RIASSUNTO
DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni
di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri
Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco
assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio,
Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco
potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa
risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà:
una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad
Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in
quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una
profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i
suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia,
dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera
destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice
tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di
Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale
magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si
erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere
casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a
fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva
provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il
nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna
in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma
giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama
Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la
bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta,
Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la
Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto
morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi
cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con
l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi
definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex.
Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita.
L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in
modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima
che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima
diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione
apprendono dall’Empatica Helder di essere
finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i
Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta
dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti,
cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la
distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché
della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e
Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il
loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei
Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per Ilai Radcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela
fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco
ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima
di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione
scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi
inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale
sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i
tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro
destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar,
avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li
blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola
scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria
del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente
ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno
possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più
classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed
Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo
sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per
Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di
crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una
sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di
essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il
quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco,
la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto
interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono
quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi
nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro
passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio,
sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima
di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo.
Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro,
forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente
EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal
cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna
di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda
in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia,
in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome
Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel
fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui
provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che
Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica
sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa per la sofferenza che ha indotto a
Draco con le sue accuse, Hermione accoglie il ritorno a casa per le vacanze
natalizie della figlia Rose che le confessa di essersi innamorata proprio del
figlio di Draco, Scorpius. La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che
il padre Ron potrebbe avere per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo
promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron
rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere
pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto
ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a
casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la
verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della
figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al
clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti
chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante
Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della
sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco
ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa,
non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi
confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione
si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di
Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un contatto delle loro
mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti, ritorna un ricordo
della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione
al Petite Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity e di
Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva
automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un
momento che non ricorda.
Capitolo 49: Disturbia, step three: about touch
25 dicembre ore 00,48
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, lo
aveva chiamato subito ricordo, non sogno.
La certezza si era instaurata nelle ossa,
vibrante come la corda di una chitarra al termine di un assolo. Vibrava tutto,
ogni cosa tra pelle ed organi, come se facesse risonanza con qualcosa di
lontano, perso, apparentemente irraggiungibile.
I sogni sono concentrati tutti in un solo
attimo fosco come nebbia: esiste un occhio del ciclone immobile nel quale
esistono in modo tangibile. Tutto il resto, attorno, viene dimenticato.
Nei ricordi, invece, a guardarli bene si vede
altro: la mente registra implacabile, ripropone scongelate prospettive di
eventi che non si erano guardati bene.
E lei aveva visto tutto: tutto quello che
c’era attorno a lei.
Una serie di cose accatastate assieme che,
proprio assieme, non significavano niente ed in questo magari poteva sembrare
la lucida follia di un sogno.
I mobili della stanza erano bianchi, gli
accessori neri. La televisione era accesa, con il volume al minimo, creava
ombre azzurre sui muri come se volesse mangiarseli. Su un letto c’era il
peluche di un coniglio rosa. Dalla finestra, proveniva il suono ritmico e
regolare della pioggia. Sul comodino, un calendario segnava la data di una
festa a tema azzurro, lontana tredici anni prima.
Tredici anni prima: nessun sogno era così
preciso.
Ma nessun ricordo portava l’etichetta di quel
momento. Nessuno.
Mai lei, Hermione Granger, era stata così a
ventitré anni.
Capelli lunghi, annodati in una coda,
leggermente bagnati sulle punte. Una maglia da calcio babbana rossa.
Corporatura più esile, molto più magra di quanto ricordasse di essere stata a
quell’età. Era sicuro che avesse pianto, gli occhi splendevano di pagliuzze
verdi sconosciute, al contrasto con il rosso che macchiava il bianco.
Dentro, non era stata mai così fragile
Hermione: farinosa, sabbiosa, friabile come un biscotto secco che, solo a
guardarlo di sbieco, si sbriciola selvaggio.
E Malfoy, quello che in un lampo aveva ripreso
a chiamare così, l’aveva sicuramente sbriciolata.
Con quella mano stretta sul polso, con
quell’irruenza sorda, con quella violenza scoperchiante e spavalda: certo,
ovvio, tutto vero.
Falso, invece. Era tutto falso.
Hermione Granger, 36 anni compiuti, fu certa
d’improvviso di una sola cosa.
Era stata sbriciolata, fatta a pezzi, dagli
occhi pieni di odio di Draco Malfoy.
Le mani. Le sue mani.
Di primo acchito,
come un richiamo ancestrale e necessario, guardo solo quelle.
Sono mani sottili,
dalle unghie corte eppure curate, attraversate pallide da un tessuto di vene e
capillari: sono mani di neve, ghiaccio, furia e tempesta, capaci di seminare
dolore e morte se solo lo volessero. Mi ha detto di non averlo mai fatto, di
non aver mai ucciso.
Gli credevo. Gli credo. O non più?
Sono mani di uomo
che spezzano, percuotono, annientano.
Sono le stesse mani
che, poco fa, se ne stavano poggiate fiaccamente vicino a me.
Sono le stesse mani
che io, preda dell’istinto più semplice, avrei stretto tra le mie, in modo da
consolarlo dal dolore imminente del lutto per la madre: e sono le stesse mani
di cui alla fine avevo conosciuto il calore denso, all’interno di quell’accordo
non verbale che avevamo siglato complici.
Ora io guardo
quelle mani e cerco di indovinarne le loro impronte sulla mia pelle.
Su quella tenera e
sottile del polso, su quella più ruvida e tracciata della fronte, su quella
pulsante e bollente del collo: ogni pezzo della mia epidermide, d’improvviso, suda
inquieta e mi suggerisce nuove dimensioni del dolore che potrebbe avermi
procurato, per poi cancellarmelo dalla mente. Il quadro è così vivido, e rosso,
e nero, che mi fa male solo ad immaginarlo, mentre si sveste come un cappotto
pesante quella primitiva ed istantanea fiducia che avevo avuto poco fa per lui.
Come una molla, scatto subito alla bacchetta nascosta sotto il vestito, la
impugno forte, sebbene le mie dita tremano raggelate. Torno a guardarlo quando
sono certa che i miei occhi non siano più lucidi, ma fieri, socchiusi, minacciosi,
mentre ripeto in un sibilo: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.
La sua vista, d’un
tratto, sgonfia un po’ del mio intento bellicoso, facendo tremolare la pelle
dietro le ginocchia. Mi ero aspettata un sorriso tronfio, uno sguardo
soddisfatto, un ghigno perfido, mentre mi sputava addosso l’inganno crudele a
cui mi aveva sottoposta. In fondo, una parte di me si aspettava anche che, nel
suo diabolico piano, rientrasse pure lo scarto pacifico di coesistenza che
abbiamo appena vissuto. Mi renderebbe persino più tranquilla sapere che è
stata tutta una farsa, piuttosto che credere sul serio che sia così naturale
stargli vicino.
Invece, a
restituirmi lo sguardo è un uomo confuso, disorientato, autenticamente
sconvolto. Lo guardo senza capire per qualche secondo, la bacchetta che si
abbassa piano dalla mia mano tesa prima ancora che io l’abbia premeditato. Non
aveva già la migliore delle espressioni precedentemente, ma adesso se
possibile, pare ancora più a pezzi di prima.
Continua a
stringere in modo frenetico e convulso con le dita la camicia all’altezza del
petto, come l’ho già visto fare spesso come in una sorta di tic nervoso, mentre
i suoi occhi sono catturati dal pavimento come un magnete irresistibile. Sotto
le palpebre, subitanee come fulmini sul mare, paiono passare centinaia di schegge
di un dolore diverso che lo annienta, annichilisce, sconquassa, come a volerlo
rivoltare dall’interno verso l’esterno, alla maniera di una pelle consunta da
gettare via.
Ho intuito che ciò
che è successo a me, è accaduto anche a lui.
Il ricordo.
Ma la sua reazione
mi induce a pensare che abbia visto o sentito qualcosa di diverso da me,
qualcosa di feroce, terribile, cruento. Quando torna a guardarmi, pare cercare
qualcosa nel mio viso in modo disperato, è come se soppesasse la mia figura
alla ricerca di qualcosa che non vada. Scivola sul viso, attraversa le braccia,
giunge alle gambe coperte dalle calze leggere. Non c’è lascivia, desiderio,
interesse.
Solo… terrore
smisurato. Cosa diamine sta cercando?
Sta… cercando di capire se… sto bene?!
La domanda retorica
a me stessa giunge così di sorpresa alla mia mente, da scoppiettare come un
petardo acceso. Deflagra insolente tra i tessuti, svuotandomi della rabbia e
dell’ansia. Mi attanaglia un senso crescente di vuoto freddo, implacabile,
insormontabile, che inizia a congelarmi le piante dei piedi per poi risalire
nel resto del corpo. Lo guardo allora instupidita, sciocca, nemmeno cosciente
di cosa pensare o fare.
Mi trincero dietro
la certezza che il ricordo sia di qualcosa che Malfoy mi ha fatto, solo perché
mi è rimasto solo questo.
Non so dove altro
porre i miei pensieri, dove nasconderli. D’un tratto, confesso a me stessa, per
la prima volta in questa serata assurda vorrei essere a casa mia.
Non qui, non con
lui.
Ovunque, ma non con lui.
Malfoy continua a
guardarmi con una domanda negli occhi imploranti, a cui però io non so
rispondere. Quando sembra capire che quel soccorso silente non arriverà, nel
vedere la mia bacchetta sguainata si ricompone immediatamente con una velocità
che mi sorprende, lasciandomi attonita. In pochi secondi torna sé stesso, apre
le spalle, raddrizza la schiena. Mi sovrasta con la sua altezza, pare un
principe delle fiabe intento a guardare una servetta. Le labbra si atteggiano
al solito ghigno sarcastico, mentre gli occhi, che erano prima pozze azzurrissime
di gennaio, si restringono malevoli, diventando più chiari, trasparenti.
Si spazzola distrattamente
la giacca grigia come se fosse piena di pelacchi, mentre soggiunge sarcastico,
rivolgendosi ad un inventato interlocutore: “E la Grifondoro dimenticò in quindici
secondi netti l’impeto di convivenza civile natalizia… abbandonando persino
quel raziocinio di cui è sempre andata tanto fiera…”, fa una studiata pausa ad effetto,
poi prosegue dolciastro: “Non dimentichiamo che è la moglie di Weasley, ogni
tanto pure le menti migliori vengono portate sulla cattiva strada…”. Completa
la sua tirata con una finta occhiata di comprensione al mio indirizzo, cosa che
mi fa saltare ancora di più i nervi, facendomi dimenticare completamente
l’attimo di debolezza di poco prima. Riafferro la bacchetta puntandogliela
contro decisa, cosa che non lo impensierisce affatto. Non cambia espressione
nemmeno quando sputo fuori, urlando: “La vuoi piantare con le tue contorsioni
semantiche, Malfoy?! Che cosa diamine vuoi dire? Tu… tu mi hai fatto qualcosa…
l’ho appena ricordato...”.
Mi concentro per
qualche secondo, riportando alla mente quello che ho visto. L’episodio, invece
di perdere definizione, diventa ancora più nitido e preciso come se fosse
qualcosa accaduto solo poco fa. Ha dei colori carichi, scintillanti, al punto
che ogni altra memoria nella mia testa pare smunta e impalpabile. Lo rivedo
nella mia testa continuamente, cercando di fissarmi tutti i particolari. Nulla,
però, mi riporta alla memoria quel momento che pare assolutamente slegato da
tutto il resto, come una specie di pezzo stonato nel puzzle della mia testa.
Respiro a fondo, cercando di trarre quante più conclusioni possibili, le
orecchie che mi ronzano e la nausea solita che non mi lascia in pace. Un vago
senso di ansia comincia a salire tossico lungo l’esofago, specie quando cerco
di interrogarmi oltre che sulla memoria in sé, sul motivo per cui sia tornata
in mente a me e a Malfoy nello stesso identico istante.
E peraltro non in
una maniera indolore, tipo scatto di consapevolezza improvvisa: no. Mi sono
sentita squarciata a metà, come se mi stessero tirando da otto direzioni
differenti. Vado avanti ed indietro mordendomi l’unghia del pollice, cercando
di capirci qualcosa, mentre Malfoy mi risponde spavaldo, poggiandosi con la
spalla al muro: “Se è per questo, l’ho appena ricordato anche io. Cosa
quantomeno inusuale se sei la vittima di qualche angheria terribile da
parte del sottoscritto: non sono così idiota da voler volontariamente
dimenticare la soddisfazione che ne avrei provato. Senza contare che non
me ne ricorderei mai contemporaneamente a te per darti questa bella
occasione di urlarmi nelle orecchie come una straccivendola”.
Le parole di Malfoy
non fanno una piega. Manco mezza.
Certo, potrebbe
aver finto la sua rimembranza attuale, in modo da confondermi ancora di più.
Non certa di quello
che provo per le parole di Malfoy, combattuta tra la proverbiale diffidenza e
l’istinto sempre continuo a fidarmi di lui, cerco di ripensare alle immagini
che ho visto.
Non era un sogno:
troppo preciso, troppo netto, troppo carico di dettagli. Non c’era nulla di
nebuloso, incerto, illogico. Le cose in sé sembravano perfettamente normali,
tranne che non lo erano per me e Malfoy.
Ero in un
appartamento sicuramente babbano, cosa che già mi fa ammattire, considerando
che ero con Malfoy che non si avvicina alle cose babbane nemmeno se minacciato.
Ero in una mise comoda, sembravo una che si sente a suo agio e questo è
doppiamente strano visto che, ribadisco, ero con Malfoy. Che lui si sia
intrufolato in un posto in cui mi trovavo io?
Ma che posto era?
Non era casa mia, non era casa dei miei, nemmeno quella di Ginny ed Harry,
enumerando le abitazioni più babbane che conosco.
Il mio stesso
aspetto, poi, mi rende ancora più incerta sul fatto che si trattasse davvero di
me: certo, ero più giovane e da un calendario appeso al muro ho capito che si
trattava di un momento avvenuto tredici anni fa. Quindi, avevo 23 anni e a
quell’età io stavo organizzando il matrimonio con Ron. Che nel ricordo, non è
presente. Dove diamine era? Perché ero sola con Malfoy?
Ma anche il mio
aspetto era diverso da come me lo ricordavo. Avevo i capelli più lunghi e più
chiari, ero più magra, persino più atletica.
Passi che Malfoy
possa avermi fatto qualcosa per poi indurmi a dimenticarlo, ma come potevo
avere anche un aspetto così differente da quello che mi ricordo?
E poi… quella tristezza, quel dolore, quella
voglia di abbandonarmi volutamente alla morte.
Quando mai sono stata così? Quando?
Ricaccio indietro
con una sorta di vergogna quella domanda, tornando al presente e dando voce ai
miei pensieri, dopo essermi ricordata della presenza di Malfoy che è rimasto lì
in silenzio, a farmi ragionare tutto il tempo: “Era un ricordo, Malfoy…
io… ho sentito tutto quello che provavo… avevo…ventitré anni… io non ricordo
nemmeno di averti mai incontrato a quell’età”.
I miei pensieri e
ricordi si attorcigliano come fili di un gomitolo, rendendomi sempre più
confusa, mentre cerco inutilmente di trovarne un bandolo. Mi prendo la testa
tra le mani tenendola assieme, sembra vittima di un forza centrifuga così
potente che i miei pensieri schizzeranno presto in tutte le direzioni.
Malfoy, per nulla
sconvolto, mi pare solo immensamente annoiato dalla vicenda ed anche dalla mia
richiesta di spiegazioni, come se la cosa non gli importasse minimamente. Si
limita ad un appunto scocciato: “Se è per questo nemmeno io… grazie a Merlino,
Morgana e ad un’altra cinquantina di maghi e streghe di quarantotto
generazioni”.
La frustrazione mi
attanaglia il fiato come una specie di fiera affamata, chiudendomi lo stomaco
ed annebbiandomi la vista. Vederlo così calmo, rilassato, serafico, mi
innervosisce ancora di più se mai fosse possibile. Così, senza controllo,
erompo in un urlo sgraziato, ripetendo irrazionale: “Smettila! Stai mentendo!”.
Il grido mi lascia
senza forze e senza fiato, come se avessi gettato fuori tutti l’ossigeno che mi
serviva per respirare. Resto così con la mano premuta sul torace, nel centro
esatto del corridoio che, in curioso gioco beffardo di onde sonore, pare
rimandarmi indietro infinite volte la mia voce acuta e gracchiante, odiosa
persino alle mie stesse orecchie come il verso di un pipistrello.
Mi preoccupo
seriamente che qualcuno mi abbia sentito, passi per l’Incantesimo
Insonorizzante per il piano inferiore, ma Narcissa Malfoy è ancora nella sua
stanza a dormire dell’agonia, ma forse ben più vigile nell’udito di quanto io
possa sperare.
Cerco di tingere i
miei occhi di un’accorata richiesta di perdono per la mia scortesia e che
giunga all’indirizzo di Malfoy, sebbene sappia che la mia sia la reazione più
normale se ti cascano nella mente dei ricordi che non pensi di aver mai
vissuto.
Lui, però, sembra
non essersene nemmeno reso conto, la piega febbrile dello sguardo divenuto
d’acciaio mi informa che è irritato, innervosito, sebbene esteriormente non ha
mutato nulla nella mollezza della posa e nella rilassatezza dei tratti. Solo la
mascella si indurisce mentre parla, facendo scivolare fuori le parole come se scottassero
e volesse sbrigarsi a pronunciarle: “Certo… avevo dimenticato che sei tornata
in possesso della tua adorabile moralità rosso-oro. Tregua finita…”.
Un’ondata di calore vergognoso mi sale fulmineo ed inspiegabile alle guance,
irradiando gli zigomi di porpora, mentre lui continua spavaldo, di nuovo
inaccessibile come un castello di rovi: “Poco fa hai creduto in un attimo che
non volessi assassinare Silente. Ora, siamo di nuovo diciotto passi indietro…”,
non riesco a reggere il suo sguardo, pare una spada puntata alla mia gola. Gli
occhi scivolano malamente in basso, mentre mi sento assurdamente in colpa per
aver sospettato di lui, anche se razionalmente so di averne ogni diritto.
La mia testa, però, quando si tratta di lui,
pare diventare una sorta di vocina di sottofondo.
Faccio pure fatica a capire che diamine dica.
In realtà credo che
sia sempre andata così. Lo incrociavo nei
corridoi a scuola, ci insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile
Harry e Ron, fingevo che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta
di averlo sempre battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso,
ma dalla mia io invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del
mondo magico. Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi
sedevo al mio posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con
scadenza regolare, sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi
distraevo, mentre fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di
trasformarlo perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di
questi dubbi amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava,
beccandomi disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il
fastidio mi faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e
ci riuscivo perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo
fino allo spasmo.
E la mia testa, oggi
come allora, diceva sempre il contrario di ciò che mi ritrovavo a fare.
Si aggiunge oggi, però, un’altra novità,
qualcosa di sorto come un fungo e che guardo come se fosse velenoso.
Avevo la tendenza a sospettare di lui. Sempre,
qualsiasi cosa facesse o dicesse.
Ora, ho la tendenza esattamente contraria.
Mi fido di qualsiasi
cosa dica.
Mi fido di quegli
occhi che ho idea che non mi mentirebbero mai.
Mi fido come se
sapessi di poterlo fare, sebbene sappia che non è così.
Ed ora mi lambicco
solo per trovare il modo per continuare a fidarmi di lui.
Lo trovo in un lampo, ma lo tengo nascosto,
socchiuso nel cuore per non vederlo troppo davanti.
E’ una cosa inopportuna, ma non posso
impedirmelo, mentre ripenso che ha ricordato anche lui, non poteva mentire su
questo.
Trovo il motivo che cerco, mentre soggiunge
caustico come a leggermi nella testa: “Buono
a sapersi. Mi sento più a posto con la mia coscienza sporca senza la
responsabilità della tua… fiducia…”. Accentua la parola con arroganza,
calciando un invisibile piega del tappeto nel corridoio, mettendo nel gesto
casuale una frustrazione che vorrebbe fingere di non avere. Quella
constatazione, piccola e sciocca, mi accende lo stomaco di lucciole.
E ripeto quello che
ho detto poco fa.
Lo dico già con
voce diversa, soffusa, sussurrata, come un segreto da dimenticare. Arrossisco
ancora, mi mordo il labbro inferiore, mi pare un’intimità assurda come essersi
visti nudi.
Ed invece sono solo
poche parole che il legno del corridoio mangia e sputa fuori come un respiro
inudibile: “Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.
La sua voce è
gemella della mia, la sento sulla pelle come se mi avesse parlato sulla nuca,
sulle clavicole, nella pelle interna dei gomiti, nella curva delle ginocchia.
Mi sussurra lieve,
la delicatezza che non pensavo avesse: “Dimmi cosa vuoi, allora”.
Lo dico rapida, a
voce più alta, così da rompere quella foresta di bisbigli.
“Voglio il favore
che mi avevi promesso”.
Non aveva avuto bisogno di convincerlo,
incantarlo, minacciarlo: nel silenzio del suo letto, il respiro regolare e
grave del marito accanto, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ripensava
solo a quello. La mano sotto il cuscino, la testa sotto il lenzuolo come a
nascondersi sotto una fortezza di stoffa, stava con gli occhi spalancati sul
nulla, attonita come davanti ad una luce troppo forte.
Le labbra, pure, stavano dischiuse in attesa
di un verbo o di un aggettivo che non fiorivano nella gola, seccandola e
lasciandola riarsa come un deserto di stracci.
Draco Malfoy, dopo averle ingiunto di non
metterci troppo e di non andarsene in giro a farsi i fatti che non erano
propri, borbottando tra sé e sé, le aveva lasciato libero ingresso nella sua
mente.
