un maledetto matusa, Eric! » disse il suddetto, rinunciando definitivamente a stritolare l’amico: « tu non sei un adolescente normale! » aggiunse.

« Ohi! Da chi si tirerebbe i confini della Croazia se fossero segnati con la coca non le voglio sentire, queste cagate » ribatté lui sulla difensiva.

Odiava quando si andava a finire su quel discorso. Tutte le volte che i due commentavano le sue abitudini pacate con quell’aria da saccenti gli veniva prurito alle mani dalla voglia di prenderli a sberle.

Cosa che, lo sapeva, non sarebbe comunque servita.

Erano più testardi di muli e dei grandissimi coglioni; se si mettevano in testa una cosa, o si faceva o si faceva, le alternative non venivano nemmeno prese in considerazione.

Soprattutto, si faceva solamente se Eric prendeva in mano le chiavi della macchina e li accompagnava ovunque volessero senza fiatare.

Così che poi toccava a lui farsi trenta chilometri in giro per la città nel disperato tentativo di accompagnare a casa quei due sfigati, convincendo uno di non essere il capitano Kirk sull’Enterprise e cercando di arrivare a casa dell’altro prima che vomitasse nella sua macchina.

Quando, al contempo, cercava di persuadere se stesso che il primo avesse ancora qualche neurone non bruciato dalla droga e che il secondo avrebbe messo la testa a posto per quanto riguardava l’alcool, almeno per rispetto al suo fegato che dire martoriato non rendeva nemmeno l’idea.

Ma non cambiava mai niente, mai. La settimana successiva era un ripetersi sempre della solita scena.

Sipario che veniva alzato anche su di lui, quando Robert gli passava quasi casualmente una canna imbottita d’erba fino ad esplodere o Douglas ordinava puntualmente il suo drink dalla colonna di quelli più alcolici in lista.

Lo trascinavano, legandolo con le catene del vizio ad un gioco a cui non avrebbe nemmeno voluto partecipare.

Ma si sentiva obbligato, costretto; e la sua spinta a continuare per quella strada erano i suoi ragionamenti sconclusionati.

Perché si rendeva conto che Douglas e Robert non erano di certo gli amici ideali per lui, così boriosi e pieni di sé da fare schifo… ma sapeva anche che erano gli unici che lo invitavano fuori la sera, costantemente.

Che, dopo di loro, tutti gli altri volti che componevano il suo mondo non raggiungevano l’appellativo “amici”; rimanevano solo “compagni”.

Compagni di corso, compagni di squadra, compagni di studi. Mai oltre.

Lasciò perdere i discorsi dei due nello stesso istante in cui, preso controvoglia il bicchiere con il drink e bevutone un sorso, sentì almeno quaranta gradi d’alcool scivolargli giù per la gola.

Bruciandola, in quel retrogusto di lime e cedrata, nascosto violentemente dal gin e da quella che sembrava vodka.

E lui doveva guidare, porca miseria.

Ma poco importava. Era sempre importato troppo poco.

Non arrivava mai all’eccesso, alla sbornia violenta, di quelle da non capirci più niente.

Beveva solo fino al sopraggiungere di quella rassicurante foschia ovattata, che si calava piano sul suo cervello fino a rallentarne le funzioni, a mitigarne le disperazioni e disintrecciare i pensieri dalla patina di dolore e solitudine che li avvolgeva.

Dopo averne bevuto più di metà, ed avere ovviamente perso di vista i due che in teoria lo accompagnavano, la poco famigliare tranquillità che lo avvolse lo fece sorridere.

Lui non reggeva bene l’alcool, alcuni dei suoi compagni di squadra glielo dicevano spesso. Era proprio quello il bello.

Sballava con niente.

Leggermente rintronato da quell’iniezione di etanolo si lascò andare su una poltroncina, sporca di cosa non voleva nemmeno saperlo.

Sentiva la canottiera bianca aderire ai muscoli allenati della schiena, umida di sudore dato il caldo soffocante dell’ambiente. Peggio dell’afa estiva; l’aria sembrava condensata, quasi solida.

Boccheggiò, strizzando gli occhi. Poi, a corto di cose da fare quando non aveva pensieri con cui disfarsi i neuroni e l’umore, decise istintivamente di guardarsi intorno.

Non vedeva altro che corpi. Ballavano, scatenandosi in preda agli istinti più impellenti, seguendo il ritmo serrato della batteria e dei bassi sparati a palla dagli altoparlanti. Braccia e mani, movimenti suadenti, sguardi languidi. Si strusciavano l’uno sull’altro, a volte casualmente altre volte volutamente, azzardando a toccare con mano ciò che normalmente, alla luce del sole, non sfiorerebbero nemmeno con lo sguardo.

Tuttavia, non si poteva mettere in dubbio la sensualità di quelle danze. Accompagnati dalla musica adatta, dalle canzoni giuste anche se ridotte quasi ad un rumore continuo senza senso alcuno, quelle avances spietate avevano il potere di incantare anche chi non partecipava, ma guardava solamente.

Erano quelli i momenti in cui si lasciava andare completamente ai suoi desideri più vili, più meschini. Più nascosti. In cui socchiudeva gli occhi e, facendo come se nessuno lo guardasse, sfiorava da sopra la stoffa dei jeans l’interno coscia, distrattamente, approfittando di quella momentanea mancanza di raziocinio.

