Capitolo 2
Della
fragilità di una rosa
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
[…]
Quando leggemmo il
disïato riso
esser basciato da
cotanto amante,
questi, che mai da me
non fia diviso,
la bocca mi
basciò tutto tremante.
Galeotto
fu 'l
libro e chi lo scrisse:
quel giorno
più non vi leggemmo avante».
(Dante Alighieri, La
Divina Commedia, Inferno, Canto V.)
Nessuna cosa era
come sembrava, nel
palazzo incantato dell’ingannatore di Asgard che lui, con un
filo d’ironia, definiva
la propria tomba. Non appena il vecchio Lord fuggì dal
cerchio magico di rune
tracciato da Odino in persona, l’edificio sghembo e in rovina
in cui Sigyn era
stata portata si trasformò in un palazzo incantato, vittima,
come ogni cosa,
del sortilegio che lo legava al suo signore. All’inizio, la
ragazza provò solo
terrore e disperazione per la sua triste sorte. Il coraggio che le
aveva
gonfiato il petto quando si era offerta di scontare la prigionia al
posto di
suo padre si era trasformato, ben presto, nell’amara
consapevolezza di aver
appena perso ogni cosa e che sarebbe morta entro un cerchio di rune
incise,
mille e più anni prima, da una divinità
vendicativa e furibonda. Non avrebbe
vissuto niente, della vita che l’aspettava. Non sarebbe mai
potuta salire
sull’Orient Express alla volta delle steppe
dell’Impero Russo, né sarebbe
sbarcata a New York, dov’era s’era trasferita sua
cugina con i figli. Si erano
promesse, per iscritto, che si sarebbero incontrate l’estate
seguente e avevano
fantasticato del tempo che avrebbero trascorso insieme. Niente di tutto
questo avrebbe
mai avuto luogo; sogni e speranze si sarebbero trasformate
nell’amaro e inutile
rimpianto d’un giocattolo catturato da un mostro, da una
bestia crudele che la
cattività aveva reso pazza. Questo erano, lei e Loki. Fino
al suo ultimo
respiro su questa terra, il mondo si sarebbe esaurito sul limitare di
un
cerchio maledetto. Il dio degli inganni, dal canto suo, la ignorava.
Lei non
significava niente, non serviva a nulla. L’onta dovuta al
furto di cui si era
macchiato suo padre era stata lavata, la rosa dai petali
d’oro era tornata a
scintillare assieme al resto del tesoro.
Sigyn non era altro che una mortale, della cui esistenza
troppo fragile
e breve presto Loki si sarebbe dimenticato. Per molti giorni pianse la
sua
sorte, finché un pomeriggio si asciugò le lacrime
con il dorso della mano e decise
di esplorare la sua prigione.
Fu allora che
trovò il labirinto,
quello vero. Una torre intera ricoperta, tappezzata di libri che Sigyn
conosceva e amava e di altri di cui non aveva mai sentito parlare e che
si diceva
fossero andati perduti da secoli. Resoconti di maghi e di viaggiatori
folli,
epopee scritte da popoli perduti le cui vestigia erano state coperte
per sempre
dalla sabbia di deserti lontani. Con le dita che tremavano per la paura
e
l’emozione, accarezzò il dorso rilegato in pelle
dei volumi più antichi, sfiorò
le ruvide pergamene che giacevano ancora arrotolate. Non si accorse di
aver
perso l’orientamento, né diede peso al fatto che
lo spazio pareva dilatarsi a
ogni suo passo, stregata com’era dal fascino oscuro di quel
luogo ammaliante.
Si ritrovò a sfogliare le pagine, vergate in un alfabeto
arcaico e sconosciuto,
di un libro scritto con simboli runici così antichi che la
testa aveva preso a
girarle solo seguendo l’andamento dei segni posti uno accanto
all’altro.
“Non
provare mai più a leggere gli
incantesimi oscuri.” La voce roca del dio degli inganni la
sorprese alle
spalle. Non lo aveva sentito arrivare. S’accorse di stare
barcollando, di non
riuscire a rimanere in piedi. Tutto vorticava attorno a lei e sarebbe
caduta a
terra, se quella creatura perfida con le fattezze d’uomo e il
cuore di una
bestia non l’avesse sostenuta. Si ritrovò tra le
sue braccia – aveva una presa
ferrea, lui, virile, e odorava di cuoio e pelle e qualche strano
incenso.
“Quel
libro non è per te. Questo
posto non è per te.” Viso affilato, occhi verdi
quasi trasparenti, labbra
sottili sfregiate appena da una cicatrice lieve, ormai bianca. Non
erano mai
stati così vicini, se non nei pensieri da cui Sigyn era
fuggita quando aveva
compreso che lui, per portarla dalla grotta grondante oro fino al
camino,
doveva averla sollevata e stretta a sé.
Tentò
di riprendersi in fretta,
libera, ormai, dal giogo delle strane rune. “Mi avete
rinchiusa qui. Questa è
la mia casa, adesso – la mia prigione, mi
correggo.” Come si parla a un dio folle
e crudele, costretto dai suoi pari a esaurire
l’eternità dentro a una gabbia
incantevole e invalicabile? Le leggende antiche che parlavano davvero di quel mostro simile a un uomo
erano oscure dicerie che Sigyn aveva dimenticato da tempo, o forse non
aveva
conosciuto mai. Storie di scherzi e di burle, di inganni e di
tradimenti. Cosa
sono, gli Æsir? Creature di un altro mondo antiche e
arroganti? Padroni stanchi
di giocare con le loro bambole umane? Sigyn, prigioniera del peggiore
tra loro,
non poteva chiederselo e non aveva nulla da perdere. Per questo
alzò il mento
con fierezza e sostenne lo sguardo verde e aguzzo dell’antica
creatura di
fronte a lei.
Loki
increspò le labbra, incrociò le
mani dietro la schiena, come il dio che era e il principe che era stato
– ma
questo, Sigyn non poté comprenderlo né capirlo.
