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Autore: Yoko Hogawa    21/07/2009    3 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sunday

Sunday

 

Abrahel

Human I don’t want to be

 

 

Passare più di due secoli nel nulla assoluto non era un dispiacere, nemmeno una condanna.

Non per lui almeno.

Però, doveva ammettere, se ci si ritrova catapultati nel ventunesimo secolo quando l’ultimo visto era il diciottesimo, saltava all’occhio qualche problema.

Primo fa tutti il fatto che, così sembrava, lo sviluppo - tecnico, industriale, culturale, artistico, stilistico, architettonico… - pareva aver cominciato a correre veloce quanto prima procedeva a balzelli.

La Rivoluzione Industriale aveva dato il via all’industrializzazione, al materialismo, al capitalismo e infine al consumismo che sembrava letteralmente consumare la società moderna.

La Rivoluzione Francese aveva dato una svolta alla società e alla politica, indirizzandola verso un significato profondo di patriottismo e nazionalismo, proclamando la libertà - tutte le libertà - e fornendo le basi per un sistema di governo basato sulla democrazia.

Un peccato; non disprezzava la monarchia se retta con il cervello al posto del vizio.

Poi le Guerre Mondiali, soprattutto la seconda. La creazione dell’arma che potrebbe distruggere l’intera vita in sé e il suo uso, catastrofico, poco prima della metà del ventesimo secolo.

E ora, ormai giunto al capitolo sulla modernità, la nuova batosta: le pandemie. AIDS, HIV, SARS, TBC… si chiedeva se avessero inventato un acronimo anche per il raffreddore.

Leggere libri, però, non si stava rivelando il metodo migliore per recuperare ciò che si era perso del mondo. L’avanzamento del progresso aveva dato una bella spinta in avanti allo sviluppo storico, creando un’immensa mole di informazioni suddivisa in una altrettanto enorme quantità di scartoffie.

Per leggere tutti i libri che la bibliotecaria gli aveva trovato ci avrebbe messo come minimo due anni, ed era solo lo scaffale di Storia.

Così, aveva deciso per un corso intensivo. Una volta imparato ad accendere un PC era stato facile: convenne che il World Wide Web era stata proprio una bella pensata, e trovò nella sinteticità di Wikipedia la fonte di informazione adatta alle sue esigenze.

Tuttavia, dopo ore di consultazioni - concentrate sul ventesimo secolo, per lo più - si trovò nuovamente d’accordo con se stesso.

Non era importante quanto gli esseri umani imparassero, studiassero, ricercassero o sviluppassero. La razza umana non aveva il minimo rispetto di sé stessa, e lo spirito di auto conservazione che aveva sempre spinto gli uomini a racimolare le condizioni migliori in cui vivere li stava portando, in una sorta di disgustoso controsenso, verso un futuro controllato dalle macchine, minato dalla guerra e soffocato dall’inquinamento.

Gli umani usavano la loro innata forza di sopravvivenza per autodistruggersi.

Faceva schifo. Dal diciottesimo secolo non era cambiato nulla nonostante fosse mutato tutto.

Era solo un’ennesima rappresentazione della perenne ed immutabile condizione di impotenza umana; era solo travestita da luci a laser invece di velluto e annegava nella droga invece che nella poesia.

Pensò a Shakespeare. In un mondo così avrebbe avuto un’ispirazione infinita per le sue tragedie.

Per non parlare della generazione giovanile. Oh, quella era la più sadicamente divertente!

Violenza, vizio, eccesso. Sembrava la realizzazione dei gironi dell’inferno sul Mediano.

Se Lucifero avesse potuto mettere il naso fuori dalla sua voragine gli sarebbe venuta l’ansia a causa del numero di anime oscure che vagavano in giro.

Quel locale in cui aveva seguito l’umano era un ottimo esempio. Un concentrato di anime scure da sembrare quasi il buco nero da dove era stato ripescato da Zerachiel.

Però…

Spense il computer della biblioteca con calma, osservando il salvataggio della sessione sul monitor.

Era sorpreso. E non era cosa da poco esserlo, figuriamoci ammetterlo a se stesso.

L’umano, quello che doveva seguire, aveva un’anima intatta, candida. Quasi fastidiosa da quanto era bianca.

Come faceva? Come faceva a rimanere così puro immerso, anzi sommerso, in una gioventù come quella? Con amici come il ciccione alcolista e lo spacciatore cocainomane, per non parlare del donnaiolo malato di sesso…

Preservava se stesso solo grazie alla sua forza di volontà? Qualcuno gli aveva insegnato principi così saldi da mantenere la sua coscienza integra senza causare una ribellione?

Non sapeva che pensare. E forse non doveva nemmeno ragionarci sopra così tanto.

Era uno stupido, maledetto lavoro. Si sarebbe nutrito della sua forza vitale, lo avrebbe portato nell’aldilà, avrebbe fatto contento Enma e tanti saluti; sarebbe tornato nel suo limbo vuoto, a mai più rivederli.

Sbuffò, disturbato da nulla e da tutto, alzandosi dal proprio posto e dirigendosi fuori.

La biblioteca del campus rimaneva aperta anche la domenica, dando la possibilità agli studenti di preparare gli esami anche nel fine settimana, in cui - aveva imparato - le lezioni non avevano luogo. La porta d’ingresso dava direttamente sul giardino interno dell’università, gremito di ragazzi con gli ormoni in fermento occupati in attività più disparate.