Ma poi, puntualmente, non andava mai oltre. Se ne rendeva conto prima, di essere ridicolo.

Esattamente come in quel momento, quando la sua mano si fermò d’improvviso sulla sua gamba.

Sospirò. Si faceva quasi pena.

E non sarebbe stato in quel posto nemmeno un minuto di più.

Si alzò, lasciando sul tavolino il suo drink ancora a metà, attraversando il mare di corpi con l’unica intenzione di raggiungere l’uscita, di respirare un po’ d’aria.

Era distrutto e non aveva ancora fatto niente. Nemmeno ballato.

Ma necessitava di ossigeno. Aveva un bisogno fisico di un’aria pulita, del freddo della sera sulla sua pelle accaldata e dell’odore di rugiada nelle narici.

« Eeeeeeeehi, Eric! » strascicò Douglas frapponendosi improvvisamente fra lui e l’uscita, con entrambe le mani occupate a palpare le natiche di due ragazze ubriache quanto lui. « Che fai? Te ne vai? Mi lasci qui con Jiji ed Emma? » si lamentò, già oltre la soglia solita di annebbiamento celebrale dovuto dagli innumerevoli cicchetti che si era già ingoiato, buttandoseli direttamente nel sangue e nel cervello.

« No, Doug, no… » biascicò a sua volta, sempre più confuso e disturbato da quel posto. Oppresso, sentiva come se  muri si stessero chiudendo su se stessi, intrappolandolo fra innumerevoli pareti di musica e corridoi odoranti di sesso sporco e lascività. « Vado solo a prendere… una boccata d’aria » cercò di spiegare.

Ma era ovvio che Douglas, già normalmente poco attento a qualsiasi discorso che si cominciava, in preda ai fumi di chissà quale liquore non voleva nemmeno considerare il fatto che lui avesse facoltà di parola.

Lasciò andare le due ragazze fra un mare di risolini insulsi, afferrandolo in tutta la sua mole non indifferente e appoggiandoglisi praticamente sopra.

Un brivido gli percorse la schiena quando, sentendo le sue mani lungo la colonna vertebrale, percepì il chiaro fraintendimento in cui spesso il Douglas ubriaco cadeva: quello di considerarlo alla strenua di un giochetto sessuale abbastanza divertente, nonostante il ragazzo continuasse (da sobrio, ovviamente) a professarsi un eterosessuale più che convinto.

« Doug, lasciami » disse, calmo nonostante tutto, distogliendosi dalla presa con la forza che intere giornate in piscina avevano avuto modo di conferirgli.

L’altro si lamentò in maniera piuttosto disarticolata, ma lasciò perdere non appena si convinse di non avere abbastanza equilibrio per riacciuffarlo.

« Senti… vai a cercare Rob, ok? Assicurati che sia nei paraggi » propose Eric, conscio che una richiesta così semplice sarebbe stata accettata al volo dal tasso alcolemico da coma etilico che ora guidava il cervello del ragazzo.

Quello sorrise, decisamente rincoglionito, annuendo piano: « Sì, va bene… ma solo perché ti voglio bene, ok Er? » biascicò, ritornando con la mano sul sedere delle ragazze e dirigendosi a passo malfermo verso i bagni.

Robert era là di sicuro, a spacciare e a tirare, come sempre. Sperava solo che non si fosse sniffato anche le piastrelle, di quei fottutissimi cessi.

Da parte sua, riprendere a camminare verso l’uscita fu la cosa più difficoltosa che gli fosse mai capitata di fare. Muovere il primo passo, specificatamente, fu una vera agonia. Il suo mondo si era ristretto, era diventato incredibilmente soffocante, e sentiva gli stessi sintomi di quando in vasca gli prendeva l’ansia prima della gara.

La vista sfocava, le forze sembravano abbandonarlo.

Doveva uscire. Ormai sembrava, ridicolmente, che la sua vita dipendesse dalla boccata d’aria fresca che lo aspettava.

Non c’era più nessuno fra lui e l’esterno del locale; anche la musica si attenuava con la lontananza, divenendo più ovattata man mano che camminava. Sembrava brancolare nel buio, e non disse nulla quando l’addetto gli timbrò la mano per consentirgli di rientrare. Semplicemente seguì l’aria fresca… e uscì.

Respirò a pieni polmoni, ringraziando silenziosamente la notte per essere così fredda e maledettamente rigenerante.

Le sue orecchie, a causa della musica alta, erano come tappate. Come se si trovasse senza cuffia in acqua e il liquido gli impedisse di sentire chiaramente i rumori che lo circondavano.

Le voci delle persone all’esterno, alcune messe molto peggio di lui e abbandonate sui muretti o sostenute dagli amici, arrivavano a lui come lamenti – e non erano effettivamente lontanissimi dall’esserlo.

Facendo respiri profondi si andò a sistemare nel pezzo di muretto più isolato, contento per la prima volta in vita sua di essere da solo. Si sedette pesantemente, puntando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la testa fra le mani.

Doveva farsi passare quella sottospecie di sbronza prima di tornare, altrimenti sarebbe veramente stato un divertimento guidare.