“Tu
l’hai scelta,” le ricordò
caustico. “Hai sacrificato la tua esistenza
volontariamente.” Sorrise appena,
inclinò il capo di lato, come se volesse guardarla con
più attenzione. “Voi umani
non dovreste essere così sciocchi. Il tempo vi è
nemico; scorre inesorabile e
non torna più indietro.”
Sigyn fu scossa
da un brivido, perché
le parole del mostro davanti a lei erano intrise di una saggezza
inappuntabile,
esatta, crudele come i suoi occhi chiari; eppure, nella sua voce, era
sicura di
aver colto l’ombra di qualcosa – rimpianto, forse.
“Non è nemico anche del dio
degli inganni, il tempo?”
Il bel volto
dell’Ase si contrasse in
una smorfia. La squadrò da capo a piedi come se volesse
valutarla, soppesare le
sue intenzioni, leggerle il cuore. Forse lo fece.
“No,” soffiò infine. “Porta
con sé solo tedio, noia, dispetto. Scorre in maniera
diversa, per noi, il
tempo. Cento anni per gli uomini sono una vita intera;
un’esistenza lunga,
piena. Per noi, solo un battito di ciglia, un palpito del cuore. Nelle
vostri
menti, i ricordi sbiadiscono. Perdono d’intensità,
si velano della dolce
tristezza della nostalgia. Nelle nostre, invece, sono scolpiti per
sempre e
diventano immutabili. Gli Æsir non possono
dimenticare.”
Aveva parlato
con fierezza, tenendo
le spalle diritte e la schiena tesa, vantandosi di quello che, agli
occhi della
mortale, dovette sembrare un’orrenda maledizione. Sigyn
scosse il capo mestamente.
“È un destino terribile.”
Era vero?
L’Ase contrasse la
mascella, irrigidendosi di fronte a quella constatazione sincera,
carica però
di un’empatia offensiva, non richiesta, non voluta; che
infilava
inconsapevolmente il dito in una piaga antica, vecchia più
di mille anni.
“Sparisci
dalla mia vista e non
tornare, mortale,” le ordinò secco.
“Questa non è una delle tue confortevoli
biblioteche, ma l’officina d’un mago, lo studio di
un dio, il labirinto della
bestia.” L’afferrò per il polso
allontanandola dal libro d’incantesimi che
quasi l’aveva catturata – era arrivato appena in
tempo – e la trascinò per le
sale ricoperte di scaffali e tavoli zeppi di volumi e pergamene.
“Ti
brucia? Ti brucia ancora come il
primo giorno che ti ha rinchiuso qui?” La voce di lei lo
colpì quasi come uno
schiaffo. Si fermò nel bel mezzo dell’ennesima
stanza che si affacciava su
un’altra assolutamente identica, uguale; ecco dove custodiva
la sua collezione
preziosa che gli aveva impedito, nei secoli, di diventare davvero
pazzo, di
smarrire il senno.
“Non
osare pronunciare una sola
parola in più, ragazzina,”
l’avvisò tetro.
Lei non gli
obbedì. Riconobbe, nel
tono tagliente che l’Ase aveva usato, una traccia della furia
che i miti e le
leggende gli attribuivano e scelse di essere sincera. Di aprire il suo
cuore al
dio degli inganni. Di confessare quello che non era dolore o pentimento
per una
scelta azzardata, ma il senso di perdita e smarrimento conseguente a
quella
decisione che non avrebbe mai ricusato. Oppose resistenza, si
aggrappò al suo
braccio.
“Questa
è la tua
prigione,” ammise. “Per il tempo d’un
battito di ciglia, di un
soffio del cuore, sarà anche la mia:
lascia almeno che legga. Consentimi di vivere, attraverso la carta, la
vita e
le possibilità a cui ho rinunciato. Non vedrò mai
più il mondo, non abbraccerò
mai più i miei cari; non m’innamorerò
né avrò figli e nipoti. Lascia almeno
che, per una manciata di anni che per te non significano nulla, io
possa
leggere, immaginare, sognare. Vivere l’esistenza a cui ho
rinunciato tramite un
libro.”
Il dio degli
inganni ascoltò quella
supplica disperata bevendo ogni parola della mortale. Forse era
stupito, perché
erano passati millenni da quando gli uomini avevano smesso di
ringraziarlo per
i molti e utili doni che aveva fatto loro. In un altro luogo, in un
altro
tempo, quando ancora pensava di poter essere un giorno degno agli occhi
dell’Allfather che[1],
seppure privo d’un occhio, tutto vedeva, aveva insegnato ai
figli della giovane
Midgard a domare il fuoco. Le lingue scarlatte potevano bruciare ogni
cosa e portare
distruzione e morte, ma erano anche benigne; scaldavano le membra
infreddolite,
rischiaravano le notti più scure cacciando via le ombre,
scioglievano i metalli
e cuocevano i cibi. Allo stesso modo, oltre a rendere i loro volti
piacevoli e
belli, aveva insegnato loro l’arte di intrecciare reti e di
pescare.
Di fronte a
quella richiesta accorata
e fiera, s’accorse con dispetto di comprendere il dolore
della delicata mortale
dai capelli d’oro come gli Æsir, perché
anche lui l’aveva provato sulla sua
pelle. Nei mille e più anni trascorsi nella tomba a cielo
aperto che Odino gli
aveva donato, la libertà gli era mancata ogni giorno,
istante, secondo. Sebbene
il tempo non gli difettasse e ne avesse ancora in abbondanza,
scoprì di capire
perfettamente l’angoscia e lo smarrimento della sua bionda
preda. Era qualcosa
di fisico, un malessere profondo che scavava graffiando e lacerando lo
spirito.
Lei aveva ragione: erano prigionieri entrambi. Condividevano la
medesima
maledizione e l’avevano scelta deliberatamente, scientemente,
volutamente, anche
se Sigyn non poteva certo conoscere né immaginare quali
fossero, realmente, i
termini e le condizioni della crudele punizione imposta dal potente
Odino al
dio degli inganni. Soffocando a stento le lacrime, mordendosi le labbra
per non
gridare al cielo il suo dolore, Sigyn era riuscita a dare voce alla
bestia nera
che urlava nel petto di Loki stesso. Aveva davvero i capelli
d’oro degli Æsir,
lei; un popolo di dèi ed eroi, di pirati ed esploratori, di
predoni e di maghi.
