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Autore: shilyss    10/12/2018    53 recensioni
Fable! AU La Bella e la Bestia
1882: Nel tentativo di rintracciare il padre disperso, la giovane Sigyn incappa in una leggenda vecchia di mille anni: una maledizione antica impossibile da spezzare che parla di dèi immortali e di antiche vendette.
“Una vita per una vita,” le ripeté l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato. “Non sai a che stai rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso, francamente stupido,” sentenziò a denti stretti. […] “Io sono il dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono raccontate ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i Nove Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.” […] Si riscosse, un lampo divertito gli attraversò lo sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e, d’ora in poi, sarà anche la tua. Accetto lo scambio.”
La storia della Bella e la Bestia come non l’avete mai letta.
[ ♦ Storia Vincitrice del contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP, a pari merito, e Vincitrice del Premio "Miglior Hero" ♦ ]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2

Della fragilità di una rosa

 

 
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.                 
  Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.                      
  Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».

[…]

Quando leggemmo il disïato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,                      

la bocca mi basciò tutto tremante.

Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante».

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V.)

 

Nessuna cosa era come sembrava, nel palazzo incantato dell’ingannatore di Asgard che lui, con un filo d’ironia, definiva la propria tomba. Non appena il vecchio Lord fuggì dal cerchio magico di rune tracciato da Odino in persona, l’edificio sghembo e in rovina in cui Sigyn era stata portata si trasformò in un palazzo incantato, vittima, come ogni cosa, del sortilegio che lo legava al suo signore. All’inizio, la ragazza provò solo terrore e disperazione per la sua triste sorte. Il coraggio che le aveva gonfiato il petto quando si era offerta di scontare la prigionia al posto di suo padre si era trasformato, ben presto, nell’amara consapevolezza di aver appena perso ogni cosa e che sarebbe morta entro un cerchio di rune incise, mille e più anni prima, da una divinità vendicativa e furibonda. Non avrebbe vissuto niente, della vita che l’aspettava. Non sarebbe mai potuta salire sull’Orient Express alla volta delle steppe dell’Impero Russo, né sarebbe sbarcata a New York, dov’era s’era trasferita sua cugina con i figli. Si erano promesse, per iscritto, che si sarebbero incontrate l’estate seguente e avevano fantasticato del tempo che avrebbero trascorso insieme. Niente di tutto questo avrebbe mai avuto luogo; sogni e speranze si sarebbero trasformate nell’amaro e inutile rimpianto d’un giocattolo catturato da un mostro, da una bestia crudele che la cattività aveva reso pazza. Questo erano, lei e Loki. Fino al suo ultimo respiro su questa terra, il mondo si sarebbe esaurito sul limitare di un cerchio maledetto. Il dio degli inganni, dal canto suo, la ignorava. Lei non significava niente, non serviva a nulla. L’onta dovuta al furto di cui si era macchiato suo padre era stata lavata, la rosa dai petali d’oro era tornata a scintillare assieme al resto del tesoro.  Sigyn non era altro che una mortale, della cui esistenza troppo fragile e breve presto Loki si sarebbe dimenticato. Per molti giorni pianse la sua sorte, finché un pomeriggio si asciugò le lacrime con il dorso della mano e decise di esplorare la sua prigione.

Fu allora che trovò il labirinto, quello vero. Una torre intera ricoperta, tappezzata di libri che Sigyn conosceva e amava e di altri di cui non aveva mai sentito parlare e che si diceva fossero andati perduti da secoli. Resoconti di maghi e di viaggiatori folli, epopee scritte da popoli perduti le cui vestigia erano state coperte per sempre dalla sabbia di deserti lontani. Con le dita che tremavano per la paura e l’emozione, accarezzò il dorso rilegato in pelle dei volumi più antichi, sfiorò le ruvide pergamene che giacevano ancora arrotolate. Non si accorse di aver perso l’orientamento, né diede peso al fatto che lo spazio pareva dilatarsi a ogni suo passo, stregata com’era dal fascino oscuro di quel luogo ammaliante. Si ritrovò a sfogliare le pagine, vergate in un alfabeto arcaico e sconosciuto, di un libro scritto con simboli runici così antichi che la testa aveva preso a girarle solo seguendo l’andamento dei segni posti uno accanto all’altro.

“Non provare mai più a leggere gli incantesimi oscuri.” La voce roca del dio degli inganni la sorprese alle spalle. Non lo aveva sentito arrivare. S’accorse di stare barcollando, di non riuscire a rimanere in piedi. Tutto vorticava attorno a lei e sarebbe caduta a terra, se quella creatura perfida con le fattezze d’uomo e il cuore di una bestia non l’avesse sostenuta. Si ritrovò tra le sue braccia – aveva una presa ferrea, lui, virile, e odorava di cuoio e pelle e qualche strano incenso.

“Quel libro non è per te. Questo posto non è per te.” Viso affilato, occhi verdi quasi trasparenti, labbra sottili sfregiate appena da una cicatrice lieve, ormai bianca. Non erano mai stati così vicini, se non nei pensieri da cui Sigyn era fuggita quando aveva compreso che lui, per portarla dalla grotta grondante oro fino al camino, doveva averla sollevata e stretta a sé.

Tentò di riprendersi in fretta, libera, ormai, dal giogo delle strane rune. “Mi avete rinchiusa qui. Questa è la mia casa, adesso – la mia prigione, mi correggo.” Come si parla a un dio folle e crudele, costretto dai suoi pari a esaurire l’eternità dentro a una gabbia incantevole e invalicabile? Le leggende antiche che parlavano davvero di quel mostro simile a un uomo erano oscure dicerie che Sigyn aveva dimenticato da tempo, o forse non aveva conosciuto mai. Storie di scherzi e di burle, di inganni e di tradimenti. Cosa sono, gli Æsir? Creature di un altro mondo antiche e arroganti? Padroni stanchi di giocare con le loro bambole umane? Sigyn, prigioniera del peggiore tra loro, non poteva chiederselo e non aveva nulla da perdere. Per questo alzò il mento con fierezza e sostenne lo sguardo verde e aguzzo dell’antica creatura di fronte a lei.