Un leggero odore di nicotina aleggiò nell’aria.

« Stai bene? » chiese una voce da poco più avanti, semi-nascosta nell’ombra delle piante che decoravano quel pezzo di aiuola a muro.

Non alzò nemmeno lo sguardo. E non rispose, inoltre.

Non ci volle molto perché la voce – sicuramente maschile – si facesse sentire di nuovo. Era decisamente particolare, considerò mentalmente; gentile ma in un qualche modo distante, dava un’idea di superficialità ma era al contempo melodica, quasi suadente.

« Sul serio, non sembri molto in forma » disse, prendendosi una certa libertà nel parlare con lui.

Si decise a guardare da che pulpito veniva la predica.

Quando alzò appena il viso, puntando gli occhi alla sua destra, il ragazzo più particolare che avesse mai visto entrò prepotente nel suo campo visivo, marchiando quell’immagine a fuoco nella sua mente.

Capelli scalati e corvini, corti a sfiorare il collo in ciuffi dall’aria maledettamente simile alla morbidezza della seta, eppure perfettamente lisci. Il volto dalla carnagione chiara aveva i lineamenti decisamente mascolini ma al contempo dolci, che incorniciavano il paio d’occhi dalle iridi più chiare che avesse mai visto; non erano azzurre, ma nemmeno bianche… sembravano realmente fatti di ghiaccio fuso, oppure di cristallo. Persino l’apparenza era strana: quasi finta, di vetro, come se quegli occhi fossero stati rubati ad una bambola di porcellana che non se li meritava, strappati ad essa per essere degnamente posati su quel volto dalle forme sia angeliche che demoniache.

Il corpo snello e praticamente perfetto era fasciato di nero: un paio di jeans scuri e una camicia nera aperta sul collo, non troppo aderente ma generosa nel mostrare le forme.

Solo una cosa sfigurava nella sua bellezza, quasi effimera ma fondamentale al contempo: l’aria di distaccamento che accompagnava ogni sua espressione, persino quel sorriso all’apparenza gentile che adesso gli stava mostrando.

Al suo silenzio imbambolato, il ragazzo sorrise un po’ di più. Mostrò la mano destra, con una sigaretta stretta fra indice e medio: « un tiro? » chiese, diretto.

« Per l’amor del cielo, no… » ci mancava solo quella!

Riportò il viso fra le mani, in preda ad un nuovo capogiro. Faceva strano ammetterlo, ma quel ragazzo era la cosa più maledettamente bella che avesse mai incrociato. Una bellezza quasi dannata, quegli occhi soprattutto…

Sentì a malapena una presenza al suo fianco – accanto a lui, seduta sul muretto – prima di udire di nuovo il tono melodico ma quasi meccanico di quella voce: « non stai bene » e questa volta non suonava affatto come una domanda. « Bevuto troppo? » aggiunse l’altro, osservandolo da quella relativa vicinanza.

« No, ma lo sopporto veramente poco » buttò lì lui, palesemente impegnato in un personale atto di resistenza contro la nausea impellente.

L’altro doveva averlo capito, perché con la coda dell’occhio lo vide fare un ultimo tiro e poi gettare la sigaretta lontano, sul cemento.

Quantomeno era gentile.

« Non dovresti nemmeno annusarlo l’alcool se ti riduci così » continuò l’altro, la voce sottile.

Notò, in un impeto di acutezza, che comunque non si avvicinava a lui più di quel tanto.

« Mi dispiace che tu sia costretto a fare da spettatore ad una scena così agghiacciante » commentò con auto-sarcasmo, ridacchiando spompato di ogni energia.

Non sapeva perché, ma gli stava venendo sonnolenza…

« Direi che è abbastanza solita, in posti come questo. Anzi, mi sorprende che tu abbia ancora la capacità di elaborare un discorso ragionato e di senso compiuto. Sembri molto più a terra di quella sottospecie di montagna all’ingresso che si sbraccia in questa direzione… ».

Non servì connettere faticosamente il significato dell’intera descrizione pronunciata perché gli venisse in mente un volto noto. “Montagna” fu sufficiente.

Alzò lo sguardo di scatto, osservando da quel suo angolino semi-appartato Douglas sventolare le mani in aria come bandiere di segnalazione aeroportuali. « Ho trovato Roooooooob! » stava cantilenando, nella peggior emulazione di Madonna che avesse mai sentito sulla faccia della Terra.

« Cercano te? » chiese il ragazzo al suo fianco, l’intonazione divertita della voce che aveva un non so che di strano, di formale nonostante il linguaggio fosse l’opposto.

« A quanto sembra… » rispose lui, alzandosi. « Io sono l’autista stasera. Probabilmente sono così strafatti che non si rendono nemmeno conto di dove sono » continuò, sbuffando.

« Comunque io sono… » iniziò, voltandosi per presentarsi… ma rimase stranito nel vedere solamente il muro, dietro di lui, esattamente nel luogo in cui prima c’era il ragazzo.

Un pensiero solitamente idiota gli venne alla testa, contornato da una bella dose di dubbio.

…Non se lo era sognato, vero?

All’ennesimo urletto di Douglas, però, face spallucce e si affrettò ad andare a calmare l’improvvisato cantante, trovandosi al contempo un Robert molto intento a fissare le dita delle sue mani con la bocca socchiusa e gli occhi distanti.