Le concesse di poter accedere ad alcune stanze della sua labirintica
biblioteca
perché, si disse, era curioso di vedere cosa ne avrebbe
fatto del suo tempo.
Per soffocare la noia, riempire il vuoto delle sue ore, concedersi una
distrazione bella da guardare, perché il dio degli inganni
non era una creatura
incorporea e immateriale, ma era fatto di carne e sangue e aveva il
corpo un
uomo nel pieno delle sue energie e forze e voglie. In fondo, si disse,
sarebbe
durato solo il tempo di un battito di ciglia, di un soffio del cuore.
Si
sarebbe trattato di un esperimento, dell’ennesimo studio
condotto per ingannare
il tempo, nient’altro. Con voce severa, le concesse di poter
accedere ad alcune
di quelle stanze: lì, avrebbe potuto studiare ciò
più le aggradava, per il
tempo che riteneva necessario. L’unico vincolo che le impose,
fu di non recarsi
mai, per nessuna ragione al mondo, nel piano superiore della torre
dov’era il
suo studio.
Forse
è vero ciò che si racconta
ancora in qualche capanna sperduta sugli dèi; che siano
volubili e amino essere
adorati e invocati. Loki, il cui nome dagli uomini era stato
dimenticato e
veniva pronunciato a denti stretti solo per qualche oscura
imprecazione, come i
suoi pari Æsir, non aveva saputo resistere al fascino di una
preghiera sincera
e spontanea, detta col cuore. Mentre si allontanava, tuttavia, parole
antiche e
oscure tornarono ad affacciarsi nella sua mente scaltra e astuta.
Fenrir, il
lupo, quando lo vide, ammiccò appena con i suoi occhi
guardinghi e quasi
fluorescenti. Forse, presto, la prigionia sarebbe finita.
♥
Passarono i
mesi, giunse infine
l’inverno nella foresta di Hallerbos. La nuvola blu che
impreziosiva la terra
venne sostituita da una coltre bianca e immobile di neve che
ricoprì ogni cosa.
Gli alberi si trasformarono in ossa adunche e tristi che nascevano dal
suolo
per innalzarsi a invocare il cielo, i fiori si addormentarono in attesa
della
primavera lontana. Eppure, c’era qualcosa di tremendamente
bello e magnifico in
quel panorama onirico, di sogno. Oltre il sigillo che un dio adirato
aveva
tracciato sulla terra degli uomini, il tempo si era congelato,
cristallizzato.
Sigyn aprì gli occhi alla luce tenue e fredda di
un’alba livida, ma non per
questo meno splendida. Si tirò su soffocando a stento un
brivido dovuto
all’aria pungente. Con una mano, si liberò delle
ciocche bionde che erano
sfuggite alla treccia che usava per dormire, con l’altra si
sfiorò le labbra
colpevoli, chiedendosi confusa se non fosse stato tutto un sogno, un
inganno.
Lo spettacolo teatrale allestito da un dio annoiato e stanco, da una
creatura
millenaria che aveva congelato il suo cuore in un odio antico forse
motivato,
ma senz’altro lontano nel tempo e nello spazio.
Loki era crudele
e spietato, e lei lo
sapeva da sempre; da quando, bambina, suo padre abbassava il tono della
voce
ogni volta che incappava nel suo nome. Conosceva vagamente alcune delle
azioni
malvagie che aveva compiuto perché erano note anche
lì, su quella che lui
chiamava, non certo senza una punta di velato disprezzo, Midgard. Le
altre, le
aveva apprese sfogliando le pagine ingiallite dei volumi che lui le
aveva
concesso di leggere. Storie tetre, cronache di regni perduti e mondi
alieni che
il dio degli inganni, inizialmente, le aveva vietato persino di
toccare.
Racconti che chiarificavano ancora meglio la natura delle ombre che
danzavano
cupe nello sguardo chiarissimo di Loki, il senso del lieve ghigno
sardonico che
gli increspava le labbra sottili.
Sigyn si
coprì il volto con le mani
chiudendo gli occhi come se potesse, grazie a quel gesto, cancellare i
mesi
appena trascorsi, tutti. Fuori, danzavano piccoli fiocchi di neve.
Lievi e
leggeri, si posavano sulla foresta di Hallerbos che quasi nessuno, al
mondo,
sapeva essere la tomba di un dio furioso, di cui lei era cosa? Il
giocattolo,
l’ostaggio, la prigioniera, l’amica?
L’ultimo termine le strappò un sospiro
esasperato, carico d’ironica pietà verso se stessa
e nei confronti
dell’attitudine umana ad abituarsi a quasi ogni cosa. Loki
glielo aveva
spiegato il giorno prima, senza risparmiarle una punta di velenoso
sarcasmo.
Gli uomini, si era divertito a dirle, per sopravvivere si adattano alle
circostanze e così stava facendo lei.
“Non
è lo stesso per gli Æsir?”
Domanda provocatoria, esasperante, forse persino troppo pungente. Fatta
sorridendo appena e guardandolo da sotto le ciglia scure in un modo
pericoloso,
di cui lei stava smettendo di temere gli effetti e le conseguenze.
Nella gabbia
fuori dal tempo e dallo spazio dov’erano rinchiusi, avrebbero
potuto mai cessare
di essere il dio maledetto e la fanciulla che gli si era sacrificata?
Come sempre
negli ultimi mesi, l’Ase che
aveva portato nei Nove Regni e oltre guerra, distruzione e morte,
l’aveva
scrutata a metà strada tra il sorpreso e divertito. Colpa
dei libri che
riempivano ogni angolo di quella torre stregata; dei volumi che
entrambi non si
stancavano mai di sfogliare, delle domande che si era azzardata a
porgli
all’inizio di quell’inverno bianco come pochi.