Estrasse dalla tasca della polo nera un paio di occhiali da sole, indossandoli. Era un vero strazio quel tempo limpido per uno come lui, che aveva gli occhi così dannatamente chiari da sembrare anormali anche con l’aiuto delle lenti a contatto blu.

Osservò l’orologio sulla torre: le tredici e cinque. Secondo i documenti che Zerachiel gli aveva fatto il favore di impacchettargli a dovere, l’umano doveva essere a casa con la famiglia per il pranzo della domenica, parenti compresi.

Lungi da lui andare a disturbare la così poco attraente riunione famigliare. Si sarebbe limitato ad osservare da lontano, in barba al suo compito; ficcare il naso in una famigliola tutta sorrisi e smancerie sarebbe stato il colpo di grazia per la sua già torturata pazienza.

Joshua Archer si stava rivelando una faticaccia.

 

Non provava nulla di particolare a parte il disgusto, girando fra la gente.

Ai suoi occhi erano solo anime che vagabondavano avanti e indietro sulla superficie terrestre, occupati in attività così frenetiche da non essere nemmeno percepite come vere attività.

Aveva letto che la quotidianità era il veleno della società. Monotonia, noia, ripetitività: persone che non facevano altro che ripetere gli stessi gesti giorni dopo giorno, come automi programmati a dovere, per anni e anni senza mai variare veramente.

Che modo insulso di sprecare la loro così breve vita.

 

Giunse di fronte alla casa dell’umano dopo un quarto d’ora di cammino. Non era lontana dal campus, notò.

Non era male, per gli standard umani: una villetta a schiera e due piani, con giardino a fronte e sul retro, vialetto sul garage e aiuole pulite con fiori ben curati. Due mezzi di trasporto, uno troppo grande per occupare un posto in garage - a giudicare dal furgoncino sei posti 4x4 parcheggiato sul vialetto, con il nome di una società sportiva stampato sul fianco - e come minimo tre biciclette.

Abbassò di un poco gli occhiali da sole, concentrandosi sulla casa. Ne vide l’interno come se avesse degli occhi ad infrarossi, ma non il mobilio: le anime.

Ve ne erano sei, al momento. Il padre, il nonno e i due adolescenti in sala da pranzo - l’anima dell’obiettivo era così dannatamente luminosa da coprire le altre tre - mentre quelle della madre e della nonna brillavano fioche dalla cucina, diffondendo un alone grigiastro.

Non poteva sentire di cosa stessero discutendo, non era onnisciente e non aveva un udito supersonico come… qual’era il supereroe? Ah, Superman (fantasia portaci via…); ma la situazione all’interno non sembrava una delle più tranquille. L’anima del padre stava ingrigendo ancora di più, e questo era un effetto tipico del risentimento.

Si sistemò meglio gli occhiali, bloccando la sua vista “particolare”. Non ci volle molto perché la porta sbattesse violentemente e, da essa, ne uscisse l’obiettivo con l’aria di essere decisamente incazzato con il mondo.

O forse solo con il padre.

Fenomenale che la lucentezza del suo spirito non diminuisse nemmeno sotto l’effetto della collera! Significava che non era veramente arrabbiato… forse deluso, allora?

E lui era… curioso, sì. Forse vivere da umani aveva effetti collaterali simili.

Lo osservò dirigersi a passo svelto verso l’automobile in garage, le chiavi tintinnanti strette con forza eccessiva nella mano destra. Si fermò interdetto pochi metri prima della porta, palesemente disturbato dal furgoncino posteggiato sul vialetto - gli impediva di uscire con l’auto, considerò logicamente - poi si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloncini neri, ignorando il laccio slacciato delle Convers per incamminarsi velocemente in direzione di Heaven Park.

La velocità del passo e i fulmini che lanciava dagli occhi contro gli ignari passanti la dicevano lunga sul suo stato emotivo. Tuttavia il lavoro era lavoro e Abrahel - ops, pardon, Joshua - lo seguì, mantenendosi a debita distanza.

Attraversò la strada alla prima occasione, percorrendo un pezzo della traversa alla fine della via. Come previsto si infilò in Heaven Park, sparendo alla vita inghiottito dalla vegetazione.

Tsk, come se fosse facile sfuggire ad uno come lui. Quell’umano aveva un’anima facente funzione di segnalatore luminoso e lui aveva il detector incorporato.

Attese che il semaforo pedonale scattasse, attraversando a passo lento la strada nella stessa direzione dell’umano.

Sarebbe sembrato un incontro casuale, come tutti gli altri. Un sorriso, una frase cortese, qualche commento sul caldo afoso. Un mezzo saluto dopo l’immancabile silenzio in cui sarebbero caduti; poi la sua voce che lo fermava, chiedendo di restare.

Aveva letto che quando le persone erano arrabbiate, puntualmente arrivava anche la tristezza. Era psicologico. E comune, follemente comune fra gli esseri umani.

L’umano non avrebbe fatto eccezione. Lo avrebbe invitato a rimanere solo per avere compagnia e non lambiccarsi il cervello sulla discussione inutile appena avuta e sulla sua indiscutibile fine.

E lui sarebbe rimasto, ovviamente. Era il suo fottutissimo incarico dopotutto, altro non poteva fare.

