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Autore: Rosmary    04/02/2019    4 recensioni
(Questa storia partecipa come edita al contest Chi ben comincia è a metà del prologo indetto da BessieB sul forum di EFP)
È il primo Natale dalla fine della seconda guerra magica: un'eredità inaspettata regalerà ai protagonisti un rifugio lontano dagli odori insopportabili della morte, in cui ogni cosa sembra divenire nuova e possibile.
"Hermione delle volte pensava che vi fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quel bisogno, ma spaventata allontanava il pensiero da sé all’istante e s’imponeva di dimenticarlo."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Famiglia Weasley, Fred Weasley, Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Fred Weasley/Hermione Granger, Ron/Hermione
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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Accettavano i peccati, si perdevano comunque

Il baccano aveva sempre avuto un effetto balsamico su Fred, riusciva a quietarlo e a distrarlo come niente altro al mondo – schiamazzi, risate fragorose, schianti erano quanto di meglio potesse esserci quando il suo umore brancolava nel buio. Le persone normali, lo sapeva bene, nei momenti peggiori esigevano tranquillità e silenzio, ma Fred era tutto fuorché una persona normale. Una persona normale, infatti, non avrebbe intrapreso una pseudo-relazione clandestina con la fidanzata di un proprio fratello. Una persona normale, inoltre, che a causa di fatalità si ritrova invischiata nella suddetta pseudo-relazione non avrebbe agito in continua contraddizione con se stessa. Una persona normale preda di una tale situazione, infine, avrebbe fatto una valutazione razionale, agito di conseguenza e perseverato nella propria scelta. Ma siccome Fred Weasley non era una persona normale, non solo era stato contraddittorio e irrazionale durante il soggiorno alla baita, ma appena giunto a Londra aveva inviato un gufo a casa di Hermione.

«Quindi, sei a casa o no?»

Il contenuto della missiva era stato a dir poco stringato, Fred non si era neanche firmato, convinto che lei non avrebbe avuto alcun dubbio sull’identità del sintetico mittente. E in effetti Hermione non solo non aveva avuto dubbi, ma aveva anche ripagato il ragazzo con la sua stessa moneta.

«Sì.»

Il monosillabo era riuscito a far sogghignare Fred, ammirato dinanzi allo stoicismo bugiardo di Hermione. Le aveva risposto, a modo loro.

«Va bene.»

A Hermione era sfuggito uno sbuffo divertito leggendo quella risposta. E, stupidamente, si era ritrovata a tracciare con l’indice destro le linee di inchiostro scritte da Fred, immaginando la piuma stretta tra le sue dita scorrere rapida sulla pergamena, così rapida da lasciare ineducate gocce di inchiostro ai margini della carta. A quel punto, se almeno Hermione fosse stata una persona normale, avrebbe interrotto l’inutile corrispondenza e utilizzato quei pochi giorni che la separavano dal rientro a Hogwarts per chiarirsi con se stessa e con le proprie emozioni. Ma siccome neanche Hermione Granger, checché ne dicessero, poteva vantare di essere una persona del tutto normale, aveva intinto la piuma nell’inchiostro e aveva risposto di nuovo.

«Bene che vada bene.»

La notte era calata sull’Inghilterra senza che né l’uno né l’altra se ne avvedessero, rapiti da quello strambo gioco che aveva costretto il povero gufo dei Tiri Vispi a volare da una finestra all’altra – Fred, a un certo punto, aveva chiamato in causa il gufo di riserva, permettendo a un ormai nervoso e affamato Pix di rifocillarsi.
Entrambi i ragazzi avevano accumulato cinque o sei stringate missive sulle proprie scrivanie. Hermione si era barricata in camera, con lo sguardo orientato alla finestra chiusa, in attesa che Pix tornasse a bussare contro il vetro ancora una volta. Fred, immerso nel baccano che gli restituiva il buonumore, aveva trascorso la giornata alternando lo sguardo tra la finestra nei pressi del bancone e i clienti che affollavano i Tiri Vispi.
Alla fine, era stato lui a interrompere la comunicazione, smettendo di risponderle quando anche il secondo gufo aveva iniziato a beccargli le mani innervosito. Dall’altra parte, Hermione si era addormenta con ancora indosso gli abiti del viaggio e con il volto in direzione della finestra.

*

“Hermione, ti ricordo che abbiamo la cena con gli zii questa sera, non tardare.”

L’ammonimento di Jean infastidì non poco la strega, abituata com’era a gestire le giornate sulla base delle proprie necessità e dei propri desideri. Tuttavia, annuì in direzione della madre e si smaterializzò, piombando dritta dritta in pieno centro magico: Diagon Alley.
Malgrado le festività fossero ancora vivaci, la strada non pullulava di persone serene e gioiose. La gran parte avanzava a gruppi, presumibilmente famigliole o amici, con passo svelto e aria guardinga; in ogni gruppo, notò Hermione, c’era almeno una persona con la bacchetta alla mano. I negozi di Diagon Alley erano tutti vinti dalla penombra e dal silenzio, alcuni erano ancora chiusi o addirittura distrutti, solo i Tiri Vispi di Fred e George spiccavano in tutto quel grigiore: insegne colorate, clienti che s’affollavano all’interno e la radio ad alto volume.

Hermione sorrise prima ancora di entrare.

“Buongiorno, signorina Granger, posso esserle utile?”

Verity l’aveva avvicinata prima che Hermione potesse chiudersi la porta del negozio alle spalle. Contraccambiò il sorriso gentile rivoltole dalla commessa e con un cenno di diniego la congedò.
Come accadeva spesso dalla fine della guerra, in tanti le rivolgevano saluti o semplici occhiate curiose, fatto che permise a Fred di notare nell’immediato la sua presenza.

“Ma guarda, sono più attratti da te che dalle pasticche vomitose,” salutò Fred.

“Così sembra,” rispose mesta Hermione.

“Cosa ci fai qui?”

“Voglio regalare una puffola pigmea a mia madre, magari col pelo marroncino, così può dire che si tratti di un incrocio tra un criceto e… non so… qualche altro roditore,” improvvisò.

Fred sogghignò, infilando le mani nelle tasche. “Signorina Granger, temo che le puffole pigmee dal pelo marroncino siano un pelo inesistenti. Le assegnerei volentieri una T, mi creda, ma sono un uomo perspicace e so che se blatera sciocchezze è solo per non ammettere di essere qui per visionare il nostro articolo migliore: me.”