Prima che cadesse la neve,
disattendendo platealmente ai suoi ordini, lo aveva cercato stupita,
meravigliata, incantata: aveva trovato l’ennesimo codice
antico e accuratamente
miniato e, stringendoselo delicatamente al petto, gli aveva domandato
quali
altri libri perduti degli uomini aveva raccolto e collezionato e
perché. Il dio
degli inganni, però, quella volta, non le aveva risposto. Si
era limitato ad
alzare gli occhi su di lei, guardingo e irritato.
Un’altra
sarebbe scappata a gambe
levate. Sigyn, invece, il giorno appresso era tornata con ancora
più domande, e
così quello seguente, fino a che il dio degli inganni non si
era deciso a
levarsela di torno rispondendole brevemente, tra i denti. A lei,
però, non era
bastato. Dopo la prima spiegazione, ne aveva chiesta una seconda e poi
una
terza: così, mentre l’inverno diventava ogni
giorno più rigido, il tempo aveva
cominciato a essere scandito da abitudini nuove, inconsuete,
impreviste. I
commenti laconici di Loki si erano fatti sempre più
articolati, profondi,
lunghi e Sigyn, affascinata dalle parole argute e dai discorsi
brillanti del
dio, anziché rimanere in silenzio ad ascoltare, non faceva
che porre nuove
domande arrivando anche a esporre i suoi, di ragionamenti.
Il dio
dell’inganno, all’inizio,
aveva reputato folle e sconsiderato il continuo rispondere e ribattere
e
suggerire della sua graziosa prigioniera. Si era persino leggermente
risentito,
per la sfacciata insolenza di quella ragazzina che,
all’apparenza, non aveva
altro pregio oltre al punto di biondo dei suoi capelli. Ma poi, col
passare dei
giorni, la viva curiosità di Sigyn aveva iniziato ad
andargli leggermente a
genio. Lei era intelligente, desiderosa d’imparare, persino
brillante in certe
sue considerazioni e, poi, adorava ascoltarlo nella misura esatta in
cui a lui
piaceva discorrere, raccontare storie e avere un pubblico. Gli occhi di
entrambi brillavano più intensamente, in quei momenti sempre
meno rari, ma
nessuno dei due se ne accorse. Solo Fenrir, l’astuto lupo che
controllava il
perimetro di quella prigione incantata, condannato come il suo signore,
lo
comprese.
Sigyn si
vestì rapidamente, a occhi
bassi, incapace di osservare la sua immagine riflessa nello specchio,
turbata
dai ricordi del giorno precedente. Quand’ebbe finito, si
sfiorò le labbra
un’altra volta. Non aveva sognato, né era caduta
vittima di qualcuna delle
atroci illusioni create dal dio dell’inganno, o forse
sì, ma nella maniera
sbagliata. Un peso tremendo le gravava sul cuore. Avrebbe voluto
possedere la
leggerezza di quei fiocchi di neve che cadevano lenti e silenziosi sul
bosco
incantato, sui tetti e le guglie del palazzo che solo lei poteva
vedere. Il
pomeriggio prima, si era accostata per l’ennesima volta alla
scrivania ingombra
di carte e pergamene e astrolabi e strumenti del dio degli inganni.
L’Ase era
assorbito nello studio e chiosava, con tratti rapidi della mano, certi
appunti
su un vecchio tomo. “È davvero
la sua
grafia, questa? È dal Quattrocento che nessuno
l’aveva più vista.” Ecco,
com’era iniziato tutto.
Sigyn, tremando
per l’emozione, gli
aveva allungato il codice manoscritto e l’Ase, inarcando un
sopracciglio, si
era alzato dalla scrivania incuriosito e aveva preso a scorrere
rapidamente la
lunga successione di terzine in versi. La scrittura appuntita di un
poeta
fiorentino che aveva cantato e maledetto il suo esilio era
lì, immobile
testimonianza di come anche l’effimera vita degli abitanti di
Midgard potesse,
a volte, assomigliare a quella dei nobili Æsir[2].
Era una menzogna, ovviamente. Nei lunghi secoli della sua prigionia, il
dio
degli inganni aveva appurato più e più volte che
le esistenze patetiche dei
caduchi e fragili umani racchiudevano una bellezza totale, assoluta,
ultraterrena; divina, quasi. Gli abitanti di Midgard non avevano
volontà ed
erano gretti, meschini, deboli, inferiori, eppure, racchiusa assieme
alla loro
lampante indegnità, si nascondeva una traccia
d’infinita grandezza, una
scintilla quasi divina. Erano davvero così diversi, dagli
immutabili Æsir
condannati a morire da una profezia crudele[3]?
La vita di un midgardiano poteva sfiorare i settant’anni[4],
quella di un Ase toccava senza problema alcuno i cinquemila. Oltre a
questo e
alla salvifica capacità di stendere un velo sul passato, di
distaccarsi dai
ricordi concedendo loro un dolce oblio, cosa c’era di
differente? Identico era
l’anelito alla grandezza, medesime la sete di potere e la
brama di conquista.
Uguale il desiderio di conoscere. Loki aveva increspato le labbra in un
sorriso, smarrendosi volontariamente di fronte all’innegabile
bellezza di quei
versi scritti in una lingua melodiosa che lei conosceva a stento.
“Quando leggemmo il disïato
riso esser
basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la
bocca mi
basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo
scrisse: quel giorno più
non vi leggemmo avante,” aveva recitato.
Sigyn,
incantata, era rimasta ad
ascoltare la voce sicura e roca dell’altro. Il cuore le
batteva impazzito nel
petto. “Perché un dio degli Æsir
colleziona i testi degli uomini? Perché li
legge e li custodisce e li ama?”
Era, questa, la
domanda che
desiderava porgergli da giorni, settimane, mesi. Da quando il bosco di
Hallerbos era tinto ancora d’un incantevole azzurro e lei
aveva messo, per la
prima volta, piede in quella biblioteca labirintica e meravigliosa,
senz’altro
stregata.