Loki increspò le labbra, incrociò le mani dietro la schiena, come il dio che era e il principe che era stato – ma questo, Sigyn non poté comprenderlo né capirlo.

“Tu l’hai scelta,” le ricordò caustico. “Hai sacrificato la tua esistenza volontariamente.” Sorrise appena, inclinò il capo di lato, come se volesse guardarla con più attenzione. “Voi umani non dovreste essere così sciocchi. Il tempo vi è nemico; scorre inesorabile e non torna più indietro.”

Sigyn fu scossa da un brivido, perché le parole del mostro davanti a lei erano intrise di una saggezza inappuntabile, esatta, crudele come i suoi occhi chiari; eppure, nella sua voce, era sicura di aver colto l’ombra di qualcosa – rimpianto, forse. “Non è nemico anche del dio degli inganni, il tempo?”

Il bel volto dell’Ase si contrasse in una smorfia. La squadrò da capo a piedi come se volesse valutarla, soppesare le sue intenzioni, leggerle il cuore. Forse lo fece. “No,” soffiò infine. “Porta con sé solo tedio, noia, dispetto. Scorre in maniera diversa, per noi, il tempo. Cento anni per gli uomini sono una vita intera; un’esistenza lunga, piena. Per noi, solo un battito di ciglia, un palpito del cuore. Nelle vostri menti, i ricordi sbiadiscono. Perdono d’intensità, si velano della dolce tristezza della nostalgia. Nelle nostre, invece, sono scolpiti per sempre e diventano immutabili. Gli Æsir non possono dimenticare.”

Aveva parlato con fierezza, tenendo le spalle diritte e la schiena tesa, vantandosi di quello che, agli occhi della mortale, dovette sembrare un’orrenda maledizione. Sigyn scosse il capo mestamente. “È un destino terribile.”

Era vero? L’Ase contrasse la mascella, irrigidendosi di fronte a quella constatazione sincera, carica però di un’empatia offensiva, non richiesta, non voluta; che infilava inconsapevolmente il dito in una piaga antica, vecchia più di mille anni.

“Sparisci dalla mia vista e non tornare, mortale,” le ordinò secco. “Questa non è una delle tue confortevoli biblioteche, ma l’officina d’un mago, lo studio di un dio, il labirinto della bestia.” L’afferrò per il polso allontanandola dal libro d’incantesimi che quasi l’aveva catturata – era arrivato appena in tempo – e la trascinò per le sale ricoperte di scaffali e tavoli zeppi di volumi e pergamene.

“Ti brucia? Ti brucia ancora come il primo giorno che ti ha rinchiuso qui?” La voce di lei lo colpì quasi come uno schiaffo. Si fermò nel bel mezzo dell’ennesima stanza che si affacciava su un’altra assolutamente identica, uguale; ecco dove custodiva la sua collezione preziosa che gli aveva impedito, nei secoli, di diventare davvero pazzo, di smarrire il senno.

“Non osare pronunciare una sola parola in più, ragazzina,” l’avvisò tetro.

Lei non gli obbedì. Riconobbe, nel tono tagliente che l’Ase aveva usato, una traccia della furia che i miti e le leggende gli attribuivano e scelse di essere sincera. Di aprire il suo cuore al dio degli inganni. Di confessare quello che non era dolore o pentimento per una scelta azzardata, ma il senso di perdita e smarrimento conseguente a quella decisione che non avrebbe mai ricusato. Oppose resistenza, si aggrappò al suo braccio.

“Questa è la tua prigione,” ammise. “Per il tempo d’un battito di ciglia, di un soffio del cuore, sarà anche la mia: lascia almeno che legga. Consentimi di vivere, attraverso la carta, la vita e le possibilità a cui ho rinunciato. Non vedrò mai più il mondo, non abbraccerò mai più i miei cari; non m’innamorerò né avrò figli e nipoti. Lascia almeno che, per una manciata di anni che per te non significano nulla, io possa leggere, immaginare, sognare. Vivere l’esistenza a cui ho rinunciato tramite un libro.”

Il dio degli inganni ascoltò quella supplica disperata bevendo ogni parola della mortale. Forse era stupito, perché erano passati millenni da quando gli uomini avevano smesso di ringraziarlo per i molti e utili doni che aveva fatto loro. In un altro luogo, in un altro tempo, quando ancora pensava di poter essere un giorno degno agli occhi dell’Allfather che[1], seppure privo d’un occhio, tutto vedeva, aveva insegnato ai figli della giovane Midgard a domare il fuoco. Le lingue scarlatte potevano bruciare ogni cosa e portare distruzione e morte, ma erano anche benigne; scaldavano le membra infreddolite, rischiaravano le notti più scure cacciando via le ombre, scioglievano i metalli e cuocevano i cibi. Allo stesso modo, oltre a rendere i loro volti piacevoli e belli, aveva insegnato loro l’arte di intrecciare reti e di pescare.