Proseguì diritto lungo il vialetto di Heaven Park - un nome ironico, veramente! - ignorando la maggior parte dei passanti che incontrava man mano. Alcuni intenti a passeggiare mano nella mano, altri in bicicletta; un gruppo di bambini giocava a pallone sull’erba mentre, sulle panchine, alcune vecchiette discutevano animatamente sull’uncinetto e sul punto croce, confrontando i loro lavori.

Fu poco più avanti che notò Eric, seduto all’ombra di un tiglio particolarmente rigoglioso. Tagliato un po’ fuori dal mondo, data la posizione della panchina molto oltre il viale, dove probabilmente voleva stare in quel momento.

Si avvicinò a passo moderato, calmo, uguale a quello che aveva mantenuto per tutto il tragitto dall’università a casa Everald fino al parco.

Eric lo notò. Non era difficile, dato che camminava esattamente di fronte a lui.

Azzardò un sorriso, con note più sorprese che seccate. Joshua rispose a sua volta, esibendosi nel più bell’esempio di sorriso allegro della storia degli ultimi due secoli. Nemmeno quell’attore, quel tale Orlando Bloom, sarebbe stato bravo quanto lui.

« Everald » pronunciò in saluto, fermandoglisi davanti con le mani ancora nelle tasche dei jeans.

« Archer » rispose quello, definitivamente sorpreso: « è quasi incredibile quanto spesso ci incontriamo. Potrei quasi asserire che mi stai pedinando, se non lo credessi impossibile » aggiunse.

Se avesse avuto un cuore, probabilmente gli sarebbe mancato il battito.

Ma accusò il colpo con classe, senza tradirsi. Non era abituato a doversi comportare da essere umano, ma mentire non era mai stata una fatica.

« Potrebbe sembrare, sì » disse con finta complicità, per poi aggiungere: « fa caldo, non è vero? ».

Eric annuì appena, scostando gli occhi dai suoi come se fosse in soggezione. Come se avesse potuto vederli oltre le lenti scure degli occhiali da sole, per giunta. « Sì, effettivamente fa caldo » concordò, facendo ben presto cadere il silenzio fra loro.

Joshua sorrise internamente. Esattamente come aveva previsto.

« Beh, allora ti lascio al tuo meritato riposo » soggiunse dopo qualche istante, dando l’impressione di aver afferrato la profondità del buco venutosi a creare nella conversazione. Tutto calcolato, ovviamente. « Ci vediamo » salutò, voltandosi e facendo per andarsene.

Bastò contare fino a tre.

« Archer? » lo chiamò l’altro da dietro.

Si lasciò sfuggire un sorrisetto, prima di voltarsi.

« Se ti va… e non hai niente da fare… sì, insomma, mi faresti compagnia? » domandò il castano, spostandosi inconsciamente un poco più di lato sulla panchina.

Il sorriso interiore si allargò ancora di più. Non sapeva come, ma provava una sorta di sadico divertimento a predire ogni mossa di quell’essere umano.

Annuì con il capo. « Va bene, non ho impegni oggi pomeriggio ».

E per i secoli dei secoli a venire, completò col pensiero.

Percorse al contrario i pochi passi che li separarono, sedendosi con innata eleganza sul lato della panchina lasciato libero dall’altro, improvvisamente rifugiatosi in un imbarazzato mutismo.

Come minimo si stava chiedendo per quale motivo lo avesse richiamato indietro. Ci avrebbe scommesso sopra.

Decise di lanciargli un salvagente: « perdonami la curiosità, ma ti vedo un po’ giù di corda… successo qualcosa? » chiese, senza essere in realtà per nulla interessato alla sua vita privata.

Eric esitò, scostando lo sguardo sui giardini davanti a loro. Osservò per quasi un minuto un pastore tedesco riportare il frisbee al padrone che lo aveva lanciato poi, sospirando con rassegnazione, parlò.

« E’ mio padre » affermò, portando le ginocchia divaricate al petto e appoggiando le braccia su di esse. « E’ allenatore di basket di una squadra locale, abbastanza in gamba tra l’altro. Non gli va giù che io abbia scelto il nuoto » spiegò cupo.

Tipico. Niente meglio di un battibecco famigliare a basso voltaggio per attaccare bottone.

« Perché eri bravo? » chiese, fingendosi moderatamente interessato.

« Perché ero il figlio » lo corresse Eric; una nota di risentimento vibrò nella sua voce. « Aveva bisogno di me, mi ha detto quando mi sono proposto per la squadra di nuoto del college. Ma non aveva bisogno di me » calcò con la voce: « aveva bisogno di un numero. O forse di gonfiare il suo orgoglio per poter dire “tartasso mio figlio giorno e notte fuori allenamento finchè non sputa la milza e suda sangue” » completò, leggermente più infervorato.

« Bella immagine » ironizzò Joshua.

« E’ quello che fa con mio fratello minore » chiarì l’altro: « ma ad Alex piace scodinzolare dietro papà, dunque peggio per lui. Almeno lascia in pace me ».

« Da come appari oggi, non si direbbe » notò Joshua, osservandolo di sbieco. Eric restituì lo sguardo.