Così, dal nulla: e lei pensava solo che, se
fosse successo al contrario, anche lei avrebbe fatto lo stesso. Senza nemmeno
questionarci su.
Così, dal nulla.
Nel ricordo, nel sogno, in quello che
dannazione era, pareva che lui avesse usato la Legilimanzia su di lei: senza
bacchetta, con un Incantesimo non verbale.
Non si era concentrata sulla stranezza della
cosa, ma aveva rifatto l’incantesimo che avevano appena ricordato, come una
sorta di accordo segreto stretto senza che lo sapessero.
Perché Draco Malfoy, prima ancora che lei ne palesasse
l’intenzione, aveva fatto un passo verso di lei, aveva sollevato il braccio e
porto la mano destra con il palmo sollevato, il ghigno vaporizzato, tutto
grigio attorno come se gli occhi fossero dappertutto, persino nelle pieghe del
tappeto e nei tarli delle tende.
Ubriaca, ebbra di quello che avrebbe chiamato
potere ed onnipotenza a vedere il nemico di sempre sconfitto ed obbediente, lo
raggiunse in tre balzelli, come nei giochi da bambina che ora occhieggiavano
sgraditi ad un momento che non aveva nulla della innocenza.
Lo seppero le sue dita quando si chiusero
sulla pelle tenera del polso, lo seppe la mente che non riusciva a ricordare la
formula per leggere i pensieri, lo seppe il ricordo che tornò vivido,
grandioso, terribile, più reale di ogni cosa che avesse mai conosciuto.
Hermione Granger, 36 anni, si rigirò nel
letto, pareva una distesa di spine bollenti. Nel buio la sua mano sembrava un
buco nero pronto ad inghiottirla, bruciava come carne in suppurazione, pungeva
di mille spilli acuminati. La guardava come se fosse un arto con volontà
propria e che doveva assolutamente amputare per avere salva la vita.
La mano recava la colpa, conservava il calore
delle vene del polso di Draco Malfoy.
La mente di Draco Malfoy era un inferno di
porte chiuse.
Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce
attutite da porte chiuse. Alcune erano enormi, imponenti portoni dall’aria
antica, di legno massiccio e scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati.
Altre erano piccole, minuscole, non ci passerebbe nemmeno un suo piede. Altre
ancora, erano spalancate, ma al loro interno, c’era poco o nulla.
Scale a chiocciola, si arrampicavano in
altezza dove nemmeno la sua immaginazione riusciva ad arrivare, tutto era
un’eco di voci, rumori, odori sconosciuti che si mescolavano in vario modo.
A primeggiare, però, era un odore acre,
intenso, da pizzicare le narici. Odore di legno bruciato.
La mente di Draco Malfoy, aveva scoperto
Hermione Granger, puzzava di cenere.
Come se portasse i residui di un enorme
incendio, un rogo mortale.
Ad essere bruciati, riarsi, sembravano i
chiavistelli di un enorme portone. Si riconoscevano ancora pezzi consumati di
motivi di rose incise ed intagliate nel legno chiarissimo che splendevano di
luce propria. Ed una lettera mangiata dalle fiamme. J.
Conosceva Hermione Granger ogni incanto per
rivelare inganni e manipolazioni della mente.
Ignorò il portone incendiato, come promessa
tacita a Draco Malfoy, e li provò tutti.
La mente di Draco Malfoy rispondeva di buio,
pece, vuoto, nero.
Non conosceva quel ricordo. Non le aveva mai
fatto nulla. Non si erano mai visti negli anni passati.
Anzi, quel ricordo lo aveva turbato come nulla
al mondo: aveva ricordato cosa aveva provato in quel supposto momento che non
sapeva di aver vissuto.
Si era sentito sporcato, come se l’avesse
violentata.
Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e
puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto.
La Terra era tonda da piatta che era sempre
stata.
Malfoy non le aveva fatto del male. E se fosse
arrivato a farlo, se ne sentiva toccato e ferito in qualunque tempo, universo e
ricordo, vero o falso che fosse.
Le lenzuola si annodavano attorno al suo corpo
come serpenti armati di veleno, Hermione Granger le scrollò con il piede, il
marito Ronald reagì con uno sbuffo del naso.
La consapevolezza fu amara, dolorosa. Era
meglio che le avesse volutamente fatto del male.
Ruppe la promessa allora. Interrogò ancora la
sua mente entrando, spalancando, aprendo, cercando. Fece di tutto, fallendo,
per scoprire se il ricordo era di un mostro avaro della sua anima, e non
dell’uomo terrorizzato e colmo di perdita che lui stesso si era visto con
angoscia essere stato, chissà dove, chissà quando, chissà perché, chissà se.
Ruppe la promessa, e vide mattine di Natale,
punizioni al sapore di ruggine, luci verdi assassine, mani all’odore di
violetta, facce colte a mentire, aule di tribunale, libri di scuola
scarabocchiati, cupcakes alla menta e cioccolato, sangue sui mobili.
E, d’un tratto, comparve il segreto.
Smisurato, terrificante: trattato però con il
pudore lascivo delle cose banali, poco importanti, come una sorta di
suppellettile di scarso stile che viene nascosta nella credenza.
Draco Malfoy aveva avuto paura del ricordo
piombato nella sua testa all’improvviso.
Aveva avuto paura perché lui, nonostante
tutto, in quel dolore pareva amare qualcuno.
Profondamente, intensamente, enormemente, in
un modo così puro ed unico da arrivare a violare la mente pulita di Hermione
Granger pur di difendere quel qualcuno.
Quel qualcuno che non era una madre, un padre,
un figlio.
Quell’amore, puro ed unico, dentro quel
ricordo, era stato amore per una donna.
E Draco sapeva di non amare nessuna donna
così. Peggio: di non averne amata nessuna così.
Peggio ancora, inferno, segatura, sapore di
rancido in bocca: Draco Malfoy non si era mai innamorato in vita sua.
Venne fuori il segreto, esplose prima ancora
che lei, già esterrefatta, potesse fermarlo.
Come se avesse vita propria, come se cercasse
sollievo ancorandosi ad un’altra mente.
Il fidanzamento tra Draco Lucius Malfoy ed
Astoria Greengrass era nato come contropartita ad enormi debiti di gioco che
Greengrass senior aveva verso i Malfoy.
Draco aveva sempre odiato Astoria, la
detestava ancora, aveva cercato di tutto per sciogliersi da quel vincolo che i
suoi genitori volevano onorare, unendo due delle famiglie più pure di sangue
dell’Inghilterra. Le pensò tutte, non riusciva a sfilarsi dall’impegno.
Narcissa disse che lo avrebbe diseredato se
avesse sposato un’altra donna.
Lucius disse che poteva tradirla come voleva,
basta che l’avesse sposata.
Un mese prima del matrimonio, trovò
l’espediente che pensava ideale. La fece sottoporre a visite mediche,
paventando che non fosse più vergine.
Invece lo era. Ma era anche altro: sterile.
Poteva sciogliere il fidanzamento.
Prima che i suoi genitori intervenissero,
voglioso di chiudere quanto prima la storia, andò dai Greengrass per rompere la
promessa di matrimonio.
Compresero subito il suo intento. Lo
imprigionarono. Misero sotto Imperius.
Lo costrinsero ad andare a letto con Daphne
Greengrass, la sorella di Astoria. La resero più fertile con delle pozioni al
sapore di rosa, rimase subito incinta.
Fu facile allora: o sposava Astoria, o il
bambino spariva. Lo avrebbero ucciso seduta stante.
La sposò, non disse nulla a nessuno, l’onta
del disonore troppo grande perché lo avevano ingannato, ricattato. E con la
nascita del figlio, lo avrebbe potuto fare per sempre.
Disse ai suoi genitori che si era convinto,
disse che amava Astoria, lo disse ovunque, tranne alla sua mente che sapeva di
bruciato.
Protesse il figlio. Amò la madre. Divenne
marito e padre.
Chiuse il segreto.
Per farlo riaprire poi, dopo anni, ad Hermione
Granger.
A lei soltanto, in tutta la vita.
A lei soltanto che, tornando in sé, guardandolo,
non seppe che cosa dire: finse di non aver visto nulla, disse che credeva che
non gli avesse fatto del male, fuggì lontana nei fuochi di Natale.
A lei soltanto che, tornando a casa, perdonò
il marito, consolò la figlia, baciò il figlio.
A lei soltanto che, nel letto, amò il marito
come il primo giorno perché loro si erano amati, forse si amavano ancora,
dentro si amavano sempre.
A lei soltanto che, dopo, non dormì mai.
Perché era stata lei soltanto. E perché Malfoy
era il miglior Occlumante della sua generazione.
Aveva voluto che fosse lei soltanto.
7 gennaio
“La questione si è
complicata abbastanza quando abbiamo scoperto che, sull’abitazione principale,
era stato posto un usufrutto a beneficio della mia vecchia balia Magda… mi pare
scontato, visto quanto le accennavo prima, che abbia posto degli Incantesimi
Confondenti su mio zio Oliver per farsi firmare le carte… si maledicevano fino
al giorno prima del suo ictus e poi le lascia l’usufrutto della casa?”.
“Certo, certo”.
L’uomo di fronte a
me, capelli serici e ricci color del grano e due penetranti occhi azzurro polvere,
continua a descrivere con ardore la situazione ereditaria della sua famiglia,
sebbene io continui a vederlo come una specie di marionetta slegata: i suoi
gesti dovrebbero significare qualcosa, ma non giungono ai miei occhi come
dovrebbero, sono annebbiati e sfumati. Si perdono diluiti nello spazio
circostante, come tempera annacquata.
Descrivo annoiata
cerchi sulla pergamena davanti a me limitandomi a sporadici cenni di assenso,
cosa che impensierisce persino Leda che, in un angolo, finge accuratamente di
prendere appunti, mentre si concentra sull’autopsia dell’uomo di fronte a me
alla scrivania, che le pare naturalmente piacente e ben vestito,
caratteristiche che la porterebbero a copulare nell’arco di quindici minuti se
dovesse aggiungere anche i convenevoli ed un’analisi politica della Brexit.
Vedendomi però così sulle nuvole, si sente in dovere di prorompere in qualche
commento fuori luogo e senza senso per dare un’idea professionale del nostro
ufficio, cosa che le lascio fare in modo apatico ed inerte fregandomene
altamente, mentre l’uomo sorride imbarazzato, grattandosi la nuca in modo
nervoso. Mi getta un’occhiata implorante alla quale rispondo scrollando le spalle
simulando rassegnazione, anche se ancora non ho la minima idea di che cosa
abbia detto Leda.
Anche lei, nella
mia testa, muove le labbra e basta, come un film muto.
Da quando sono
tornata al lavoro, dopo la fine delle festività natalizie, ogni cosa ha perso
la densità ed il peso consueto come se galleggiasse per aria, piena di elio:
gli ultimi giorni di vacanza in famiglia, sono stati una specie di susseguirsi
di giorni tutti intimamente identici, ricopiati l’uno sull’altra come se
fossero stati tratteggiati dalla carta carbone. Persino il fatto che Rose fosse
a casa da scuola, mi era diventata una sorta di consuetudine addirittura un po’
noiosa, nonostante lei mi fosse mancata così tanto nei mesi precedenti; con
lei, che vedevo così poco e che si stava facendo grande di un’intuizione
adulta, dovevo concentrarmi molto di più per non farmi beccare impreparata alle
sue domande e richieste. Quando usciva di casa, non provavo con una vergogna
fonda di inferno quel senso malcelato di delusione per la figlia che non aveva
piacere a restare con sua mamma, ma il sollievo nascosto di potermi chiudere
impenetrabile nella mia corazza.
Alla sua partenza,
dopo averla stretta in un abbraccio di rassicurazioni e raccomandazioni
all’odore di fresia, ho guardato il treno allontanarsi con il comando dello
stomaco ad avvertire già bollente la spina della nostalgia, ma invece quello
che si era fatto imperante in me era di nuovo la tenue rassicurazione di poter
smettere di fingere.
Hugo, del resto, è
troppo piccolo per avvertire un cambiamento dei miei stati d’animo se ciò non
corrisponde a qualche deviazione della sua consueta routine che, invece, era
rimasta inalterata nel susseguirsi di colazione, scuola, merenda, pranzo,
compiti, tv, parco, film, cena, nanna.
Io e Ron non
abbiamo parlato di ciò che è successo la notte di Natale, abbiamo relegato
tutto nella solita dimensione fangosa del sottotesto di ciò che non capiamo
davvero, ma che in realtà abbiamo ben compreso come qualcosa che potenzialmente
ci potrebbe far schizzare in direzioni opposte e differenti come due pezzi di
roccia dopo il Big Bang. Camminiamo per le stanze con attenzione, non
sollevando nemmeno la polvere, in punta di piedi, come se sotto le assi del
parquet fosse nascosto un esercito di mine antiuomo. Conosciamo parole soffuse,
continui “grazie” e “scusa”, edulcoriamo l’amarezza in una melassa stucchevole
di cortesia e gentilezza stereotipata.
È già accaduto
naturalmente, è una fase che conosco bene e che segue naturalmente un litigio
particolarmente violento di cui Ron si sente responsabile: il senso di colpa lo
spinge ad una delicatezza fuori misura, comprensiva anche di una sorta di
cautela manieristica verso tutto quello che mi riguarda. Mi chiede spesso come
sto, si alza a prendere il sale, mi aiuta a mettere la giacca: di solito tutto
questo dura fino a quando smetto di stare al gioco, e riprendo a punzecchiarlo o
a scherzare con lui. Capisce che è tutto superato, ed allora si torna alla
normalità.
Questa volta, però,
ammetto di godere enormemente della situazione, anche perché si traduce
nell’assenza di domande e nella mia permanenza autorizzata nella bolla isolante
che mi contraddistingue al momento e che lui probabilmente scambia per mio
sdegnoso rancore nei suoi confronti, cosa poi del resto nemmeno tanto scorretta
o almeno più semplice da riconoscere e comprendere, anche per me.
Sarebbe impossibile
spiegare il resto, la selva di quesiti senza risposta mi attanaglia così tanto
la mente da tradursi in questa specie di nebbiolina lieve, impalpabile,
sottile, attorno ai pensieri. Quando cerco di afferrarne uno, quello sguscia
come le mosche volanti della visione periferica.
Ed allora mi celo
nell’ottundimento, aggravato anche dalla mancanza di sonno: oltre al resto,
difatti, ho cominciato da Natale ad avere anche difficoltà a dormire, cosa che
non si risolve né con incantesimi, né con pozioni, né con valeriana e
melatonina. In realtà, non è che io non riesca a dormire, anzi lo stato di
torpore che mi avvolge finisce per diventare una sonnolenza continua che non mi
lascia mai, costringendomi ad appisolarmi dappertutto, persino sui mezzi
pubblici o sulla brandina dell’ufficio.
Il problema è ciò
che accade quando sogno, cosa che succede ormai sempre senza tregua e senza
sosta.
Ho deciso di farmi
poche domande sul ricordo o presunto tale della sera di Natale, quello che
sembra che io abbia recuperato così all’improvviso, ma che al contempo non ha
alcuna aderenza logica con la mia vita: i quesiti restano senza risposta e
hanno anche la sgradevole abitudine di riportarmi per associazione di idee a
qualcosa che non voglio assolutamente rammentare.
Aveva le labbra bianche mentre mi chiedeva che
favore volessi e mi ero chiesta per ore se fosse spaventato, terrorizzato. O se
fosse nato così, eburneo come ghiaccio e diamante, senza sangue nelle vene,
solo qualche goccia, purissima, di fronte alla quale io ero fumo, polvere,
caligine.
Tendo perciò a
chiudere quella specie di memoria in una parte molto lontana della mia testa,
bollandolo con una serie di etichette innocue e scontate, sebbene nessuna di
esse, quando mi fermo davvero a pensarci su, può rendere ragione di quello che
mi è accaduto.
La mente, però,
così testarda di giorno ad escludere quel pensiero senza risposta dalla mia
sequela ordinata e ordinaria di pensieri, lo scarta come uno scomodo regalo
durante la notte quando, vinta ormai dalla stanchezza, mi appisolo poco prima
dell’alba e del suono gracchiante della sveglia.
Come una specie di
film in proiezione esclusiva, mi viene riproposto il ricordo in tutte le sue
fattezze assolutamente incomprensibili: ed ogni volta, puntualmente, acquista
un colore più vivido, vivace, impossibile da ignorare. Pulsano le immagini
sotto la trama delle palpebre chiuse, non dandomi riposo e costringendomi al
risveglio.
Paradossalmente, se
fosse solo questo, potrei anche sopportarlo.
La sensazione che sia la cosa più vera che
abbia mai vissuto.
La cosa peggiore
accade in quelle rarissime occasioni in cui, invece che svegliarmi di
soprassalto madida di sudore, rimango in uno stato stopposo di sonno leggero.
Le immagini vengono rapidamente sostituite da un’altra, ugualmente carica degli
stessi medesimi colori accesi.
Impossibile da ignorare.
Un parco alla
vigilia dell’estate, poche persone che camminano lente e noncuranti, non
badando a me. Vento di scirocco che stormisce ai rami di magnolia, portando un
odore fresco di promesse, struggente come qualcosa di appena nato, ma di così
fragile da temere che non sopravvivrà nemmeno per diventare adulto. Cielo color
carta da zucchero, sgombro di nuvole, fissato contro l’orizzonte come una
cartolina, così bella da sembrare finta, studiata apposta per innescare la
nostalgia dell’addio, come quando si viene cacciati dal Paradiso.
Un colore che non è mai esistito.
Dondolarsi, avanti ed indietro: dopo un po’ capisco che
sono su un’altalena di corda, cigola fastidiosa, gli anelli di metallo
probabilmente arrugginiti che grattano sul telaio.
Le sensazioni
vengono piano, lente, come se mi svegliassi da un lungo sonno, sebbene
tecnicamente io stia dormendo proprio in quel momento.
E riconosco il
tessuto dei pantaloni di fustagno, rigido, fresco. Poi quello della camicia di
lino, gonfiata sul retro dal vento, fluttua come una medusa. Ed infine il petto
gonfio di un calore innaturale, incomparabile, meraviglioso, come una specie di
falò che somiglia alle mattine di dicembre quando sei bambina ed aspetti Babbo
Natale.
Qualcosa di così
puro, ingenuo che, ancora, non so nemmeno se l’ho provato da piccola,
figuriamoci adesso.
Lo si potrebbe
chiamare un bel sogno allora: ne ha ogni nettezza e chiarezza.
Le sensazioni,
però, vanno avanti, non si fermano qui, ad un attimo di perfetta serenità,
lontano nella memoria così tanto da non essere ricordato.
D’improvviso, come
una specie di miraggio iridescente, giunge nelle mie braccia un sorta di peso
caldo, soffice, dall’odore di talco, margherita, arancia. I miei occhi sono
terribilmente offuscati, come se fossi davvero addormentata anche nel sogno, e
non riesco a distinguere bene niente.
Diventa tutto angosciante
allora, come se avessi le palpebre incollate e facessi ogni sforzo per aprirle,
ma quelle restassero serrate, appiccicate. Distinguo persino i miei movimenti
nel letto, inizio a dimenarmi come se fossi stesa nella cenere e nel fuoco, i
pensieri sbattono come mosche contro il vetro, spezzettandosi come se fossero
sale e polvere.
Ma non mi sveglio
ancora, mi artiglio al sogno con perseveranza come se ne andasse della mia
vita, come se uscirne fuori decreterebbe immediatamente una specie di arresto
cardiaco di tutto quello di cui sono fatta, come se così potessi squagliarmi,
diventando cera rappresa.
Mi si mozza il
respiro, nel sogno, nel vero: vado in apnea, non lo so. Mi pare sempre di
morire, ma non accade mai.
Sotto gli occhi,
passa oro liquido, penso agli occhi di un gatto e non capisco perché.
Vado oltre quella
cortina brillante, il cuore mi si straccia come se fosse di carta
bruciacchiata.
E lo vedo.
Tengo tra le
braccia un bambino, probabilmente di cinque anni più o meno. È di spalle,
dunque non lo vedo in viso, sento che sta dicendo qualcosa che non capisco,
intendo solo “… e lui torna sempre a casa con noi!”, mentre si anima tra
le mie braccia, gesticolando.
Vedo di lui solo la
nuca, una polo azzurra, un paio di scarpe da ginnastica rosse di tela un po’
sporche di terreno… ed i capelli, lievemente arricciati sulle punte.
Biondi, mescolati a
qualche sparso tono castano.
Lo stringo più
forte, aggrappandomi a lui, piangendo, urlando: perché nello stesso momento in
cui lo vedo meglio, accade che sento chi sia e, contemporaneamente, mi sveglio.
È mio figlio.
Ma non è Hugo.
Credo persino di
sapere che si chiama Alex.
“La prossima volta a colazione,
direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene,
Alex?".
"Mamma io sono Hugo".
"Perché, che ho detto?".
"Alex".
Mi sveglio
singhiozzando, non riesco a stare ferma a letto, mi alzo febbricitante, corro
in bagno piangendo e tappandomi la bocca con la mano per non farmi sentire da
mio marito. E dover dare delle spiegazioni che non ho.
Non dormo più,
ovviamente: dopo quel sogno, per essere corretti, non dormo per giorni.
Mi porto dentro
quella sensazione, si accuccia nello stomaco mentre sono al lavoro, mentre
sorrido slavata a mio marito, mentre accarezzo i capelli rossicci di Hugo, mentre
osservo la trama traslucida della luce del sole dietro le tende tirate.
Quella sensazione
non se la liquida il pensiero dell’assurdità del mondo onirico. Non se la porta
via ammansita la razionalità, non la mitiga il senso comune, nemmeno la scienza
e la logica intervengono pietose a portare requie.