Sospirò, recuperando le chiavi dalla tasca dei pantaloni e lanciando uno sguardo all’orologio.

Le tre e quindici. Era ufficialmente sabato mattina.

 

Sette ore dopo, quando ancora era reduce da un sonno ristoratore, la suoneria del suo cellulare decise di interrompere la tranquillità del suo universo.

Si disse mentalmente, in uno dei primi ragionamenti più o meno concreti post-risveglio, che chiunque fosse dalla parte opposta avrebbe fatto molto presto una fine discutibile. Suo padre possedeva un Winchester 260 e a buttare un cadavere in un fiume ci si metteva poco e niente con il pick up nuovo di suo zio Jordan.

Buttò sgraziatamente la mano sul comodino, afferrando con rabbia il telefonino strillante e vibrante. Non si curò di guardare chi chiamava (non alzò nemmeno la testa dal cuscino, a dirla tutta).

« Pronto? » rispose, seccato.

« Ma senti tu che voce! » gracchiò qualcuno dall’altra parte, sinceramente divertito: « sembri appena uscito dall’Inferno Everald, che ti è successo? » disse con quell’aria sempre paurosamente allegra.

«McFarland? » chiese, una volta che si fu preso il tempo per riconoscere il suo interlocutore.

« Indovinato, ben tornato tra i vigili » rispose quello.

Jonathan McFarland era un suo compagno di corso all’università. Era uno spirito molto libero e, nonostante non amasse per nulla la letteratura, frequentava il corso per il piacere interiore di disobbedire a suo padre, avvocato, che moriva dalla voglia di mandare il figlio a Legge. Ripeteva molto spesso che la vita del padre non lo entusiasmava, così aveva fatto dell’inno “disobbediamo a papà” uno dei maggiori divertimenti della sua esistenza.

Non era eccezionale, ma era discretamente bravo nonostante non ammirasse per niente la materia.

« Cosa c’è? » tagliò corto Eric, strofinandosi un occhio con la mano libera.

« Faccio la funzione del promemoria, Evvy » disse quello, storpiando il suo cognome in maniera incivile. Chissà cosa ci trovava mai di così bello ad affibbiargli quel nomignolo idiota… « ti ricordo che stasera c’è il party alla confraternita Alfa-Epsilon-Omega. Dato che il sottoscritto genio del male si è procurato i contatti per entrare, vedi di fare il bravo bambino e di unirti ai grandi in orario » continuò, sottolineando con la voce la puntualità a cui sperava si attenesse.

« E tu mi chiami così presto per ricordarmi una cosa che già so? »

« No, ti chiamo per precisare che ti voglio puntuale. E comunque sono quasi le undici, non è presto » ribatté al volo Jonathan.

Regola numero uno quando si parla con McFarland: arrendersi. Lui ha sempre la risposta pronta.

Sbuffò sonoramente, giusto per far comprendere allo scocciatore che quella chiamata/sveglia non era affatto gradita. Ma quello sapeva benissimo quando fare orecchie da mercante, ed infatti lo ignorò.

Si trovò costretto ad accettare l’arduo compito di puntualità. « Va bene, va bene » acconsentì « alle dieci davanti alla confraternita, va bene » ripeté, ancora troppo addormentato per trovare altri sinonimi utili.

Una volta libero dalla scocciatura mattutina si alzò, dirigendosi verso il piano inferiore. Ormai era inutile cercare di riaddormentarsi, impossibile quasi, e comunque era sicurissimo che sua madre avrebbe cominciato molto presto a preparare il pranzo – se non aveva almeno due ore e mezza d’anticipo era un vero e proprio disastro, secondo lei – e il rumore delle pentole maneggiate con la finezza di un rinoceronte lo avrebbe sicuramente strappato dalle braccia di Morfeo, anche abbastanza rudemente.

Si mise addosso le prime cose che gli capitarono sotto mano – un paio di pantaloncini e una maglietta a mezze maniche bianca con lo stemma dell’università – scendendo le scale con passo veloce.

Sua madre, come previsto, stava appena rientrando con la spesa.

« Buongiorno Eric! » salutò allegramente, cercando di tenere in equilibrio le due sporte di vivande, chiudere la porta di casa e appoggiare la borsetta sul mobile contemporaneamente.

« Ciao ‘ma » salutò di rimando, abbassandosi appena per prenderle le sporte. Fosse mai che le uova finissero per diventare parte integrante del tappeto.

« Alex e papà? » chiese lei, appoggiando la borsetta per poi seguirlo in cucina.

« Dove vuoi che siano? » domandò lui con ironia: « in giardino a giocare a basket, no? Sia mai che partecipino alle attività di famiglia ogni tanto » si lamentò svogliatamente, aprendo il frigorifero per afferrare il cartone del succo di frutta.

« Usa un bicchiere » lo ammonì la madre, prima di continuare: « tuo padre fa solo il suo lavoro. Il basket è la sua vita, lo insegna e lo pagano per farlo » aggiunse, prendendo come al solito le difese dell’uomo… anche se non sembrava esattamente convinta delle sue parole.