Loki possedeva
una bellezza
innegabile feroce e selvaggia, ma dietro i lineamenti affilati e sotto
il
fisico nervoso e asciutto, in perenne tensione, oltre lo sguardo
puntuto quasi
trasparente e il sorriso sbieco che gli tagliava le labbra ironiche e
bugiarde,
c’era una bestia, un mostro, un dio recluso e imprigionato in
cerca di una
vendetta giusta. Sigyn lo aveva percepito, intuito, compreso, scoperto.
Non
ancora interiorizzato, forse. Quasi come se avesse voluto replicare il
senso
delle terzine appena pronunciate, le aveva sfiorato i capelli biondi
come
quelli degli Æsir e delle loro figlie, per poi accarezzarle
con dita fredde la
guancia morbida e serica, cercarle le labbra schiuse.
“Siete
fragili e deboli e la vostra
vita non dura che il tempo di un battito di ciglia.” La voce
di Loki
racchiudeva, al suo interno, una nota di amaro rimpianto.
Non
l’aveva baciata allora. Ogni
fibra del corpo di Sigyn si era tesa e aveva tremato per il tocco
leggero di
quei polpastrelli sulla sua bocca, per la vicinanza del corpo slanciato
e scattante
del dio degli inganni di fronte a lei. Aveva chiuso gli occhi, in
attesa di un
contatto che non era arrivato né doveva farlo. Il mondo si
era fermato in quel
momento, congelandosi nell’istante perfetto in cui tutto
poteva ancora essere
possibile. Una lacrima le era scivolata da sotto le palpebre chiuse
perché, per
un solo secondo, aveva desiderato essere come l’anima della
nobildonna italiana
costretta a vivere all’Inferno, sì, ma assieme al
suo amato e col ricordo
straziante di un amore vissuto.
“Eppure,”
proseguì il dio, “c’è
qualcosa di meraviglioso, nella vostra delicatezza.” Lo disse
continuando a
sfiorarle le labbra con le dita, fissandola con quei suoi occhi verdi e
quasi
trasparenti. “Ogni gesto, atto, parola, è unico e
irripetibile perché, per voi,
il tempo ha un senso; nessun giorno è uguale
all’altro e il vostro aspetto muta
assieme al cuore. Per noi Æsir, invece, tutto è un
ciclo destinato a ripetersi,
in cui i ricordi non possono svanire solo perché,
smarrendoli, finiremmo per
perdere anche noi stessi. Questo capita, a chi è costretto a
vivere quasi in eterno.[5]”
Le aveva cinto
la vita con un
braccio, preso il volto tra le mani – dita perse nella massa
d’oro dei suoi
capelli d’Æsinna – e, come suggerito dai
due amanti di cui aveva appena letto
l’inizio dell’amore, si era avvicinato alle sue
labbra annullando lentamente
ogni distanza, inebriandosi del dolce profumo della sua pelle,
sfiorando con la
punta del naso la guancia morbida di Sigyn che, un giorno, sarebbe
appassita e
poi diventata fredda e, dopo ancora, si sarebbe tramutata in polvere. I
loro
respiri si erano incrociati – quello quasi eterno
dell’Ase e l’altro, effimero
e breve, di lei – e ogni cosa era svanita: il tempo, crudele
e implacabile, la
gabbia, punizione amara e tremenda, la loro natura, così
differente. Non aveva
invocato il suo nome quando, finalmente, le aveva assaggiato le labbra,
ma l’aveva
stretta a sé, spinto dal desiderio e dalla voglia di
ingannare il destino degli
uomini e di godere della fragile bellezza di quella donna che gli
ricordava
Asgard in una maniera dolorosa, atroce, assoluta. E così,
l’aveva baciata sulle
labbra tremanti con la consapevolezza di aver strappato qualcosa a un
tempo che
non gli apparteneva. L’istante troppo lungo di quel contatto
intensamente
desiderato si sarebbe dissolto per non essere mai più
replicato, non allo
stesso modo, almeno, laddove, tra gli Æsir, avrebbe potuto
protrarsi per
l’eternità. Ma questo, Sigyn non poteva saperlo.
No, mentre si
sfiorava le labbra
chiedendosi se davvero il giorno prima il dio degli inganni
l’avesse stretta
tra le braccia e baciata come se il mondo dovesse finire di
lì a qualche ora,
Sigyn non riuscì a cogliere il senso tragico di quel gesto
sconsiderato che
chiunque, nei Nove Regni, avrebbe considerato oltraggioso. Si chiese,
invece,
cosa provasse lei: nel breve lasso di tempo in cui la primavera tinta
di blu
aveva lasciato il passo all’inverno e alla neve, il suo cuore
davvero si era
sciolto di fronte al sorriso laterale e sbieco del dio degli inganni?
Non aveva
avuto pietà di coloro che l’avevano accompagnata
alla ricerca di suo padre e così
mille altre cose aveva compiute, nella sua lunga, terribile ed eterna
vita. Per
questo era stato esiliato sulla terra che lui si ostinava a chiamare
Midgard.
Lei lo sapeva: negli ultimi mesi aveva studiato ogni mito, leggenda,
racconto
che parlava del suo scostante e infido carceriere, eppure, nonostante
questo,
era rimasta profondamente colpita dalla fierezza che traspariva in ogni
suo
gesto, sguardo, frase, battuta. Si comportava come un principe
sconfitto, ma
non piegato. Sopportava il suo destino con furiosa eleganza, senza
rinnegare né
rimpiangere una sola delle azioni compiute. Loki, il dio degli inganni
che
però, talvolta, sorrideva appena mentre le illustrava i
difficili passaggi di
una formula matematica, commentava il pensiero dei filosofi antichi, le
chiariva, lui che pure era il dio d’un popolo perduto di
pirati e predoni, le
reazioni chimiche su cui si lambiccavano gli scienziati nella sua
Londra fumosa
e lontana, perduta, oramai ridotta alla stregua di un miraggio o di un
sogno.