Di fronte a quella richiesta accorata e fiera, s’accorse con dispetto di comprendere il dolore della delicata mortale dai capelli d’oro come gli Æsir, perché anche lui l’aveva provato sulla sua pelle. Nei mille e più anni trascorsi nella tomba a cielo aperto che Odino gli aveva donato, la libertà gli era mancata ogni giorno, istante, secondo. Sebbene il tempo non gli difettasse e ne avesse ancora in abbondanza, scoprì di capire perfettamente l’angoscia e lo smarrimento della sua bionda preda. Era qualcosa di fisico, un malessere profondo che scavava graffiando e lacerando lo spirito. Lei aveva ragione: erano prigionieri entrambi. Condividevano la medesima maledizione e l’avevano scelta deliberatamente, scientemente, volutamente, anche se Sigyn non poteva certo conoscere né immaginare quali fossero, realmente, i termini e le condizioni della crudele punizione imposta dal potente Odino al dio degli inganni. Soffocando a stento le lacrime, mordendosi le labbra per non gridare al cielo il suo dolore, Sigyn era riuscita a dare voce alla bestia nera che urlava nel petto di Loki stesso. Aveva davvero i capelli d’oro degli Æsir, lei; un popolo di dèi ed eroi, di pirati ed esploratori, di predoni e di maghi. Le concesse di poter accedere ad alcune stanze della sua labirintica biblioteca perché, si disse, era curioso di vedere cosa ne avrebbe fatto del suo tempo. Per soffocare la noia, riempire il vuoto delle sue ore, concedersi una distrazione bella da guardare, perché il dio degli inganni non era una creatura incorporea e immateriale, ma era fatto di carne e sangue e aveva il corpo un uomo nel pieno delle sue energie e forze e voglie. In fondo, si disse, sarebbe durato solo il tempo di un battito di ciglia, di un soffio del cuore. Si sarebbe trattato di un esperimento, dell’ennesimo studio condotto per ingannare il tempo, nient’altro. Con voce severa, le concesse di poter accedere ad alcune di quelle stanze: lì, avrebbe potuto studiare ciò più le aggradava, per il tempo che riteneva necessario. L’unico vincolo che le impose, fu di non recarsi mai, per nessuna ragione al mondo, nel piano superiore della torre dov’era il suo studio.

Forse è vero ciò che si racconta ancora in qualche capanna sperduta sugli dèi; che siano volubili e amino essere adorati e invocati. Loki, il cui nome dagli uomini era stato dimenticato e veniva pronunciato a denti stretti solo per qualche oscura imprecazione, come i suoi pari Æsir, non aveva saputo resistere al fascino di una preghiera sincera e spontanea, detta col cuore. Mentre si allontanava, tuttavia, parole antiche e oscure tornarono ad affacciarsi nella sua mente scaltra e astuta. Fenrir, il lupo, quando lo vide, ammiccò appena con i suoi occhi guardinghi e quasi fluorescenti. Forse, presto, la prigionia sarebbe finita.

 

 

 

Passarono i mesi, giunse infine l’inverno nella foresta di Hallerbos. La nuvola blu che impreziosiva la terra venne sostituita da una coltre bianca e immobile di neve che ricoprì ogni cosa. Gli alberi si trasformarono in ossa adunche e tristi che nascevano dal suolo per innalzarsi a invocare il cielo, i fiori si addormentarono in attesa della primavera lontana. Eppure, c’era qualcosa di tremendamente bello e magnifico in quel panorama onirico, di sogno. Oltre il sigillo che un dio adirato aveva tracciato sulla terra degli uomini, il tempo si era congelato, cristallizzato. Sigyn aprì gli occhi alla luce tenue e fredda di un’alba livida, ma non per questo meno splendida. Si tirò su soffocando a stento un brivido dovuto all’aria pungente. Con una mano, si liberò delle ciocche bionde che erano sfuggite alla treccia che usava per dormire, con l’altra si sfiorò le labbra colpevoli, chiedendosi confusa se non fosse stato tutto un sogno, un inganno. Lo spettacolo teatrale allestito da un dio annoiato e stanco, da una creatura millenaria che aveva congelato il suo cuore in un odio antico forse motivato, ma senz’altro lontano nel tempo e nello spazio.

Loki era crudele e spietato, e lei lo sapeva da sempre; da quando, bambina, suo padre abbassava il tono della voce ogni volta che incappava nel suo nome. Conosceva vagamente alcune delle azioni malvagie che aveva compiuto perché erano note anche lì, su quella che lui chiamava, non certo senza una punta di velato disprezzo, Midgard. Le altre, le aveva apprese sfogliando le pagine ingiallite dei volumi che lui le aveva concesso di leggere. Storie tetre, cronache di regni perduti e mondi alieni che il dio degli inganni, inizialmente, le aveva vietato persino di toccare. Racconti che chiarificavano ancora meglio la natura delle ombre che danzavano cupe nello sguardo chiarissimo di Loki, il senso del lieve ghigno sardonico che gli increspava le labbra sottili.

 

Sigyn si coprì il volto con le mani chiudendo gli occhi come se potesse, grazie a quel gesto, cancellare i mesi appena trascorsi, tutti. Fuori, danzavano piccoli fiocchi di neve. Lievi e leggeri, si posavano sulla foresta di Hallerbos che quasi nessuno, al mondo, sapeva essere la tomba di un dio furioso, di cui lei era cosa? Il giocattolo, l’ostaggio, la prigioniera, l’amica? L’ultimo termine le strappò un sospiro esasperato, carico d’ironica pietà verso se stessa e nei confronti dell’attitudine umana ad abituarsi a quasi ogni cosa. Loki glielo aveva spiegato il giorno prima, senza risparmiarle una punta di velenoso sarcasmo. Gli uomini, si era divertito a dirle, per sopravvivere si adattano alle circostanze e così stava facendo lei.

“Non è lo stesso per gli Æsir?” Domanda provocatoria, esasperante, forse persino troppo pungente. Fatta sorridendo appena e guardandolo da sotto le ciglia scure in un modo pericoloso, di cui lei stava smettendo di temere gli effetti e le conseguenze. Nella gabbia fuori dal tempo e dallo spazio dov’erano rinchiusi, avrebbero potuto mai cessare di essere il dio maledetto e la fanciulla che gli si era sacrificata?