« Sono solo… le sue allusioni » riprese, fissando il pastore tedesco come se dovesse dargli fuoco: « sempre. Continuamente. Soprattutto quando ci sono degli ospiti, o dei parenti; e quando sono presente anche io, ovviamente, altrimenti no, non si renderebbe necessario ». Una piccola pausa, un sospiro: « “è un vero peccato per Eric, ma cosa ci possiamo fare? Ha preferito l’acqua” oppure “mi ricordo ancora i tiri da tre di Eric, anche se quelli di Alex sono meglio” » fece il verso al padre. « Se sono così tanto meglio di cosa ti lamenti? Adesso ce l’hai il tuo figlio cestista: lascia in pace il mondo, cazzo! » sbottò infine, dando un calcio all’aria e lasciando ricadere la gamba sul metallo della panchina.

Se non fosse stato indelicato farlo, si sarebbe messo a ridere. Gli esseri umani trasformavano una cagata in un problema insormontabile.

Sogghignò, in effetti, ma non lo diede abilmente a vedere. « Mai pensato di parlarci? » propose invece, osservando a sua volta il cane con interesse nullo. Così, tanto per guardare la stessa cosa.

« Cosa? » esclamò l’altro, a metà fra lo sorpreso e l’orripilato.

« Parlarci » ripeté lui: « sai, è un’attività piuttosto comune per coloro che possiedono una capacità di linguaggio complessa ed intelligibile » scherzò appena, pacatamente.

« E per dirgli cosa? » domandò retorico: « non ascolta mai. Mai. Potrei parlargli del Super Ball come della fine del mondo e non mi presterebbe attenzione ugualmente » esclamò.

Dio, quanto la faceva complicata… « senza offesa Everald » cominciò però lui, voltandosi definitivamente verso il castano: « ma l’unica cosa che stai facendo in questo momento è lamentarti di qualcosa contro cui non prendi nemmeno provvedimenti. E’ come disprezzare i viaggi in treno mentre ci stai seduto sopra. Finché ti piangi addosso e vai a nasconderti non arriverai da nessuna parte ».

Eric aggrottò le sopracciglia, lo sguardo si fece seccato. « Sembri saperne un bel po’, eh? Dell’andare a nascondersi » ribatté.

L’espressione di Joshua si fece più seria nonostante gli occhiali da sole ne coprissero gli occhi.

Ne sapeva qualcosa, sì. Aveva passato gli ultimi due secoli a nascondersi.

Non rispose alla provocazione, tornando a fissare il parco. Eric Everald era l’ultima - e l’unica - persona nell’universo a cui volesse dare abbastanza peso per scatenare una reazione sentita ad una qualsivoglia provocazione verbale.

Era un Dio della Morte, santa merda. Lui non aveva il permesso di avere reazioni.

Ritornando un po’ in se stesso anche Eric si voltò verso il prato, mormorando qualche scusa sconnessa per la sua maleducazione.

Come se lui potesse offendersi per una cosa simile!

Non resistette a se stesso. L’impulso di parlare lo vinse.

« Qualche anno fa… » qualche SECOLO forse, si disse: « …in occasione di un viaggio studio in Belgio conobbi un pastore » cominciò, adattando la sua storia arcaica ad un immaginario moderno. Non era difficile, si ritrovò a pensare, mentre si assicurava di avere l’attenzione di Eric, silenzioso al suo fianco.

« Non era un uomo cattivo, o particolarmente stupido… era solo disperato. Aveva perso la moglie da poco, credo; non ricordo, sinceramente » proseguì, il tono di voce calmo di chi parla del tempo, o del risultato di una partita di calcio: « perse letteralmente la testa per un demone pagano. Così tanto che cominciò ad adorarlo, asserendo di potergli parlare, spiegando con una folle contentezza che il demone ricambiava i suoi sforzi per compiacerlo ».

Il castano pendeva dalle sue labbra. Ma non fu la totale attenzione del suo obiettivo la cosa che lo colpì di più.

Più che altro la sua stessa improvvisa propensione ai racconti vecchi quanto Giotto e il suo cerchio perfetto.

Continuò, indolente di tutto: « un giorno, quel pastore avvelenò il figlio. Sostenne che il demone glielo aveva richiesto come prova del suo amore incondizionato » rivelò, voltando nuovamente il capo in direzione di Eric.

La sua espressione non poteva esprimere maggiore stupore.

« Per me la parola “padre” non ha significato. Per questo ti consiglio di mettere le cose in chiaro, ma non da padre a figlio: devi farlo da uomo a uomo. E’ arrivato il momento che ti tratti come una persona, non come il prototipo venuto male di Magic Johnson » terminò.

Un silenzio di piombo cadde fra loro. Silenzio pieno di parole per le menti di entrambi, probabilmente; o perlomeno lo era per Joshua.

Stare sul Mediano faceva male davvero. Si stava abituando troppo in fretta ad essere umano, a quanto pareva, per lasciarsi trasportare così sentitamente da una discussione. Sulla famiglia, poi! Lui che nemmeno l’aveva!

« Certo che le sai mettere le cose in chiaro, quando serve » ironizzò poi Eric, ritrovando le parole e accompagnandole con una leggera risata.

« Sembra di sì » rispose lui, per nulla scomposto. A dire il vero era la prima volta che gli capitava, ma dirlo ad alta voce avrebbe scatenato sicuramente dei dubbi.