Hermione sorrise divertita, senza preoccuparsi di smentire né confermare la supposizione del ragazzo che le era dinanzi. Fred allora le prese la mano e la guidò rapido tra scaffali e clienti sino ad arrivare al bancone della cassa, dove una folla non troppo paziente aspettava di pagare i prodotti scelti.
Hermione seguì in silenzio e interessata l’interfacciarsi di Fred con i clienti. Era molto svelto e cordiale, rivolgeva sorrisi a ognuno mentre incartava gli acquisti e incassava i galeoni. E ognuno contraccambiava quei sorrisi amichevoli: i bambini con occhi ammirati e splendenti, le ragazze con sguardi maliziosi e ammalianti, gli adulti con espressioni benevole e allegre. Era come se quel luogo fosse stato immune alla guerra, un’oasi di pura pace in cui trovare riparo sempre, in ogni tempo.

“È sempre così?” chiese Hermione tra un incasso e l’altro.

“Anche peggio,” rispose Fred, “il fatto che non ci sia George non aiuta a velocizzare le cose.”

“Se vuoi posso aiutarti.”

Fred le indirizzò un’occhiata stranita. “Lo faresti? Tu? Qui?”

“Cosa c’è di così strano?”

“Non sei una grande fan dei Tiri Vispi, e non è un mistero.”

“Ma sono attenta e precisa, posso gestire senza alcuna difficoltà la cassa.”

“Capisco, è la secchiona che è in te a scalpitare!”

“Oppure un’amica che vuole esserti utile.”

Fred incassò con un sorriso amaro la parola amica, ma non rifiutò l’offerta di Hermione. Anzi, le sfiorò con un fugace bacio la fronte e la spinse al proprio posto, dinanzi alla folla impaziente e alla cassa ghiotta di monete tintinnanti. Hermione, stordita dall’inaspettato gesto, non tardò ad avvertire un’onda di gratificazione e calore quando comprese che lui aveva scelto di fidarsi di lei e affidarle, sia pure per poco, una piccola fetta del suo amato progetto imprenditoriale. Poco dopo, infatti, Fred era già tra gli scaffali per aiutare Verity, sereno come non lo era da giorni.

“Stanca?”

“Per niente.”

“Annoiata?”

“Neanche.”

“Allora ti è piaciuto!”

“Ora non esagerare, Weasley.”

Fred sogghignò e Hermione distolse lo sguardo da lui – d’improvviso in imbarazzo. Il negozio aveva ormai chiuso i battenti, Verity era andata via da un po’ e loro due, rimasti soli, avevano svolto le azioni di fine giornata che in genere Fred condivideva con George. Non senza stupore, Hermione aveva constatato di essere stata a proprio agio in ogni più insignificante istante di quella giornata, da quando il campanello d’ingresso ne aveva annunciato l’arrivo sino all’ultimo zellino conteggiato nell’incasso giornaliero.
Ora che le luci erano più fioche e il silenzio regnava sovrano, l’imbarazzo sfacciato che l’aveva sorpresa a tradimento non accennava a diminuire, e anzi si univa a una sgradevole sensazione di colpevolezza per essersi precipitata da Fred – come se Ron non esistesse.

“Non avrei dovuto raggiungerti,” disse più se a se stessa che a lui.

“E io non avrei dovuto scriverti,” aggiunse Fred. “E tu non avresti dovuto rispondermi, poi.”

Il tono canzonatorio e l’espressione sghemba furono sufficienti a far capire a Hermione che lui non era affatto d’accordo con quella sorta di ammissione di colpa.

“Dovrei tornare a casa, abbiamo ospiti a cena.”

“Sono le nove passate, la cena sarà già iniziata.”

“Un motivo in più per affrettarmi.”

“Un motivo in più per restare,” corresse lui. “Resta,” proseguì, “non succederà niente, fidati di me.”

Hermione lo fissò attenta. C’era irrequietezza in lei, e sfiducia – nei riguardi di se stessa, non di Fred –, e la paura di accettare quell’invito. Tuttavia non poté fare a meno di accettare quando Fred le strinse le mani nelle sue e le sorrise amichevole, senza alcuna malizia.
Alcuni istanti dopo erano all’esterno di un locale babbano di Londra, seduti su una panchina con un panino al bacon tra le mani. Il freddo di gennaio non era il migliore amico di una cena all’aria aperta, ma nessuno dei due aveva osato proporre un ristorante o, peggio, la casa di Fred. Di comune e tacito accordo avevano preferito trascorrere quella serata nel luogo meno intimo possibile.

Così si erano ritrovati nel caos serale londinese, circondati da gruppi chiassosi di amici e di coppie in cerca di riparo. Le strade, ancora addobbate a festa, erano splendenti di luci artificiali e il cielo privo di nubi prometteva un indomani altrettanto luminoso. Il viavai di gente riusciva a rilassare entrambi, che tra un boccone e l’altro chiacchieravano come se fossero stati due semplici amici senza un passato turbolento né un futuro da ricostruire.
Per la prima volta dalla fine della guerra, nessuno dei due tremava sotto al peso dei ricordi più indicibili – il dolore, la rabbia, la paura erano sensazioni lontane e sfocate.

“Quindi questa è la tua giornata tipo,” disse Hermione.

“Più o meno,” replicò Fred, “in genere non mi congelo su una panchina in centro babbano, ma devo ammettere che questo posto è carino, i babbani non sono male.”

Hermione gli sorrise. “Babbani e maghi non sono poi così diversi!”

“Non l’ho mai pensato,” ammise, “non dimenticare con chi stai parlando, ragazzina, sono il figlio di Arthur Weasley, il re delle papere di gomma!”

“E delle domande imbarazzanti,” s’accodò lei ridendo. “Tu non immagini neanche cos’ha chiesto a mio padre!”

“Di fare il bagno con la papera?!”

“Non proprio,” rispose mesta, arrossendo anche un po’.

“Ora sono decisamente curioso!”

“Ehm, ecco… gli ha chiesto cosa fosse un… un preservativo.”