Resta la
sensazione: e diventa quasi una certezza, paradossalmente idiota, priva di
senso.
La consapevolezza
amniotica di avere un figlio che si chiama Alex.
… che, invece, non
ho.
8 gennaio
La prima cosa che
faccio, non appena metto piede in ufficio il giorno successivo, è chiamare
Leda, ingiungendole di fissare un nuovo appuntamento con l’uomo del giorno
prima, quello che, nel mio delirio psicofisico ed emozionale, ho bellamente
ignorato per ore.
Il clima mattutino
particolarmente gelido, infatti, mi sferza e punge nell’orgoglio spingendomi a
reagire e ad essere efficiente almeno nel campo lavorativo: posso permettermi
di essere svogliata ed assente a casa mia, ma non in ufficio. Ne va della mia
reputazione.
Una nottata poi
miracolosamente libera da sogni di qualsiasi natura, mi rimette al mondo al
punto tale di ritenere tutto come una suggestione della mia mente che, di
fronte alla prospettiva di comprendere che il mio matrimonio non se la passa
bene, sceglie tutta una serie di strade secondarie per farmi pensare ad altro.
La spiegazione non regge in molti punti, ma oggi per fortuna riesce a suonare
quasi convincente: resta il nodo del ricordo o pseudo tale con Malfoy, ma il
fatto che lui non se ne preoccupi, visto che è praticamente scomparso anche da
casa dei Weasley, spinge anche me ad ignorarlo.
Resta addosso un sapore bianco e grigio,
quello della sua mente e dei suoi pensieri.
Sa di neve quando apri le labbra al cielo per
assaggiarla.
Non si è mai innamorato in vita sua: ci penso
nei momenti più imprevisti, è come un ritornello dispotico. Alita sulle mie
spalle come il rantolo asincrono di un moribondo.
Assomiglia, poi, ad un martellare quando penso
che, al mondo, solo io so questo di lui.
Ed è una specie di percussione in fondo allo
stomaco che non se ne va mai.
Scrollo il capo
come fossi disturbata da un insetto fastidioso, cercando di cacciare via ogni
distrazione, mentre Leda, entrando nel mio ufficio con il solito ancheggiare,
mi annuncia che Mr. Latimore arriverà di lì a poco. Schiocca poi la lingua
infastidita, strascicando le parole seccata: “Era già al Ministero… era venuto
a prendere la moglie dal lavoro…”.
Alzo gli occhi al
cielo, ci mancherebbe che non aveva puntato anche questo povero disgraziato, ci
avevo visto giusto ovviamente.
Trascorro i minuti
successivi leggendo finalmente e con attenzione le pratiche dell’eredità
Latimore che, il giorno prima, mi erano danzate davanti agli occhi come segni
incomprensibili. Sono così persa ed assorta che, quando Leda bussa la porta lasciando
entrare con un sorriso suadente Latimore e con un’occhiata torva sua moglie, ho
la vista offuscata e il collo che mi fa male. Mi affretto però ad alzarmi e a
salutare l’uomo con il sorriso più franco che mi venga fuori, al punto di farmi
dolere la mascella mentre gli stringo la mano con calore a mo’ di risarcimento
emotivo per la mia inefficienza del giorno precedente.
“Accomodatevi,
signori Latimore…” dico gentile, indicando le due poltrone del mio ufficio.
L’uomo sorride con
gentilezza sedendosi, poi soggiunge educato: “Non c’è bisogno di tanto
formalismo, le avevo già detto ieri che potevamo benissimo darci del tu”, non
serve ricordare che ho rimosso ogni particolare della conversazione del giorno
precedente, quindi mi stringo nelle spalle a disagio, bofonchiando torva e
cercando al contempo di ricordare i nomi dei due: “Potete chiamarmi anche voi
allora per nome… siamo quasi coetanei…”.
Mentre ancora mi
lambicco il cervello alla ricerca dei nomi completamente eclissati dalla mia
mente, la moglie ispirata mi guarda intensamente e completa soffiando con voce morbida:
“Siamo Christopher… ed Helder”.
Grata, mi do pena
di guardare meglio la donna che, nella mia ansia riparatrice da torti del
giorno precedente, non ho nemmeno degnato di uno sguardo. Sebbene la mia
supposizione sul nostro essere coetanee è indubbiamente corretta, viste le
carte che ho letto e che riportavano la sua data di nascita, per un momento
temo di essermi sbagliata. La signora Latimore, infatti, ha il viso fresco ed
innocente di una ragazzina imberbe: pelle liscia e bianchissima, levigata,
assenti persino le rughe d’espressione. Porta i capelli castani corti sotto le
orecchie, cosa che, assieme ai jeans e alla felpa rossa, le danno un’aria
sbarazzina da liceale in vacanza. Giocherella con espressione spensierata con
una piccola fede d’oro giallo all’anulare sinistro e, ogni volta che incontra
il mio sguardo, qualcosa la spinge a sorridere in modo automatico come se fosse
una sorta di riflesso condizionato.
La cosa che, però,
subito desta la mia curiosità sono i suoi occhi: quando era entrata e le avevo
gettato un’occhiata distratta, ero certa che avesse gli occhi chiari, azzurri,
come quelli del marito.
Ora invece essi mi
appaiono distintamente castano chiaro, dorati sul fondo.
Li osservo a lungo,
non capacitandomi del fatto di aver visto male; lei, in risposta, sorride
ancora, costringendomi imbarazzata a voltare il capo dall’altra parte.
Trascorriamo l’ora
successiva a dirimere la loro questione legale, naturalmente ieri si erano
molto preoccupati sull’esito della cosa, avendo il marito scambiato la mia
disattenzione per consapevolezza di non poter fare molto di che: il fatto
invece che oggi sia l’emblema della perfezione e sfoderi leggi e decreti con la
perizia tuttologica che mi contraddistingue, conforta molto Chris sull’esito
positivo della vicenda. Mi dice in tono casuale che hanno già avuto delle
generiche “grane” con la legge e che, di conseguenza, preferirebbe non essere
coinvolto più di tanto in meccanismi di tale tipo. Ovviamente, sorvolo sul
punto glissando con discrezione, anche perché con un’improvvisa ondata di
ricordo, rammento che la moglie era la sola figlia di Broderick Bode, ucciso ai
tempi della Seconda Guerra da Malfoy senior per la profezia su Harry.
Suo padre.
Lo costrinse a sposare Astoria, dicendo che
poteva tradirla come voleva dopo le nozze.
Lui non ha mai amato nessuna donna in vita
sua.
Mi libero di nuovo
di quell’associazione molesta di idee sorta dal nulla. Probabilmente Chris
Latimore allude a questo e a tutte le magagne legali accadute dopo l’omicidio.
Guardo di sottecchi
Helder Bode che, però, ha assorbito l’eventuale allusione al tragico evento con
un nuovo estenuante sorriso nella mia direzione: stavolta, con una nettezza che
mi fa capire di non aver sognato, noto distintamente che, per un attimo, i suoi
occhi scoloriscono come se fossero slavati dall’acqua. Da castani, diventano… grigi.
Sul suo volto,
paiono attaccati come in un collage di ritagli di giornale.
Quel colore è così
dannatamente unico che, con sgomento, mi chiedo se oramai io non lo veda
dappertutto, persino negli occhi degli estranei.
Mi artiglio al
bordo della scrivania come se fossi sospesa sul precipizio e cercassi di
reggermi per non precipitare.
Ancora una volta,
però, le iridi di Helder Bode cambiano colore: l’argento fonde nell’oro,
diventano uno strano miscuglio lucente, uniti come un metallo dalla foggia
inespugnabile e inconsueta, inesistente, come uno strano esperimento di
alchimia. Il suo volto, per un attimo, perde l’aurea compostezza e va a fuoco,
arrossisce, sembra quasi accaldata.
Ma in un battito di
ciglia che sono costretta a concedermi, torna alla stessa serafica espressione
di prima, gli occhi stavolta scuri, marrone profondo, quasi nero.
Christopher
Latimore, in tutto questo, come se fosse stato punto da una vespa, intercetta
il mio sguardo e lo rincorre all’indirizzo della moglie che gli restituisce
un’occhiata innocente e tersa. Le spalle dell’uomo si afflosciano, fa un mezzo
sorriso sghembo e scuote la testa al limite della rassegnazione, contribuendo
ad aumentare la mia curiosità.
Poi riprende a
parlare del loro caso, cosa che consente anche a me di tornare a concentrarmi
sul lavoro, confortata anche dal fatto che le mie rare occhiate in direzione di
Helder Bode confermano che le sue iridi restano castano scuro, non più celesti,
grigie o dorate.
Una Metamorfomagus?
La risposta non mi convince del tutto. Non ha nulla del modo di mutare che
aveva Tonks e nemmeno di quello che ha Teddy quando decide di fare ricorso al
suo potere. La trasformazione in loro era (ed è) più graduale, persino quando è
involontaria, ed interessa tutto il corpo. In Helder Bode, è troppo rapida e
veloce, senza contare che interessa solo gli occhi.
Il resto del suo
aspetto è rimasto assolutamente inalterato.
Resto con quella
domanda in testa per tutto il residuo della nostra conversazione, nonostante
esteriormente sembri il ritratto della professionalità. Continuo a snocciolare strategie
difensive, facendo domande e prendendo appunti, mentre il mio sguardo scivola
involontariamente di tanto in tanto sul sorriso snervante di Helder Bode. Leggo
sommariamente nelle carte che Chris mi consegna che lui lavora in un negozio di
Grimmuald Place e che lei, invece, è un’Indicibile.
Questo in parte mi
risarcisce dell’aura particolare che circonda la donna: tutti coloro che ho
conosciuto e che svolgono quella professione, hanno sempre avuto qualcosa di
bizzarro, inconsueto, singolare. E decisamente Helder Bode non fa eccezione,
sebbene in modo semplicistico ha forse semplicemente ereditato la posizione del
padre, quindi non dovrebbe essere così automatico che mi sembri una persona singolare.
Eppure, se con gli
altri Indicibili che ho conosciuto, compreso Bode senior, la loro particolarità
si poteva coniugare in un carattere tetro ed inquietante, con lei assume
decisamente il tono opposto: sembra quasi fastidiosamente gioviale, allegra,
perennemente in pace con sé stessa.
Finalmente, con una
punta di sollievo che non riesco a negarmi mettiamo a punto gli ultimi dettagli
e i coniugi Latimore si alzano dalle loro poltrone per congedarsi. Mentre però
Chris Latimore si incammina verso la porta, Helder gli destina una sorta di
sguardo obliquo a cui fa seguire una scrollata di spalle noncurante.
Chris risponde
allora con un lungo e malcelato sospiro, annuendo brevemente con il capo, prima
di salutarmi nuovamente ed inforcare l’uscita, mentre la moglie non accenna a
seguirlo.
Mentre la guardo
interrogativa, lei si limita ad accostare la porta che il marito ha lasciato
aperta, tornando poi sui suoi passi e fermandosi davanti alla mia scrivania,
cosa che contribuisce ad aumentare il mio già precedente disagio. Resta per
qualche attimo immobile, in silenzio, spostando il peso da una gamba all’altra,
come se stesse cercando le parole per cominciare un discorso che, fino a quando
era nella sua mente, filava perfettamente, ma che ora probabilmente si è perso
nei meandri dei suoi pensieri.
La osservo mentre
si torce le mani con nervosismo poi, vogliosa di darci un taglio, mormoro
secca: “Volevi… parlarmi da sola?”.
Helder, scossa da
un suo ragionamento interiore, quasi sobbalza, fa una sorta di piccolo saltello
come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Si allunga la felpa
rossa sulle mani prendendo ancora tempo, prima di sospirare con aria contrita: “Già…
e qui viene la parte difficile. Chris dice che dovrei smetterla di impicciarmi
in faccende che non mi riguardano. Ma… forse inconsciamente…”, fa una piccola
pausa, guardandomi poi con intensità: “…quelli con me si convincono che tutto
sia una nostra questione personale”.
Quelli come me.
Dunque in lei c’è
effettivamente qualcosa di diverso: qualcosa che la candida come appartenente
ad una determinata categoria, umana o magica che sia.
La osservo ancora
con sospetto, cercando di trovare mentalmente la quadra del cerchio, ma mi
arrendo immediatamente. Abbandonando le braccia lungo i fianchi, asserisco
sconfitta: “Non credo di riuscire a seguirti”.
Helder mi guarda
allora con evidente senso di comprensione, annuendo tra sé e sé: “Hai ragione…
partiamo dall’inizio…”, si siede nuovamente sulla poltrona davanti alla mia
scrivania, costringendomi controvoglia a fare altrettanto.
“Pensi che in me ci
sia qualcosa di strano…” pronuncia stentorea, potente, senza alcuna inflessione
di domanda, gli occhi che lentamente si riempiono di nuovo di scintille più
chiare, risplendendo nella luce del primo pomeriggio come pezzi di agata. Rincara,
sporgendosi lievemente: “Te ne sei accorta”.
Ancora, nessun
accenno di domanda.
Solo una lapidaria
affermazione.
La cosa mi fa
raddrizzare sulla sedia, gelandomi la nuca: una tale precisione prelude ad una
sorta di incantesimo che, so per certo, non mi ha assolutamente somministrato.
Torno a guardarla con diffidenza ed una vena di timore che, in modo automatico,
porta la mia mano a cercare la bacchetta nella mia tasca. La sua legnosa
presenza mi rassicura al punto di riprendere a parlare, sebbene senta la bocca
impastata: “Come… fai a saperlo?”, osservando poi i suoi occhi ancora chiari,
molto più di prima, mi azzardo ad aggiungere: “Cosa… sei?”.
“Un’Indicibile”
replica lei velocemente, spavalda, sistemandosi meglio sulla poltrona in modo
ozioso.
La risposta
naturalmente mi irrita ed innervosisce, irrigidisco la mascella con un singulto
autentico di fastidio: “Non è solo questo… non girarci attorno per
favore…”.
Gli occhi di Helder
hanno a quel punto una sorta di contrazione involontaria, come uno spasmo delle
palpebre. Si fa piccola sulla sedia e sussurra melodiosa, a mo’ di scusa: “Toccata.
Ammetto che mi piace parecchio pungolarti… la tua testa va in tilt se non
capisci qualcosa. E’ divertente da osservare, credimi. I tuoi pensieri
somigliano a delle girandole colorate che scoppiettano”.
Conclude il tutto
stringendosi nelle spalle e guardandomi timida come se fosse una bambinetta
scornata. Gli occhi si scuriscono di botto, come se accogliessero delle nubi
dense.
Taccio e di nuovo
mi coglie quel senso scomodo di imbarazzo, mentre sento i pensieri e le teorie
rincorrersi nella mia testa come se fossero cavalloni impazziti dal vento,
schiumano ragionamenti che, per paura che siano ascoltati dalla mia
interlocutrice, metto a riposo in una stasi narcotica di silenzio che mi
impongo con ferocia, causandomi un formicolio diffuso sulle tempie.
Ha alluso ai miei pensieri, come se li
vedesse.
“Sei una
Legilimante?” chiedo in punta di piedi, mordendomi l’unghia del pollice con
nervosismo.
In realtà comprendo
subito che la mia teoria è inesatta. Non esiste nessuno che permanentemente riesca
a leggere i pensieri altrui, se non altro perché è qualcosa che, da ogni testo
magico, viene riportata come una manovra che prosciuga le energie.
Fosse anche che
avesse letto i miei pensieri con un incantesimo silente, oltre ad avvertire la
sensazione di intrusione nella testa, avrei anche colto in lei qualche segnale
di progressiva stanchezza. Invece, è fresca come una rosellina di campo.
E poi… che utilità
doveva ricavare dai miei pensieri? Che diamine voleva sapere? Ripercorro
velocemente le tappe della nostra conversazione alla ricerca di qualcosa che
poteva destare il suo interesse, ma non trovo nulla di che, se non la
trattazione legale del loro caso.
Penso che anche i
miei pensieri fossero pieni di nozioni giuridiche, non insomma un romanzo
illustrato di sommo interesse.
Ho pensato a Draco Malfoy una sola volta.
Decisamente il mio record al ribasso.
La constatazione mi
fa sudare i palmi ed arrossisce il mio viso, Helder sembra ancora intuire
qualcosa dal mio aspetto che, instancabile, la fa sorridere nella mia
direzione.
“Sono un’Empatica…”
sussurra lieve in un solo respiro, inclinando la testa di lato “Può darsi che
persino tu non ne abbia mai sentito parlare”.
Sobbalzo
autenticamente sorpresa e la guardo con una nuova fiammata di curiosità sorda,
puntellandomi sulla sedia come se fossi di fronte ad una specie di drago a tre
teste o una celebrità. Ogni cosa del suo aspetto comunica una normalità quasi
fastidiosa, banale. Ed invece è una creatura rarissima, qualcosa che, fino a
questo momento, non credevo nemmeno che davvero esistesse.
Non ne so
moltissimo, rammento solo delle nozioni sparse su un libro di testo del corso
per la specializzazione per le professioni ministeriali. Si inserivano gli
Empatici in un nutrito gruppo di esseri leggendari, destinandoli a particolari
regimi legali. In quell’occasione, lessi solo che sentivano i sentimenti altrui
come se fossero propri, bastava che guardassero anche una fotografia, si
concentrassero per avvertirne l’energia mistica e potevano sentirne il cuore
anche a chilometri di distanza. Erano un circolo ristretto dalle regole
tramandate in modo esclusivamente orale, fuori dalla loro cerchia si sa poco
quanto niente dei loro poteri ed anche di come siano organizzati.
Il silenzio si
prolunga per molto, come se Helder Bode volesse darmi tutto il tempo di
metabolizzare l’informazione e ricostruire ogni tassello delle mie conoscenze
per avere un quadro preciso di lei. Ma, con frustrazione, termino la mia
ricerca mentale in pochissimo tempo e commento con una punta di impotenza
mortificata: “Ne avevo letto una volta… ma credevo che fosse una specie di
leggenda”.
Helder,
contrariamente al mio senso contrito di malessere per la mia scarsità di
conoscenze, pare invece colpita, quasi entusiasta: “La tua fama è decisamente
meritata, Hermione Granger…”, sposta con una mano un fermacarte senza alcun
apparente bisogno, prima di dire piatta: “Il mondo continua ad essere più
carico di sorprese di quanto pensiamo, a quanto pare. Noi Empatici non siamo
tantissimi, il nostro ordine conta poche migliaia di persone nel globo. Però… esistiamo.
Decisamente. Ne sono la prova evidente”.
Collego velocemente
il particolare che non mi tornava di lei, rendendomi conto quindi che non avevo
immaginato nulla.
“Gli occhi che
cambiavano colore… mi stavi… percependo?” completo non del tutto sicura
di aver utilizzato il termine esatto. Non conosco ovviamente i poteri degli
Empatici, ma il fatto che, per qualche sparuto secondo, i suoi occhi sono
diventati molto simili ai miei, sembra dare ragione della mia tesi.
Lei sorride ancora
incoraggiante e timida, aggiungendo: “Sì, scusami la violazione della privacy.
Non avverto nulla di particolarmente preciso, non ho questo potere, quindi non
credo di profanare nulla di eccessivo di chi viene a contatto con me. Riesco a
sentire solo le sensazioni, i sentimenti. Li percepisco come se fossero miei. È
una cosa che fa parte di me. Potrei controllarla, intendiamoci…”, sospira
lungamente come se stesse affrontando un discorso già sostenuto, qualcosa che
la tedia profondamente “…però dopo tanti anni è come… dover controllare il
respiro, o il battito delle ciglia. Non ci pensi, no?”. Cerca assenso nel mio
sguardo e, in un afflato di comprensione, annuisco piano senza sapere cos’altro
potrei aggiungere di diverso.
Lei allora sembra
cogliere la mia indecisione, forse la fraintende con una sorta di reticenza per
il suo andarsene in giro a scandagliare gli animi umani quindi si affretta a
replicare, incespicando sulle parole: “Potresti obiettare dicendo che la mia
capacità riguarda però le altre persone… quindi, come dice Chris, sarebbe
corretto porsi un freno e non sondare continuamente gli altri senza che nemmeno
se ne rendano conto. Se però lui sentisse quello che sento io, capirebbe…”, si
massaggia il collo con stanchezza, come se fosse improvvisamente affaticata, sebbene
nessuna parte di lei rechi tracce di una qualche forma di fatica.
Torna quindi a
guardarmi colpita, piegando un po’ la testa di lato, come se stesse cercando di
imprimersi qualcosa nel cervello analizzando la mia immagine. Le restituisco
uno sguardo torbido, fosco, mentre mi stringo nelle spalle.
“Chris capirebbe…” rincara
quindi con un filo di voce “… se avesse sentito… te”.
La confidenza del
pronome personale mi colpisce traditrice tra le costole, come una sorta di
dardo fiammeggiante. Sussulto, trasalgo, ancora una volta spasmodicamente presa
dall’esame delle mie sensazioni durante il nostro colloquio. Ma non ci trovo,
di nuovo, niente di trascendentale.
Non legge i
pensieri, quindi cos’altro può aver sentito di particolare in me?
Forse ero annoiata?
Per uno sciocco momento, penso che possa aver sentito meno che abnegazione alla
mia professione e che, per questo, voglia tipo fare rapporto al Ministro. Ma mi
parrebbe una elucubrazione mentale davvero pessima. Senza contare che comunque
sono stata professionale e precisa nel mio lavoro.
Con una subitanea
illuminazione ricordo che, solo qualche settimana fa, anche la profetessa Tatia
con la figlia Charlotte mi avevano fatto sentire “strana”, come se fossi una
specie di fenomeno da baraccone, alla pari di un dinosauro che cammina per
Londra.