Come sempre negli ultimi mesi, l’Ase che aveva portato nei Nove Regni e oltre guerra, distruzione e morte, l’aveva scrutata a metà strada tra il sorpreso e divertito. Colpa dei libri che riempivano ogni angolo di quella torre stregata; dei volumi che entrambi non si stancavano mai di sfogliare, delle domande che si era azzardata a porgli all’inizio di quell’inverno bianco come pochi. Prima che cadesse la neve, disattendendo platealmente ai suoi ordini, lo aveva cercato stupita, meravigliata, incantata: aveva trovato l’ennesimo codice antico e accuratamente miniato e, stringendoselo delicatamente al petto, gli aveva domandato quali altri libri perduti degli uomini aveva raccolto e collezionato e perché. Il dio degli inganni, però, quella volta, non le aveva risposto. Si era limitato ad alzare gli occhi su di lei, guardingo e irritato.

Un’altra sarebbe scappata a gambe levate. Sigyn, invece, il giorno appresso era tornata con ancora più domande, e così quello seguente, fino a che il dio degli inganni non si era deciso a levarsela di torno rispondendole brevemente, tra i denti. A lei, però, non era bastato. Dopo la prima spiegazione, ne aveva chiesta una seconda e poi una terza: così, mentre l’inverno diventava ogni giorno più rigido, il tempo aveva cominciato a essere scandito da abitudini nuove, inconsuete, impreviste. I commenti laconici di Loki si erano fatti sempre più articolati, profondi, lunghi e Sigyn, affascinata dalle parole argute e dai discorsi brillanti del dio, anziché rimanere in silenzio ad ascoltare, non faceva che porre nuove domande arrivando anche a esporre i suoi, di ragionamenti.

Il dio dell’inganno, all’inizio, aveva reputato folle e sconsiderato il continuo rispondere e ribattere e suggerire della sua graziosa prigioniera. Si era persino leggermente risentito, per la sfacciata insolenza di quella ragazzina che, all’apparenza, non aveva altro pregio oltre al punto di biondo dei suoi capelli. Ma poi, col passare dei giorni, la viva curiosità di Sigyn aveva iniziato ad andargli leggermente a genio. Lei era intelligente, desiderosa d’imparare, persino brillante in certe sue considerazioni e, poi, adorava ascoltarlo nella misura esatta in cui a lui piaceva discorrere, raccontare storie e avere un pubblico. Gli occhi di entrambi brillavano più intensamente, in quei momenti sempre meno rari, ma nessuno dei due se ne accorse. Solo Fenrir, l’astuto lupo che controllava il perimetro di quella prigione incantata, condannato come il suo signore, lo comprese.

 

Sigyn si vestì rapidamente, a occhi bassi, incapace di osservare la sua immagine riflessa nello specchio, turbata dai ricordi del giorno precedente. Quand’ebbe finito, si sfiorò le labbra un’altra volta. Non aveva sognato, né era caduta vittima di qualcuna delle atroci illusioni create dal dio dell’inganno, o forse sì, ma nella maniera sbagliata. Un peso tremendo le gravava sul cuore. Avrebbe voluto possedere la leggerezza di quei fiocchi di neve che cadevano lenti e silenziosi sul bosco incantato, sui tetti e le guglie del palazzo che solo lei poteva vedere. Il pomeriggio prima, si era accostata per l’ennesima volta alla scrivania ingombra di carte e pergamene e astrolabi e strumenti del dio degli inganni. L’Ase era assorbito nello studio e chiosava, con tratti rapidi della mano, certi appunti su un vecchio tomo. “È davvero la sua grafia, questa? È dal Quattrocento che nessuno l’aveva più vista.” Ecco, com’era iniziato tutto.

Sigyn, tremando per l’emozione, gli aveva allungato il codice manoscritto e l’Ase, inarcando un sopracciglio, si era alzato dalla scrivania incuriosito e aveva preso a scorrere rapidamente la lunga successione di terzine in versi. La scrittura appuntita di un poeta fiorentino che aveva cantato e maledetto il suo esilio era lì, immobile testimonianza di come anche l’effimera vita degli abitanti di Midgard potesse, a volte, assomigliare a quella dei nobili Æsir[2]. Era una menzogna, ovviamente. Nei lunghi secoli della sua prigionia, il dio degli inganni aveva appurato più e più volte che le esistenze patetiche dei caduchi e fragili umani racchiudevano una bellezza totale, assoluta, ultraterrena; divina, quasi. Gli abitanti di Midgard non avevano volontà ed erano gretti, meschini, deboli, inferiori, eppure, racchiusa assieme alla loro lampante indegnità, si nascondeva una traccia d’infinita grandezza, una scintilla quasi divina. Erano davvero così diversi, dagli immutabili Æsir condannati a morire da una profezia crudele[3]? La vita di un midgardiano poteva sfiorare i settant’anni[4], quella di un Ase toccava senza problema alcuno i cinquemila. Oltre a questo e alla salvifica capacità di stendere un velo sul passato, di distaccarsi dai ricordi concedendo loro un dolce oblio, cosa c’era di differente? Identico era l’anelito alla grandezza, medesime la sete di potere e la brama di conquista. Uguale il desiderio di conoscere. Loki aveva increspato le labbra in un sorriso, smarrendosi volontariamente di fronte all’innegabile bellezza di quei versi scritti in una lingua melodiosa che lei conosceva a stento. “Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante,” aveva recitato.

Sigyn, incantata, era rimasta ad ascoltare la voce sicura e roca dell’altro. Il cuore le batteva impazzito nel petto. “Perché un dio degli Æsir colleziona i testi degli uomini? Perché li legge e li custodisce e li ama?”