« Ti va di camminare un po’? » propose poi il castano, alzandosi. « Queste panchine non sono esattamente l’apoteosi della comodità » aggiunse come pretesto, stiracchiandosi.

Joshua annuì. Lo avrebbe comunque seguito per il resto del pomeriggio, tanto valeva farlo parlandoci. « Ho sentito che in centro hanno aperto una nuova gelateria, andiamo a vedere che gente gira » propose, riuscendo addirittura a far credere che la cosa lo entusiasmasse.

« Mh, aggiudicato » commentò il castano: « ho voglia di un gelato ».

 

Scoprì con interesse che non era così seccante, discorrere con Eric. Anzi, era intellettualmente piacevole.

Non era una testa vuota come la gente che lo accompagnava; anzi, tutt’altro.

Era sveglio. Parecchio, per essere uno studente di letteratura abituato a immergere il naso in libri impolverati, i testi vecchi di centinaia d’anni.

La conversazione, suo malgrado, aveva preso piede quando l’altro gli aveva confessato una certa passione per Shakespeare. Considerando che era l’unico autore che Joshua - o Abrahel, più verosimilmente - leggeva con un moderato interesse, i commenti sulle sue molteplici tragedie si concatenarono senza tregua per tutto il pomeriggio.

« il Romeo e Giulietta » confessò Eric, leccando con cipiglio critico il gelato al pompelmo dal cono: « sembrerà banale, ma è una delle sue opere che più apprezzo » aggiunse, annuendo a se stesso come per dirsi che la scelta del pompelmo non era stata avventata.

« Non sembra, è banale » intervenne Joshua, scrutando con recitata incuranza il frappè alla menta; in realtà senza esserne molto convinto. Lo aveva preso solo per non destare sospetti, dato che l’aveva tirata fuori lui l’idea della gelateria.

« Superficiale » lo accusò il castano.

« Non è superficialità » rispose lui, lasciando finalmente stare la cannuccia. « Romeo è il classico cretino che cade innamorato cotto solo per aver visto una ragazza un po’ più bella dello standard. Ipocrita, tra l’altro, dato che solo dodici ore prima sbavava dietro a Rosalina ».

« E’ perché è stato creato così che è diventato il “classico cretino”. E’ il Romeo di Shakespeare che ha dato forma al cosiddetto “classico cretino” » intervenne Everald con fervore.

« Se lo è divenuto è perché la tragedia rispecchia le abitudini frivole del periodo, dunque i creduloni cretini esistevano già » ribatté Joshua. « E Giulietta? Sarà colpa del gap generazionale, ma a me pare abbastanza libertina per essere una pudica vergine » disse, decidendosi ad assaggiare il frappé.

« Era solo innamorata! » la difese Eric, scandalizzato da ciò che sentiva.

Staccò con cautela le labbra dalla cannuccia. « E adesso mi dirai che Shakespeare ha ideato il colpo di fulmine, data la brevità con cui Giulietta ha deciso di sposarsi Romeo » ironizzò.

La brodaglia verde non faceva poi così schifo.

L’altro sogghignò. « Potrebbe, che ne sai? » chiese retorico, saltando sul posto per sedersi sul muretto al quale erano appoggiati entrambi.

Joshua fece spallucce.

« Benedetto Signore! » esclamò Eric a metà fra il divertimento e l’esasperazione: « c’è un personaggio che ti piace in quell’opera? Uno solo! » chiese, quasi pregandolo di rispondere positivamente.

Lo Shinigami attese qualche istante, prendendo un altro sorso di frappé. « Mercuzio » sentenziò poi.

« Mercuzio?! » ripeté interdetto l’altro: « lo sboccato? » aggiunse, con il tono di uno che non crede a quello che ha appena udito.

« Sì, Mercuzio » confermò il moro. « E’ il primo personaggio che muore ma è lungi dall’essere inutile. Scatena il senso di vendetta in Romeo, per il quale uccide Tebaldo, dando così il via alla caduta libera che porterà l’intera opera ad essere una tragedia come poche dopo di essa. Inoltre è il migliore amico di Romeo, gli vuole bene come ad un fratello, ma in punto di morte prova abbastanza risentimento da maledire entrambe le famiglie. E’ l’incarnazione della paura che gli umani provano di fronte alla… morte » l’ultima parola, dimentico del suo autocontrollo, gli uscì con voce soffocata.

Eric si zittì, pensoso. « Non l’avevo mai pensata in questo modo » si limitò ad ammettere poi, mangiando distrattamente il secondo gusto - banana - del cono.

Lo Shinigami non rispose. Come aveva fatto a farsi trascinare così profondamente dal discorso fino a dimenticarsi di moderare il linguaggio?

Nonostante fosse alquanto impossibile che un essere umano se ne uscisse con un: “Maddalena puttana, sei un dio della morte!” non voleva lasciare nulla al caso e, soprattutto, non doveva sottovalutare l’acutezza mentale che aveva scoperto essere qualità di Eric.

Un clacson interruppe il loro silenzio.

Alzò gli occhi probabilmente nello stesso istante dell’altro: un furgoncino a sei posti pieno di ragazzini era parcheggiato dall’altra parte della strada, il nome di un’associazione sportiva spiccava in caratteri color arancio sulla fiancata.

Udì Eric borbottare un mezzo insulto. Un uomo sulla cinquantina stava scendendo dallo sportello dell’autista, mentre sette facce li osservavano attraverso i finestrini della vettura.