Il rossore di Hermione e il suo sguardo che vagava ovunque eccetto che su Fred fecero immaginare al ragazzo che si trattasse di un oggetto molto imbarazzante – forse scabroso – di cui i babbani erano abituati a non parlare. Una sorta di tu-sai-chi babbano, insomma. Il problema era che lui di questo tu-sai-chi non sapeva proprio niente, né ricordava di aver mai sentito o letto quella parola da qualche parte. Si ritrovò così ad aggrottare la fronte nel vano tentativo di apparire comprensivo – immaginò che ridere fosse fuori luogo – e di camuffare la totale ignoranza sull’argomento.

“Ehm,” iniziò Fred dopo un po’, “davvero… davvero fuori luogo, ecco.”

“Infatti!” reagì subito Hermione, “l’ho pensato anche io.”

Fred annuì, certo di aver trovato l’argomentazione giusta. Il problema però restava: cosa accidenti era questo tu-sai-chi? Doveva svelare l’arcano. “Allora, tuo padre cos’ha risposto?”

“Ha riso, era convinto che tuo padre scherzasse. Insomma, un uomo adulto e sposato lo sa,” disse sicura. “Certo, forse i sette figli sono un indizio del contrario,” soppesò pensierosa.

Il boccone di Fred, all’ultima considerazione di Hermione, sbagliò decisamente traiettoria e costrinse lui a tossire.

“Fred! Tutto bene?”

“Sì… sì… devo solo bere qualcosa… torno subito.”

Hermione, che era pronta a porgli la bottiglia d’acqua comprata in precedenza, lo guardò stranita, ma immaginò che aver rischiato di soffocare lo avesse mandato in confusione.
In realtà, Fred ne aveva profittato per rientrare nel locale, comprare una di quelle famose burrobirre babbane che Lee tanto adorava e svelare l’arcano del tu-sai-chi, così da tornare da Hermione e proseguire la conversazione senza apparire idiota come suo padre – non aveva ancora capito perché, ma Hermione era convinta che lui fosse a conoscenza di questo misterioso e indicibile aggeggio babbano.

Peccato che a frantumare il suo piano perfetto fosse lo stesso barista, che, al pari del padre di Hermione, rise della domanda e gli consigliò di portare altrove il suo senso dell’umorismo. Più che irritato, Fred fece ritorno alla panchina senza burrobirra babbana e risoluto ad avere risposte.

“Hermione,” disse quando tornò da lei. “Cosa accidenti è un preservativo?”

Hermione strabuzzò gli occhi e rinunciò ad addentare il panino – Fred non stava scherzando. “Non lo sai? Come puoi non saperlo?” chiese con voce stridula.

Fred, che iniziava a irritarsi, si sedette di nuovo accanto a lei, distese il braccio sulla spalliera della panchina così da tamburellare le dita sul legno all’altezza dell’orecchio di Hermione – nel chiaro intento di manifestare impazienza – e aggrottò la fronte. Infine, un più che plateale sbuffo rispose alle domande stridule della ragazza.

“Sbuffare non è una risposta,” notò lei.

“Invece lo è,” ribatté sfrontato.

“Sul serio non lo sai?”

“No. Non sono a conoscenza del tu-sai-chi babbano.”

“Il cosa?!”

“Beh, la versione babbana del colui-che-non-deve-essere-nominato. Tuo padre ha riso in faccia a mio padre, e il barista ha riso in faccia a me. Tu arrossisci quando lo nomini. Mi sembra di capire che sia una cosa da non nominare.”

Hermione avrebbe dovuto apprezzare il tentativo di Fred di dare una spiegazione logica a quella serie di equivoci, ma riuscì solo a ridere di gusto – come suo padre e il barista –, riuscendo per la prima volta nella storia a irritare Fred Weasley con una risata. Lui, infatti, smise di tamburellare con le dita sulla spalliera della panchina e le allungò alla treccia di lei, facendole scappare un “ahi” tra le risate.

“S-scusa… davvero,” disse Hermione, singhiozzando un po’ nel tentativo di smettere di ridere. “Solo che pensavo… sì, pensavo… che tu lo sapessi, ecco!”

“Quando avrai smesso di divertirti alle mie spalle, gradirei una risposta,” incalzò Fred, seppure un’ombra di sorriso stesse per affacciarsi sul suo volto. Aveva visto di rado Hermione così spensierata, e ogni volta era con lui. Si chiese se fosse davvero un proposito così egoista volerla per sé.

“Hai ragione, ora ti spiego. Il tu-sai-cosa serve a evitare di avere brutte sorprese quando due persone hanno un rapporto… intimo. In parole molto povere, protegge la coppia da malattie e… e da gravidanze. Capisci, ora?” domandò mesta, e di nuovo tutta rossa in volto. “Io pensavo… sì insomma… ero convinta che tu… avessi già… sì insomma… e quindi sapessi… hai capito.”

Dopo un attimo di silenzio, imbarazzato da un lato e pensieroso dall’altro, fu la volta di Fred di scoppiare a ridere, cosa che lo costrinse a piegarsi in due sulla panchina. Quando, rinvenuto, spiegò a Hermione che i maghi usassero un semplice incantesimo a tale scopo e che per tale motivo né lui né suo padre né qualsiasi altro Purosangue potesse essere a conoscenza della controparte babbana, Hermione si sentì profondamente stupida e ingenua per non essere giunta lei stessa a una conclusione tanto ovvia.

“Questa conversazione imbarazzante è stata illuminante, però,” disse Fred, riempiedo il silenzio in cui erano piombati. Hermione lo fissò senza capire e lui, magnanimo, ghignò e proseguì. “La tua ignoranza in materia suggerisce che tra te e Ron non ci sia stato ancora niente.”

“E questo sarebbe illuminante?”

“Decisamente,” rispose. “Non ne parlate neanche, altro elemento a mio favore.”

“Non è una gara, Fred.”

“E allora perché mi sento in competizione con lui?”

Rotta. Né infranta né rovinata, l’atmosfera era rotta. Le ultime affermazioni di Fred furono letali per Hermione.
Perché in quelle ore trascorse in sua compagnia, Hermione s’era illusa che tutto fosse stato accantonato, che potessero condividere una semplice amicizia, che potessero essere solo il fratello e la fidanzata di Ron. S’era illusa di poter passare un colpo di spugna sulle proprie colpe e il proprio tradimento, sul sudiciume che il profumo di Fred le aveva cucito addosso quando l’aveva sfiorata per la prima volta.