Staccò le labbra dal cartone – bicchiere? E cos’è? – chiudendolo con forza per poi buttarlo malamente nello sportello del frigorifero: « oh, andiamo! Allena Alex come un ossesso solo perché io ho scelto il nuoto! » sbottò, irritato.

« Sei in vena di discussioni oggi? » intervenne la donna, cominciando a svuotare le borse della spesa e dividerla fra gli scaffali.

« Non… non sono in vena di discutere, ok? E’ solo un dato di fatto » precisò con foga, saltando appena per sedersi sul ripiano centrale della cucina. « Prima di convincere mio fratello a pendere dalle sue labbra ha provato a fare il lavaggio del cervello anche a me. Cosa sarebbe successo se Alex non si fosse lasciato incantare e avesse scelto, che so, di fare il ballerino? Papà si impiccava attaccato al canestro? » continuò nella sua invettiva, più carico che mai. Erano rare le occasioni in cui poteva parlare di suo padre senza che l’altro fosse presente, e intendeva approfittare di ogni opportunità.

« Non mi sento di escluderlo » rispose con aria leggera sua madre, terminando di sistemare la spesa e cominciando a tirare fuori le pentole per preparare il pranzo. « In ogni caso, tesoro, che problema c’è? Alex si diverte a basket, ed è probabile che avrà una borsa di studio quando si diplomerà » gongolò allegramente, riempiendo il tegame fondo con dell’acqua dal lavello. « Avresti dovuto provarci anche tu, a questo proposito » aggiunse poi, osservandolo appena con un sorrisetto leggiadro ad incurvarle le labbra.

Eric roteò gli occhi. Era stufo di dover sempre, perennemente affrontare il discorso della sua inutilità.

Certo, era meglio con sua madre che con suo padre. Lei, almeno, aveva la finezza di non dirti esplicitamente di essere una delusione di figlio… solo perché non aveva scelto il basket! Per Dio…

« Scusami se non mi è caduta la borsa di studio fra capo e collo, mamma. Magari un giorno imparerò a comandare al mio corpo di raggiungere la velocità di un missile terra-aria » sfotté, più auto-ironico che cattivo. Non si riusciva ad essere veramente cattivi con una come sua madre. Quella donna non se la prendeva per nulla e non perdeva mai quella sua serafica calma.

Il nuoto non era come il basket, o come il volley. Non ci si poteva fissare su una finta, o una battuta, e provarla ogni allenamento finché non si imparava a farla.

In vasca era lui contro i suoi limiti. L’allenamento conta a mantenere la forma fisica, sì, ma ci sono limiti di velocità che ogni corpo, individualmente, non riesce a superare.

Pochi erano i veri campioni, nel nuoto. E si doveva sacrificare tutto, per avere tutto.

« Oh, non fa nulla » rispose la donna, chinandosi per osservare la fiamma blu di metano accendersi sotto la pentola: « io e tuo padre siamo fieri lo stesso » disse.

Sì, certo. Questa era buona.

Voleva tanto sentirle dire da lui, quelle parole. In bocca a sua madre, che le ripeteva appena possibile, non valevano niente.

Un lieve rumore avvertì gli occupanti della cucina che la porta sul retro si era aperta, e un vociare concitato rivelò che i due di cui si stava parlando erano di ritorno dagli allenamenti casalinghi.

Eric sospirò affranto, preparandosi a ricevere le occhiate del padre e i suoi commenti taglienti.

Lui poteva anche diventare astronauta per la NASA, o premio nobel per la letteratura… ma se non aveva in mano una palla arancione, e sull’armadio un poster di Michael Jordan, per suo padre aveva la stessa importanza di un soprammobile.

Sì, nella mente di Trent Everald non c’era posto per nient’altro.

 

Gli allenamenti erano sempre stati massacranti.

Il loro allenatore usava un metodo spartano, pretendendo il massimo da ogni bracciata. Chi batteva la fiacca aveva allenamento doppio, e questo era un ottimo deterrente per chi si buttava in acqua senza la minima voglia di fare.

Lui, fortunatamente, era sempre arrivato in fondo agli allenamenti senza fermarsi mai. Aveva avuto un’infanzia incentrata sugli addestramenti in vista dell’entrata in una squadra di basket – sempre grazie al suo adorabile padre – dunque il fiato non gli mancava.

Però era massacrante comunque. Soprattutto quando si faceva fondo.

Per questo, una volta fuori dall’acqua, i muscoli delle cosce sembravano come stretti in un torchio. Fitte di dolore ad ogni passo, profonde anche se non acute, con momenti di picco che duravano anche minuti.

Aveva quasi l’impressione che l’acido lattico che accumulava si potesse spremere.

« Stanco Everald? » chiese il coach di ritorno dalla vasca, battendogli violentemente una mano sulla schiena.

La panca sulla quale era seduto sobbalzò dall’urto.

« Un po’ » confessò sorridendo, tamponandosi una goccia d’acqua dal mento con la manica spugnosa dell’accappatoio.

« Poco male, hai tutta la domenica per battere la fiacca » fu la risposta sconsiderata, seguita da una risata. « In ogni caso vedi di non saltare allenamenti la prossima settimana, ok? Ci sono le selezioni il mese prossimo e sto pensando di metterti in staffetta con Satler ».