« Eric! » sbottò l’uomo una volta attraversata la strada, pronunciando il nome con esaustiva prepotenza ma abbastanza piano da non attirare l’attenzione delle altre persone fuori dalla gelateria.

« Papà » ribatté il ragazzo atono, senza la minima intenzione di scendere dal muretto.

« Oggi c’è la partita! Te ne eri dimenticato? No, scommetto di no, vero? Lo fai apposta per farmi incazzare! » cominciò a dire, agitato ed arrabbiato al contempo.

« Papà, ti presento Joshua Archer » lo interruppe però il castano, incurante della sfuriata a voce bassa del padre.

Quello, come risvegliatosi da una sorta di trance di cui facevano parte solo lui e il figlio ribelle, lo osservò con espressione interdetta. « Oh, scusa la maleducazione » cercò subito di rimediare, probabilmente notando solo in quel momento che il figlio maggiore era in compagnia. Tese la mano, presentandosi: « Trent Everald ».

Joshua ricambiò la stretta il più brevemente possibile, quasi sfiorando con le sue dita fredde la mano calda e sudaticcia dell’uomo. « Joshua » si presentò a sua volta, riportando la mano nella tasca dei jeans.

Trent aveva notato la temperatura un po’ bassa della sua pelle, a giudicare da come aveva guardato la mano che lui aveva stretto. Ma Abrahel era altrettanto sicuro che avrebbe accantonato la cosa come una stranezza senza significato, dimenticandosela in quattro e quattr’otto.

« Allora, Joshua… come hai conosciuto mio figlio? » chiese, evidentemente costretto dall’etichetta a cercare di intrattenere una sottospecie di conversazione di cortesia con la persona che si è appena conosciuta.

Notò uno scatto di panico nell’espressione di Eric, ma lui aveva già la risposta pronta.

« Frequentiamo lo stesso college » disse infatti, pacato e con un sorriso tranquillo in volto.

« Oh, splendido » evidentemente apprezzava, data la spontaneità della risposta: « quale facoltà, se posso chiedere? » domandò.

« Fisica » rispose rapidamente, ma non troppo per palesare la sua poca intenzione di intrattenersi oltre le formalità di rito.

Anche Eric parve sorpreso. Dopotutto, considerò Joshua, non gli aveva ancora detto che frequentava Fisica nella sua stessa università. Non vi era ancora stata l’occasione.

« Buona fortuna per i tuoi studi, allora » augurò l’uomo, Joshua annuì. Poi tornò con gli occhi al figlio, incenerendolo quasi: « vorresti per cortesia venire con noi? C’è la partita » ricordò veemente.

« Non è la partita, è una partita! » puntualizzò il ragazzo, seccato: « e Alex di sicuro non si metterà a piangere dalla disperazione se per una volta non vado ad una sua partita di basket! ».

Lo sguardo del padre dardeggiò. « Ci siamo sempre andati tutti, e continueremo ad andarci tutti! E adesso scendi e sali in macchina! » ordinò, alzando il tono.

Alcuni ragazzi nelle vicinanze si voltarono, osservando straniti nella loro direzione per qualche istante.

Fu Eric a cedere. E Abrahel non si stupì che un’altra sua previsione avesse fatto centro.

« Per le mie gare non vale lo stesso ragionamento, però… » lo sentì bisbigliare, ma fece finta di nulla. Eric lo salutò controvoglia, mimando un ringraziamento con le labbra unito a delle scuse, probabilmente per la scena a cui aveva assistito.

Lui fece semplicemente un cenno negativo, sollevando appena la mano per salutarlo di rimando.

Osservò il furgone sparire e, considerando le facce degli occupanti, la rabbia di Trent Everald era infine esplosa.

 

Non rincasò.

Per un qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, preferì di gran lunga passeggiare senza meta fino a sera e oltre, rendendosi conto di aver vagato praticamente per tutta la città solo quando il sole era completamente scomparso dietro la linea dell’orizzonte.

Lui non sentiva la fatica, era da dire. Per quello non si rendeva conto di quanto camminava, quando era immerso nei suoi pensieri.

E di cose su cui riflettere ne aveva fin troppe.

A cominciare dal pomeriggio passato in compagnia dell’obiettivo e dalla sua totale mancanza di precauzioni, da un certo punto in poi. Da qualche parte la sua autocoscienza aveva fatto acqua e lui non riusciva a trovare il punto in cui si era aperta la falla.

Secondo ma non meno importante, cominciava a sentire fame. Probabilmente due secoli di incoscienza ed immobilità avevano indebolito la sua resistenza, donandogli la sgradevole necessità di soddisfare il suo impulso a saziarsi prima del solito.

Si guardò attorno. A giudicare dalla vegetazione era di nuovo ad Heaven Park, solamente in un punto diverso rispetto a quello del primo pomeriggio; attorno a lui vi erano larici, infatti, non tigli, anche se con il buio della prima notte apparivano come una massa di alberi scuri dalle forme appena abbozzate.

Scrutò meglio, senza nemmeno il bisogno di assottigliare gli occhi. Era risaputo che i parchi pullulano di coppie di fidanzatini durante la notte, gli bastava trovarne una.