E pensare che, alla scoperta della sua natura,
credevo io di aver guardato così Helder.
Remissiva, mi
abbandono allo schienale della sedia e do voce ai miei pensieri con aria stufa:
“Qualche settimana fa, una Profetessa ha candidamente ammesso che ho un’aura
strana. Grigia, ha detto. Ora un’Empatica… dovrei fare una sorta di
screening preparatorio all’ingresso”.
Helder assorbe il
mio commento sarcastico con una risata genuina che ha il significativo dono di
alleggerire un po’ l’atmosfera, mentre commenta divertita: “Se per i casi umani
con cui lavori, lo sei diventata tu… un caso umano, intendo… forse dovresti
porti due domande”.
“Se sapessi quali
domande pormi, lo avrei già fatto” bercio scocciata, massaggiandomi la tempia
con il pollice, descrivendo linee circolari. Non penso di andarmene in giro con
una sorta di insegna luminosa che mi candida a “individuo potenzialmente da
studiare”.
Eppure, è la
seconda volta che mi accade.
D’un tratto, con
una colata gelida sulla nuca, metto nello schema tutte le bizzarrie che mi
hanno colpito ultimamente: e se ci fosse davvero qualcosa di strano in
me?
Mangiandomi
l’interno della guancia con frenesia, allungo il calderone di pensieri,
apparentemente dimentica di Helder. Il ricordo mai vissuto, il figlio mai
esistito.
Non mi fermo a
quello però: mulinano i pensieri e conto la strana distanza da mio marito, dai
miei figli, dalla mia famiglia. E poi, con un tonfo sordo nel petto, arrivo
alla parte peggiore.
Malfoy. Draco.
Sono corsa a casa sua nel cuore della notte di
Natale.
Mi fido di lui più che di me stessa.
Conosco il suo segreto più profondo.
Non riesco a smettere di chiamarlo Draco nella
mia testa.
Scrollo il capo, è
ovvio che ogni strano personaggio che capiti a tiro mi vede avvolta da un alone
di anormalità. Ci manca solo che mi spunti una coda da barboncino ed inizi a
parlare in babilonese stretto, e siamo a posto. Magari adesso ci capirò
qualcosa. Tatia Krasova mi ha incasinato la testa, magari Helder Bode me la
snebbia un po’.
Chiedo perciò
incerta ed esitante, ma con una sferzata di coraggio: “Cosa hai visto in me?”.
Lei mi studia
ancora con profonda attenzione, pare cercare sempre le parole giuste per
spiegarsi nella maniera migliore possibile. Probabile che, se il suo potere
deriva dalla percezione delle sensazioni, non sia così semplice articolare
tutto in parole intellegibili.
I suoi occhi, tinti
di vaghi riflessi bronzei, corrono per un attimo fuori dalla finestra, ci
incespicano sulle nuvole ritagliate dal cielo, come a cercarne un suggerimento
tacito che non so se riesce a trovare.
Poi, tornando a me
che inizio a spazientirmi, sorride brevemente ed asserisce rassicurante: “Non
parlerò del tuo cuore. E nemmeno di quel tarlo che ti attraversa la
mente”.
“Un… tarlo?”
mi ritrovo ad aggrapparmi ancora all’orlo della sedia, le unghie grattano sul
tessuto un po’ consumato sugli angoli e pendo dalle sue labbra come se fossi
una supplice in attesa di assoluzione.
Non faccio ovvia
fatica a capire di che cosa stia parlando. Anzi, di chi sta parlando.
La domanda retorica
è solo il tentativo patetico di nasconderlo alle mie stesse volizioni, ai miei
stessi pensieri. Quando invece so perfettamente che se ne sta lì, smisurato e spaventoso,
a prendersi gioco di ogni singolo gesto, movimento e sguardo, che per
somiglianza di contenuto mi riporteranno indietro.
Fino a quando non lo sa nessuno, se me ne
dimentico, non è mai esistito.
Helder mi riserva
ancora uno sguardo carico di insopportabile indulgenza, di una specie di
dolcezza frammista ad una sincera pena, che corrode acre il mio stomaco. Però,
nonostante cerco di farle capire con lo sguardo di non andare oltre, lei
prosegue intraprendente, come se d’un tratto avesse perso ogni remora ultima di
inibizione: “E’ qualcuno… che macera i tuoi pensieri. Non ho mai visto
una definizione così calzante della lingua che batte dove il dente duole.
E’ una specie di riflesso condizionato. Ci pensi in continuazione, persino
quando non te ne rendi conto. Ci sono poche persone fatte per essere
indimenticabili. Credo che lui… chiunque sia… sia una persona
indimenticabile. Un tempo, persone così venivano chiamate Zahir”.
La gola mi si secca
ancora di più, mi sento esaminata come se fossi imputata di un processo,
prossima al rogo. L’incendio lo sento persino stagliarsi contro le mie membra,
ne assaggio il calore mortale, ne suda ogni cellula del mio corpo, avvolge di
spire terribili di cenere l’aria che respiro.
Helder non legge
nel pensiero, me lo ha detto, lo so persino io da quel poco che conosco degli
Empatici: altrimenti sarebbero Telepati o Legilimanti.
Sono solo
sensazioni, eppure senza alcuna esitazione ha detto lui.
Cosa c’è nei miei
pensieri per coniugarli subito al maschile?
Terrorizzata da
qualsiasi corollario di quella constatazione, biascico immediatamente, la voce
acuta e stridula, alzandomi in piedi nervosa: “Non è una persona
indimenticabile. Non è nemmeno uno Zahir-qualcosa-o-come-diamine-si-chiama. E’
qualcosa che… non capisco”. Lo aggiungo con una repentina intuizione che
rimette tutto in prospettiva. Rifacendomi alle sue parole precedenti, mi glorio
felice di professare: “E’ una maledetta girandola colorata, come hai detto tu”.
“Dalle dimensioni
lo definirei piuttosto l’intero spettacolo pirotecnico del 4 luglio” sogghigna
Helder saputa, riservandomi l’ennesima occhiata ilare.
“Avevi detto di non
voler parlare di questo” replico piccata, tornando a sedermi e distogliendo lo
sguardo da lei.
Helder pare colpita
dal mio riferimento alle sue parole precedenti, come se si fosse posta un
limite che ovviamente non ha rispettato e ciò le dolga non poco. Quindi si
affanna a proseguire monocorde: “Certo, sorvoliamo. Non so cosa fosse l’aura
grigia che vedeva la Profetessa. Ma so cosa vedo io…”, fa una pausa studiata,
ad effetto, a verificare che io sia ancora attenta e presente ad ascoltarla.
Annuisco con il capo, sporgendomi per ascoltarla, mentre lei sussurra in un
fiato sofferente: “Vedo… magia… nera. La più potente che abbia mai visto.
So di che cosa sto parlando. Ho incrociato un Horcrux di Voldemort tanti anni
fa, prima che fosse distrutto da voi. E certo, non era una passeggiata di
salute sentirlo… ma aveva qualcosa di umano dentro. Di terribile, ma
umano. In te, invece, ci sono le tracce di una Magia così oscura che… pare
quella di un demonio. Non c’è niente dentro. Solo freddo, tenebre,
potere smisurato”.
La rivelazione mi scompagina
il respiro, mi pare che un’enorme iceberg ghiacciato mi si sia parato innanzi e
io non abbia alcuna forza o potere per poterlo schivare.
Devo solo
prepararmi all’impatto.
Penso
automaticamente a mio marito, ai miei figli, alla mia famiglia, al tenerli
tutti al sicuro. Il fatto che Helder parli di qualcosa peggiore di Voldemort,
arresta il battito del mio cuore.
In nessuna mia
fantasia necrotica di angoscia, ho mai concepito un male peggiore di quello. E’
una sorta di vertice massimo della malvagità, una vetta di depravazione per cui
ogni criminale, ogni ladro, ogni assassino è da considerare strettamente e
fortunatamente al ribasso.
Ora, invece, viene
alluso a qualcosa di peggio, qualcosa che ha scelto me come vittima, qualcosa
che mi si para nella testa in modo evidente per profeti ed empatici, ma che
invece per me non ha alcuna tangente cognizione, cosa che mi lascia
assolutamente priva di difesa.
Mi concentro sul
mio respiro, veloce, ansante, irregolare, quasi a volerne trarre
rassicurazione, ma non funziona ovviamente. E non funziona nemmeno quando, con
una punta di sollievo nel fondo del ventre, noto persino che mi rassicura
essere vittima di un incantesimo.
Perché forse
significa che c’è davvero qualcosa che non va in me.
Il cauto senso di
inoperosa gioia si stempera subito, considerando quanto resta senza risposta a
questa prima rivelazione. Helder continua a guardarmi accorata, tentando
inutilmente di tranquillizzarmi con lo sguardo, cosa che per inciso non ha
alcun risultato.
“C-cosa potrebbe
essere?” chiedo quando sono certa della fermezza della mia voce.
“Bella domanda…”
risponde lei autenticamente costernata “Posso solo dirti che sei stata
sicuramente incantata da qualcuno. Difficile è sapere come e da chi. C’è stato
qualcosa di diverso in te negli ultimi giorni?”.
Il sollievo ritorna
prudente, sbrilluccica come un lumicino nella nebbia spessa ed opaca.
Mi affanno a
spiegare agitando le mani, un prurito negli occhi che metto a tacere con
fastidio: “Non so nemmeno da dove dovrei cominciare. Ho… vissuto un ricordo.
Quello che sembrava essere un ricordo. Che io non ho mai vissuto. E…
talvolta…”. Mi fermo a disagio, incapace di proseguire, mentre metto a fuoco
quella sensazione di strappo che avverto dentro di me, come una specie di
taglio nel vivo, suppurante di strazio.
Helder mi
incoraggia a proseguire, allunga una mano calda che copre la mia, artigliata
sulla scrivania. Accetto la carezza con gratitudine, sospingo il groppone giù
per la faringe e proseguo incerta, come se facessi fatica a ricostruire il
pensiero e a presentarlo fuori di me stessa: “… sono convinta di avere un
figlio che non ho mai avuto. Penso persino di sapere come si chiama. Credo…. credo
che si chiami Alexander, come mio padre…”, i miei pensieri si ingarbugliano
come se avessero una volontà propria, intricata e terribile di sfuggire al mio
controllo. E’ la prima volta che ad alta voce esprimo quel pensiero, che do
voce a quell’immagine, che pronuncio quel nome, e mi pare di sentirmene
consumata dall’interno come cera di una candela.
Di notte, la
nettezza di quell’immagine è sconcertante, posso persino ricostruire il profumo
di quel bambino sconosciuto. Mi avventuro nel riconoscere il suono argentino
della sua voce, mi azzardo a pensare che gli piaccia il colore azzurro, che
mangerebbe solo brownies, che detesta le carote.
Di giorno, faccio
fatica ad afferrarne una qualsiasi nozione, come se fosse una sorta di miraggio
pigro: lascio ai sogni, come a briciole di Pollicino, di ridarmi il puzzle di
questo bambino.
Di cui non conosco
nemmeno il viso, ma a cui mi sento così legata da strapparmi le viscere.
Helder mi lascia
perdere nei miei pensieri, prima che le chieda esausta, un peso sullo stomaco:
“Può avere senso secondo te?”.
Lei ci riflette
autenticamente su, non prima di avermi gettato un’occhiata in tralice che è
quasi stucchevole, dolciastra, per la tenerezza che ci mette in modo istintivo,
come a riconoscermi sempre la vittima di un feroce incanto che mi sta togliendo
il senno. Il suo sguardo, paradossalmente, invece che innervosirmi mi rassicura
moltissimo: pensare che ci sia un vero ed autentico problema, mi fa sentire a
posto con la coscienza, mi permette di sentirmi meno colpevole se vado a
comparare lo strappo al ventre per il bambino sconosciuto e i sentimenti che
provo di amore infinito, immenso, per Rose ed Hugo.
“Tutto può avere
senso…” termina lei con decisione, guardandomi ancora con amarezza “La gente si
è persa anni dietro incantesimi e fatture del genere. Creati apposta per minare
la mente, per farti dubitare del reale, per portarti alla follia. Ciò che è più
potente nell’animo umano è il rimpianto. L’anatema del se fosse. Maledizioni
simili si insinuano come vermi nel pensiero e, lentamente, lo svuotano. Fino a
quando non hai più cognizione di te stessa”.
Chi diamine può avermi fatto una cosa del
genere? E perché?
Rincorro teorie e
nomi per diversi minuti, assentandomi completamente. Devo scavare nella memoria
e tornare ai tempi della guerra per trovare qualche sospettato convincente.
Soprattutto per
qualcosa che non è difficile riconoscere, dopo un primo esame della questione.
E cioè che, se davvero esiste un Incantesimo, non ha solo me come vittima, ma
anche Draco Malfoy. Non l’ho più sentito e nemmeno visto, però quella specie di
ricordo lo ha vissuto anche lui, c’era anche in esso. Probabile che, dopo gli
siano successe altre cose strane come i miei episodi onirici.
Se però il nesso
tra me e Draco Malfoy è piuttosto scontato, lo diventa meno quando cerco di
andare a ritroso nella mente per individuare un eventuale responsabile.
I miei nemici non
possono essere quelli di Malfoy, anzi realisticamente è l’esatto contrario. Se
c’è qualcuno che sta maledicendo me, mi pare improbabile che lo stia facendo
anche con lui, sostanzialmente perché, sebbene in termini più liquidi e meno
netti, siamo dalle parti opposte delle ideali barricate in cui è diviso ancora il
mondo.
Chi potrebbe voler
fare del male ad entrambi?
“Cosa dovrei fare?”
chiedo a corto di idee e risoluzione ad Helder. Per un attimo, riconosco dentro
di me una sorta di spinta istantanea a mettermi nelle sue mani, pare un’eco
dimenticata di consuetudine, sebbene non la conosca e sebbene sarebbe stato più
naturale per me dubitare delle sue parole come prima cosa, invece che accettare
la sua versione dei fatti come oro colato.
Invece, non ho il
benché minimo dubbio che non stia dicendo menzogne, anche se sono la diffidenza
fatta persona in altri contesti.
Mi basta guardarla
negli occhi, anche quando diventano di un altro colore.
“Devi farti aiutare
da chi ne capisce di più in queste cose…” dice convincente, facendo un enorme
sospiro di impotenza malcelata “E purtroppo non sono io. Mettiamo anche che io
abbia scoperto il sintomo… ma per la diagnosi ci vuole qualcuno di esperto. In
Magia oscura”.
“E a chi potrei
rivolgermi? All’Ufficio Auror? Al Ministro?”.
“Per quanto siano
lodevoli soluzioni, Hermione, io andrei alla radice del problema. Cercherei
prima di tutto di capire di cosa si tratta. E c’è solo una persona che può
aiutarti in questo…”, penso a decine di persone a cui si possa star riferendo,
ma Helder tronca sul nascere ogni mia riflessione, pronunciando sicura: “L’insegnante
di Difesa contro le Arti Oscure di Hogwarts. E’ il più grande studioso vivente di
incantesimi di questo tipo. Si chiama… Ilai Radcenko”.
Il nome accende
subito una tremula spia di riconoscimento nella mia testa, mentre riavvolgo il
nastro dei giorni natalizi che mia figlia ha passato a casa: alle copiose
domande che le ho fatto sull’inizio dell’anno scolastico, naturalmente da brava
adolescente è sempre rimasta laconica e reticente. E’ stata prolissa solo
quando ha parlato dell’insegnante di Difesa contro le Arti oscure.
“E’ un grande, mamma!”, la cui difficoltosa
perifrasi è stata solo che è un uomo abbastanza giovane e piacente, ma al
contempo molto preparato e che ha dei metodi di insegnamento moderni e
coinvolgenti.
L’entusiasmo pare,
però, bipartisan: ne hanno parlato benissimo anche Albus, a conferma dei
racconti di James dello scorso anno. Stessa cosa ha detto anche Ginny, quindi
penso che dovrebbe essere assodato che sia esperto nella sua materia.
Annuisco
all’indirizzo di Helder: “Credo che me ne abbia parlato mia figlia Rose”.
“Vedrai che saprà
aiutarti…” mi tranquillizza Helder, tornando a stringermi la mano con calore,
poi un’ombra le vela lo sguardo, rendendolo plumbeo, quasi nero “So per esperienza
che è il migliore in queste cose”.
“Faccende da
Indicibili?” concludo automaticamente, guardandola con curiosità.
“Sì, mettiamola
così” sorride lei, alzandosi in piedi e facendo cenno di congedarsi. Mi lascia
con una nuova serie di rassicurazioni, portandomi anche esempi di sue
conoscenze che hanno avuto problemi simili e le cui vicende si sono concluse
positivamente. Mi dà anche il suo recapito, dicendomi che per qualsiasi cosa,
posso chiamarla per chiederle consiglio.
Mi dà un buffetto
sulla guancia prima di uscire, ed è allora che risorge dentro una domanda
enorme che mi oscura quasi la vista.
La afferro per un
braccio, trattenendola con un singhiozzo che vorrei tenermi dentro, ma viene
fuori lo stesso. Sussurro, timorosa di sentire qualcos’altro di terrificante: “Hai
parlato del mio cuore… cosa… cosa hai visto?”.
Gli occhi di Helder
tornano dello stesso colore dei miei, paiono brillare nella semioscurità come
fulmini di ambra. La sua mascella si indurisce e sembra improvvisamente
furiosa, sconvolta, attonita.
Poi si sgonfia,
torna al suo sguardo normale, mi stringe la mano, cercando di comunicarmi qualcosa
oltre le parole che, però, rimane sospeso anche quando esce, portandosi dietro
un odore di mughetto e limone che resta impregnato nelle pareti.
Come le sue parole, nella mia testa.
“E’ una cosa che
non ho mai sentito. Come soffocare con la terra un rogo enorme. Come se ti
avessero svuotata con un cucchiaio, Hermione Granger. E’… atroce. Sei
sostanzialmente… cava. Vuota. Pochi orpelli di emozioni, lasciati
a penzolare, sospesi… attorno ad un vuoto. Hai una voragine dentro… dove prima
c’era un amore grande”.
20 gennaio
Il rumore della carta,
mentre la straccio e frantumo in mille pezzi, suona come una specie di
ulteriore beffa, come se si umanizzasse al punto di ridermi contro, addosso,
ovunque.
Per sfogare ancora di più
la rabbia e la frustrazione represse, afferro la bacchetta dal comodino ed
incendio repentinamente i frammenti rimasti: sfrigolano sul parquet come
schegge prima di annerirsi e diventare polvere.
Il gufo di casa, Dante,
ancora un po’ affannato per il lungo volo nel cuore della sera ghiacciata di
brina e per l’altrettanto istantaneo ritorno a casa, osserva i miei movimenti
facendo frullare le ali marroni spazientito, in attesa della sua ricompensa. Meccanicamente,
la testa ingolfata, mi alzo in piedi, le molle del materasso stridono come in
un orrendo film dell’orrore. Raggiungo la piccola vaschetta di bocconcini sul
davanzale, gli consegno il suo pasto e Dante vola via, descrivendo una voluta
nel cielo grigiastro a mo’ di freccia nera che resto a guardare inebetita per
un po’, il vento freddo sul viso.
Mi sveglia dal torpore il
cigolare della porta della camera da letto che si apre, mi raddrizzo eretta e, rapida,
mi chino alla specchiera simulando gli ultimi tocchi di un maquillage che non
ho nemmeno cominciato.
Ron entra in camera con i
capelli ancora lievemente umidi dopo la doccia, si chiude i bottoni della
camicia attentamente, timoroso di saltarne qualcuno, guarda la mia schiena e resta
immobile, congelato, un accenno di respiro trattenuto. Mi chiudo nelle spalle
in silenzio, come se ogni minuto di attesa gli portasse alle narici l’odore
della carta bruciata.
Poi, con evidente simulata
nonchalance, si siede sul materasso, armeggia con il maglione e le scarpe e mi
chiede tranquillo, la voce impostata: “Sei pronta?”.
Annuisco con il capo,
sollevando il pennello del blush e sventolandolo come un vessillo militare:
“Quasi… se sei già pronto e Hugo sta dando di matto, puoi anche precedermi”. Il
cuore mi batte in petto in attesa della risposta, accelera quando lo sento
alzarsi e venirmi alle spalle, non incrocio il riflesso del suo sguardo nello
specchio, fingendo profonda concentrazione, mentre le dita tremolano un po’.
Il suo sospiro, greve,
sordo, pesante, mi solletica la nuca scatenando i brividi sulle braccia, mentre
in un afflato rapido e malinconico sussurra: “Certo”.
Sospiro anche io,
concedendomi dei gesti più lenti e misurati, aspettando che inforchi l’uscita,
mentre raggiunge nostro figlio che sta già saltellando in preda all’entusiasmo,
facendo ballare le assi del pavimento della scala.
“Ho visto volare Dante
fuori dalla finestra poco fa…” la voce di mio marito mi sorprende come la canna
metallica di una pistola alla nuca, quando pensavo di essere già virtualmente
al sicuro. Deglutisco la poltiglia acida e nauseabonda che mi chiude la faringe
e mi aggrappo alla maniglia di un cassetto, aprendolo senza necessità alcuna e
tirandone fuori un foulard azzurro che non potrei mai indossare adesso, essendo
troppo leggero. Eppure fingo di guardarlo con interesse come se stessi
decidendo se è adatto o meno all’occasione. Nella trama di fili di cotone e
seta, cerco delle parole, cerco l’espressione adatta, la cadenza, il respiro disattento
sfuggito per caso.
Atteggio la fronte ad una
piccola riflessione, poi la spiano automaticamente come se la risposta alla
domanda di Ron fosse fiorita adesso, inconsapevole, nel silenzio di una cosa
poco importante. Aggiungo quindi scontata, dandogli ancora le spalle ed
agitando la mano con indifferenza: “Lavoro, sempre lavoro… basta prendersi due
ore libere e Leda va in panico”.