Era, questa, la domanda che desiderava porgergli da giorni, settimane, mesi. Da quando il bosco di Hallerbos era tinto ancora d’un incantevole azzurro e lei aveva messo, per la prima volta, piede in quella biblioteca labirintica e meravigliosa, senz’altro stregata.

Loki possedeva una bellezza innegabile feroce e selvaggia, ma dietro i lineamenti affilati e sotto il fisico nervoso e asciutto, in perenne tensione, oltre lo sguardo puntuto quasi trasparente e il sorriso sbieco che gli tagliava le labbra ironiche e bugiarde, c’era una bestia, un mostro, un dio recluso e imprigionato in cerca di una vendetta giusta. Sigyn lo aveva percepito, intuito, compreso, scoperto. Non ancora interiorizzato, forse. Quasi come se avesse voluto replicare il senso delle terzine appena pronunciate, le aveva sfiorato i capelli biondi come quelli degli Æsir e delle loro figlie, per poi accarezzarle con dita fredde la guancia morbida e serica, cercarle le labbra schiuse.

“Siete fragili e deboli e la vostra vita non dura che il tempo di un battito di ciglia.” La voce di Loki racchiudeva, al suo interno, una nota di amaro rimpianto.

Non l’aveva baciata allora. Ogni fibra del corpo di Sigyn si era tesa e aveva tremato per il tocco leggero di quei polpastrelli sulla sua bocca, per la vicinanza del corpo slanciato e scattante del dio degli inganni di fronte a lei. Aveva chiuso gli occhi, in attesa di un contatto che non era arrivato né doveva farlo. Il mondo si era fermato in quel momento, congelandosi nell’istante perfetto in cui tutto poteva ancora essere possibile. Una lacrima le era scivolata da sotto le palpebre chiuse perché, per un solo secondo, aveva desiderato essere come l’anima della nobildonna italiana costretta a vivere all’Inferno, sì, ma assieme al suo amato e col ricordo straziante di un amore vissuto.

“Eppure,” proseguì il dio, “c’è qualcosa di meraviglioso, nella vostra delicatezza.” Lo disse continuando a sfiorarle le labbra con le dita, fissandola con quei suoi occhi verdi e quasi trasparenti. “Ogni gesto, atto, parola, è unico e irripetibile perché, per voi, il tempo ha un senso; nessun giorno è uguale all’altro e il vostro aspetto muta assieme al cuore. Per noi Æsir, invece, tutto è un ciclo destinato a ripetersi, in cui i ricordi non possono svanire solo perché, smarrendoli, finiremmo per perdere anche noi stessi. Questo capita, a chi è costretto a vivere quasi in eterno.[5]

Le aveva cinto la vita con un braccio, preso il volto tra le mani – dita perse nella massa d’oro dei suoi capelli d’Æsinna – e, come suggerito dai due amanti di cui aveva appena letto l’inizio dell’amore, si era avvicinato alle sue labbra annullando lentamente ogni distanza, inebriandosi del dolce profumo della sua pelle, sfiorando con la punta del naso la guancia morbida di Sigyn che, un giorno, sarebbe appassita e poi diventata fredda e, dopo ancora, si sarebbe tramutata in polvere. I loro respiri si erano incrociati – quello quasi eterno dell’Ase e l’altro, effimero e breve, di lei – e ogni cosa era svanita: il tempo, crudele e implacabile, la gabbia, punizione amara e tremenda, la loro natura, così differente. Non aveva invocato il suo nome quando, finalmente, le aveva assaggiato le labbra, ma l’aveva stretta a sé, spinto dal desiderio e dalla voglia di ingannare il destino degli uomini e di godere della fragile bellezza di quella donna che gli ricordava Asgard in una maniera dolorosa, atroce, assoluta. E così, l’aveva baciata sulle labbra tremanti con la consapevolezza di aver strappato qualcosa a un tempo che non gli apparteneva. L’istante troppo lungo di quel contatto intensamente desiderato si sarebbe dissolto per non essere mai più replicato, non allo stesso modo, almeno, laddove, tra gli Æsir, avrebbe potuto protrarsi per l’eternità. Ma questo, Sigyn non poteva saperlo.

 

No, mentre si sfiorava le labbra chiedendosi se davvero il giorno prima il dio degli inganni l’avesse stretta tra le braccia e baciata come se il mondo dovesse finire di lì a qualche ora, Sigyn non riuscì a cogliere il senso tragico di quel gesto sconsiderato che chiunque, nei Nove Regni, avrebbe considerato oltraggioso. Si chiese, invece, cosa provasse lei: nel breve lasso di tempo in cui la primavera tinta di blu aveva lasciato il passo all’inverno e alla neve, il suo cuore davvero si era sciolto di fronte al sorriso laterale e sbieco del dio degli inganni? Non aveva avuto pietà di coloro che l’avevano accompagnata alla ricerca di suo padre e così mille altre cose aveva compiute, nella sua lunga, terribile ed eterna vita. Per questo era stato esiliato sulla terra che lui si ostinava a chiamare Midgard. Lei lo sapeva: negli ultimi mesi aveva studiato ogni mito, leggenda, racconto che parlava del suo scostante e infido carceriere, eppure, nonostante questo, era rimasta profondamente colpita dalla fierezza che traspariva in ogni suo gesto, sguardo, frase, battuta. Si comportava come un principe sconfitto, ma non piegato. Sopportava il suo destino con furiosa eleganza, senza rinnegare né rimpiangere una sola delle azioni compiute. Loki, il dio degli inganni che però, talvolta, sorrideva appena mentre le illustrava i difficili passaggi di una formula matematica, commentava il pensiero dei filosofi antichi, le chiariva, lui che pure era il dio d’un popolo perduto di pirati e predoni, le reazioni chimiche su cui si lambiccavano gli scienziati nella sua Londra fumosa e lontana, perduta, oramai ridotta alla stregua di un miraggio o di un sogno. Di questo, si stava invaghendo? Della voce di Loki calda e arrochita, del suo modo di raccontare? Poteva dimenticare il tesoro millenario che giaceva nel tumulo, ignorare che quella fosse la sua tomba e che l’orrendo lupo Fenrir la spiasse con i suoi occhi lucidi e rossi? L’apparenza del dio degli inganni era quella di un uomo bello d’aspetto, ma il suo cuore era crudele e malvagio. Questo dicevano i canti norreni che ormai aveva quasi imparato a memoria.