« Con Timoty? » scattò d’improvviso Eric, puntando gli occhi su quelli piccoli e scuri dell’allenatore: « davvero? » ripeté, chiedendo infantilmente conferma.

Quello annuì.

Non poté fare a meno di farsi tornare il buonumore, nonostante la spossatezza.

Timoty Satler era il suo personalissimo dio. Iscritto a Matematica e suo coetaneo, aveva una preparazione atletica che vantava anni di fatica, tutti passati in vasca. Tempi record e campione nazionale per tre volte consecutive, aveva raggiunto il terzo posto ai federali per un soffio ed ora si preparava a vincerli.

Ma parli del diavolo…

« Everald è il quarto per la staffetta mista? » chiese una voce alle sue spalle, il tono morbido anche se basso. Capelli corti di un rosso scuro e occhi oltremare, Satler ritornava dalle docce insieme al classico profumo di bagnoschiuma.

Odore che durava si e no venti minuti; il cloro si attaccava alla cute come una seconda pelle, vincerne l’odore era impossibile per i nuotatori agonistici.

Mentre parlava con l’allenatore, Eric osservò il ragazzo. Non era una di quelle persone in vista, nonostante l’ottima carriera agonistica e scolastica (dicevano); però aveva un’aria di particolare serietà, che induceva le persone a prendere le distanze ma ad ascoltare al contempo ogni parola che usciva dalle sue labbra.

Era una persona inconsciamente autorevole, ecco. Risultava difficile non fidarsi di lui, soprattutto quando sorrideva così cortesemente.

Anche il sorriso era strano… ma non ci aveva poi fatto così tanto caso. Immaginava che fosse normale, da una persona con un simile ascendente sul prossimo.

Quando gli occhi dell’altro si posarono sui suoi, non poté trattenere un invisibile sobbalzo. « Dunque tu farai la parte dorsista » asserì, distendendo le labbra in un’ombra di sorriso: « parti per primo, dovrai guadagnare il distacco » disse, infondendogli fiducia solo con quelle poche parole.

« Forò del mio meglio, se entro » rispose lui, alzandosi dalla panchina e togliendosi il costume da sotto l’accappatoio.

« Entrerai » esordì con sicurezza l’altro, posando nella borsa bagnoschiuma e costume: « altrimenti il coach non lo avrebbe nemmeno accennato. Non è uno che dà false speranze » chiarì, frizionandosi i capelli con il cappuccio dell’accappatoio blu.

« Giusto… » notò lui, sorridendo a se stesso. Iniziò a vestirsi velocemente, infilandosi jeans chiari e maglietta scura.

« Niente doccia? » chiese Staler, probabilmente per non far scendere il silenzio nello spogliatoio. Gli altri erano ancora alle docce.

« Oggi no, non ho tempo » spiegò Eric brevemente, pettinandosi i capelli castani per poi passarci la mano in mezzo, smuovendoli appena per non farli sembrare troppo appiccicati alla nuca. « Vado al party dell’Alfa-Epsilon-Omega e sono già in ritardo sulla tabella di marcia » spiegò, buttando random il pettine nel borsone per poi chiuderne la zip. Il cloro sulla pelle sembrava quasi appiccicoso, ma era conscio che una doccia gli avrebbe occupato quel poco tempo che aveva per tornare a casa, lasciare la borsa e ritornare al campus. « Tu non vieni? » chiese poi, infilandosi la giacca blu e gialla della tuta di squadra.

« No, grazie » rispose l’altro: « non sono feste che fanno per me » concluse, rapido.

Eric decise di non insistere. Era raro vedere Satler veramente di malumore, ma quando non gli andava di fare qualcosa riusciva ugualmente ad esprimerlo.

Cominciava a chiedersi quali fossero, le feste apprezzate dal ragazzo.

« Ok allora » esordì all’improvviso, per non lasciare cadere il discorso nel nulla: « ci vediamo lunedì » salutò, caricandosi in spalla la borsa.

Lo vide annuire con un sorrisetto prima di uscire, percorrendo velocemente il corridoio e l’atrio, uscendo dalla piscina.

 

A dire il vero, party di quel tipo non piacevano nemmeno a lui.

“Alcool a fiumi” sembrava il motto degli organizzatori, che avevano provveduto ad un barman e ad una lista di cocktail più o meno alcolici, e non era assolutamente insolito vedere girare spinelli o bustine di polverina bianca, rapidamente stesa su una superficie riflettente, divisa in striscioline con una qualsiasi carta di credito e aspirata con l’aiuto di un biglietto da cento dollari.

Senza contare la musica, tenuta così alta che sembrava uno stupro per le orecchie. La differenza era la scelta di un più comune pop-commerciale, che alcune volte aveva intermezzi abbastanza lenti da consentire il recupero, anche se parziale e temporaneo,  dell’udito.

Sospirò. Ancora si chiedeva perché accettava sempre di farsi trascinare in posti come quello.

« Eric, ti vedo spento » disse McFarland al suo fianco, sorseggiando da un bicchiere di quella che sembrava vodka e guardandosi intorno in cerca di qualche ragazza abbastanza ubriaca da abbordare.

Come se lui non fosse già abbastanza affascinante da avere bisogno dell’alcool per intortare qualcuna.