La bugia è talmente convincente
che Ron riesce persino a riderci su, sebbene so persino dal suono che la risata
fa alle mie orecchie che è un verso gutturale, statico, di mera cortesia. Mi
saluta con un respiro di bacio sulla nuca, sebbene ci vedremo tra pochi minuti,
pare sempre che mi dica addio, e si
Smaterializza con Hugo per mano che, nel suo entusiasmo da bambino, non
dismette per un secondo gli urletti alla “Sbrigati papà!”.
Non appena capisco di
essere sola in casa, non appena prevalgono nel silenzio di nuovo i rumori
sottili del legno che si assesta, la mia mano lascia cadere il pennello e il
piumino della cipria, che atterrano sulla specchiera con un tonfo che risuona
per mille e mille volte. Nascondo il tremore delle mani tra i capelli, mentre
mi chino piegata e nascondo il viso tra le braccia: gli occhi restano
spalancati e fissi nel buio che creo con il mio stesso corpo, mi concentro solo
sul respiro e sul battito irregolare del cuore, isolando fuori da me stessa le
lacrime che, minacciose, mi arrivano agli occhi e si mangiano già il mascara
che ho messo distrattamente, irregolarmente, senza alcuna attenzione, solo per
avere la scusa di restare qui ancora un altro po’.
Quella consapevolezza mi
riporta in piedi, come se in modo confuso persino io sapessi che lasciarmi
andare significa dare ogni volta di più l’alibi all’inedia di trascinarmi via,
in basso, senza farmi più risalire. Cerco allora un vestito nell’armadio, faccio
mente locale su dove sia finita la mia camicia glicine, sistemo il trenino
rosso che Hugo ha lasciato in giro per la stanza, apro il portagioie sul
comodino e ne tiro fuori due orecchini lucidi, d’oro giallo, a cerchio, che mi
ha regalato Ron per il nostro anniversario. La tenerezza mi chiude la gola, mi
spinge a fermarmi ancora immobile e a sedermi di nuovo sul letto, sfinita, spossata,
come se nemmeno un altro singolo passo mi fosse minimamente possibile.
Ed è allora che il mio
piede nudo, libero delle pantofole che ho lasciato sotto la specchiera, tocca
con l’alluce un altro piccolo frammento di carta: si spezzetta nelle mie dita
che lo raccolgono, ma non prima che io abbia letto di nuovo l’indirizzo del
destinatario, il sangue che mi va alla testa lasciandomi esanime nel resto.
Draco
Lucius Malfoy, Malfoy Manor.
Stringo le labbra, sapere di essere stata probabilmente
maledetta è stata una consolazione.
Dopo l’incontro con
Helder, è stato come se ogni cosa si deformasse in preda ad un insperato
respiro di sollievo: pareva tutto più tenue, più sussurrato, più combaciante
tra sé e sé come se avesse trovato posto.
Per i primi giorni, non ho
fatto altro che enumerare nella mia testa, come se fossero punti di una
lunghissima lista, tutti i particolari di me che sembravano stonare da mesi,
settimane, giorni, con la consolazione che Helder non aveva potuto fare alcuna
stima sulla durata della mia maledizione. I bulbi vitrei nel buio delle stanze,
contavo e ricontavo, smontando la mia vita pezzo per pezzo ed unendo come con i
puntini della Settimana Enigmistica ogni traccia anormale, strana, difforme: la
nausea, il fittizio ricordo, il sogno falso sul bambino.
Arrivavo poi, con febbrile
rapidità e immediata consolazione, alla sensazione di estraneità con la mia
famiglia, al rancore per Ron, alle trascuratezze per i miei figli, fino a
giungere come in un piano inclinato a 90°, a quel subitaneo senso di fiducia per
Draco Malfoy e a quella corsa forsennata a casa sua la sera della Vigilia di
Natale.
Anche l’accenno orribile
al mio cuore è diventato una specie di disco rotto che, con voce metallica,
ripeteva la cantilena di una maledizione che era giunta persino a togliermi Ron
dal cuore.
Una voragine dentro… dove prima c’era un amore
grande: poteva essere solo questo.
Posso persino dire che, di
primo acchito, la scoperta di essere stata fatturata mi ha reso allegra e
vitale come non ero da mesi. Ho iniziato a prendere una pozione per evitare i
sogni notturni, così da non rivedere più il bambino e non provare più quello
straziante senso di distacco. Dopo qualche giorno, ho anche iniziato a fare delle
ricerche, una volta messo a fuoco che essere stata maledetta non era qualcosa
su cui rallegrarsi e che poteva comportare che mettessi a rischio le persone
che amo.
Helder mi ha garantito il
massimo aiuto possibile, da parte sua si è offerta di cercare qualsiasi
informazione utile, ma io da sola nelle pause del lavoro o nell’attesa che la
cena finisse di cuocere, ho iniziato in modo affannoso a spulciare libri,
interrogare testi, fabbricare congetture, realizzare schemi. Non ho scoperto
moltissimo, ci sono decine di maledizioni che potrebbero avere in comune parte
dei miei sintomi. Nemmeno scandagliare il mio privato, ha portato ad un qualche
sospettato: le piccole antipatie ed avversioni sembrano sempre troppo
insignificanti per portare ad un incanto simile, definito peraltro più oscuro
dei malefici di Voldemort.
Lì, d’altronde, la mia
mente si incaglia: immaginare Voldemort è già sentire la mente invasa da acre
fumo nero di tomba, morte. Immaginare qualcosa di peggio, è qualcosa che non
oso nemmeno arrivare a concepire lontanamente.
Mi sono allora focalizzata
su colui che Helder mi aveva indicato come probabile risolutore del mio
problema: l’insegnante di Difesa contro le Arti oscure. Ilariy Nikolaj Radcenko.
Ogni parte del suo
curriculum è parsa assolutamente impeccabile: sulla quarantina, di origine
russa, diplomato a pieni voti a Durmstrang, estraneo a qualsiasi vicenda
oscura, perfeziona i suoi studi con la conoscenza delle antiche scienze
alchemiche durante un lungo soggiorno a Kathmandu, senza contare ricerche sulle
maledizioni sciamaniche in Patagonia, sui demoni mistici in Giappone e persino
sui principi più avanzati della fisica, quando per diversi anni vive a Boston e
frequenta il Dipartimento di Fisica di Harvard. Vive in Inghilterra solo da
qualche anno, continua le sue ricerche ed intanto si dedica all’attività accademica
presso Hogwarts, che si è sempre ritenuta enormemente fortunata ad averlo come
insegnante.
Radcenko, peraltro, in
ulteriore ossequio ad una sua perfezione quasi palese, è un insegnante capace,
coinvolgente, particolarmente a suo agio con bambini e ragazzi: pare che abbia
rivoluzionato il modo di affrontare lo studio della Difesa contro le arti
oscure, implementando lo stesso modo di fare molto operativo che aveva Lupin.
Questo, inevitabilmente, ha portato ad un boom di iscrizioni ad Hogwarts anche
di francesi e mitteleuropei.
Ho letto tutto con un
feroce senso di invidia per mia figlia: avrei voluto averlo io un insegnante
simile ai miei tempi. Tralasciando Remus, le mie esperienze non sono state
certo così edificanti.
Con un senso perciò di deferenza,
ho scritto, cancellato e riscritto una lettera per Ilariy Radcenko,
chiedendogli un colloquio privato: delusa, ho ricevuto risposta da un tale Ivan
Gargovich, che si è firmato come una specie di segretario particolare
dell’insegnante e che ha asserito con il tono scocciato che permeava persino
dalla carta, che il dott. Radcenko aveva l’agenda piena fino a luglio del
prossimo anno e che quindi non era possibile fissare alcun incontro.
Mi ero già decisa a
contattare il Ministero e smuovere un po’ le acque di miei vecchi agganci per
poter aggirare l’ostacolo quando, una sera, mi è arrivata una nuova lettera da
Hogwarts: avevo subito pensato a Rose, avevo stracciato la busta della missiva
piena di preoccupazione ansiosa.
Ma invece a restituirmi lo
sguardo è giunta una grafia lieve, precisa, allungata sulle lettere alte.
Essere un’ex Eroina del
Mondo Magico ha sempre i suoi vantaggi: dopo aver letto il mio nome nella
missiva ricevuta, Ilariy Radcenko si scusava per l’eccessiva abnegazione del
suo assistente, chiedendomi in cosa potesse essere d’aiuto a me e al Ministero.
Naturalmente, ho
constatato subito, l’accademico pensava di essere stato contattato perché
potesse aiutarmi a risolvere qualche bega di lavoro: a patto di farmi
promettere di essere particolarmente riservato, ho confessato che non si tratta
di alcuna questione pubblica, ma invece di qualcosa assolutamente personale.
Temevo che a quel punto
Radcenko mi rispondesse picche, ma dopo pochi giorni mi aveva scritto
esortandomi a spiegargli cosa fosse successo e promettendomi che, se ne fosse
stato in grado, mi avrebbe aiutato.
È cominciata così una
lunga corrispondenza dove ho spiegato sommariamente il mio problema e la teoria
di Helder sul fatto che fossi stata maledetta: sebbene non sia scesa molto nei
particolari, Radcenko ha subito riconosciuto qualcosa che gli suonava come
familiare, accennandomi a qualcosa che ha chiamato “tentazione del multiverso”, una teoria ancora embrionale su cui
pare stia lavorando da qualche anno con un’altra studiosa, tale Eva Lancaster.
La definizione “tentazione del multiverso” mi ha ovviamente incuriosito molto,
ma il professore è rimasto molto vago a riguardo, rinviando il tutto ad un
incontro ad Hogwarts dove avremmo potuto parlarne personalmente: essendo la teoria
completamente inedita, anche le mie incuriosite ricerche successive non mi
hanno fatto cavare un ragno dal buco.
Dopo un paio di ulteriori
missive, Radcenko mi ha dato appuntamento ad Hogwarts il pomeriggio del 30
gennaio, approfittando di un momento di pausa delle lezioni e delle sue
ricerche a causa di un convegno a Sofia che era provvidenzialmente saltato.
Ho letto la lettera con un
saltello di contentezza, fino ad arrivare all’ultima riga prima dei saluti.
“Dimenticavo,
Mrs. Weasley: mi ha accennato stringatamente che ad essere colpita dal
maleficio pare vi sia anche un’altra persona. Non vi ha più fatto riferimento,
non vorrei aver letto male. Però se mi conferma che è così, sarebbe bene che
incontrassi anche costui o costei assieme a lei. Molti incanti di tale natura
possono essere variamente legati tra di loro, e per me comprenderne la natura
potrebbe essere impossibile se non ci sia anche l’altro elemento. Confido in
questo.
Ilariy
Radcenko”.
La frustrazione rabbiosa
mi ha avvolto come una specie di miasma: in poche parole, volente o nolente,
dovevo chiedere a Malfoy di venire ad Hogwarts con me quando, dalla famigerata
sera di Natale, non abbiamo avuto più alcun genere di contatto, nemmeno mediato
dai Weasley.
Il fatto di non averlo più
rivisto, lo ammetto, mi ha all’inizio confortato parecchio, non avevo e non ho
alcuna volontà di incontrarlo dopo aver scoperto il segreto del suo matrimonio.
Mi è così rimbalzato in testa per giorni da avermi contuso il cervello. E non
arrivo nemmeno a menzionare quella specie di abbandono che, senza
premeditazione, avevo provato nei suoi confronti: convinta come sono che si
tratti di una specie di ulteriore maleficio a mio danno, mi sono data pena di
analizzare bene di che cosa si trattava, non presa più dal timore di scartare
quella sensazione nella mia testa, la
fiducia sterminata, istantanea, subitanea come quella ingenua dei bambini, ed
io bambina, bambina così non sono mai stata, sono sempre stata diffidente,
sospettosa, circospetta, e lui più di tutti mi ha sempre istillato nient’altro
che dubbi, teorie, preconcetti, pregiudizi, perché lui era il cattivo, il male,
il quasi assassino, il Mangiamorte, e non è cambiato niente, non è cambiato
lui, non sono cambiata io, non è cambiato il mondo: ed invece no, se precipito
nel vuoto, se vedo il buio avvicinarsi, se sento il vento nella mente sferzarmi
le membra, so che a tuffarsi dietro di me, a salvarmi, a lottare perché io
resti in vita, non c’è mio marito, Ron, Ronald Weasley, capelli rossi,
lentiggini, orecchie che si arrossano quando è emozionato, occhi azzurri di mia
figlia, odore di dentifricio alla menta piperita.
Non
c’è mio marito.
Se
penso alla fiducia, se penso al salto nel vuoto, a seguirmi per morire con me,
c’è Draco Malfoy, Draco Lucius Malfoy, capelli biondi, labbra sottili
arricciate, voce strascicata, occhi grigi che mi scavano sotto la pelle, cuore
vergine e mai innamorato, odore di erba bagnata a settembre.
C’è
solo lui.
Se non è un maleficio
questo, e dei più perfidi ed infidi, non so quale potrebbe esserlo.
Con riluttanza quindi,
sapendo che comunque la mia consulenza da Ilariy Radcenko poteva rivelarsi
infruttuosa senza la presenza di Draco Malfoy, avevo deciso di scrivergli una
lettera, impostandomi prima su un approccio soft per poi giungere al nocciolo
della questione. Non conosco infatti Malfoy al punto di immaginare come
reagirebbe se sapesse che, con lui bellamente inconsapevole, ho preso contatti
per risolvere il nostro comune problema: anche se non lo avevo minimamente
menzionato con Radcenko, poteva darsi che avrebbe considerato un’ingerenza che
facessi indagini senza di lui, sebbene fosse coinvolto nella cosa.
Quindi, dopo aver
cancellato e riscritto lo stesso scarno messaggio per diciotto volte,
suscitando la reazione pettegola e scomposta di Leda che mi spiava da dietro lo
stipite della porta, ho optato per una lettera neutra in cui, Grifondoro fino
al midollo, lo informavo delle ultime decisioni riguardo al matrimonio di Teddy
e Victorie e di cui voleva essere sempre tenuto al corrente, come pattuito in
quella sera strana di Natale.
Il
premio che ne avevo avuto, in compenso, era stato conoscere la sua mente fino
al suo segreto più profondo. Qualcosa che era stata più una maledizione che un
premio.
In calce, a fine lettera,
aggiungevo casuale che avevo bisogno di parlargli in riferimento all’episodio
della sera di Natale; non entravo troppo nei dettagli, così da tenere al sicuro
la vicenda nel caso sua moglie aprisse la sua corrispondenza e, allo stesso
tempo, speravo di indurlo a scrivermi in risposta per la curiosità.
Naturalmente, le cose non
sono andate così.
Non solo Malfoy non mi ha
mai scritto in risposta, ma tutte le mie lettere sono tornate esattamente
identiche al mittente. Potevo pensare a qualche goffo disguido dei gufi, ma
ogni busta è diligentemente aperta, sebbene dalla posizione della carta da
lettera, deduco sempre che non è andato oltre le prime righe a leggere. Probabilmente,
si limita alla data e a quei “Malfoy!”, sempre meno cauti, sempre più furiosi,
sempre più carichi di rabbia in risposta al suo menefreghismo totale.
I miei istinti di omicidio
e minaccia per via scritta, al ridursi dei giorni prima dell’appuntamento con
Radcenko, si sono fatti via via sempre più violenti e selvaggi, fino a
trattenermi bruscamente dal riempire la missiva di Artiglio del Diavolo o dal farmi
nuovamente piombare in casa sua, stavolta munita di lanciafiamme.
Ovviamente, potrei anche
andare da sola da Radcenko, ma, oltre a temere che così non riesca a capire
quale è il problema, mi sconcerta che Malfoy sia così indifferente a quello che
ci sta succedendo. Come diamine ha fatto a liquidare quella specie di ricordo
con una scrollata di spalle?
Possibile che… ossessioni solamente me?
La domanda, diventata
ampiamente retorica al prolungarsi del silenzio di Malfoy, ha cominciato ad
inseguirmi come una fiera affamata: più constato che a lui non interessa niente
della cosa, tanto da non avere nemmeno il tempo, la voglia o l’educazione di
rispondermi, più temo che la sua reazione sia quella normale e che sia invece la
mia quella sproporzionata.
Probabilmente, al
contrario di quanto avessi pensato, lui non ha alcun altro sintomo. Perciò ha
cancellato dalla sua testa il pensiero di quel momento, dandosi una qualche
giustificazione mentale che lo ha calmato e rasserenato.
Lui
non sogna nessun bambino biondo da chiamare figlio, non prova lo sgomento di
provare maggiore intimità verso un miraggio, che verso il proprio vero bambino
quando chiede una cosa e pare solo muovere le labbra a vuoto.
Lui
non prova nessuna nausea sferzante, continua, che risale dalla bocca dello
stomaco nei momenti più disparati della giornata, minacciando di rivoltarti
dall’interno come se fossi un vestito consunto e rovinato.
…
ma, soprattutto, evidentemente, per lui la sera di Natale è stata una sorta di
strano episodio che va raccontando ridendo, alla moglie, agli amici, al figlio,
parlando della solitudine di una povera idiota che non trova niente di meglio
da fare che venire a casa sua, di notte.
Ed
avrebbe ragione, diamine.
A quelle riflessioni, mi
coglie allora un senso patetico di chiusura ermetica dentro me stessa,
raggomitolata nella vergogna assurda di essermi messa in ridicolo davanti a
lui. In ufficio, per strada, a casa, mi sembra di portare scritto sulla fronte
l’onta terribile della mia fuga notturna. Credo che chiunque me lo possa
leggere scavato nel viso, e rinfacciarmelo con crudeltà, smontandomi pezzo per
pezzo. Evito lo sguardo del passante, della commessa, del dipendente ministeriale.
Di Leda, di Dean. E poi di Ginny, di Harry, di Hugo.
Ed, infine, di Ron.
Lui che, ovviamente, dopo
un po’ ha compreso che ci fosse qualcos’altro oltre alla mia semplice stizza
per il litigio della sera della Vigilia. Ha iniziato a percepire che gli stessi
lontana, che uscissi prima la mattina e rientrassi quando era già a letto, che
mi chiudessi in bagno a restare immobile, ad occhi chiusi, la nuca sul legno
della porta.
Però, come sempre è stato
e come sempre sarà, attende in silenzio, una ruga continua ai lati delle labbra,
mentre mi guarda sopra i bicchieri della tavola apparecchiata, nello spiraglio
della porta rimasta accostata, nel riflesso all’indietro dello specchio.
Attende che io parli, mi
spieghi, esploda.
Ed io lo faccio: ma non
con lui.
Prendo di nuovo pergamena
e piuma, scavo le lettere nella carta, incido e scolpisco, inveisco e minaccio.
Scrivo ancora a Draco
Malfoy, aspettando di nuovo la busta aperta e la lettera non toccata, forte
della ragione che mi danno le supposizioni di Tatia Krasova, Helder Bode ed
Ilariy Radcenko.
Io
ho un problema, Ron, non sei tu, sono io.
E
già mi sento quelle frasi idiote da film stucchevole, già ti metto in una
parentesi senza esponente dove condannarti, chiuso, a non capire, a non sapere,
a non immaginare.
Perché
non voglio che mi aiuti tu, mio marito.
Voglio
che mi aiuti lui, e non so il perché.
In tutto questo, la cosa
peggiore che potesse accadermi è, ovviamente, l’ennesima riunione famigliare,
cosa che mi sarei evitata con un raffinato giro di scuse, se non fosse che si
tratta del compleanno di Fred jr, da sempre la ricorrenza preferita di Hugo di
tutto l’anno, persino più del Natale.
Al compleanno di Fred,
infatti, suo padre George ha la precipua tendenza a provare tutti i Tiri Vispi
Weasley ancora in fase di sperimentazione, coinvolgendo i nipoti in una specie
di gara al massacro che si conclude quando qualcuno, tendenzialmente io, inizia
ad urlare alla vista di una testa che rotola sulle scale di casa o di un enorme
luccio che spara vernice argentata sulle pareti.
Se quindi già di umore
normale, la festa di Fred mi ridurrebbe allo stremo mentale e alla voglia di
gettarmi sotto un treno in corsa per risparmiarmi l’agonia, figuriamoci quanto
possa essere entusiasta se sono in questo stato pseudo catatonico e se, come se
non bastasse, imperterrita ho scritto nuovamente a Malfoy pochi minuti fa,
ricevendo stavolta una busta nemmeno aperta, intatta come quando l’ho spedita.
Il mio senso di colpa di
madre, però, che ha trascurato Hugo e continua a farlo in virtù di una foresta
di fantasie sconvolte e polverizzate dalla mia ragione, mi impone alla fine di
alzarmi in piedi e, meccanicamente, un passo dopo l’altro, comandarmi una serie
di piccoli ordini semplici da portare a termine. Adesso, alzati dal letto Hermione. Finisci di vestirti, scegli qualcosa
che ti fa sentire a tuo agio, ecco, camicia glicine e pantaloni grigi. Allunga
la linea nera dentro l’occhio come se ci avessi messo cura a fingere uno
sguardo più profondo. Indossa il braccialetto con le iniziali dei tuoi figli,
accarezzale piano come se fossero la pelle dietro le loro orecchie, la sera,
mentre dormono e li baci ignari nel loro letto. Annoda i capelli adesso,
Hermione, tira indietro le ciocche ribelli.
Respira,
a lungo, nella sciarpa grigia, fino a quando non sarai pronta.
Rimetti
il sorriso sul viso, quello tirato che conoscono tutti, ma che nessuno oserà
contraddire.