Di questo, si stava invaghendo? Della voce di Loki calda e arrochita,
del suo
modo di raccontare? Poteva dimenticare il tesoro millenario che giaceva
nel
tumulo, ignorare che quella fosse la sua tomba e che
l’orrendo lupo Fenrir la
spiasse con i suoi occhi lucidi e rossi? L’apparenza del dio
degli inganni era
quella di un uomo bello d’aspetto, ma il suo cuore era
crudele e malvagio.
Questo dicevano i canti norreni che ormai aveva quasi imparato a
memoria.
Eppure, in
alcuni vecchi libri, si
parlava anche d’altro: d’una neutrale
causalità di cui il dio del fuoco e
dell’inganno era portatore e signore[6].
Gli intrighi di Loki cantati dai bardi avevano causato innumerevoli
disgrazie,
ad Asgard, ma erano stati anche il motivo della sua grandezza. Molte
volte
l’Ase dalla lingua d’argento aveva utilizzato la
sua astuzia per trarre
d’impaccio gli Æsir tutti. Ecco, allora, spiegate
l’ombra amara che gli velava
lo sguardo altrimenti trasparente, la smorfia torva che gli piegava le
labbra
sottili. La malvagità di Loki, decise Sigyn, assomigliava
crudelmente a quella degli
uomini: non era assoluta e ingiustificata, ma nasceva da qualcosa
– da una
frattura, da un’intelligenza che si sentiva costretta entro
spazi troppi
limitati, da un torto antico impossibile da dimenticare. Il dio degli
inganni era
una bestia rinchiusa entro un cerchio di rune maledetto, che
l’aveva costretta
a rinunciare totalmente alla sua vita, ma avrebbe potuto essere anche
altro, se
solo avesse voluto. Sì, Sigyn decise che c’era
qualcosa di bello, nel fiero Ase
che guardava ogni cosa come se gli spettasse di diritto. E si
scoprì, suo
malgrado, a desiderare che le labbra sottili e perfide del dio degli
inganni
incontrassero di nuovo le sue in un altro bacio lento e disperato,
eterno e
straziante, dolce e rabbioso.
Un rumore
improvviso la riscosse; come
se l’avesse evocato o chiamato o reso partecipe dei suoi
pensieri, Loki entrò
nella stanza da letto. Non lo aveva mai fatto, da quando
l’aveva imprigionata.
Il dio degli inganni si guardò attorno, registrando
rapidamente ogni mutamento
che la ragazza aveva introdotto, poi le si mise di fronte puntandole
addosso i
suoi occhi chiari e incrociò le mani dietro la schiena con
aria grave e altera.
“C’è
un cavallo che ti aspetta. Fai
bagagli: oggi tornerai a casa tua.”
Voce secca e
laconica, mascella
contratta. Nient’altro traspariva dal suo viso eternamente
giovane, eppure
un’ombra grave era calata nella camera. Sigyn
pensò, con un brivido, che
l’aspetto immutabile del dio dell’inganno fosse
mostruoso. La bellezza dei suoi
lineamenti veniva talvolta tradita dall’antichità
del suo spirito e dalla
conoscenza che aveva appreso in mille e mille anni di vita.
“Come?
Perché?” Osò accostarglisi,
toccargli il braccio, sfiorare la pelle scura e il tessuto robusto di
foggia
estranea che indossava. Strinse sotto le dita la stoffa, reprimendo
l’istinto
di un altro fuggevole contatto. Gli uomini e gli dèi avevano
dimenticato Loki
nella sua tomba; le azioni malvagie di cui si era consapevolmente
macchiato,
avevano soffocato il resto – tutte le volte che, degli
Æsir e dei Midgardiani,
era stato il protettore e il salvatore – mentre lei credeva
di aver visto la bellezza dietro
l’apparenza e
ora non voleva rinunciarci. Non per sempre, almeno, perché
era umana e gli
umani non possono comprendere l’eternità. Nei loro
cuori, parole come per sempre hanno
il sapore di una
maledizione perché annichiliscono la speranza.
Così, agli occhi di Sigyn, Loki
non era mutato divenendo all’improvviso un dio benevolo e
giusto, ma la sua
bieca neutralità aveva acquisito sfumature diverse che gli
altri non riuscivano
o non desideravano vedere.
Ma una notte di
riflessioni aveva convinto
Lingua d’Argento a troncare prima che fosse troppo tardi la
strana convivenza. “Mi
sono stancato di vederti,” sibilò con voce tetra
scostandosi da lei.
L’intento
era ferirla, chiaramente.
Sigyn sospirò, si lisciò le inesistenti pieghe
dell’abito color oro che
indossava. Ripensò al pomeriggio del giorno prima e alle
terzine che lui le
aveva recitato prima di baciarla per scherzo, gioco o passione, non
aveva poi
molta importanza. “Ieri noi…”
“Ieri
noi abbiamo sbagliato,” l’interruppe
l’Ase. “L’istinto ha prevalso. Si
è trattato di nient’altro che questo.”
Distolse lo sguardo. “Un momento di caos e
confusione.”
Era
un’ammissione? Loki sceglieva
sempre con cura e attenzione ogni parola, ma la smorfia che gli
increspò le
labbra sottili nascondeva un dispetto cui nemmeno lui, che era un dio
degli
Æsir, seppe o volle dare un nome; avrebbe dovuto scavare
troppo in profondità
per trovare le risposte.
“Di
cui tu sei signore. Ho promesso
che sarei rimasta tutto il tempo.”
“Il
tempo,” ripeté Loki
concentrandosi sui fiocchi di neve che cadevano sempre più
fitti oltre il vetro
della finestra. “Il tempo è il problema. Io ne ho
in abbondanza – non so che
significhi, quasi – mentre a te difetta. Sei una creatura
fragile, Sigyn: sei
come una rosa in un vaso. Tra poco inizierai a sfiorire e a morire e
nemmeno il
mio seiðr potrà evitarlo.”