Il castano portò lo sguardo sull’altro, infilandosi le mani nelle tasche. « Vengo da due ore di tortura, sono stanco » mentì. Se provava solamente a dire a Jonathan che quel posto non lo eccitava per niente, chissà che scenata gli avrebbe propinato per le due settimane successive.

« Ancora mi stupisco del fatto che tu nuoti » cominciò lui, mandando giù come se fosse acqua metà del bicchiere: « tutte le volte che esci dalla piscina sei disfatto, praticamente a pezzi. Più volte ti ho sentito dire che l’allenamento sembra in tutto e per tutto un campo di addestramento dei Marines, senza contare il fatto che tuo padre è uno degli allenatori di basket più rinomati della nazione e tu non sfrutti l’opportunità. Cos’è, sei scemo? O semplicemente in preda ad un’età della ribellione ritardataria? » chiese, la lingua molto più sciolta nonostante avesse ingerito ancora poca vodka (rispetto agli standard).

Ma cos’era quella, la giornata delle lamentele?

« Sai benissimo perché non seguo ardentemente la strada che mio padre si è prodigato tanto di spianarmi davanti » asserì, decisamente di malumore.

« Oh sì, ricordo perché ti sei lanciato a capofitto sulla via piena di rovi » ironizzò l’altro, continuando con costanza a guardarsi in giro. Sembrò interessato da una bionda di passaggio e, a conferma del suo interesse, la seguì con lo sguardo fino al tavolo del buffet.

« Beh, Eric, io ho da fare » asserì con decisione, piantandogli in mano il bicchiere con i le rimanenti due dita di vodka.

Lui osservò solo per curiosità la preda che l’altro aveva puntato, riconoscendola al volo. « E’ fidanzata » osservò a voce alta: « con un mio compagno di squadra » aggiunse poi, sperando di demoralizzare Jonathan e distoglierlo così da un’imminente morte per mano di un nuotatore cornificato.

Nessuna resisteva al sorrisetto sbieco di Jonathan McFarland, era logico supporre che a portare le corna sarebbe stato il fidanzato non presente.

La notizia dell’impegno sentimentale della biondina non fece altro che stuzzicare Jonathan. « Splendido » borbottò deliziato: « adoro giocare con le proprietà altrui… » aggiunse, mollandolo vicino alle scale per dirigersi verso la ragazza.

Sospirò. Puntuale, succedeva sempre.

Passò i successivi dieci minuti a guardarsi svogliatamente intorno, e i due seguenti a fissarsi la punta delle Convers nere, chiedendosi per l’ennesima volta cosa lo spingesse a partecipare a raduni del genere. Un ragazzo decisamente ubriaco gli passò davanti, sorretto dai suoi amici messi meglio ma non di molto, e all’improvvisa possibilità di un giramento di stomaco del suddetto decise che era meglio spostarsi, per l’incolumità delle sue scarpe.

Girovagò un poco. Non si sognava di andare al piano superiore, dove sicuramente ogni camera con una superficie piana era occupata da gente molto impegnata ad esplorare i limiti del kamasutra; si limitò dunque a vagare per il piano inferiore, abbandonando il bicchiere dell’amico sul primo ripiano libero da sporcizia.

Stava altamente ponderando di tornarsene a casa quando, fra la folla del soggiorno, un paio di occhi color ghiaccio attirarono la sua attenzione. Fu solo un secondo, un breve istante, prima che scomparissero.

Si fermò di scatto, osservando intontito il punto in cui li aveva visti, ora occupato da un ragazzo in maglietta gialla che ballava come un posseduto.

Se li era sognati? Aveva immaginato tutto?

Come un lampo gli tornarono alla mente gli stessi occhi, particolari quanto freddi, visti la sera prima.

Non poteva essere la stessa persona… o sì?

Non si interrogò per molto su quel quesito: i suoi piedi si mossero da soli alla ricerca di quel ragazzo. Non aveva mai visto occhi così chiari, quasi finti, addosso a nessun altro.

Attraversò la sala, attento a non pestare troppi piedi in mezzo alla calca, dirigendosi verso la cucina.

Ancora un lampo, ancora quell’azzurro. Per un attimo, uno solo.

Vi si lanciò. Cercava disperatamente quello sguardo, senza nemmeno saperne il perché; comprendeva solo che doveva rivederlo in fretta.

Magari era solamente perché non conosceva nessuno, si disse, e se incontrava una persona conosciuta – anche solo per qualche istante fuori da un locale – sarebbe tornato indietro sulla sua decisione di mollare McFarland e tornarsene a casa, ad evitare scrupolosamente suo padre e a cercare di tenersi lontano suo fratello e i suoi discorsi sulla nuova finta (o anche sul nuovo tiro, sul nuovo schema di gioco, sul nuovo passo…).

Attraversò anche la cucina, velocemente, uscendo dalla porta sul retro appena socchiusa. L’aria fresca della sera lo invase improvvisamente, facendolo rabbrividire a causa dello sbalzo di temperatura.

Il piccolo gruppo all’esterno, racchiuso in una nube di fumo che puzzava di nicotina, lo osservò con disinteresse senza nemmeno interrompere il discorso in atto. Nessuno di loro aveva gli occhi color ghiaccio che cercava, nonostante ricordasse che il ragazzo senza nome fumasse.