S’era illusa di poter affrontare il proprio demone e vincerlo.
E non lo capiva, che Fred s’era illuso quanto lei. Illuso che cercarla fosse stato un tentativo di riparare al danno fatto, di mettere via l’imbarazzo e la tensione che s’erano cementati tra loro, di redimersi agli occhi ignari del fratello minore dimostrando di poter relazionarsi con Hermione senza fare un passo falso.

S’era illuso di poter affrontare la propria debolezza e vincerla.
Ma avevano appena perso entrambi – e la sconfitta pendeva su teste chini e sguardi colpevoli, su mani tremanti e corpi scossi dal torpore del gelo.

“Non lo sei,” sussurrò Hermione, “non lo sei mai stato.”

Le parole giunsero dopo alcuni minuti – pesanti e bugiarde – e schiaffeggiarono Fred, che ancora seduto su quella panchina s’avvicinò a Hermione e le afferrò le spalle, affondando i polpastrelli nel tessuto del pesante cappotto. Lo sguardo, calato all’altezza di quello della ragazza, era incattivito da bugie che – lo capì completamente in quell’istante – non era più disposto a sopportare.
Perché non solo non poteva essere l’altro, ma non poteva neanche essere nessuno per lei, né lo voleva. Una consapevolezza nutritasi nell’inconscio e giunta finalmente allo scoperto – una consapevolezza che Fred scelse di accettare.

“Perché sei venuta da me?”

Hermione deglutì, sapeva che prima o dopo le avrebbe posto quella domanda, era inevitabile. Ciò nonostante era comunque spaventata dall’unica risposta che avrebbe potuto dargli; l’ipotesi di mentirgli, in quella circostanza, era quantomai remota – e Fred fiutava le bugie prima che lei potesse scaraventargliele addosso. Scelse allora una strada alternativa sia alla bugia che alla verità: l’attacco.

“Perché mi hai scritto ieri? Sei stato incoerente.”

Fred sbottò in una risata senza allegria. “Incoerente. Questa è bella.”

“Lo sei,” incalzò Hermione a denti stretti. “Lo sei stato sin dall’inizio. Un giorno sì, l’altro no, l’altro ancora forse e poi di nuovo sì, no, forse. Se non è incoerenza questa...”

“E tu cosa sei, Hermione, una persona coerente?” insinuò con impertinenza.

“No,” ammise lei. “Ho commesso molti errori in questi giorni. Troppi. E sì, sono stata incoerente anche io… Ma almeno ho il buon gusto di ammetterlo.”

“Non hai capito niente.”

S’alzò in piedi, privandola del calore del suo corpo. Hermione avvertì subito il gelo abbracciarla, rabbrividì su quella panchina e si strinse ancora di più in se stessa, fissando lo sguardo sulla schiena dritta di Fred. Dentro di sé ripeteva l’accusa rivolta a entrambi, negando persino ai pensieri l’ardire di etichettare in maniera diversa da incoerenza le sensazioni impazzite che li tenevano in pugno – aveva paura.
Intanto, intorno a loro il baccano sembrava essere diventato inesistente, come se fossero piombati soli in una dimensione fatta di niente. Umori e sensazioni non erano mai stati tanto altalenanti.

“Odio parlare troppo,” riprese Fred quando capì che lei s’era barricata nel silenzio. Ma non si voltò, continuò a darle le spalle. “Soprattutto quando devo dire una cosa così ovvia.”

Hermione abbassò lo sguardo. “Sono io il problema, non è così?”

“Sì,” ammise, ricacciando le mani nelle tasche. “Non mi è mai piaciuto controllarmi, e dopo aver rischiato di morire mi piace ancora meno. Ma tu stai con Ron, ci continui a stare, e Ron è mio fratello, lui vale almeno lo sforzo. Ma poi tu mi cerchi, mi vuoi, mi dimostri che stare con Ron è una specie di dovere che non fa bene né a lui né a te, e i miei buoni propositi vanno in pezzi… E penso che, alla fine, se avessi seguito il mio istinto tutta ‘sta storia si sarebbe già risolta da un pezzo.”

“Ieri mi hai cercato tu,” sussurrò, nella vana speranza di schermarsi da quel fiume in piena.

“Volevo sapere se fossi rimasta con lui. E volevo anche dimostrare a me stesso di poterti gestire.”

Hermione indirizzò di nuovo lo sguardo su di lui, su quella schiena sempre più tesa – le sembrava di poter vedere i muscoli in tensione nonostante il cappotto –, su quel capo ostinatamente dritto orientato al nulla. Schiaffeggiando la paura che continuava a pulsare a ritmi insopportabili, si alzò dalla panchina e mosse i passi sino a entrare nel campo visivo di Fred, fermandosi dinanzi a lui, esigendo di nuovo il suo sguardo su di sé.
Percepiva le proprie labbra secche e le dita intorpidite dal freddo, tuttavia si impose comunque di parlare e di tirare via le mani di Fred dalle tasche per intrecciarle alle proprie. Forse, era una follia quella che stava per fare, o forse era la prima azione davvero sensata da quando s’erano ritrovati alla baita – non avrebbe saputo dirlo, e per la prima volta non le importava.

“Mi mancavi,” confessò. “Per questo sono venuta da te. Mi mancavi anche se non avevi alcun diritto di mancarmi.”

Fred non nascose un sorriso tronfio. “Ci voleva tanto?” chiese retorico. “Ma dopo questo non puoi pretendere che mi trattenga.”

“Fred,” ammonì.

Ma Fred ignorò l’ammonimento, fece un passo verso di lei e le baciò i capelli e poi la fronte e il naso, arrestando lì la corsa delle sue labbra. Poteva percepire il corpo di Hermione rabbrividire, la sua pelle scaldarsi, il suo respiro sempre più rapido. Avrebbe potuto baciarla di lì a un secondo, ma le concesse un’ultima possibilità di negarsi, di fuggire da lui – da loro –, un’ultima possibilità per mentire a se stessa.

“O vai via o succede,” sibilò infatti Fred. “Alla fine, Granger, è sempre una scelta.”