Ma
soprattutto, Hermione, seppellisci il segreto: e cioè che, ormai, non sei più
tu.
La
moglie, la madre, la nuora, la professionista, l’amica.
Mettiti
addosso quelle sembianze e gioca a convincere che siano le tue, anche se non è
così.
Perché,
in pochi attimi, sei cambiata così tanto da essere un’estranea per tutti.
Compresa
te stessa.
Quando arrivo alla Tana, stranamente
mi rendo conto che potrebbe persino essere una bella serata: per ovviare
infatti ai nostri frequenti scatti nervosi e crisi isteriche per gli scherzi
dei ragazzi, quest’anno George ha pensato bene di costruire una sorta di serra
gonfiabile, insonorizzata ed a prova di infortunio, dove i nostri figli si
possano divertire senza per questo condurci alla follia.
Appena arrivo vengo subito
dirottata in casa, dove i miei suoceri e cognati sono seduti in salotto accanto
al camino, che proietta ombre lunghe color rubino contro le pareti mentre
l’aria si satura di odore di resina e ambra. Gli unici assenti sono Percy e
Audrey e naturalmente Cora, sempre poco coinvolta nelle ricorrenze famigliari.
Stranamente manca anche Harry, ma Ginny mi rassicura brevemente parlando di non
meglio identificate magagne all’ufficio Auror. Intercetto lo sguardo di Ron non
appena metto piede nella stanza salutando tutti, e con una nuova sferzata ostile
di vergogna per il mio comportamento assurdo di questi giorni, decido di
andarmi a sedere accanto a lui, azzardandomi anche ad allungare una mano per toccargli
il braccio ed attirare la sua attenzione con un gesto di affetto. Ron mi
restituisce uno sguardo acquoso, annegato in un sorriso luminoso: le sue dita
si chiudono repentine sulla mia mano, serrando forte. Gli sorrido cauta in
risposta, lasciando che mi attiri verso di lui e mi baci la tempia con dolcezza
ritrovata.
Sempre più decisa a
godermi la pace del focolare, accetto la tazza rossa sbeccata dove Molly mi
serve un eggnog che, da esperienza decennale, so essere così alcolico da
rendere infiammabile persino l’alito, senza contare che ha l’indice glicemico di
un’intera pasticceria nel periodo dell’Avvento. Mi tengo persino in gola le
rimostranze sul fatto che sia una bevanda natalizia e che, se Molly ci mettesse
più attenzione, si potrebbe evitare di produrne in quantità tali da
propinarcelo fino ad agosto. Rivolgo un sorriso riconoscente alla sua mano
nodosa e lo sorseggio piano, in silenzio, godendomi le chiacchiere tra i miei
parenti, trovando persino divertenti le battute, interessandomi agli aneddoti
nuovi e ai pettegolezzi recenti.
Stasera è Fleur in vena di
chiacchiere, agita le lunghe braccia magre come un mulino a vento, al ritmo
della foga del suo discorso. Ha il viso rosso, chiazzato sulle guance lisce di
seta, mentre ripete con la voce strozzata: “Quella commessa era… obscène!”.
“Ancora con questa storia,
Flo?” la riprende incolore Bill, osservandola di sbieco e restituendo un’alzata
di spalle all’indirizzo di George che, cautamente, deve aver chiesto
spiegazioni.
Fleur, per nulla
intimorita, agita i pugni in alto, aprendo la bocca e guardando Bill
profondamente offesa, come se non credesse che lui non sia furibondo come lei.
La osservo dal basso della mia tazza sbeccata, chiedendomi come faccia ad
essere sempre così perfetta, persino in un momento di ira pura, persino con gli
stivaletti ornati di pelo nero, persino con un maglioncino con la stampa di
fiocchi di neve: io sembrerei una specie di pesce palla in posizione di
combattimento.
Fleur, invece, agita la
chioma bionda e travolge gli astanti di un profumo gentile di rosa, in tutto e
per tutto ancora identico a quello della ragazzina mezza Veela che entrò in
Sala Comune per il Torneo Tremaghi. Persino Ron la guarda ancora come quel
giorno, imbambolato e infatuato, gli occhi che strabuzzano spesso; poi sbatte
le palpebre, scuote il capo ed annienta la magia remota del sangue della moglie
di suo fratello. Osservo la scena indifferente, preoccupandomi però di
aggrottare le sopracciglia a fingere il fastidio che mio marito si aspetta,
mentre Fleur con sussiego riprende: “Bien
sur, ci mancherebbe che non lascio perdere, stiamo parlando di Diagon
Alley, non di un negozietto di periferia qualunque, inconcevable!”.
Comprendendo di essere più
o meno la sola a non conoscere l’episodio, viste le facce rassegnate dei miei
parenti, mi affretto a chiedere compita, lo zabaione che mi incendia la gola e
mi costringe ad un colpo di tosse: “Cosa è successo?”.
Bill precede la moglie che
resta a bocca spalancata come un luccio all’amo, prima di scoccargli
un’occhiata infastidita: “Victorie ha fatto un giro per Diagon Alley qualche
giorno fa assieme a Flo, per farsi un’idea dei vestiti da sposa. Insomma, ne
aveva addocchiato uno… ma…”. Bill sospira a lungo cercando l’ispirazione per
continuare, probabilmente indeciso tra un tono neutro che farebbe innervosire
Fleur ed uno estremamente drammatico che però sarebbe una forzatura.
A togliergli le castagne
dal fuoco interviene Ginny che, con il consueto schiocco schietto di lingua,
sciorina velocemente: “… ma quando ha chiesto se poteva essere allargato per il
matrimonio a maggio, la commessa ha avuto una specie di crisi puritana e
mistica, appena ha capito che Victorie è incinta”.
Naturalmente il viso di
Ginny ed il fatto che rotei gli occhi come se fossero pale eoliche, mi porta
automaticamente a soffocare una risata dentro l’eggnog, cosa che mi porta
comunque ad un principio di asfissia, visto il contenuto alcolico dello stesso.
“Connaissez-vous?” mi chiede accorata Fleur, convinta di poter
ricevere da me una qualche forma di empatia comprensiva che, evidentemente,
manca al resto della famiglia. Ron, quasi esortandomi a fingere una risposta
qualsiasi, mi stringe la mano con le dita due volte come un segnale telepatico.
Gliela stringo a mia volta, comprendendo il messaggio subliminale.
“Flo, il francese…” la
riprende bonariamente Bill grattandosi la nuca “Dubito che alla vecchiaia mia
madre diventerà bilingue”.
Molly fa un enorme cenno
di assenso, borbottando qualcosa sottovoce che però non impensierisce
minimamente Fleur che, agitando la mano in un nobile gesto da aristocratica
decaduta, aggiunge ovvia, accentuando caricaturalmente le parole: “Capisci, Hermione? Era chiaro cosa
volessi dire, Bill”.
Prima ancora che io però
possa rispondere, Molly, probabilmente ancora irritata dall’uso reiterato del
francese, saetta con voce acida: “Devi ammettere però che non è una cosa… ordinaria… che una ragazzina come
Victorie sia incinta e che si sposi”.
Ginny, George e Ron,
presagendo la stoccata sempre precisa per una faccenda che non è mai andata giù
alla loro madre, si sbattono le mani sulla fronte con una così contemporanea e
sincronizzata rassegnazione, da spingermi ancora ad una sincera risata che, di
nuovo, annego nello zabaione, fingendo di prenderne un ulteriore sorso.
“Dèchets, sciocchezze, pardon…”
asserisce Fleur, incrociando le braccia con fastidio “La professionalità dove è
finita in questo sciagurato paese? Era così… horrible… era semplicemente gelosa di Vicky… quella racchia…”.
“Per questo però non ti è
servita la traduzione” commenta Ron, gettando un’occhiata traversa a Bill e
George che, naturalmente, rispondono con uno sguardo di intesa.
“La vostra lingua ha il
pregio di avere insulti più… pregnanti”
risponde Fleur scontata ed altezzosa, sistemandosi una piega del maglione.
“Oh credimi…” riprende
George compito e serio “Si è sentita la pregnanza”.
L’assoluta
imperturbabilità di George si traduce in uno scoppio generale di risate, che
contagia persino Molly e Fleur.
E’ un attimo così
rilassato e spontaneo che, come una specie di filo rosso stracciato, mi sento
congiunta di nuovo a tutta la mia famiglia. Mi sento di nuovo al mio posto,
come se mi fosse appartenuto da sempre: tutti gli altri pensieri ruggiscono
come folate di vento fuori dalla finestra, come la pioggia che cade a grandi
gocce sui vetri, senza poter tangere l’interno. La mano che Ron stringe nella
mia, è calda, morbida. Sa delle prime uscite dopo la guerra, quando tutto il
mondo sembrava di nuovo nostro. Mi sembra un tempo adesso più vicino, profumato
di una vita che resta ancora dentro di me, senza andarsene davvero. Senza
andarsene via, come ho pensato nelle ultime settimane.
Con un pizzico di dolcezza
strabordante nel petto, porto la sua mano alle labbra, ne bacio le nocche
chiuse. Ron, sorpreso, mi sorride piano e mi accarezza il palmo con il pollice.
A quel punto, notando che
il fuoco necessita di essere rintuzzato ed alimentato con nuova legna, George
si alza per andare a prenderne dell’altra, sollecitando anche Ron e Bill ad
aiutarlo. Mio marito lo raggiunge borbottando, non prima di avermi baciato
ancora. Ginny a sua volta decide di mandare un gufo ad Harry per chiedergli
quando ha intenzione di raggiungerci, mentre Molly sale al piano superiore per
controllare Arthur che è a letto influenzato. Angelina va invece a controllare
i ragazzi.
Resto pertanto da sola con
Fleur che, come me, si avvicina al fuoco, cercando di ricavarne calore.
“Victorie, però, l’ha
presa bene?” le chiedo con un sorriso, i riflessi delle fiamme rendono i suoi
capelli pieni di riflessi di oro rosso “Come sta?”.
“Très bien, Hermione…” mi sorride lei, sembra d’improvviso ancora
più giovane “Merci, è molto felice.
Non… non lo avrei mai detto. E’ forte, fortissima, la mia bambina”.
La sua voce ha un tono
così dolce, da spingermi automaticamente a metterle una mano su una spalla con
un sorriso: “Ne devi essere molto fiera”.
“Lo sono…” assicura lei
sincera “E, per quanto sia davvero il figlio di tutti noi, sono molto fiera
anche di Teddy. E’ un uomo, fatto e finito. E’ un tale… soulagement… sollievo… poterla affidare a lui”.
“Non te ne pentirai mai,
credimi…” la rassicuro con forza, convinta della maturità di entrambi i
ragazzi. Stanno affrontando una prova così grande come una tale resilienza da
poterne rimanere solo ammirati. Ed anche io, a mio modo, come semplice zia,
sono davvero fiera di loro.
Mi guardo attorno con
curiosità, constatando di non averli visti per nulla: “Sono di là con gli altri?
Non li ho nemmeno salutati”. Mi pare strano che, nelle sue condizioni, Victorie
si sia unita ai giochi spericolati dei suoi cugini.
Fleur nega velocemente con
il capo, aggiungendo: “Vicky si è stancata molto in questi giorni, si sono
alzati all’alba per la tumulazione… e
Teddy era molto triste, davvero… volevano stare per conto loro”.
La parola tumulazione, così stonata nell’atmosfera
distesa del momento, mi rimbalza sul costato come una palla di cannone, in
completo disaccordo con il tono assolutamente normale di Fleur, quasi scontato,
banale, ordinario.
Balbettando, la testa
ghiacciata, chiedo stupita: “La t-tumulazione?”. Il fuoco, contro le mie mani
ghiacciate, pare d’improvviso rovente, come se me le squagliasse.
Fleur, non mutando di una
virgola il tono di voce sbiadito, aggiunge con calma spiegando: “Sì, hanno
preferito farla di mattina presto… non tutti lo sanno ancora, così hanno
evitato… journalistes… Rita Skeeter
vagava attorno come un avvoltoio… Mon
Dieu! E’ davvero vero che gli insulti mi vengono meglio in inglese”. Accompagna
le ultime parole con una nuova risata vezzosa che, alle mie orecchie, giunge
troppo stridula, ferendomi i timpani. Sento una vampata di ghiaccio artigliarsi
ulteriormente sulla mia testa, prima che un atroce sospetto raggiunga la parte
cosciente dei miei pensieri.
Allucinata, senza
ulteriori esitazioni, l’afferro per un braccio richiamando la sua attenzione,
prima di domandarle con voce debole: “Fleur… chi è morto?”.
Mia cognata sgrana gli
enormi occhi azzurri, destinandomi una lunga occhiata profonda, tersa come il
mare d’estate. Soggiunge con indifferenza: “Lady
Narcissa Malfoy… pensavo lo sapessi… ho scritto a Dracò questa mattina… era
distrutto, ma è stato molto gentil…
le sue sofferenze sono terminate, povera donna…”.
Lascio il suo braccio come
se fosse appestato, capace di trasmettermi una malattia mortale. Eppure, il
contagio già risale dalle mie dita, rincorrendosi nel sangue, marcendo i
tessuti, mangiandosi il mio cervello. Un secondo, un respiro, ed ogni parola
irosa delle mie lettere torna alle mie mani che le hanno scritte, alle sue che
le hanno aperte, spiandole ed intravedendole in una stanza che sapeva di fiori
e morte.
Ghiaccio, rivoli di sudore
freddo scivolano sulla schiena, senza fiato chiedo assente, quasi incosciente
di me stessa: “Lui… Draco… t-ti ha risposto?”.
Fleur mi destina uno
sguardo fiacco, eppure spalancato di una meraviglia che le sbarra gli occhi
come se fosse sotto una luce intensa: “Poche righe, rien de ça… tu… lo hai chiamato Dracò”.
Il suo appunto mi serra le
spalle, mentre contorco le mani in grembo guardando il fuoco quasi
completamente consumato: “Un r-riflesso i-incondizionato… m-mi dispiace davvero…
i-in fondo…”, non so nemmeno io che cosa dire, cosa non dire, cosa rivelare,
cosa nascondere. Le parole di consuetudine, i luoghi comuni, i convenevoli si
frantumano nella mia bocca cessando di esistere, lasciandoci un sapore farinoso
e nauseante.
Non trovando altro da
aggiungere, mentre ancora gli arti paiono immersi dentro un lago a 0 gradi dove
non posso nemmeno sperare di nuotare, mi alzo in piedi, sorrido a Fleur ed
aggiungo casuale sotto il suo sguardo ancora incerto: “Vado a b-bere qualcosa…
questo maledetto zabaione mi ha prosciugato la gola”.
Non riesco nemmeno ad
impormi un passo disteso, cauto, trasudante normalità, così da non destare
sospetti e domande: corro fuori, incespicando nelle pieghe dei tappeti e negli
stipiti delle porte, il cuore in gola, mentre come la volpe che fugge i
cacciatori, evito le voci, le risate, i passi della gente amata.
Esco in giardino senza
cappotto, senza cappello o sciarpa. Piove, diluvia scrociando dal cielo, grandi
pozzanghere simili a tombe si aprono nel terreno come enormi buchi neri.
Mi piego sulla ringhiera,
aggrappata come una penitente di Quaresima, le pupille dilatate, il respiro
corto come se non avessi fatto solo pochi passi di quiete domestica, ma deserti
di tentazioni e rovi.
La mia testa è una savana
di parole, una dopo l’altra, una dietro l’altra, una più mostruosa dell’altra:
ad ognuna penso che sia la peggiore e che abbia finito di divorarmi, ma con
solerzia ricordo la successiva, ricordo che quel giorno ero ancora più
arrabbiata, ricordo che pensai che era solamente uno stronzo menefreghista,
ricordo che sospettai di nuovo di lui, ricordo che supposi che gli faceva
comodo non risolvere la nostra maledizione perché l’aveva lanciata lui.
Ricordo ogni singola
lettera, sono spine sotto le unghie, chiodi alle costole, frecce nello stomaco.
…
e tua madre moriva in quelle parole, sotto quella mia raffica di insulti.
Cosa
avrai pensato? Mi avrai dato la fiducia di credermi ignara?
O,
vittima del nostro rancore, avrai pensato che non mi importasse? Che
considerassi più importante la nostra stupida maledizione e non il tuo dolore?
Mi
avrai odiato, certo… perché quella sera, ti vidi scivolare contro quella porta,
e non piangere affatto, ma anzi tenerti gli occhi rossi asciutti, tersi,
scintillanti che magari così faceva meno male, straziava meno, diventava una
cosa razionale a cui ovviamente dovevi rassegnarti con una specie di lasciva
consolazione selvaggia ed insapore.
Mi
hai odiato Draco?
Sono
stata lo sfogo di tutto il resto, ad ogni lettera hai spaccato qualcosa? Un
vaso, una cornice con una fotografia, una statuetta di cristallo?
Eri
solo nelle stanze vuote, nelle stanze che arieggiavano e perdevano l’odore di
tua madre?
Ti
sei arrabbiato furibondo con un elfo domestico, imponendogli di lasciare tutto
com’era? O ti sei chiuso a chiave in camera, guardando per ore le crepe del
pavimento?
Ed
in tutto questo, arrivava una mia lettera.
…
all’inizio… le hai aperte tutte, Draco.
Forse…
perché speravi che io…
Quel pensiero mi riporta
in piedi, ansimante, trafelata. Non pare una supposizione, pare legge, dogma,
verità. Non ho dubbi, reticenze, cautele, titubanze. Niente.
La pioggia mi bagna senza
sconti, la ignoro e, con foga, corro sul retro della Tana. Afferro Leotordo,
gli lego un messaggio alla zampa scarabocchiato in fretta per il mio ufficio:
una semplice richiesta che mi ricordino gli orari degli appuntamenti di domani.
Qualcosa
a cui rispondono subito, usando degli Incantesimi automatici.
Il respiro soffocato, il
volto rosso, rientro in casa, gocciolando sul pavimento.
Non mi interessa, non mi
interessa più niente ormai: formicolo come una tarantolata nell’attesa, torno
nel salotto dove la mia famiglia è di nuovo riunita.
Ron mi guarda
interrogativo, con gli occhi mi indica la sedia accanto a lui.
Ma la sedia rimane vuota,
lo sguardo mi resta pietra fusa, sciolta nel fuoco che continuo a fissare,
lontana miglia da qui. Aspettando solo un frullo di ali.
Che arriva, pochi minuti
dopo.
Lascio che tutti vedano il
gufo, lascio che tutti vedano che è diretto a me, lascio che tutti leggano la
mia noia mentre ne leggo il contenuto, rimarcando scocciata: “Leda ha combinato
un altro pasticcio. Devo andare in ufficio… immediatamente”.
Fingo la rabbia repressa
dell’ennesima botta di incompetenza della mia segretaria e, dandovi enfasi,
brucio la missiva nel fuoco del camino, incenerendo il semplice ricapitolo
della mia agenda.
Devo
andarmene subito da qui: subito.
Ho la mente
incredibilmente sgombra, nessun pensiero: saluti frettolosi, qualche moto di
protesta, un bacio di Ron, una serie di raccomandazioni materne, una battuta
scherzosa.
Tutto scivola indifferentemente
fuori dal mio campo visivo, annuisco a tutto senza nemmeno rendermi conto di cosa
sto facendo o dicendo.
Non conta più nient’altro.
Nessun’altro:
torno un attimo in me
pensandolo, sull’uscio di casa, mentre Ron mi ha seguito e, con un afflato di
cupa disperazione masticata sotto le palpebre, mi tiene per un braccio,
guardandomi con un’ombra di lacrime negli occhi azzurri: “Non andare”.
“Non posso” mormoro,
distogliendo il viso da lui, tornando alla pioggia, al cielo nero, alle nuvole
bagnate di luna morta.
Scivolo dal suo braccio,
corro sotto la pioggia, i passi amplificati dal silenzio.
Non
conta nessun’altro: ora, adesso. E d’improvviso so che, non so quando, era così.
Ed
è impossibile, come tutto.
Ma
non mi importa. Nulla importa.
Né
la pioggia, né il cielo, né le case illuminate dal fuoco, né le risate dei
bambini, né i baci dei mariti: non conta più niente.
Sono
tutte paccottiglie di poco valore.
Conta
solo… che devo trovarlo. Devo trovare Draco. Ora, adesso.
Devo
dirti ogni parola che ha cercato nelle mie lettere.
E
che non ha trovato.
Devo
essere con te. Ora, adesso.
…
perché mi fido più di te che di me stessa.
E
perché ogni goccia del mio sangue vuole che sia lo stesso per te.
Perché
so che, non so quando, anche per te era così.
Non
avrebbe saputo descrivere quella sensazione.
Per
quanto interrogasse la memoria, per quanto vagasse alla ricerca di una similare
emozione, Hermione Granger, 36 anni compiuti, non ne trovava nessuna simile nel
suo bagaglio sentimentale: certo, rassomigliava a tantissime cose, ma nessuna
era adeguatamente precisa, ognuna di esse lasciava fuori qualcosa,
delimitandosi come manchevole, ingannevole, difettata.
A
volerle proprio dare un nome l’avrebbe chiamata angoscia: non era nemmeno ansia
che è qualcosa di meno palpabile e ha a che vedere con il cuore, con battiti
furiosi, con respiri mozzicati che davano maggiormente di romanzo e poesia.
No:
era piuttosto angoscia e si coniugava alla perfezione con il sudore che
impregnava i vestiti, gemendo bollente sulle braccia, sulla pianta dei piedi.
Risaliva dalla parte più bassa della schiena e, ad un quarto di pelle alla
volta, guadagnava terreno erodendo la calma, la ragione, persino la coscienza,
perché le pareva di camminare attraverso un sogno, liquido, sottile, nebuloso,
dove ogni cosa era lentissima e le scorreva davanti senza che la potesse
afferrare, mentre perdeva consapevolezza di sé ad ogni passo, come sotto
l’azione di un narcotico che lentamente faceva effetto.