Eppure, in alcuni vecchi libri, si parlava anche d’altro: d’una neutrale causalità di cui il dio del fuoco e dell’inganno era portatore e signore[6]. Gli intrighi di Loki cantati dai bardi avevano causato innumerevoli disgrazie, ad Asgard, ma erano stati anche il motivo della sua grandezza. Molte volte l’Ase dalla lingua d’argento aveva utilizzato la sua astuzia per trarre d’impaccio gli Æsir tutti. Ecco, allora, spiegate l’ombra amara che gli velava lo sguardo altrimenti trasparente, la smorfia torva che gli piegava le labbra sottili. La malvagità di Loki, decise Sigyn, assomigliava crudelmente a quella degli uomini: non era assoluta e ingiustificata, ma nasceva da qualcosa – da una frattura, da un’intelligenza che si sentiva costretta entro spazi troppi limitati, da un torto antico impossibile da dimenticare. Il dio degli inganni era una bestia rinchiusa entro un cerchio di rune maledetto, che l’aveva costretta a rinunciare totalmente alla sua vita, ma avrebbe potuto essere anche altro, se solo avesse voluto. Sì, Sigyn decise che c’era qualcosa di bello, nel fiero Ase che guardava ogni cosa come se gli spettasse di diritto. E si scoprì, suo malgrado, a desiderare che le labbra sottili e perfide del dio degli inganni incontrassero di nuovo le sue in un altro bacio lento e disperato, eterno e straziante, dolce e rabbioso.

Un rumore improvviso la riscosse; come se l’avesse evocato o chiamato o reso partecipe dei suoi pensieri, Loki entrò nella stanza da letto. Non lo aveva mai fatto, da quando l’aveva imprigionata. Il dio degli inganni si guardò attorno, registrando rapidamente ogni mutamento che la ragazza aveva introdotto, poi le si mise di fronte puntandole addosso i suoi occhi chiari e incrociò le mani dietro la schiena con aria grave e altera.

“C’è un cavallo che ti aspetta. Fai bagagli: oggi tornerai a casa tua.”

Voce secca e laconica, mascella contratta. Nient’altro traspariva dal suo viso eternamente giovane, eppure un’ombra grave era calata nella camera. Sigyn pensò, con un brivido, che l’aspetto immutabile del dio dell’inganno fosse mostruoso. La bellezza dei suoi lineamenti veniva talvolta tradita dall’antichità del suo spirito e dalla conoscenza che aveva appreso in mille e mille anni di vita.

“Come? Perché?” Osò accostarglisi, toccargli il braccio, sfiorare la pelle scura e il tessuto robusto di foggia estranea che indossava. Strinse sotto le dita la stoffa, reprimendo l’istinto di un altro fuggevole contatto. Gli uomini e gli dèi avevano dimenticato Loki nella sua tomba; le azioni malvagie di cui si era consapevolmente macchiato, avevano soffocato il resto – tutte le volte che, degli Æsir e dei Midgardiani, era stato il protettore e il salvatore – mentre lei credeva di aver visto la bellezza dietro l’apparenza e ora non voleva rinunciarci. Non per sempre, almeno, perché era umana e gli umani non possono comprendere l’eternità. Nei loro cuori, parole come per sempre hanno il sapore di una maledizione perché annichiliscono la speranza. Così, agli occhi di Sigyn, Loki non era mutato divenendo all’improvviso un dio benevolo e giusto, ma la sua bieca neutralità aveva acquisito sfumature diverse che gli altri non riuscivano o non desideravano vedere.

Ma una notte di riflessioni aveva convinto Lingua d’Argento a troncare prima che fosse troppo tardi la strana convivenza. “Mi sono stancato di vederti,” sibilò con voce tetra scostandosi da lei.

L’intento era ferirla, chiaramente. Sigyn sospirò, si lisciò le inesistenti pieghe dell’abito color oro che indossava. Ripensò al pomeriggio del giorno prima e alle terzine che lui le aveva recitato prima di baciarla per scherzo, gioco o passione, non aveva poi molta importanza. “Ieri noi…”

“Ieri noi abbiamo sbagliato,” l’interruppe l’Ase. “L’istinto ha prevalso. Si è trattato di nient’altro che questo.” Distolse lo sguardo. “Un momento di caos e confusione.”

Era un’ammissione? Loki sceglieva sempre con cura e attenzione ogni parola, ma la smorfia che gli increspò le labbra sottili nascondeva un dispetto cui nemmeno lui, che era un dio degli Æsir, seppe o volle dare un nome; avrebbe dovuto scavare troppo in profondità per trovare le risposte.  

“Di cui tu sei signore. Ho promesso che sarei rimasta tutto il tempo.”

“Il tempo,” ripeté Loki concentrandosi sui fiocchi di neve che cadevano sempre più fitti oltre il vetro della finestra. “Il tempo è il problema. Io ne ho in abbondanza – non so che significhi, quasi – mentre a te difetta. Sei una creatura fragile, Sigyn: sei come una rosa in un vaso. Tra poco inizierai a sfiorire e a morire e nemmeno il mio seiðr potrà evitarlo.”