È sempre una scelta e, pensò lei, alla fine scelgo sempre te.
Nei giorni trascorsi e sino a quel momento, Hermione era stata davvero convinta che allontanarsi da lui e ignorare i sentimenti provati fosse la scelta più corretta, ma in quell’istante non solo non riuscì a negarsi come era già accaduto in passato, ma si accorse di non avere alcuna intenzione di separarsi da lui. Difatti non si mosse, anzi strinse ancora di più le sue mani e si avvicinò di un passo, inclinando il capo verso l’alto nel tentativo di assottigliare la differenza d’altezza che li separava.

Fu dinanzi a gesti tanto eloquenti che Fred, conscio delle conseguenze che quella volta sarebbe stato d’obbligo affrontare, pretese le sue labbra sulle proprie, e tutta l’attenzione e il calore che Hermione potesse dargli.
Erano così stretti che lei riusciva a sentire lo sterno di Fred alzarsi e abbassarsi a ritmo sempre più elevato. Lui l’abbracciò, e le dita di entrambi erano artigli che legavano per non lasciare andare.

Quando s’allontanarono si sorrisero complici, sereni, per la prima volta giusti, in apparenza dimentichi di tutti i dubbi e gli scontri e i sensi di colpa che li avevano tenuti in ostaggio sino ad alcuni minuti prima. E l’aria, quella lì notturna e londinese e babbana, così diversa da quella cui erano abituati, non puzzava di tradimento né di colpa. Somigliava sul serio all’aria scanzonata e fuori dal mondo della baita di montagna di zia Muriel; e la panchina abbandonata sembrava il divano dal tessuto pregiato su cui s’erano ritrovati per la prima volta.
Tutto in quell’istante sembrava intoccabile – e le ripercussioni erano un’eco così lontana da essere inudibile.

*

Gennaio 1999, Hogwarts

“Hermione, credo che tu abbia sbagliato...”

Neville parlò cauto, guardando stranito la compagna di Casa seduta accanto a lui a quel tavolo della biblioteca. Hermione, il cui volto era rivolto agli scaffali dinanzi a sé, saettò lo sguardo su Neville e arrossì d’imbarazzo nel notare che, ancora una volta, aveva confuso delle banali definizioni.
Il ragazzo le sorrise incoraggiante e tornò a concentrarsi sul proprio tema, evitando sia di porle domande indiscrete sia di sottolinearne la sbadataggine. Hermione, tra sé se sé, non poté evitare di ringraziare Neville e la sua infinita delicatezza.

Da quando era tornata a Hogwarts, circa una settimana prima, la sua concentrazione aveva raggiunto picchi di disorientamento a lei sconosciuti. In più di un’occasione gli insegnanti avevano dovuto ripeterle domande che non aveva sentito, gli amici avevano dovuto raccontarle di nuovo episodi già detti, in troppi si erano trovati nella scomoda situazione di farle notare errori commessi affinché potesse porvi rimedio.
Tuttavia, quasi nessuno s’era realmente preoccupato per lei. Erano tutti portati a credere che stesse vivendo una sorta di stress post-traumatico, che stesse finalmente sfogando tutto il dolore e il terrore vissuti in guerra. In fondo, pensavano, anche Hermione Granger doveva avere un limite di sopportazione.
Gli unici ad aver messo in discussione la solida spiegazione erano stati quelli che, in quel castello, la conoscevano di più: Ginny e Neville. E se il secondo aveva troppo a cuore il garbo e la riservatezza per forzare Hermione a parlare, la prima le aveva più e più volte posto domande, chiedendole se, per caso, la fuga dalla baita non c’entrasse qualcosa in quel suo umore così strano.
Hermione aveva negato, a oltranza.

Ginny, non sono fuggita, ho solo scelto di seguire i miei genitori.”

Rinunciando agli ultimi giorni con Ron e Harry.”

Volevo recuperare un po’ di tempo perduto, tutto qui.”

Stai mentendo, lo sento. Ma non capisco perché.”

E aveva mentito, a oltranza.
Alle volte domandava a se stessa se potesse ancora riuscire a non mentire, ad accettare di convivere con la verità che le martellava il respiro secondo dopo secondo.

Neanche in guerra s’era sentita a quel modo. Lì c’era una linea di demarcazione invalicabile tra giusto e sbagliato, buoni e cattivi, eroi e nemici. Fuori dalla guerra, invece, nulla era così demarcato, così netto, così inequivocabile. Nella vita quotidiana era tutto grigio e sfocato – e il bianco e il nero erano colori senza significato alcuno.

“Ho finito, tu?”

Si voltò di nuovo verso Neville. Aveva un sorriso gentile in volto e la solita cicatrice sul sopracciglio sinistro a tentare invano di indurirgli i lineamenti. Hermione gli sorrise d’istinto, rassicurata da quello sguardo che non esigeva spiegazioni né pronunciava giudizi.

“Non ancora,” rispose.

“Ti aspetto?”

“Non è necessario, ci vediamo in Sala Comune.”

Neville annuì e andò via. Al suo passaggio, tutti i presenti in biblioteca alzarono il capo dai libri per rivolgergli chi un saluto, chi un sorriso, chi uno sguardo ammirato, chi un sospiro imbarazzato. Ma Neville sorrideva a tutti amichevole, ignorando adulazioni e malizia, invidie e opportunismo. Hermione avrebbe tanto voluto avere una tempra simile, s’illudeva che quella avrebbe potuto schermarla dagli attacchi subdoli dell’istinto – si ostinava a non capire.
Quando s’allontanò anche lei dalla biblioteca, scelse di aggirarsi per i corridoi anziché raggiungere la Sala Comune. Senza averlo voluto, si ritrovò nei pressi di una delle torri ancora distrutte, lontana da quella di Grifondoro. Non senza stupore s’accorse di non essere sola; nei pressi di quei cumuli di pietra sostava uno degli spettri di Hogwarts – una figura altera e malinconica, adornata di una beltà che, forse, aveva sedotto persino la morte. Hermione, che non le era mai stata così vicina, indugiò lo sguardo su di lei.

“È incauto sorvegliare i defunti.”

Hermione sobbalzò e Helena Corvonero si voltò in sua direzione. I rovi neri, lunghi e lucenti, celavano una ferita vecchia di secoli, mentre gli occhi scrutavano offesi quella che, a loro avviso, non era altro che un inaccettabile fastidio.

“Mi dispiace, non credevo ci fosse qualcuno qui.”