Proseguì di qualche passo sull’erba umida, andando verso sinistra per fare il giro della casa. La musica proveniva attutita lì fuori e il silenzio ovattato del giardino non gli dispiaceva affatto.

« Frequenti posti discutibili » intervenne una voce al suo fianco, nell’ombra della casa causata dal lampione della strada alla fine del vialetto principale.

Sobbalzò, voltandosi di scatto. Cercò di non darlo a vedere, mascherando la sorpresa con la prima domanda abbastanza arguta che gli venne alla mente: « non credo siano affari tuoi i posti che frequento » disse. Risposta decisamente imbecille e un tantino sgarbata, ma a cominciare era stato comunque l’altro, chiunque fosse.

Quello rise. E quando uscì dal cono d’ombra Eric avrebbe giurato di aver sentito quasi il freddo, di quegli occhi di vetro color ghiaccio.

Lo osservò, non potendo trattenersi dal farlo. Semplici jeans scuri e una camicia bianca con una cravatta nera, allentata sul collo dove i primi due bottoni erano sbottonati.

Bene. Cosa si dice alla gente che si cerca per tutta la casa senza un motivo valido? E che tra l’altro non si conosce nemmeno?

Non dovette pensare per molto alla risposta; alla conversazione pensò l’altro.

« Hai ragione » ribatté alla sua osservazione precedente: « però io non ho torto. Questa è veramente una festa discutibile, come lo era il locale di ieri sera » aggiunse, quasi ghignando.

Lo stava sfidando?

« Beh, sa da ipocrisia se esce dalle labbra di qualcuno presente sia ieri che oggi negli stessi posti » osservò a ragione, sorridendo compiaciuto di se stesso.

Quello ghignò di nuovo: « touché » ammise, alzando le mani a mo di scusa.

Non sapeva perché, ma ancora Eric leggeva falsità in quegli atteggiamenti, in quelle mosse così palesemente amichevoli che sfoggiava. Non riusciva a capire se era ostentata simpatia o sincerità che lui scambiava per un atteggiamento costruito. Non ci capiva niente, in definitiva.

Passarono alcuni attimi di silenzio, in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Il moro se ne stava in piedi con le mani nelle tasche, semplicemente, osservando di sottecchi tutte le persone che uscivano dalla porta della cucina come se fosse un ricercatore intento a studiare le sue cavie.

Osservò per qualche istante quegli occhi, convinto quasi di potervi trovare le verità che cercava… invano. Non trasparivano nulla.

« Sei un nuotatore, giusto? » chiese poi, lo sguardo sempre puntato verso gli altri che con lentezza tornò su Eric.

« Come…? » chiese lui, stupito. Lo aveva visto? Era in piscina?

« Cloro » rispose però l’altro: « odori di cloro » precisò.

« Oh » cercò di non esserne sorpreso, ma non gli riuscì così bene. « Pensavo che non si sentisse così tanto » disse come scusandosi, portandosi istintivamente il dorso della mano al naso.

« No, normalmente » rispose l’altro: « ma io ho il naso fine, certi odori mi stuzzicano l’olfatto più di altri ».

« E’ fastidioso? » chiese Eric, indicando la mano con il volto come per intendere l’odore di cloro che emanava.

Quello scosse il capo negativamente. « In ogni caso non ci siamo ancora presentati » aggiunse poi, ripetendo nuovamente quel sorriso strano.

« Giusto » borbottò lui, tendendo la destra in sua direzione: « Eric Everald » disse, gentile.

« Joshua Archer » rispose l’altro mimando il gesto.

Era la prima volta che entravano in contatto fisico, anche se minimo, ma Eric non poté non considerare che la mano di Joshua era fredda. Fin troppo, considerando la temperatura più che mite.

Ma i suoi pensieri erano destinati ad essere interrotti, così come la loro ancora acerba conversazione.

« Everald! » chiamò una voce dalla porta della cucina; il viso di Jonathan che si guardava intorno nel tentativo di trovare la persona che stava cercando.

« Sono qui » chiamò lui, facendosi notare appena fuori dall’ombra. Dubitava che Joshua fosse visibile, da quella posizione.

« Alla buon’ora, ti cerco da una vita! » borbottò quello, facendogli segno di rientrare.

« Sei una persona acclamata, Eric » osservò Archer con espressione divertita, osservando con la coda dell’occhio McFarland e la sua espressione delusa.

« Mi dispiace… » si scusò lui, forse dispiaciuto del fatto che venivano perennemente interrotti.

« Figurati, vai pure » disse l’altro, alzando la destra come saluto ed incamminandosi verso il vialetto, probabilmente diretto a casa o da qualche altra parte.

Con passo celere, lui ornò all’interno, dove Jonathan era impegnato a versarsi un altro bicchiere di alcool (a casaccio, notò).

Glielo aveva detto che era fidanzata.

 

 

 

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* Nel nuoto la staffetta mista ha un ordine di partenza particolare: dorso - rana - delfino (farfalla) - stile libero. Questo è dato dal fatto che il dorso non prevede la partenza dal blocco (dunque è senza tuffo), ma si parte direttamente in acqua. Solitamente dunque il dorsista, che è il primo, è quello che cerca di prendere più vantaggio possibile.

   
 
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