Ed eccoli, infatti, su di una panchina non molto lontana da lui. Abbracciati teneramente, sembravano impegnati in una conversazione a bassa voce fatta di paroline dolci e promesse d’eterno amore.

Storse il naso, profondamente disgustato dalle sue stesse ipotesi.

Le loro anime erano grigie, come quasi tutte le altre. Solo quella della donna sembrava un po’ più chiara, anche se di poco; un grigio cinereo sicuramente più gradevole del grigio asfalto di quella di lui.

Sospirò, chiudendo gli occhi. Doveva accontentarsi.

Quando li riaprì, era pronto per entrare in scena.

« Scusatemi! » sussurrò, dipingendosi in volto un’espressione di tenerezza colpevole. Corse verso la loro panchina, dove entrambi lo osservarono pacatamente stupiti.

« Sì? » chiese la ragazza una volta che fu davanti a loro, sicuramente molto più disposta del ragazzo ad accogliere la sua ancora inespressa richiesta d’aiuto.

« Mi dispiace disturbare il vostro… sì, insomma… la vostra chiacchierata » finse imbarazzo, magistralmente: « ma la mia ragazza si è persa - sapete, non è di queste parti - e io ho finito il credito nel cellulare » spiegò, velocemente ma senza dare l’idea che fosse tutto improvvisato: « potreste prestarmene uno? Ci metterò solo due minuti, il tempo di farmi spiegare dov’è » aggiunse, ancora fastidiosamente colpevole.

Il ragazzo lo squadrò, facendo per tirare fuori il suo non appena si convinse della sua menzognera buona fede. Gli tese il piccolo apparecchio e, approfittando del gesto, Anbrahel gli sfiorò le dita della mano con le proprie. Ci volle poco: in nemmeno cinque secondi le sue palpebre si abbassarono e il ragazzo cadde addormentato contro lo schienale della panchina.

« Jake? » chiamò lei, ancora interdetta da quello strano comportamento: « cosa ti succede? ».

« Starà bene » esordì il dio della morte, appoggiando il cellulare sulla panchina. Subito dopo toccò con l’indice destro la fronte della ragazza, i cui occhi si velarono di apatia, facendola cadere in una sorta di trance.

Fece un passo indietro, tenendo teso l’indice con cui aveva toccato la donna. Lo mosse da sotto in su in un movimento alquanto elegante e quella, seguendo la volontà dello Shinigami, si alzò in piedi.

Odiava quel lavoro per molti motivi, ma quello era sicuramente al primo posto: il doversi nutrire della forza vitale senza uccidere.

Non era facile. La differenza fra l’uccidere e il nutrirsi era enorme per loro, gli Shinigami, incatenati da leggi severe quanto crudeli. Un sottile equilibrio regolava la vita e la morte e loro erano le prime entità a non doverlo assolutamente infrangere.

Per tale motivo non potevano uccidere chi non era stato designato e, in modo analogo, non potevano far sì che la persona indicata continuasse a vivere.

Lui era sempre riuscito a scampare all’inconveniente. Li uccideva subito, senza aspettare, infrangendo le leggi di “buona condotta” imposte da Enma ma preservando perfettamente intatte quelle del mondo.

Obbligato ad attendere si sentiva come in trappola.

Chiuse gli occhi per un istante soltanto, concentrandosi. Non doveva ucciderla. Solo nutrirsi, rubarle energia vitale senza darle la morte. Non era la sua ora.

Riaprendo gli occhi con rinnovata convinzione si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei.

Non un vero e proprio bacio, anche se lo somigliava. Poteva essere ironicamente chiamato “bacio della morte”, con un certo gusto per il macabro.

Attraverso le labbra socchiuse di entrambi cominciò a scorrere un fiotto di aria fredda, dalla bocca di lei a quella di lui. Energia vitale, più semplicemente, anche se il sapore era alquanto sgradevole.

Acida. Come un’arancia non ancora matura, scorreva nella sua gola dandogli forza e disgusto al contempo. Era come bere un bicchiere di succo puro di limone, non zuccherato o allungato con acqua o sciroppo. Sinceramente disgustoso.

Forzando se stesso, dopo quelli che parvero minuti quanto in realtà erano si e no venti secondi, Abrahel si distaccò con uno scatto indietro del busto, accompagnato da un passo. Strinse gli occhi, portandosi la mano destra alla bocca, chiudendola per non avere la tentazione di terminare di rubare quello che aveva cominciato a prendere dalla ragazza, caduta a peso morto a terra, girata su un fianco.

Tutto si faceva dolce, nella morte. Persino il sapore schifosamente acido di quell’anima cinerea.

Ed era difficile smettere di succhiare fluido vitale quando si conosceva la dolcezza che emanava un’anima che muore.

« Maledizione… » imprecò a denti stretti, serrando gli occhi con tutta l’intenzione di recuperare un minimo di controllo su se stesso e sulle sue pulsioni. Sembravano amplificate di dieci volte, da quando aveva ritrovato la forma umana e si era messo a vivere come uno di loro.

Ed erano passate solo quarantotto ore…

Un leggero battere di mani pervase l’aria, poco distante. Un battito che, si rese conto, poteva tranquillamente essere un applauso appositamente lento.

Voltò il capo nella direzione da cui proveniva. Non si stupì di quello che vide, ma sicuramente non si aspettava di avere anche pubblico di quel tipo.