La flessione della voce di Hermione riuscì a rendere meno ostili i lineamenti del fantasma. C’era arrendevolezza, e colpa, in quel tono mesto e in quello sguardo perso, sensazioni che Helena aveva conosciuto bene durante la sua breve vita.

“Sei Hermione Granger,” disse allora. “Sono in molti a parlare di te, ma le gesta narrate non si confanno alla giovane donna che ho dinanzi. O sono i molti a essere mendaci o lo sei tu, non scorgo altra verità.”

Hermione torse le dita tra loro, irrequieta dinanzi a parole tanto insinuanti. “Non ho una verità alternativa da proporle,” si difese.

“La menzogna è un veleno seducente, secoli addietro lo bevvi e non vi fu salvezza per me.”

“Lei è morta per un tradimento,” precisò Hermione, prima di riuscire a frenare le proprie parole. Rivolse uno sguardo di scuse a Helena, ma il fantasma era dolente, non in collera.

“No,” negò Helena, “il tradimento fu conseguenza della menzogna, lo compresi a seguito della mia dipartita. Mentii a mia madre, la mia eccelsa madre,” precisò sdegnosa, “su quanto soffrissi esserle inferiore. Non le confessai mai i miei sentimenti, e ne morimmo entrambe quando il tradimento s’abbatté su di noi. I tradimenti sono solo maschere cadute, giovane Grifondoro, rivelano chi siamo e cosa desideriamo sopra ogni cosa. Io ebbi a desiderare che ella soffrisse quanto me, e la tradii perché ciò avvenisse. E tu, nemica di maghi oscuri, cos’è che desideri sopra ogni cosa?”

L’interrogativo allusivo di Helena, così come la sua espressione intrisa di consapevolezza, scossero Hermione al punto tale da indurla al silenzio più muto. Come le era già accaduto alla baita, il malessere emotivo non tardò a divenire malessere fisico – gambe tremule, gola arsa, addome dolente s’impadronirono del suo corpo. E un ricordo martellante s’affacciò prepotente in lei, annebbiandole la vista.
In altri tempi avrebbe pianto.

§

Gennaio, prima del ritorno a Hogwarts

Era tardi, tardissimo. Non aveva neanche avvertito i propri genitori del mancato rientro in orario. Fred l’aveva risucchiata nel suo mondo, e lei non aveva fatto resistenza. Dopotutto, raggiungerlo a sorpresa ai Tiri Vispi era già stata una dichiarazione di intenti – armi deposte, almeno per un giorno.
Quando lo aveva salutato, rubandogli l’ennesimo bacio, s’era smaterializzata con un sorriso sulle labbra e una sensazione di assoluta leggerezza. Hermione sapeva che i sensi di colpa mescolati alla preoccupazione per ciò che sarebbe accaduto di lì in avanti fossero in agguato, ma credeva di essere pronta a tutto, persino ad affrontare Ron – non ne avevano parlato, lei e Fred, ma non era necessario dire tutto: l’evidente non andava sottolineato. Ne era più che certa ormai: Fred valeva una guerra di sentimenti, valeva la messa in discussione di tutte le certezze e tutti gli equilibri.

Tuttavia, quando sua madre le aprì la porta di casa, Hermione non avrebbe mai pensato di scorgere la figura allampanata di Ron nel proprio corridoio, in piedi accanto a suo padre. Una visione che ruppe la felicità trafugata con Fred.

“Ron?” chiese stranita.

Ron agitò la mano in sua direzione con gli occhi intrisi di interrogativi. I genitori di Hermione salutarono la figlia in tutta fretta, entrambi più interessati a capire dove fosse stata che a dilungarsi in convenevoli. Quando la ragazza liquidò tutto con un “in giro”, sia Jean che Scott le rivolsero occhiate di rimprovero, ma decisero che in presenza di Ron non fosse il caso di redarguire oltre la figlia.
Alcuni minuti dopo, i due Grifondoro rimasero soli nel corridoio illuminato da quella che Ron chiamava luce babbana. Hermione si spogliò del cappotto e degli accessori per il freddo e sistemò tutto con estrema lentezza sull’appendiabiti evitando lo sguardo del fidanzato; solo quando non trovò altro da fare si costrinse a lasciare che le braccia le ricadessero rigide lungo il corpo e che il viso si proiettasse in direzione di quello altrui.

“Dove sei stata?”

Secco, spazientito, duro. Ron era arrabbiato. Hermione ragionò rapidamente sulle opzioni che aveva a disposizione. Avrebbe potuto – e dovuto – dirgli la verità come si era ripromessa. Oppure, avrebbe potuto mentirgli – un’ultima volta – e rubare altro tempo utile a preparare un discorso che avesse senso e riuscisse a spiegargli tutto nella maniera meno dolorosa possibile.
Scegliere era un’impresa terribilmente ardua, nonostante una sola tra le alternative fosse quella giusta.

“A Diagon Alley.”

“Perché?”

Hermione si avvicinò di un passo. Fissò quel volto familiare, amato, conosciuto, e vi lesse un terrore che trapelava malgrado la maschera di risolutezza che Ron aveva indossato. La scelta che credeva di essere prossima a fare si frantumò tra le sue dita.

“Volevo solo vedere com’era,” disse allora. “Com’erano quelle strade dopo la guerra in tempo di festa.”

“E com’erano?”

“Tristi.”

“Perché ci sei andata da sola? Avrei potuto raggiungerti.”

“Non volevo guastarti le vacanze con brutti ricordi.”

“Brutti, ma nostri,” considerò Ron. “Perché sei stata lì fino a quest’ora?”

“Ho incontrato Fred, ho cenato con lui.”

“E poi sei rientrata.”

“Se mi avessi avvisata, mi avresti trovata qui.”

“Volevo farti una sorpresa.”

Una sorpresa. Lei e Ron avevano avuto la stessa idea, ma mentre lui correva da lei, lei correva da un altro. Hermione avrebbe voluto sentirsi ancora una volta in colpa, ma si sentì peggio – schiacciata, in trappola, sporca. E il fatto che Ron continuasse a fissarla indagatore, che fiutasse il fitto strato di bugie, non l’aiutava.
In altri tempi lui avrebbe sbraitato e preteso che fosse sincera, avrebbe dato sfogo alla rabbia e a tutti i dubbi. In quei tempi, invece, Ron scelse di sospirare e abbracciarla, stringendola a sé. Hermione contraccambiò quell’abbraccio senza enfasi, ripetendosi per l’ennesima volta di essere una pessima persona.