Una lacrima
scivolò sulla guancia
liscia della ragazza. Nell’ennesima affermazione del dio
degli inganni volta a
puntualizzare quanto fosse caduca l’esistenza umana, Sigyn
percepì il rimpianto
per un destino immutabile che nemmeno le trame del più
astuto tra gli dèi
avrebbero potuto mutare.
Gli si
avvicinò di nuovo con la
stessa delicatezza con cui, negli ultimi mesi, si era accostata alla
sua
scrivania per mostrargli una meravigliosa miniatura, per discorrere di
scoperte, viaggi, mondi e libri. Lo sentì tendersi
leggermente quando accarezzò
il suo braccio e gli cercò lo sguardo verde e puntuto.
“E lo vorresti?”
Aveva i capelli
d’oro degli Æsir e
gli occhi grigi grandi e rotondi erano carichi di una squisita
dolcezza, ma il
suo cuore, per le Norne, era umano. Intrappolato nelle regole del tempo
e dello
spazio, un giorno – sempre troppo presto – si
sarebbe fermato. Eppure, lo
spirito appassionato che abitava quel corpo sottile e snello che aveva
desiderato scoprire in ogni sua curva con le labbra, vibrava e
splendeva come
le stelle più luminose che scintillavano nel magnifico cielo
di Asgard. Sigyn. Effimera, splendida,
delicatissima
Sigyn. Che sai trovare la bellezza nascosta dietro lo spirito
più nero. Non
voglio vederti appassire.
Il dio degli
inganni s’inumidì le
labbra, ma si concesse di sfiorarla, la morbida rosa che gli era
davanti. Di
accarezzare la pelle ancora giovane e fresca, di fissare, per
l’ultima volta,
lo sguardo limpido e innamorato della ragazza che si era incantata
ascoltando
le sue storie.
“La
bellezza degli esseri umani sta
in questo. Nella loro debolezza. Conosco la prigionia e ti ho sentita
piangere
ogni notte per la vita che hai perso. Ti ordino di andare via. La tua
presenza
mi è divenuta intollerabile. Cavalca verso ovest, torna in
città. Tra poco
smetterà di nevicare e la strada, per te, sarà
libera. Ti consiglio solo di non
raccontare nulla di questo luogo.”
La sua voce che
aveva irretito dèi e
mostri, convinto e conquistato cuori e teste, era altera e sicura, ma
le dita
di mago del dio degli inganni sostarono troppo sulla pelle bianca e
ancora
perfetta di Sigyn. Di nuovo, cedette al caos che gli abitava il cuore
domandandosi se fosse un’altra delle sue personali
maledizioni, l’essere
volubile e scostante più degli umani che aveva sempre
denigrato. Non avrebbe
dovuto, un Æsir del suo calibro, contenere le passioni e
soffocare gli odi e le
vendette? Gli abitanti di Midgard sogghignavano divertiti, quando
raccontavano
di come i loro dèi fossero scossi dai medesimi sentimenti
che agitavano loro,
creature effimere e grette. Padre Tutto, dall’alto della sua
antica saggezza,
soleva però dire che era per questo che li pregavano e li
invocavano. Per avere
da quelle creature ultraterrene e fuori dal tempo conforto e
comprensione. Di
nuovo, le dita dell’Ase intrappolato sfiorarono la morbida
dolcezza delle
labbra di Sigyn, ancora una volta le prese il volto tra le mani
ammirando il
biondo dei suoi capelli. Cercò di contenersi,
all’inizio. Di ignorare il
profumo dolce della pelle di lei, di fingere di non volerla stringere a
sé per l’ultima
volta, ma gli difettò la volontà e si
ritrovò a ghermirle rapace la vita. Seta
d’oro contro armatura di cuoio, corpo scolpito e scattante
d’un guerriero degli
Æsir contro morbida carne d’una ragazza forse non
bella più di altre, ma dalla
mente vivace. L’aveva intrappolata tra le sue braccia e ora
lei gli si stava
offrendo con gli occhi lucidi e pallida in volto per l’ultimo
bacio che si
sarebbero scambiati in questa vita. Dopo, lei avrebbe vissuto:
all’inizio,
forse, si sarebbe disperata per il suo amore perduto e strano, ma poi,
col
tempo, come sempre accade ai figli degli uomini, avrebbe dimenticato.
Il dolore
si sarebbe trasformato lentamente in nostalgia, il ricordo sarebbe
sfumato fino
a trasformarsi in uno dei tanti rimpianti che la vita porta con
sé. Sì, Sigyn
avrebbe avuto altri amori e pianto e gioito e sofferto e vissuto, ma
nemmeno
dopo la morte avrebbe potuto rincontrare il dio degli inganni sepolto
vivo su
Midgard, bandito e cacciato dalla sua gente. L’oltretomba
degli dèi di Asgard
non è quello degli uomini e questo Loki lo sapeva
– lei no, lo avrebbe ignorato
fino alla fine dei suoi giorni e, forse, avrebbe riposto una qualche
vana speranza
in un incontro tra fantasmi, liberi, finalmente, dai vincoli del tempo.
Fu per questo
che la baciò. Cedette,
sfiorandole le labbra, assaggiando le lacrime che le rigavano il volto,
e poi
non volle e non riuscì più a fermarsi e ancora la
cercò con la foga disperata
degli amanti. Sigyn. Il tempo,
improvvisamente, acquistò un significato anche per il
protervo e astuto dio
dell’inganno. Continuò a baciarla e lei rispose
abbandonandosi alla sua
oscurità, al desiderio che ormai avvinghiava entrambi.