Una lacrima scivolò sulla guancia liscia della ragazza. Nell’ennesima affermazione del dio degli inganni volta a puntualizzare quanto fosse caduca l’esistenza umana, Sigyn percepì il rimpianto per un destino immutabile che nemmeno le trame del più astuto tra gli dèi avrebbero potuto mutare.

Gli si avvicinò di nuovo con la stessa delicatezza con cui, negli ultimi mesi, si era accostata alla sua scrivania per mostrargli una meravigliosa miniatura, per discorrere di scoperte, viaggi, mondi e libri. Lo sentì tendersi leggermente quando accarezzò il suo braccio e gli cercò lo sguardo verde e puntuto. “E lo vorresti?”

Aveva i capelli d’oro degli Æsir e gli occhi grigi grandi e rotondi erano carichi di una squisita dolcezza, ma il suo cuore, per le Norne, era umano. Intrappolato nelle regole del tempo e dello spazio, un giorno – sempre troppo presto – si sarebbe fermato. Eppure, lo spirito appassionato che abitava quel corpo sottile e snello che aveva desiderato scoprire in ogni sua curva con le labbra, vibrava e splendeva come le stelle più luminose che scintillavano nel magnifico cielo di Asgard. Sigyn. Effimera, splendida, delicatissima Sigyn. Che sai trovare la bellezza nascosta dietro lo spirito più nero. Non voglio vederti appassire.

 

Il dio degli inganni s’inumidì le labbra, ma si concesse di sfiorarla, la morbida rosa che gli era davanti. Di accarezzare la pelle ancora giovane e fresca, di fissare, per l’ultima volta, lo sguardo limpido e innamorato della ragazza che si era incantata ascoltando le sue storie.

“La bellezza degli esseri umani sta in questo. Nella loro debolezza. Conosco la prigionia e ti ho sentita piangere ogni notte per la vita che hai perso. Ti ordino di andare via. La tua presenza mi è divenuta intollerabile. Cavalca verso ovest, torna in città. Tra poco smetterà di nevicare e la strada, per te, sarà libera. Ti consiglio solo di non raccontare nulla di questo luogo.”

La sua voce che aveva irretito dèi e mostri, convinto e conquistato cuori e teste, era altera e sicura, ma le dita di mago del dio degli inganni sostarono troppo sulla pelle bianca e ancora perfetta di Sigyn. Di nuovo, cedette al caos che gli abitava il cuore domandandosi se fosse un’altra delle sue personali maledizioni, l’essere volubile e scostante più degli umani che aveva sempre denigrato. Non avrebbe dovuto, un Æsir del suo calibro, contenere le passioni e soffocare gli odi e le vendette? Gli abitanti di Midgard sogghignavano divertiti, quando raccontavano di come i loro dèi fossero scossi dai medesimi sentimenti che agitavano loro, creature effimere e grette. Padre Tutto, dall’alto della sua antica saggezza, soleva però dire che era per questo che li pregavano e li invocavano. Per avere da quelle creature ultraterrene e fuori dal tempo conforto e comprensione. Di nuovo, le dita dell’Ase intrappolato sfiorarono la morbida dolcezza delle labbra di Sigyn, ancora una volta le prese il volto tra le mani ammirando il biondo dei suoi capelli. Cercò di contenersi, all’inizio. Di ignorare il profumo dolce della pelle di lei, di fingere di non volerla stringere a sé per l’ultima volta, ma gli difettò la volontà e si ritrovò a ghermirle rapace la vita. Seta d’oro contro armatura di cuoio, corpo scolpito e scattante d’un guerriero degli Æsir contro morbida carne d’una ragazza forse non bella più di altre, ma dalla mente vivace. L’aveva intrappolata tra le sue braccia e ora lei gli si stava offrendo con gli occhi lucidi e pallida in volto per l’ultimo bacio che si sarebbero scambiati in questa vita. Dopo, lei avrebbe vissuto: all’inizio, forse, si sarebbe disperata per il suo amore perduto e strano, ma poi, col tempo, come sempre accade ai figli degli uomini, avrebbe dimenticato. Il dolore si sarebbe trasformato lentamente in nostalgia, il ricordo sarebbe sfumato fino a trasformarsi in uno dei tanti rimpianti che la vita porta con sé. Sì, Sigyn avrebbe avuto altri amori e pianto e gioito e sofferto e vissuto, ma nemmeno dopo la morte avrebbe potuto rincontrare il dio degli inganni sepolto vivo su Midgard, bandito e cacciato dalla sua gente. L’oltretomba degli dèi di Asgard non è quello degli uomini e questo Loki lo sapeva – lei no, lo avrebbe ignorato fino alla fine dei suoi giorni e, forse, avrebbe riposto una qualche vana speranza in un incontro tra fantasmi, liberi, finalmente, dai vincoli del tempo.

Fu per questo che la baciò. Cedette, sfiorandole le labbra, assaggiando le lacrime che le rigavano il volto, e poi non volle e non riuscì più a fermarsi e ancora la cercò con la foga disperata degli amanti. Sigyn. Il tempo, improvvisamente, acquistò un significato anche per il protervo e astuto dio dell’inganno. Continuò a baciarla e lei rispose abbandonandosi alla sua oscurità, al desiderio che ormai avvinghiava entrambi. L’ultima colpa di Loki era stata corrompere quella ragazza e lasciare che il suo spirito venisse corroso dai midgardiani e quest’azione riprovevole si sarebbe sommata a tutti gli altri atti malvagi che aveva compiuto con sprezzo e crudeltà quand’era ancora libero. Lo sapeva, ne aveva esatta contezza, eppure non gli importò purché avesse, per la prima e ultima volta, Sigyn tra le braccia. Cos’è un bacio? Un tocco disperato di due labbra che trascende un’unione più intensa e che non può essere fermato né bloccato. Le cercò il collo rapace, tirando giù con un colpo secco la spallina del vestito perché la voleva, desiderava fosse sua in ogni modo possibile. Infiammato dal desiderio, tornò a essere il fiero conquistatore che, in nome del dio delle forche, aveva conquistato e schiacciato popoli interi sotto le suole dei suoi alti stivali. Lei infilò le dita nella massa scura dei suoi capelli e buttò indietro il capo, scossa nell’identico modo dall’impulso di appartenergli per una sola, unica, ultima meravigliosa volta. Nessun maggior dolore che ricordare del tempo felice ne la miseria, aveva cantato il Poeta.