“Sei diversa, ti sento lontana da quando ci siamo rivisti. E non mi piace quello che penso.”

“Cosa pensi?”

Lui la strinse ancora di più, le baciò i capelli e annusò il loro profumo. Non era mai stato molto romantico né un grande oratore, spiegare le proprie ragioni e i propri sentimenti era sempre stato difficile per lui, perché incespicava tra una parola e l’altra nel disperato tentativo di non apparire senza tatto. Con Hermione aveva sempre creduto che i gesti bastassero, perché lei lo conosceva. Un abbraccio, un bacio, un sorriso, una scrollata di spalle erano sempre stati abbastanza per capirsi.
Ma adesso non lo erano.

Lei chiedeva spiegazioni a lui. Lui le chiedeva a lei. A Ron non serviva altro per capire che qualcosa si fosse rotto – se irrimediabilmente o meno, non lo sapeva ancora.

“Il primo fine settimana dopo il ritorno a Hogwarts...” riprese Ron, “potremmo andare in un posto, io e te, schiarirci le idee, parlare… di noi.”

“Parlare di noi?”

“Sì. Avrei voluto farlo oggi, ma se parlo ora finisce che parlo a sproposito. A guerra finita mi sono ripromesso di non fare più trollate, quindi meglio che sto zitto adesso.”

“Va bene.”

Ron non indugiò oltre, e salutati i genitori di Hermione andò via da quella casa e soprattutto da lei, d’improvviso così estranea, portando con sé la rabbia non sfogata e i dubbi sempre più pressanti, ma anche la piccola soddisfazione di essere riuscito a gestire le proprie emozioni con maturità – suo padre aveva ragione: la guerra cambiava le persone, se in meglio o in peggio era poi un fatto personale.
Rimasta sola, Hermione fuggì in camera propria e si gettò di nuovo sul letto, come aveva fatto la sera precedente. Non pianse. Tutto ciò che riusciva a percepire era ansia – per un’altra bugia, per un errore, per troppe verità da affrontare. Il cuore batteva forsennato, prossimo a impazzire o esplodere, e tutto il corpo sembrava martellare – organi contro organi, tessuti contro tessuti, ossa contro ossa. Si disse che avrebbe dovuto avvisare Fred, dirgli che ancora una volta era stata codarda.

Ma non confusa.
Solo e semplicemente codarda.
Ripensò anche alle parole di Ron, al suo atteggiamento, al terrore che gli aveva avvelenato lo sguardo. Affiorò allora un altro interrogativo, più insinuante del precedente: in nome dei propri egoistici sentimenti era giusto infliggere a Ron una sofferenza così grande? La risposta suggeritale dalla ragione, ancora una volta, non le piacque per niente.
Dopotutto, Hermione non poteva immaginare che una vera e propria ferita s’era già aperta in Ron, che da giorni s’interrogava su di lei, su quel qualcosa per lui indefinibile che s’era frapposto tra loro due. Nonostante non potesse immaginare che il qualcosa fosse Fred, aveva infatti intuito che i sentimenti di Hermione erano cambiati – o forse avevano mostrato il loro vero aspetto: affetto, amicizia, non amore.
A scuotere Hermione dal proprio limbo fu un inaspettato e irritato gufo che picchiettò alla finestra. Lei corse ad aprirla e lasciò che il gufo trovasse riparo e riposo lì nella stanza. La pergamena non recava che poche parole, Hermione le fissò con sguardo vacuo.

«Chiariremo tutto, promesso.»

S’addormentò stringendo le parole di Fred tra le mani. L’indomani, si ripromise, gli avrebbe raccontato di Ron.

§

Il ricordo svanì così come era piombato: improvviso. E il buio della torre in macerie le offuscò gli occhi di nuovo vacui. L’impietosa domanda di Helena aveva richiamato alla memoria l’ultimo giorno in cui aveva visto Fred e Ron – felicità e infelicità s’erano fuse, e lei era esplosa. Nei pochi giorni che l’avevano separata dal rientro a Hogwarts non aveva fatto altro che rimuginare sui propri gesti avventati e sulla propria codardia – lei, lei che aveva affrontato tutto era stata incapace di affrontare le emozioni, di scegliere sino in fondo –; rientrata a Hogwarts, infine, aveva scritto due volte a Fred senza dilungarsi e senza andare oltre i convenevoli, mentre a Ron aveva scritto solo quella mattina, confermandogli che si sarebbero visti il giorno dopo, domenica.
Tradimenti e maschere cadute – e lei cosa, o chi, desiderava sopra ogni cosa?
La risposta la indusse a fuggire anche dalla Dama Grigia. Ma la fuga portò con sé una consapevolezza: non poteva più continuare a ignorare la verità, a negarla, a rifugiarsi nelle bugie – o quella domanda l’avrebbe divorata –, e per uscire dalla gabbia di falsità che s’era costruita avrebbe dovuto confessare tutto a qualcuno, a voce alta, rendendo reale ciò che le era accaduto in quei giorni. Così, ansimante per aver camminato in tutta fretta, raggiunse la Sala Comune, salì le scale dei dormitori e si fiondò in camera di Ginny, trovandola sola, seduta alla scrivania intenta a scrivere una lettera.

“Hai un po’ di tempo per me?” chiese Hermione.

Ginny la guardò sorpresa, sia perché non s’era accorta del suo ingresso sia perché Hermione le stava chiedendo di parlare – cosa che in quel periodo era una vera e propria rarità. Di conseguenza, la giovane Weasley non tardò ad annuire e a mettere via pergamena e piuma, a Harry avrebbe risposto più tardi.

“Tutto il tempo che vuoi.”

Hermione avvertì un’acuta fitta al petto, e le gambe presero a girare in tondo, sorde all’immobilità. Era lì per parlare, sfogarsi, confessare, e temporeggiare ancora non avrebbe portato a nulla, se non ad altre infruttuose remore. Dopotutto, o Ginny o nessuno.

“Ti chiedo solo una cortesia,” disse Hermione. “Quando ti avrò detto tutto, cerca di non giudicarmi.”