Ed
in tutto questo lei sapeva fare solo una cosa.
Correre.
Credeva
di non saper correre: non era mai stata propriamente un’atleta e, quando erano
nati i suoi figli e si era trattato di recuperarli, i banalissimi incantesimi
di Appello erano stati una manna dal cielo. Di natura aveva un’andatura veloce,
un po’ saltellante, baldanzosa come la bambina che era stata: ma non sapeva
correre, persino in guerra nella maggior parte dei casi c’erano state scope,
draghi o Ippogrifi.
Invece,
in quel momento, correva come se fosse inseguita dal diavolo in persona: non
sentendo niente, nulla di diverso dall’angoscia gracchiante dentro le ossa di
non sapere dove fosse.
Negli
sprazzi rari che miracolosamente preservava di ragione, immaginava scenari raccapriccianti,
era ferito, era morto, era triste, era altrove: e lei non era con lui. E
allora, senza alcun retaggio di affetto che lo spiegasse, le pareva di
impazzire, era lenta, lentissima, doveva sbrigarsi, doveva fare presto.
Doveva
smaterializzarsi, rivolgersi alla Magia, sparire e riapparire come un coniglio
in un cilindro.
Ma
persino quei tre secondi di concentrazione erano troppo, non poteva fermarsi a
pensare per il tempo sufficiente che non era altro che un tempo sottratto,
rubato, scippato al momento in cui poteva dirlo al sicuro. Proseguiva quindi a
piedi, trafelata, accaldata, galoppando sulle pozzanghere come un animale che,
dopo una vita di lazo, conosceva la via libera.
Eppure
diluviava, eppure aveva un aspetto orribile, eppure era zuppa fino al midollo,
eppure il viso le si impastava di lacrime, mascara e pioggia: eppure non
importava.
Avrebbe
voluto pensare che quella era una bella novità, che il suo cervello facesse
cortocircuito e, dissennata, conoscesse una dimensione puramente irrazionale di
sé stessa, dilatata probabilmente dal senso di colpa per aver infierito su di
lui quando era inerme e devastato. Se avesse creduto che fosse questo, non ci
sarebbe stato niente di male.
Ma
assieme all’angoscia, conosceva anche la scomoda certezza che questa, ad un
certo punto della sua vita, fosse stata un’abitudine. Una consuetudine. Una
ricorrenza. Un loop continuo nutrito di centinaia di episodi.
Perdere
ogni controllo della ragione quando si trattava di lui, di Draco Malfoy.
E
se ci pensava, era peggio: lei, più di Harry e Ron, era sempre stata
profondamente obiettiva con Malfoy. Quando mai era stato così? Non era mai
accaduto.
Ed
allora era di nuovo tutto inedito: correre, cercarlo con il cuore in gola,
terrorizzata di non trovarlo. Spiare le luci accese, le finestre spente, le
porte chiuse, gli scuri accostati, e non trovarlo.
In
un punto molle, incerto, dentro, sentire che, se non lo cerca lei, non lo cerca
nessuno, evapora dal mondo, si liquefà e nessuno se ne rende conto se non lo
salva lei.
E
di nuovo i pensieri sono dorati: oro come di occhi di gatto.
In
realtà, Hermione Granger, 36 anni, in quel momento pensava molto poco: e meno
lo trovava, e meno pensava. Tutto questo lo avrebbe pensato dopo, ere dopo.
In
quel momento, pensava solo che lui non c’era, non era lì ed annegava in quel
pensiero.
Cercò
in ogni posto dove pensava potesse essere, ogni posto che lui potesse chiamare
casa.
Non
lo trovò.
Quando mi Smaterializzo
nella strada di casa, sono le due del mattino e non ha smesso un secondo di
piovere. Le strade sono deserte, mezze allagate, abbandonate persino da
tassisti e barboni. Risuonano solo tuoni ed echi di pioggia. Sollevo pigramente
il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che, ancora, la pioggia
mi cada addosso senza che provi minimamente a metterci un freno.
Del resto sarebbe
abbastanza inutile: il cappotto nero è completamente fradicio d’acqua, senza
parlare del cappello, della sciarpa e persino della mia camicia.
Sono talmente stravolta
però che non sento nemmeno freddo, mi trascino senza alcuna fretta per i pochi
passi che mi separano da casa mia. Non ho alcuna voglia di entrare, non ho
nemmeno voglia di cambiarmi i vestiti zuppi, farmi un bagno, prepararmi una
tisana.
Non ho voglia di fare
assolutamente nulla, se non restare fuori sotto la pioggia persino per tutta la
notte: il pensiero mi spaventa non poco, esaurito il sacro fuoco che mi animava
fino a pochi minuti fa. Accelero quindi il passo, scuotendomi mentalmente e
preparandomi ad una nuova serie di scuse, qualora Ron sia ancora sveglio. Non faccio altro che inventare scuse oramai.
Non crederà mai alla storia dell’ufficio se mi vede in questo stato. Certo,
posso asciugare i vestiti, posso rassettare i capelli, posso raccontare di Leda
e del tormento che mi dà.
Incrocio il mio sguardo
nel lunotto posteriore di una macchina parcheggiata, sono gli occhi che non posso nascondere più. Nel riflesso, con una
fitta cupa di terrore, non riconosco il mio viso: è terreo, consumato, quasi
scavato, magrissimo e trasparente tutt’un tratto. Le palpebre pesanti, gli
occhi sono cerchiati, fatico a tenerli aperti. E sono vuoti, distanti, persi.
Solo
perché non ho trovato Malfoy.
E
perché non sapevo che era morta sua madre e l’ho assillato per giorni.
La cosa sembra minuscola a
pensarla, ma è un tonfo continuo a percepirla. Ancora, non so che volessi da
lui, se chiedergli scusa, se confortarlo, se controllare come stesse. Non lo
so.
E, ancora, non mi
interessa, fosse pure un effetto di questa maledizione. Non l’ho trovato da
nessuna parte e tanto importa: Malfoy Manor, Ministero, laboratorio
pozionistico, cimitero, casa di Zabini, casa della Parkinson, casa di Nott,
casa di Goyle, casa dei Greengrass senior, persino casa di Bill e Fleur,
qualora fosse andato da Teddy. Ho cercato in ogni posto che mi venisse in
mente, ma non è da nessuna parte, sebbene al Manor c’erano sia sua moglie che
suo figlio.
Protetta dal Mantello di
Harry, trafugato ancora di nascosto, ho visto Astoria entrare nella camera
della compianta Narcissa e ciarlare ad alta voce su come utilizzare quella
stanza, ingiungendo ad un elfo domestico di “far sparire tutta la robaccia di quel cadavere ammuffito”.
L’ho Schiantata da sotto
il Mantello, fuggendo due secondi dopo. Non penso che mi abbiano scoperto, ma
anche se fosse, sarei persino capace di vantarmene a voce alta: è una donna
orribile. Si merita ogni bernoccolo che le è venuto fuori.
Il panico nel non
trovarlo, alla fine, si è accucciato in una specie di inerzia: ho passeggiato
pigramente nel parco deserto, osservando la pioggia che tratteggiava i coni di
luce tra gli alberi, finché con un enorme sforzo ho deciso di tornare a casa.
Quando arrivo di fronte
alla mia palazzina, la osservo a lungo come se celasse una sorta di segreto,
una macchina passa a tutta velocità, urtando una pozzanghera e finendo per
infangarmi ancora di più i piedi. Ancora, non ci do minimamente peso, nemmeno
per insultare lo sconosciuto pirata della strada. Ogni forza vitale pare
succhiata via e drenata dal velluto nero della notte.
Le finestre sono tutte
spente, nessuna testimonia che qualcuno sia sveglio: spero quindi che Ron sia a
letto o, ancora meglio, che sia rimasto dai suoi, pronto a lamentarsi con i
suoi parenti della sua sempre assente moglie. Non c’è alcuna acredine nel mio
pensiero, spero davvero che sia così e non solo per non incrociarlo, ma anche
perché merita uno sfogo qualunque alla malinconia indefessa che sembra essersi
così acclimatata al suo sguardo ogni volta che incrocia il mio.
Allo stesso modo, spero
con quella sorta di licenziosa condiscendenza che noi genitori riconosciamo
all’infanzia, che nemmeno Hugo sia qui o che comunque non sia granché accorto ed
impensierito della mia assenza. Imposto già il mio passo come fluido, silenzioso,
quatto, sebbene sono certa che, se sono in casa, comunque finirò per svegliare
almeno mio marito con tutte le mie manovre, dovendo quindi spiegare qualcosa
per cui, come sempre da un po’, ho solamente scuse, bugie e frottole, nessuno
straccio di verità.
La
verità non la voglio sapere nemmeno io del resto: non c’è niente di sano e di
normale in questa “cosa” in cui mi sono trasformata.
Attraverso la strada a
passi lenti, aprendo con cautela il cancelletto di casa, cercando di non farlo
cigolare nel silenzio completo: ovviamente, indisciplinato, esso stride come le
unghie su una lavagna. Lo richiudo con rabbia, attendendo il clic metallico.
Percorro il breve
vialetto, constatando che anche a casa di Harry è tutto tranquillo. Mi chiedo
se lui è tornato in tempo per la festa di Fred, se Ginny gli ha detto che sono
andata via per lavoro, se lui allora ha aggrottato la fronte con una vena di
sospetto, o se invece è stato come sempre accomodante, giustificandomi e
difendendomi all’indirizzo della platea famigliare.
Sospiro a quel pensiero, ed io gli ho rubato di nuovo il Mantello
dell’Invisibilità.
E
per cosa, poi?
Faccio appena in tempo a
cominciare a pensare a come restituire domani il Mantello senza che i miei
cognati se ne accorgano, che improvvisamente nel silenzio scrosciante della
notte, noto qualcosa di diverso. Di strano, di stonato. Come una specie di presenza impossibile da ignorare che schiaccia tutto
il resto contro le pareti, annichilendolo. I miei sensi si mettono subito a
caccia dell’intruso, individuando un’ombra sotto il portico di casa mia che, al
mio approssimarsi all’ingresso, si deve essere risollevata in piedi.
Con una punta di nervosismo,
afferro la bacchetta dalla tasca del mio cappotto, non penso nemmeno per un
secondo che si tratti di Ron, l’ombra è troppo alta perché si tratti di lui. E
non è nemmeno nel suo stile attendermi sull’uscio; piuttosto sarà a letto,
orecchie scarlatte, a fingere sbuffando di dormire. Potrebbe essere uno dei
soliti ubriaconi che, da un pub vicino, poco lucidi e privi di freno si
intrufolano nelle proprietà altrui. Non è certo la prima volta che ne Schianto
uno.
L’ombra si muove ancora, scende
un paio di gradini, rimanendo poi immobile, quasi in attesa, dandomi
l’implicita conferma che aspetti proprio me e che quindi la sua permanenza
nella mia proprietà non sia casuale.
Un calore condensato al
basso ventre come la puntura arroventata di un’ape e fulmineo, istantaneo, come
una specie di intuizione che non so da dove venga fuori, il braccio lascia
cadere la bacchetta che atterra con un tonfo sordo in una pozzanghera, accanto
alla corda che Hugo usa per saltare.
Il cuore mi batte in gola
come se effettivamente mi fosse salito quasi alle labbra.
La pelle del mio collo si
tende cercando di trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli
occhi corrono lungo il viale d’ingresso che porta a casa mia. Non è molto
lungo, poco distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora
più avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a
borbottare.
Solo la luce di un
lampione mi permette di distinguere qualcosa.
Un’ombra, solo un’ombra immobile,
sotto il portico di casa mia.
Un’ombra che può essere
tutto e può essere niente.
Un’ombra inghiottita dal
buio.
Un lampo brusco la rende
del tutto evidente ai miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i
confini. Ma il lampo non ha nulla della delicatezza sobria del lampione, è uno
squarcio aperto nella memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e
l’anima.
In un secondo mi dà
un’immagine netta e precisa, poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso del
lampione e della notte torbida.
D’improvviso, sento tutto, torna ogni stralcio di sensazione
seppellita nella narcosi della corsa: è una notte fredda, ghiacciata, solo un
paio di gradi sopra lo zero. Gli abiti sono completamente bagnati, ho una
ciocca di capelli zuppi che si è infilata nella nuca, sotto il cappello, gronda
gocce d’acqua lungo la schiena, facendomi rabbrividire ad ogni respiro. Le
calze nelle scarpe sono anch’esse bagnate, fanno un rumore strano quando
cammino. Mi viene da starnutire. Ho il fiatone, si condensa in volute di vapore
davanti al mio viso arrossato. Ho il naso gelido, le labbra ruvide si spaccano
per il freddo. Sono esausta, nelle gambe i muscoli sono tesi fino allo spasmo, sembrano
corde di un violino ben accordato, ad ogni movimento minuscolo mi trafiggono
come lame di metallo. Tuona, lampeggia, il cielo vomita pioggia ininterrotto,
crudele, rapace.
Sento daccapo tutto, come
se fossi stata addormentata da quando Fleur ha parlato, sonnambula nella sua
ricerca spasmodica in ogni angolo della città. L’assurdità della cosa mi si
ripropone innanzi, vedo dall’esterno il mio aspetto e so che è terribile,
indecente, vergognoso.
Il viso mi avvampa di
calore, penso che sicuramente ho il naso arrossato dal freddo, i capelli a nido
di vespa, l’aspetto di una derelitta: sento di nuovo la cura propriamente
femminile di non sentirmi a posto, al meglio.
Alla fine sento anche la
sua voce, rompe nel silenzio come un tuono, sebbene sia acuta, acidula,
sgraziata. Non pare la sua. Ci conto ogni lacrima repressa dentro, le sento una
ad una. Le distinguo in ogni oscillazione delle lettere delle parole, per come
tremano, galleggiano, ondeggiano, si smorzano quasi. Ha la nettezza di un urlo,
ma è solo un sussurro al cianuro, velenoso, amarognolo, tenuto a malapena fermo:
“Eccomi, Granger, dannazione. Hai finito con le tue lettere?! Hai finito?! Eccomi, maledetta strega
idiota. Eccomi, parla, parla
maledizione. Che cosa diamine vuoi?”.
Draco finisce di parlare e
chiude i pugni lungo i fianchi, mastica le labbra, non mi guarda più. Piange
solo della pioggia che cade, la insegue con gli occhi, la sfugge
socchiudendoli, la rincorre di nuovo tornando a me e la benedice per mettermi a
distanza, muro d’acqua e vento.
Le sue parole arrivano
alle mie orecchie soffuse, incerte, vittime addormentate di qualcosa che non
capisco: ed anche se ci sento la rabbia, il dolore, la furia a cui vorrebbe
destinarmi, di nuovo non importa. Forse sento d’improvviso che non è vero,
sento che sta mentendo, sento che voleva solo una scusa: o forse sento che la
privazione finisce, sento che è qui, Draco è qui, ce l’ho davanti, è qui, sotto il portico di casa mia, ed
è bagnato dalla testa ai piedi, trema nel cappotto grigio, digrigna i denti, è qui, e ha ancora gli occhi asciutti e
rossi, ha i pugni chiusi, le labbra bianche che si mangiano tra loro. È qui, ed è piccolo piccolo, come un
ricordo lontano di un bambino biondo su un’altalena dentro un sogno, ha le
spalle piegate, curve, si spezza, si accascia ad ogni respiro, si piega sul mio
portico, è qui, la mia porta di casa
è lì dietro, e dietro ci dorme mio marito, mio figlio, dormono tutti e due, e
lui è qui, l’ho trovato, mi ha trovato, mi posso mangiare le parole che gli ho
detto, me lo posso ingoiare una per volta, veleno e fiele, e prendermi un po’
del dolore suo, farlo mio, addormentarglielo nel petto, cucirmelo nelle ossa
così se ne dimentichi un po’, sparisca, svanisca: penso tutto questo, in ordine
sparso.
Ma penso solo una cosa, in
fondo, solo ad una.
E’
qui, l’ho trovato: Draco è qui. E
mi sveglio tutta a me stessa in quel pensiero, nel sollievo che è miele,
balsamo, medicina. E svegliarmi significa solo che corro, di nuovo, daccapo,
anche se sono pochissimi passi e, quindi, per il contraccolpo, gli faccio forse
anche male.
Gli corro contro, addosso,
gli corro incontro, distinguo solo per un attimo i suoi occhi grigi che si
spalancano sgranati, perle e diamanti che si inseguono nella pioggia che
scende: ma è un attimo, un attimo solo, un attimo minuscolo.
Lo abbraccio, lo stringo a
me come se temessi che mi sfuggisse, come se temessi che me lo strappassero
via, come se temessi che scappasse di nuovo, quindi la mia stretta è forte,
soffocante, da mancare il respiro e farlo bloccare nel petto. Incrocio le
braccia attorno alle sue spalle che tremano ancora un po’, è più alto di me, lo è sempre stato, e quindi affondo il
viso nello spazio tra le clavicole, sotto il suo collo. Ha un odore buono, di
pioggia e di erba bagnata, anche se piove dappertutto, niente ha questo
profumo, penso che lo riconoscerei dappertutto, dovunque. Ed anche se come me è
completamente bagnato, il suo corpo è caldo, incomparabilmente caldo.
Non assomiglia a niente di
ciò che ho conosciuto fino a questo momento, eppure ha qualcosa di
incredibilmente familiare, ridondante: le mie braccia sanno istintivamente la
lunghezza della linea delle sue spalle, sanno stringerle e cingerle senza
spigoli. Le mie dita sanno intrecciarsi tra loro sulla sua nuca, lasciando i
gomiti tesi a mettere distanza che vorrebbe solo essere riempita, ma che lascia
che lo faccia lui. La parte finale della mia schiena sa la forma delle sue mani
su di essa, se mi spingesse contro di lui, anche se adesso non lo fa.
Sussulto, tremo, resto a
respirare nel suo collo, in quel punto tenero dove sento echi del cuore, fischi
del respiro, rimbombi della gola. Mi coglie una fiacchezza indolente che mi
chiude gli occhi, come se la stanchezza della notte fosse tutta lì, adesso.
Draco resta rigido,
immobile, come una statua di sale. Non accenna a nessun movimento, non fa
niente, per un momento pare persino che non respiri. Vedo ancora con una parte
della mia mente i suoi occhi aperti, spalancati, come due fari accesi nel buio.
Come una sorpresa. Come una certezza.
Quale delle due cose sia, non lo so nemmeno io. È lo stesso anche per te?
Temo che mi cacci da un
momento all’altro, temo di disgustarlo, temo che mi scuota bruscamente e mi
mandi via, e allora piango, singhiozzo nel suo petto quelle lacrime che non gli
ho visto piangere. Mi affanno a spiegare, a spiegarmi, a farmi capire. La mia voce contro il suo petto è
nuova, è vecchia, è antica, è un mistero sussurrato diluito dalla pioggia:
sebbene pianga a grandi lacrime, è ferma, scolpita, altisonante. Bisbiglia
direttamente alle costole, allo sterno, al muscolo palpitante che pompa il
sangue.
“M-mi dispiace, mi
dispiace Draco, mi dispiace. I-io, io non sapevo di tua madre, mi dispiace. Ti
tormento da giorni, da settimane… e tu… e tu i-invece… nessuno… nessuno m-mi ha
detto nulla. Nessuno. M-mi dispiace… m-mi dispiace. Solo stasera… solo
s-stasera Fleur me lo ha detto… per c-caso… è stato un c-caso. E sono venuta… a
c-cercarti… è tutta la notte che…”. Inghiottisco le ultime parole, l’improvvisa
immagine di me folle, pazza, che corro a cercarlo sotto la pioggia in ogni
posto che conosco, mi annebbia la vista cieca, occhi chiusi, palpebre serrate
nel suo profumo.
Draco, che è rimasto
inerte da quando l’ho stretto a me, ad un tratto si irrigidisce, raddrizza la
schiena, diventa più alto, immenso, superiore. Promana qualcosa che, come
un’onda rovente, mi fa vedere di nuovo dall’esterno, abbracciata, stretta a
lui, in quel modo così saldo da non avere precedenti con nessuno nella mia vita
che non conoscessi meno che a menadito.
Arrossisco furiosamente
come una stupida adolescente, vittima del mio stesso annebbiamento, e ringrazio
per poco di essere invisibile ai suoi occhi perché lui, con una delicatezza
dolcissima che mi spinge di nuovo a sentire gli occhi pungere, mi stacca il
viso da sé per potermi guardare negli occhi.
Le palpebre mi ballano
sotto il peso della pioggia battente, ma lo vedo finalmente bene in viso: colgo
ogni segno del dolore che gli taglia a fette l’espressione, deformandola e
scavandola. Vedo quelle rughe più profonde, vedo i segni dei giorni in cui non
ha mangiato, vedo il peso di quelle lacrime che non piange. Ma gli occhi no,
gli occhi sono brillanti, vivaci, sembrano schegge d’argento. Hanno persino un
fondo di malizia, mentre la sua mano resta ferma sul mio viso a trattenermi, un
pollice sotto il mento a tenerlo alzato.
D’un tratto, mi studia, mi
guarda come non ha fatto prima, come non so se abbia mai davvero fatto. Non
così, non con quegli occhi che cercano, scavano, cercano ancora. Aggrotta le
sopracciglia, si raggrinzisce lo spazio in mezzo agli occhi. Vede il trucco
colato sulle guance, i capelli bagnati, le labbra raggrinzite che sanguinano, i
vestiti completamente zuppi. La fronte si spiana, ripiana, liscia, e di nuovo
gli occhi si spalancano, sgranano, gli sfugge un sospiro che casca sulla mia
bocca, sa di menta e limone, inconsciamente socchiudo le labbra, me lo faccio
scivolare in gola. Mi guarda ancora, pare non crederci ancora a quello che sta
per dire, le dita roventi sul mio viso freddo hanno un fremito, solleticano
quasi la pelle, mentre sussurra meravigliato, attonito, perso: “Sei venuta… a
cercare me, Granger?”.