 

“È un addio?” Le labbra di Sigyn si scostarono appena dalle sue. Gli accarezzò la mascella con un gesto delicato e leggero delle sue dita sottili, lo fissò negli occhi in cerca di una smentita. L’aveva incantata concedendole di visitare i mondi racchiusi nella sua immensa biblioteca e lei s’era innamorata. Com’era stato crudele.

“Non può dispiacerti. Rimpiangeresti di non aver vissuto, alla fine,” le ricordò, sistemandosi meglio la corazza di pelle intrecciata.

Sigyn pensò che già le mancava il tocco delle labbra sottili dell’Ase sulle sue e che era diventata pazza. Colpa della prigionia, si disse, e dei suoi occhi così chiari da sembrare quasi trasparenti. “Non è senza dolore che lascerò questo palazzo. Sei molte cose, dio degli inganni; non tutte spaventose. Sono tua prigioniera, è vero, e mi manca la mia casa ogni giorno. Eppure, tra queste mura, sono stata più libera che non a Londra, a Parigi o in qualsiasi altro posto. Mi hai fatto vivere molte vite, hai lasciato che guardassi tra i volumi che hai raccolto durante il tuo esilio, ma, soprattutto, hai ascoltato la mia voce ogni giorno. E aveva un peso, per te. Nella mia città forse posso camminare libera per le strade, ma il mio pensiero non conta, vale meno di quello di un uomo. Il mio desiderio di studiare, di ragionare e di conoscere è considerato un grazioso cinguettare, un buffo vezzo. Qui no. Lascia solo che visiti un’ultima volta mio padre; che lo saluti e gli dica che sto bene. E poi, ti prego, permettimi di tornare da te.”

Glielo disse baciandogli le labbra beffarde e ironiche, stringendoglisi contro come l’amante che non poteva essere, che era assurdo fosse. In un barlume di lucidità, Loki se ne accorse e si scostò da lei e dal suo profumo e dalla dolcezza delle sue labbra.

“Vivi il tempo che ti è concesso su questa terra con qualcuno con cui abbia un senso farlo, Sigyn. Viaggia, scopri il mondo, innamorati, sposati, fai figli, invecchia.” Si allontanò per creare la distanza che, da quel momento, li avrebbe divisi per sempre. “Goditi ogni cosa, perché non ritornerà. L’esistenza degli Æsir è un ciclo eterno destinato a ripetersi, segnato da profezie oscure. Voi no: voi siete liberi.”

Gli uomini sono perfetti e meravigliosi in un modo che tu non riesci a cogliere, Loki. Ti condanno a vivere su Midgard, affinché tu ti renda conto di quanto orribile sia stata, la tua idea di spazzarli via per vendicarti di me e di Thor. Per questo, io ti maledico. Rimarrai in un cerchio protetto da rune finché non capirai la loro bellezza, fino a che Asgard rimarrà in piedi, fino al Ragnarok, se necessario. Le parole di Odino figlio di Bor gli graffiarono il petto com’era sempre stato da quando le aveva udite la prima volta. Per un momento, Loki pensò di aver afferrato e perduto il senso della crudele punizione che gli era stata inflitta quando, col cuore gonfio di un’ira funesta e terribile, aveva osato pronunciare le parole atroci in grado di scatenare una guerra sanguinosa e orrenda e determinare il suo destino. “Midgard, se non sei mia, non sarai di nessuno.” Così aveva detto.

Sigyn scosse la testa, decisa a non credergli, a non fidarsi delle sue parole senz’altro bugiarde. “Tu tieni a me. Ho visto la bellezza della bestia: il resto del mondo non m’interessa.”

 

L’Ase non cambiò idea. Prima che la ragazza partisse, le diede uno specchio. Era una reliquia di Asgard, dono di Frigga, la regina madre degli Æsir. Nella sua superficie riflettente, Sigyn avrebbe potuto guardare ogni luogo dei Nove Regni, compreso il bosco di Hallerbos e il tumulo e il palazzo incantato. Promise che sarebbe tornata, ma il dio degli inganni la lasciò andare sapendo che non l’avrebbe più rivista, perché così è il cuore degli uomini e delle donne di Midgard. È fatto per sottostare al tempo, per dimenticare.

Continua. e conclude il 12 dicembre. Grazie di cuore a tutti coloro che hanno recensito e inserito nelle liste.

Shilyss



[1] Uno degli appellativi di Odino.

[2] Si tratta, ovviamente, di Dante Alighieri. Le notizie riguardo alla sua grafia sono vere (non abbiamo più autografi dal Quattrocento; i versi seguenti, sono tratti dalla Divina Commedia, Inferno, Canto V.

[3] Parlo della Voluspa che annuncia il Ragnarok.

[4] Attualmente l’età media è circa 87 anni, ma nel 1882, anno in cui è ambientata la vicenda, settant’anni sono una cifra più che ottimistica.

[5] Non esiste nulla su questa teoria. L’ho inventata pensando alle difficoltà di vivere con qualcuno che vive… “cinquemila anni più o meno.”

[6] L’essere Loki il dio del fuoco è indicato anche dal suo nome e dalle sue origini.

   
 
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