Ginny la guardò perplessa, ma preferì tacere e ascoltare; aveva la netta sensazione che anche la parola più innocua avrebbe fatto desistere Hermione.
Così, senza mai sedersi ma continuando a girare in tondo in quella stanza, Hermione parlò. Fu molto onesta con Ginny, le raccontò tutto; le disse di quella felicità smodata e martellante che l’assaliva ogni volta che ripensava al risveglio di Fred dalla morte apparente; le disse di quell’adrenalina calda ed elettrica che l’avvolgeva quando era con lui; le disse della baita e dei baci e dei sensi di colpa e dei passi indietro e degli errori commessi di nuovo e di quella giornata a Londra e dei tormenti di Ron e della decisione presa. Le disse tutto, senza risparmiarle niente. E più lei parlava, più Ginny sprofondava in se stessa – in un silenzio che aveva rovi affilati e graffi ovunque, un silenzio tradito.

Quando toccò a Hermione tacere, s’accorse finalmente dell’espressione impressa sul volto dell’amica – sapeva di disgusto e sconcerto. Con gli occhi lucidi e le dita tremanti, Hermione provò ad avvicinarsi a lei, ma Ginny si scansò rapida, fissandola come avrebbe fissato una sconosciuta. Tuttavia, proprio l’istintiva Ginny trasse un lungo respiro e tardò a prendere parola, come se stesse provando con tutte le forze a ragionare sul cosa dire.

“Non ti giudico,” disse dopo un po’. “Ma sono… credo delusa. Lo ucciderai. Li ucciderai. Devi dire la verità, a entrambi. Non è facile, lo capisco, ma sei una persona onesta e troverai il coraggio di farlo.”

Hermione non si stupì né della maturità dimostrata da Ginny né dell’istinto di protezione nei confronti dei fratelli. Né si meravigliò quando la ragazza uscì dalla stanza per allontanarsi da lei: era il solo modo che Ginny aveva per non sfogare la delusione solo accennata; persino in una circostanza simile era riuscita a essere una grande amica.
Rimasta sola, Hermione non si lasciò andare al pianto né si trattenne oltre in quella camera, ma rientrò nella propria. Lì ragionò sulle lapidarie parole di Ginny, sull’ammonimento inaspettato della Dama Grigia – sul cosa desideri sopra ogni cosa –, e di nuovo sul rapporto d’affetto e fiducia costruito con Ron nel corso degli anni e su quello folle e senza passato nato con Fred.

Ancora una volta richiamò a sé i vecchi tempi, quelli dove era tutto bianco o nero, dove non poteva esserci nessuno nella propria orbita a eccezione di Harry e Ron – perché non c’era tempo, c’erano cose più importanti –, quelli dove il lezzo di sangue e terriccio e morti non le aveva ancora contaminato la pelle, quelli dove la burrasca era una condizione naturale e l’assenza di pace non riusciva a terrorizzarla, quelli dove Ron era la certezza di tutta la vita.
Ripensò anche al sentimento nutritosi negli anni per Ron – giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Lui, che conosceva tutto di lei, che l’aveva ferita e resa felice, che assieme a Harry l’aveva salvata da un Troll e dalla solitudine. Lui, che c’era sempre stato.
Solo allora ebbe il reale coraggio di prenderne atto e accettarlo: quello che provava per Ron era unico e irripetibile, e si chiamava affetto smodato, amicizia senza tempo e senza fronzoli. E lei l’aveva confuso con qualcosa di diverso – intenso, irrequieto, irrazionale.
Qualcosa come Fred.

Perché mi hai seguita?”

Perché non mi hai fermato?”

Mi seguirai ancora?”

Mi fermerai mai?”1

Ma Fred era fuori da ogni logica e buonsenso. Era fuori dall’affetto nutrito per Ron. Era un tradimento troppo grande, un dolore che non avrebbe potuto infliggere a quello che credeva ancora di essere il proprio fidanzato.
Si disse, non senza tremare, che la sola soluzione possibile fosse la più dolorosa, quella che l’assillava da quando aveva rivisto Ron a casa propria, la stessa che aveva confidato pochi attimi prima a Ginny: avrebbe rinunciato a entrambi in nome dell’affetto e della lealtà nutritisi negli anni.
Se questo avesse senso o meno, preferì non chiederselo.
Si sedette allora alla scrivania e scrisse a Fred, e a differenza delle stringate missive prive di contenuto dei giorni precedenti affrontò la realtà per ciò che era. Gli rivelò infatti dell’incontro con Ron, riportandogli cosa s’erano detti e dicendogli che l’indomani l’avrebbe rivisto per chiarire tutto. Gli anticipò che avrebbe lasciato andare Ron, ma che non gli avrebbe confessato il tradimento, così da evitargli un’inutile sofferenza e una lite con suo fratello. Infine lo salutò, per un giorno e tutta la vita, chiedendogli di non cercarla più e di considerarla una parentesi aperta in un punto sbagliato e chiusa non appena possibile per rimediare al danno.
Si congedò con un «so che capirai» che sapeva di speranza e non di convinzione.

*

Il mattino dopo un gufo planò sul tavolo Grifondoro e Hermione si ritrovò a leggere e rileggere incredula poche righe.

«Più che una parentesi, sei un terremoto. Ma veniamo alle cose serie: no, non capisco. No, non cambio idea. Sì, ne riparliamo.»

 


 


1: dialogo tratto dal III capitolo Seguitavano a errare, eppure fuggivano loro stessi.

NdA: è trascorso così tanto tempo dall’ultimo aggiornamento che mi sembra impossibile essere qui a pubblicare il nuovo capitolo – ci sono stati momenti, seppure fugaci, in cui io stessa ho creduto che non avrei mai messo la parola fine a questa storia. Ma dell’evoluzione di questa minilong ne parlerò a seguito dell’ultimo capitolo; la buona notizia è che l’ho già scritto ed è il prossimo, devo solo rivederlo (la mia idea è di aggiornare tra circa una settimana). Spero proprio che questo aggiornamento a distanza di mesi vi sia piaciuto, che sia valso la lunga attesa. In ultimo ma non ultimo, un grazie enorme a chi mi segue ancora, a distanza di anni, con recensioni, letture silenziose, interazioni sul social, messaggi privati. Grazie davvero, perché se questa storia avrà il suo The end è anche grazie a voi che non l’avete mai abbandonata.
Un abbraccio e al prossimo capitolo!
Rose

   
 
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