L’ultima colpa di Loki
era stata corrompere quella ragazza e lasciare che il suo spirito
venisse
corroso dai midgardiani e quest’azione riprovevole si sarebbe
sommata a tutti
gli altri atti malvagi che aveva compiuto con sprezzo e
crudeltà quand’era
ancora libero. Lo sapeva, ne aveva esatta contezza, eppure non gli
importò
purché avesse, per la prima e ultima volta, Sigyn tra le
braccia. Cos’è un
bacio? Un tocco disperato di due labbra che trascende
un’unione più intensa e
che non può essere fermato né bloccato. Le
cercò il collo rapace, tirando giù
con un colpo secco la spallina del vestito perché la voleva,
desiderava fosse
sua in ogni modo possibile. Infiammato dal desiderio, tornò
a essere il fiero
conquistatore che, in nome del dio delle forche, aveva conquistato e
schiacciato popoli interi sotto le suole dei suoi alti stivali. Lei
infilò le
dita nella massa scura dei suoi capelli e buttò indietro il
capo, scossa
nell’identico modo dall’impulso di appartenergli
per una sola, unica, ultima
meravigliosa volta. Nessun maggior dolore
che ricordare del tempo felice ne la miseria, aveva cantato
il Poeta.
“È
un addio?” Le labbra di Sigyn si
scostarono appena dalle sue. Gli accarezzò la mascella con
un gesto delicato e
leggero delle sue dita sottili, lo fissò negli occhi in
cerca di una smentita.
L’aveva incantata concedendole di visitare i mondi racchiusi
nella sua immensa
biblioteca e lei s’era innamorata. Com’era stato
crudele.
“Non
può dispiacerti. Rimpiangeresti
di non aver vissuto, alla fine,” le ricordò,
sistemandosi meglio la corazza di
pelle intrecciata.
Sigyn
pensò che già le mancava il
tocco delle labbra sottili dell’Ase sulle sue e che era
diventata pazza. Colpa
della prigionia, si disse, e dei suoi occhi così chiari da
sembrare quasi
trasparenti. “Non è senza dolore che
lascerò questo palazzo. Sei molte cose,
dio degli inganni; non tutte spaventose. Sono tua prigioniera,
è vero, e mi
manca la mia casa ogni giorno. Eppure, tra queste mura, sono stata
più libera
che non a Londra, a Parigi o in qualsiasi altro posto. Mi hai fatto
vivere
molte vite, hai lasciato che guardassi tra i volumi che hai raccolto
durante il
tuo esilio, ma, soprattutto, hai ascoltato la mia voce ogni giorno. E
aveva un
peso, per te. Nella mia città forse posso camminare libera
per le strade, ma il
mio pensiero non conta, vale meno di quello di un uomo. Il mio
desiderio di
studiare, di ragionare e di conoscere è considerato un
grazioso cinguettare, un
buffo vezzo. Qui no. Lascia solo che visiti un’ultima volta
mio padre; che lo
saluti e gli dica che sto bene. E poi, ti prego, permettimi di tornare da te.”
Glielo disse
baciandogli le labbra
beffarde e ironiche, stringendoglisi contro come l’amante che
non poteva
essere, che era assurdo fosse. In un barlume di lucidità,
Loki se ne accorse e
si scostò da lei e dal suo profumo e dalla dolcezza delle
sue labbra.
“Vivi
il tempo che ti è concesso su
questa terra con qualcuno con cui abbia un senso farlo, Sigyn. Viaggia,
scopri
il mondo, innamorati, sposati, fai figli, invecchia.” Si
allontanò per creare
la distanza che, da quel momento, li avrebbe divisi per sempre.
“Goditi ogni
cosa, perché non ritornerà. L’esistenza
degli Æsir è un ciclo eterno destinato
a ripetersi, segnato da profezie oscure. Voi no: voi siete
liberi.”
Gli
uomini sono perfetti e meravigliosi in un modo che tu non riesci a
cogliere, Loki. Ti condanno a vivere su Midgard, affinché tu
ti renda conto di
quanto orribile sia stata, la tua idea di spazzarli via per vendicarti
di me e
di Thor. Per questo, io ti maledico. Rimarrai in un cerchio protetto da
rune
finché non capirai la loro bellezza, fino a che Asgard
rimarrà in piedi, fino
al Ragnarok, se necessario. Le parole di
Odino figlio di Bor gli graffiarono il petto
com’era sempre stato da quando le aveva udite la prima volta.
Per un momento,
Loki pensò di aver afferrato e perduto il senso della
crudele punizione che gli
era stata inflitta quando, col cuore gonfio di un’ira funesta
e terribile,
aveva osato pronunciare le parole atroci in grado di scatenare una
guerra
sanguinosa e orrenda e determinare il suo destino. “Midgard, se non sei mia, non sarai di nessuno.”
Così aveva detto.
Sigyn scosse la
testa, decisa a non
credergli, a non fidarsi delle sue parole senz’altro
bugiarde. “Tu tieni a me.
Ho visto la bellezza della bestia: il resto del mondo non
m’interessa.”
L’Ase non cambiò idea. Prima che la ragazza partisse, le diede uno specchio. Era una reliquia di Asgard, dono di Frigga, la regina madre degli Æsir. Nella sua superficie riflettente, Sigyn avrebbe potuto guardare ogni luogo dei Nove Regni, compreso il bosco di Hallerbos e il tumulo e il palazzo incantato. Promise che sarebbe tornata, ma il dio degli inganni la lasciò andare sapendo che non l’avrebbe più rivista, perché così è il cuore degli uomini e delle donne di Midgard. È fatto per sottostare al tempo, per dimenticare.
Continua. e conclude il 12 dicembre. Grazie di cuore a tutti coloro che hanno recensito e inserito nelle liste.
Shilyss
[1]
Uno degli appellativi di Odino.
[2]
Si tratta, ovviamente, di Dante Alighieri. Le notizie riguardo alla sua
grafia
sono vere (non abbiamo più autografi dal Quattrocento; i
versi seguenti, sono
tratti dalla Divina Commedia, Inferno, Canto V.
[3]
Parlo della Voluspa che annuncia il Ragnarok.
[4]
Attualmente l’età media è circa 87
anni, ma nel 1882, anno in cui è ambientata
la vicenda, settant’anni sono una cifra più che
ottimistica.
[5]
Non esiste nulla su questa teoria. L’ho inventata pensando
alle difficoltà di
vivere con qualcuno che vive… “cinquemila anni
più o meno.”
[6]
L’essere Loki il dio del fuoco è indicato anche
dal suo nome e dalle sue
origini.