Accentua quel me come se lo staccasse dal resto della
frase, lo tratta da pronome ininfluente, indegno, miserrimo. Mentre lo
pronuncia, la pressione gentile delle dita sulla mia guancia diventa più salda,
gli occhi perdono quasi la presa dei miei, paiono lontanissimi.
Per un attimo, non riesco
a rispondere, non riesco a dire nulla.
Resto immobile, occhi nei
suoi, solo con la pioggia nelle orecchie.
Dentro, come un cercatore
di tesori, mi riprendo il me che lui
ha buttato fuori così, come se fosse una cosa poco importante: me lo incastono
fisso in un margine nascosto di me stessa.
Poi allungo la mano a
coprire la sua, ancora poggiata sul mio viso, ed annuisco piano con il capo.
Non riesco a vedere la sua
reazione, sparisce davanti ai miei occhi.
Altre immagini sostituiscono
la sua vista: ma non scompare.
E’
di nuovo lui, altrove.
Mi si
stringe il cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi
passi che mi dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo
folle e disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.
Posso curare le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno
male e che possa riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo
e imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello
prevedibile di Dean.
Posso starti vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche
se sai quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte.
Ma mi imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo
di silenzio, se me lo dovessi chiedere.
Posso continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere
te accanto, nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso
vivere così per sempre, anche avendo solamente te e Serenity e
considerarmi comunque la donna più felice del mondo.
Posso prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.
Ma ti prego, Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò.
Oppure lo stesso non ti capirò, ma ci sarò lo stesso.
Ti prego non piangere più…
“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa
bassa, i suoi singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.
Lo scrollo piano, cercando di richiamare la sua
attenzione, ed è allora che, in un secondo velocissimo, che mi afferra a sua
volta per il pigiama, aggrappandosi saldamente a me, ma con troppa forza.
Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.
Mi ritrovo seduta per terra, lui che piange su di
me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio di slancio, allacciandogli le
braccia attorno alle spalle, sentendo che sto piangendo anche io,
senza un perché, per il solo fatto che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime
scivolano sul raso del mio pigiama e vorrei che invece le assorbisse, le
trattenesse fino a farle sparire, fino a cancellarle, fino a quando lui stesso
non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a
fare qualsiasi cosa purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a
respirare se stai così. Ti prego, Draco.
Quando
le immagini scompaiono, il contraccolpo stavolta è così intenso che mi pare di
essere risucchiata via da una sorta di vortice, come se mi tirassero le braccia
e le gambe in due direzioni differenti: mi aggrappo alla manica del cappotto di
Draco, chiudendo gli occhi e cercando di frenare le vertigini e la nausea che,
come da veneranda tradizione, mi sta sconquassando lo stomaco. Con la visione
periferica che preserva un lieve spiraglio dalle mie palpebre socchiuse, vedo
Draco che, a sua volta, si regge alla mia spalla, stringendola piano, affondando
le dita nella trama umida dei miei vestiti, cosa che mi dà conferma che per
l’ennesima volta ha vissuto anche lui la stessa cosa.
“E’
successo di nuovo…” bisbiglia la sua voce sofferta e incerta, travalicando di
poco il suono della pioggia, le sue dita hanno un sussulto sulla mia spalla che
si trasmette ai miei nervi, facendo formicolare tutto il mio braccio fino alla
punta delle dita.
Quando
giudico la mia testa abbastanza incardinata in sé stessa da non farmi perdere
l’equilibrio, mi azzardo ad aprire gli occhi con cautela, respirando
profondamente. Tutt’attorno non è cambiato niente, è ancora la stessa strada di
casa, la stessa porta con la corona di bacche rosse ed il fiocco arancio, il
vento culla la pioggia e la soffia sul mio viso di fredde frecce ghiacciate:
eppure, stranamente, tutto pare slavato, sbiadito, come quando cala una patina
appiccicosa sugli occhi e si deve sbatterli a lungo, più e più volte, per far
tornare la visione limpida.
Pare
tutto il retaggio rigido e offuscato di un’allucinazione, mi sembra di
galleggiare sulla melassa.
Come
già precedentemente era avvenuto, i colori e i suoni della visione o del
ricordo o del maleficio o di quello che dannazione è, sono invece nitidi,
intensi, vividi e, per effetto plastico, anche quello precedente che ho
rivissuto la notte di Natale sembra acquisirne calore, splende più netto nella
mia testa come una specie di puntino luminoso.
Non
mi concentro sul suo contenuto adesso, sbatto di nuovo le palpebre per far sì
che la lanugine visiva passi e tutto torni reale, concreto, tangibile come
sempre è stato. Pare un’immagine sintonizzata male, come una specie di film
dato su una rete televisiva dal pessimo segnale.
La
sola cosa che, come prima, come adesso, come in ogni luogo, è chiara e
distinguibile, è il viso di Draco Malfoy, lievemente abbassato sul mio, attento
a scrutare ogni espressione del mio viso, compresi i tentativi di strabuzzare
gli occhi e vedere in modo pulito.
Lo
guardo a mia volta e la limpidezza nitida del suo sguardo mi riaggancia in me
stessa, facendomi respirare daccapo.
“E’
successo un’altra volta…” ripete con voce sottile, la mano sulla mia spalla
stringe un po’, rabbrividisco incerta e mi passo una mano nei capelli bagnati,
lasciando la manica del suo cappotto. Nello sguardo che mi mette in disordine
la testa, leggo un sottofondo subliminale che non faccio fatica a riconoscere
in quelle iridi che quasi profumano, è la sola persona al mondo che ha uno
sguardo che profuma di qualcosa.
Non
sta pensando solo che è la seconda volta che ci succede questo strano fenomeno.
No.
Sta pensando che, anche
in quel ricordo, ero con lui e mi prendevo il suo dolore, facendo di tutto
perché non restasse solo a lui, ma venisse un po’ via con me.
Cerco
di ignorare tutto il resto, mi sento troppo ingolfata per analizzare il
contenuto delle immagini e farne delle supposizioni a riguardo: i miei occhi si
incanalano diligenti al presente, al suo viso smagrito, agli occhi gravati
dalle palpebre viola, ai vestiti che pendono bagnati e disordinati, come se li
portasse da giorni.
Torno
con la testa alle mie lettere, dove gli ingiungevo che non c’era nulla di più
importante di questa maledizione che ci aveva colpito: adesso voglio che sappia
in ogni modo che non è così.
Perciò,
estrometto dalla mia testa ogni traccia della visione e dico convinta,
sollevando il mento e guardandolo dritto in viso: “Adesso non dobbiamo pensare
a questa… cosa… qualsiasi cosa sia… da quanto non mangi? E dormi
decentemente?”.
Draco
sbatte le palpebre, si stacca da me rapido e fulmineo, per poi fissarmi come se
fossi una specie di bestia strana, il capo piegato di lato. La cosa mi
intenerisce e mi riporta alla mente quella strega di sua moglie che ho
Schiantato solo poche ore fa.
Provo
di nuovo un’acuta soddisfazione al pensiero della Greengrass carponi sul
pavimento, lui non sa nemmeno che cosa significa che qualcuno si prenda cura
di lui. Astoria Greengrass può vincere il titolo di Moglie dell’Anno per sedici
anni consecutivi.
Questo stupore ne è la
prova evidente.
Il
suo sguardo mi mette in imbarazzo, facendomi sentire a disagio e ricordandomi
che sono ancora davanti alla porta di casa, con lui di fronte, mentre mio
marito probabilmente è dentro con nostro figlio. E pochi minuti fa l’ho
abbracciato e stretto forte, piena di sollievo per averlo trovato.
Distolgo
lo sguardo da lui, allontanando i capelli bagnati dalla faccia e borbottando: “Se
vuoi, se non è troppo per la tua regale Maestà… in ufficio… ho qualcosa da
mangiare e… persino una brandina”.
“Dio,
Granger…” mormora lui con la voce incolore che però si tinge di un lieve velo
divertito “E’ un’offerta davvero allettante… sono così patetico
al momento da accettarla… pensa un po’ te quanto questa sia davvero una
circostanza eccezionale… di vita o di morte…”.
Mio
malgrado, sorrido al buio, non riuscendo ancora a guardarlo in viso.
Prima
di Smaterializzarmi seguita da lui, faccio in tempo a distinguere poche parole.
Gli
sfuggono rapide, nervose, veloci, così che possa darmi modo di fingere di non
averlo sentito.
“Sei
disgustosamente buona… Hermione… vorrei esserci abituato…”.
Sorrido
di nuovo, nello strappo che mi lacera all’altezza dell’ombelico.
Le
consonanti e le vocali del mio nome, nella sua voce, sono un suono inedito.
Ma,
di nuovo, sapevo perfettamente come le avrebbe pronunciate, prima ancora che lo
facesse davvero.
E quel modo di
pronunciare il mio nome, non penso lo dimenticherò mai.
Hermione
Granger, 36 anni, lo aveva guardato tutta la sera come se fosse un alieno, come
se fosse una specie di extraterrestre biondo che si muoveva tra le sue cose,
apparendo estraneo alle cose più comuni come se non gli fossero mai appartenute,
come se vivesse in una dimensione diversa e distante dove quelle cose fossero
pratiche indistinte di vetusti costumi dimenticati.
Il
tratto distintivo del viso, sotto quel dolore e pena che erano come uno spesso
cerone che ricopriva i lineamenti soffocandoli, era un continuo ed ingenuo stupore
meravigliato: stranamente silenzioso, prosciugato dal lutto l’eloquio
sarcastico e velenoso, la seguiva con gli occhi grigi frastornati per i passi
che lei disseminava nell’ufficio, fingendo indifferenza e normalità, quando
invece sentiva la nuca, la schiena, il cuoio capelluto, perforati e punteggiati
da quello sguardo di acciaio.
Seduto
nella piccola brandina che lei utilizzava per riposarsi qualche ora a pranzo,
affondava quasi nel materasso che non era null’altro che una sfoglia di lana rancida;
impettito, con la schiena diritta a testimoniare un perdurante senso di distacco
dalla situazione, Draco Malfoy non mollava mai però quegli occhi di tempesta
rappresa, puntati sui gesti di lei.
Spontanei,
immediati, naturali, come se le appartenessero da sempre, come se ci fosse nata
dentro senza alcuna premeditazione o scatto di volontà.
Se
ne accorgeva anche lei, di istinto, mentre gli riscaldava della zuppa che aveva
preparato per il giorno dopo e pensava in modo automatico che, grazie al cielo,
non ci aveva messo le carote, dato che chissà per che motivo era certa che le
odiasse.
Forse
lo aveva captato ad Hogwarts, ma era un mistero perché lo ricordasse ancora.
Quando
si voltava a guardarlo, Draco Malfoy tratteneva una sorta di spasmo al centro
esatto del torace, chiudeva freneticamente le falangi sottili sul colletto
della camicia che portava sotto il maglione, come a liberare la gola da un
improvviso calo di ossigeno.
Gli
indicò il piccolo bagno se avesse voluto farsi una doccia, e di nuovo la sorprese
l’intimità di quella domanda come se non fosse che per anni si erano bellamente
ignorati: lui, grato, accettò e lei, con eguale gratitudine, ringraziò
mentalmente che non commentasse a riguardo.
Gli
asciugò gli abiti umidi con la bacchetta mentre era sotto l’acqua, comprendendo
che avrebbe rifiutato qualsiasi indumento avesse tirato fuori e che avesse
sospettato essere di Ron. Tirò fuori una coperta di lana che Molly le aveva
portato quando aveva scoperto che si addormentava spesso in ufficio. Finì di
riscaldare la zuppa e prima di appoggiarla sul tavolo accanto alla brandina, si
sincerò che non fosse troppo bollente o troppo fredda o troppo salata, come
avrebbe fatto con suo figlio. Si sedette lontana, distante, a gambe incrociate
sul pavimento, fingendo di leggere dei documenti, così che lui non traesse
eccessivo intralcio dalla sua presenza, qualora ogni tanto si ricordasse di
come si era ridotto per essere lì, con lei.
E
qualora volesse piangere: sicuramente non voleva essere visto in quello stato.
Difatti,
doveva aver pianto sotto la doccia, lontano dalla sua vista: diede la colpa con
un moto sbiadito di sarcasmo a quel “bagnoschiuma da mezza sterlina che sembra
acido muriatico”, ma Hermione sapeva che non era per quello che aveva gli occhi
rossi, gonfi. Accettò l’insulto alzando solo gli occhi al cielo, non doveva
aver pianto fino a quel momento, era felice che comunque si fosse riuscito a
lasciar andare.
“Era
la sola donna che io abbia mai amato… e che mai amerò…”.
Lo
disse così, come una specie di fulmine a ciel sereno: quando Hermione Granger,
attonita, distolse lo sguardo dal documento che comunque non stava leggendo,
Draco Malfoy stava mangiando la sua zuppa, serafico, apparentemente come se non
avesse mai parlato.
Avrebbe
detto solo questo su sua madre: e lei avrebbe trattenuto ogni parola che voleva
rispondergli per rassicurarlo, per dirgli che aveva ogni destino per poter
amare ancora.
Sapeva
che non era così e, giunti a quella inconsueta confidenza, era eutanasia non
mentire. La moglie era una stupida sciocca vanesia, da cui non avrebbe potuto
divorziare per non perdere suo figlio. Era anche sterile, quindi non poteva
avere da lei alcuna figlia da ergere a donna della sua vita. Non aveva sorelle,
cugine, probabilmente nemmeno amiche, se quella sera era lì.
E
comunque, travalicando le madri, le mogli, le sorelle e le figlie,
difficilmente poteva dare etichette di amore assoluto ad un’altra donna, visto
che pareva non essersi mai innamorato prima, sebbene sicuramente non gli
fossero mancate amanti di qualsivoglia tipo.
Provò
ancora quel sentimento inesauribile di tenerezza, compassione, pena, come una
specie di guizzo caldo che si contorceva nello stomaco. Non fece nulla, però,
sapeva che non avrebbe accettato nient’altro di tale senso nei suoi confronti.
Non
voleva ispirare pietà, non aveva voluto mai farlo.
“Credo
che accada quando… ci tocchiamo…”, stavolta fu lei a sorprenderlo, le parole
vennero fuori da sole per combattere quel silenzio fondo, intenso, rotto solo
dalla pioggia contro i vetri. La supposizione si era annidata nel tessuto del
cervello come un tarlo benefico, nato apposta per distrarla da tutto il resto,
compreso il nuovo ricordo fasullo.
Draco
Malfoy strinse le palpebre in un moto di riflessione, poggiò il piatto vuoto di
nuovo sul tavolino e annuì piano, pensosamente, con il capo. Aggiunse poi,
casuale, soffice, l’impronta innegabile di quella nuova intimità che smussava
le parole delle frasi: “… succede quando ci tocchiamo le mani… ci siamo
sfiorati anche in altri momenti… ma non è successo”. Le restituì uno sguardo curvo,
storto, obliquo, piegato dalle palpebre che ancora la scrutavano, la
sezionavano, la analizzavano come un mistero buffo.
Lei
si strinse nelle spalle, annuì, voltò il viso dall’altra parte: certo, ovvio.
Quando
lo aveva abbracciato, non era successo nulla.
Lui
suggerì di sperimentare subito la nuova teoria, lei ebbe una sorta di moto
istintivo di ribellione che la fece arrancare alla ricerca di una scusa,
dicendo che era tardi, che erano stanchi, che lui doveva riposare, che ne
avrebbero avuto tutto il tempo.
Per
tutta la risposta Draco Malfoy, da qualche ora un po’ più simile a sé stesso di
quanto non fosse stato da qualche giorno a quella parte, si alzò in piedi, le
si sedette di fronte sul pavimento, il volto enigmatico e privo di espressione.
Le porse deciso il palmo della mano, ingiungendo severo: “Muoviti Granger… sono
in cordoglio… non ho tempo per sopportare la tua ritrosia”.
Hermione
Granger, 36 anni, guardò quella mano bianca, dalle dita affusolate, immacolata
come se fosse fatta di neve, le pareva di guardare il serpente che, nel
giardino dell’Eden, offriva la mela ad Eva: pareva una tentazione marcia,
proibita, eppure la vedeva dolcissima, inerme, una specie di sfizio goloso da
togliersi velocemente e non pensarci più.
Si
ricordava adesso, senza nemmeno volerlo, la grana di quella pelle, il suo
calore, lo spazio preciso tra le dita, l’odore pulito che sarebbe rimasto sulla
sua: e con un afflato selvaggio che avrebbe definito la risposta alla sua
provocazione, tese il braccio, il viso aggrottato in un’espressione di sfida, e
poggiò la propria mano sulla sua, non lasciando un secondo i suoi occhi grigi,
terribili, inesausti.
Lui
fece in tempo solo a sospirare, a socchiudere lievemente gli occhi, a
racchiudere nella sua mano, più grande, le dita affusolate di lei. Ed accadde,
ancora.
“La smetti?!” urlo, rossa in volto per la rabbia e
la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth quello che mi pare e piace!”.
Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le scale, ma, come era
prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il polso, costringendomi a
girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi a due fessure, volendo
fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe innervosire troppo, i
miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio polso. Non mi sta facendo
male, non mi dà fastidio, è solamente… appoggiata… lui sembra accorgersi del
mio sguardo e si stacca da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.
Si
staccarono ancora, come se fossero fuoco e ghiaccio, respirando a fatica. Ed
ancora Hermione Granger ebbe la scomoda sensazione che più le visioni fasulle
le entravano nella testa, più il mondo circostante perdeva definizione,
consistenza, pareva un cartonato di ombre.
“Bene…
dunque basta che non ci tocchiamo più le mani…” concluse Draco Malfoy con
ferocia, alzandosi in piedi e tornando alla brandina, non guardandola più.
Lei
rimase immobile, seduta ancora per terra, la mano ancora tesa verso un vuoto
che era la schiena che lui le dava, disteso, il volto contro il muro.
Come
poco prima, alla Tana, anche adesso non riusciva più a restare un secondo di
più in quella stanza, i cui colori, odori e rumori si diluivano come tempera
nell’acqua. Vide il suo riflesso nel marmo del suo ufficio e, finalmente, dopo
ore in cui si era concentrata solamente su di lui, tornò a sé stessa, agli
occhi stanchi ed infossati, alla mancanza di sonno, allo stomaco vuoto, ai
vestiti che le si erano alla fine asciugati addosso facendola tremare di
freddo, ai capelli spettinati e crespi, a Ron che non sapeva dove fosse, ad
Hugo che tra qualche ora avrebbe fatto colazione senza di lei.
Rimise
addosso il cappotto, il cappello, la sciarpa grigia, non lo guardò nemmeno,
uscì dal Ministero nella notte che iniziava a cedere il passo all’alba.
Una
caffetteria era già aperta, lasciò un messaggio in segreteria a Ron scusandosi,
bevve un lungo caffè nero bollente, mangiò una girella alla cannella, ignorò
ogni affacciarsi dei ricordi falsi nella sua testa e non fece più alcuna
supposizione a riguardo.
D’altronde
aveva ragione, bastava non toccarsi più le mani: nel chiarore grigiastro,
osservò le sue dita contrarsi e riaprirsi come un fiore carnivoro.
Rientrò
in ufficio quando era certa che Leda fosse già arrivata e che, di conseguenza,
Draco Malfoy aveva lasciato il suo nascondiglio di comodo per tornarsene a casa
sua.
Chiese
alla segretaria di non passarle alcuna telefonata per qualche ora, si chiuse a
chiave, si distese esausta sulla brandina, un braccio a pesarle sugli occhi,
mentre respirava con la bocca, come in apnea, per non sentire il profumo
lasciato di lui che era un continuo schiaffo, molesto, alla sua stupida
ingenuità di averlo voluto aiutare.
Quando
si voltò su un fianco, la mano urtò la superficie liscia e candida di un foglio
di carta.
Non
voleva farlo, non voleva: eppure, cieco il mondo, quando nessuno poteva
vederla, sorrise, si tirò diritta in piedi, sperò. E si fidò, di nuovo, di lui.
Non
sapeva fare altro.
Non mi importa
nulla di queste visioni, Granger, e non mi importa nulla di cosa dicono la
profetessa, l’empatica e pure il professore di Hogwarts. Sono un fottuto
scherzo idiota di qualche imbecille: e di conseguenza, visto anche il mio stato
mentale precario al momento, mi piacerebbe davvero sorvolarci su.
Posso vivere senza
sapere che cosa diamine siano: non è importante.
Ma, stranamente,
quello che penso io è sempre il contrario di quello che pensi tu, Granger:
guarda, non lo avrei mai detto, conoscendoci.
Ed anche quello
che fai tu, Granger, è il contrario di quello che farei io.
E tu stanotte hai
fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché, grazie a Merlino,
non sei come me.
Ti devo almeno
questo e poi saremo pari, dannata strega.
Se per te è così
importante, verrò con te ad Hogwarts.
E verremo fuori da
questa storia.
Prendilo come il
favore che ti dovevo: e se obietti dicendo che ti sei già fatta una scarozzata
non gradita nella mia testa, ti Schianto all’istante.
DM
Anche
lui si fidò, di nuovo, di lei.
A
quanto pare, anche lui non sapeva fare altro.
NOTA FINALE: Come sempre, grazie a chi è ancora qui
e a chi c’è sempre rimasto.
Il capitolo 50, salvo imprevisti, sarà pubblicato
il 3 marzo 2019.