Un giovane stava in piedi esattamente al centro del vialetto, immobile e così effimero da sembrare una scultura di innaturale bellezza.

La pelle del viso era delicata e chiara, con appena un tocco rosato sulle guance che però non dava eccessivo colore al suo pallore. Lunghi capelli, sottili come fili di seta, erano racchiusi da un elastico in una coda di cavallo alta sulla nuca, di un biondo così chiaro da rilucere d’argento alla luce soffusa delle lampade del parco. Vestiva di scuro - jeans neri e una maglia smanicata a collo alto - ma quello che dava sicuramente più nell’occhio era il colore dei suoi occhi, rilucenti in modo sinistro nella semi oscurità: rossi. Un rosso rubino molto simile a quello del sangue.

Sembrava un adolescente, ma il suo sguardo esprimeva molto più della quasi ventina d’anni che dimostrava.

« Shinigami » disse poi, abbassando le mani ancora intente a battere l’una sull’altra: « incontrare roba come te è raro quanto parlare alla Madonna » esordì.

Il linguaggio non era gentile quanto lo era la sua bellezza.

Arricciò il naso. « Vampiri » si fece scivolare fuori dalla bocca nel medesimo tono, ma non vi riuscì propriamente; venne molto, molto peggio: « il vostro senso dell’umorismo è scarso come sempre » commentò, ritrovando la compostezza.

Aveva messo in conto di poter incontrare altre creature “metafisiche”, ma mai in un parco pubblico così affollato.

Il ragazzo sembrò ilarmente accigliato, quasi curioso, come se non si aspettasse altro che una piacevole chiacchierata da quell’incontro. « Hai visto altri vampiri? » chiese, nello stesso modo in cui si chiede il conto in un ristorante, o che tempo farà nel week end.

« E tu altri Shinigami? » domandò lui in risposta.

Un piccolo sorriso: « Sono abbastanza vecchio da poter dire di sì ».

« Perfetto. Allora ti manca solo la Madonna » ribatté spontaneamente, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans e rimanendo ad osservare il vampiro. Entrambi non avevano motivo di temere l’altro; come molte altre creature, i vampiri non erano soggetti alle leggi che regolavano il loro mondo. Il fatto che non potessero morire - nemmeno invecchiare, veramente - fungeva da scappatoia alla morte vera e propria.

Il loro corpo era già morto, dopotutto.

« Cosa ci fai qui? Credevo che voi sanguisughe batteste i vicoli in cerca degli scarti della società » disse poi, aspettando invano che il vampiro rispondesse alla sua battuta.

« Una regola che non vale più » fece spallucce l’altro, facendo sparire le mani nelle tasche dei pantaloni neri: « i vicoli ora sono battuti anche dai poliziotti, non solo da noi. Umani, non si fidano mai di ciò che non possono vedere » ironizzò, sogghignando appena alla sua sottile battuta. « E’ in posti come questo che si trova parecchia feccia. Ovviamente non sul vialetto… »

Abrahel storse il naso; era una frecciatina puntata diritta su di lui.

«ma nascosti dietro gli alberi ci trovi scippatori, spacciatori… se dice bene la serata, anche qualche violentatore seriale » terminò l’altro.

Il suo stomaco ebbe un moto di disgusto. Tutte anime oscure, tutte; poteva sentirne il sapore amaro della loro sporca linfa vitale anche senza avercela direttamente in bocca.

« Disgustoso » commentò.

« Concordo » rispose l’altro: « ma, per quanto strano, anche noi sanguisughe abbiamo delle regole. Non posso mettermi a mordere bambini, mammine, giovani ragazzine o ragazzini di nemmeno vent’anni » affermò, calcando con la voce sul termine usato prima dallo Shinigami.

Abrahel non rispose. Si limitò a guardarlo camminare, osservandolo procedere in avanti in sua direzione fino a superarlo, il passo pacato e l’aria di chi non si cura di nulla.

« Nome? » chiese quando ce lo ebbe a pochi passi di fronte.

« Marcus » rispose quello: « ma data l’epoca, è meglio Alec » precisò.

Lo Shinigami annuì solamente, ricambiando le formalità: « Abrahel » disse, rispettando il tacito accordo appena accesosi fra loro: complicità. Fra tutti loro, creature ultraterrene, nonostante le apprensioni che dividevano le diverse razze vi era una sorta di codice d’onore unitario.

E questo codice era prima di tutto la cortesia.

« Con permesso » sussurrò il vampiro passandogli a fianco. Poi, uno spostamento d’aria.

Non rispose e non si voltò. Molto probabilmente era già sparito.

 

 

 

 

Earvin “Magic” Johnson jr.: giocatore NBA molto famoso, praticamente uno dei mostri storici del basket. Giocava come playmaker.

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So che Marcus sembra un personaggio piantato lì dal nulla, ma fidatevi: più avanti avrà il suo ruolo XD

Per ora, ringrazio tutti quelli che hanno avuto il fegato di arrivare a leggere fino a qui. Troppo buoni, davvero.

E, naturalmente, tutti coloro che hanno recensito!

 

Kicchina: Oh, Peter Pan Theory. Ed è vero, effettivamente mi sembrava di aver visto il tuo nick da qualche altra parte O.ò

Comincio con il ringraziarti per i complimenti sulla scrittura. Mi fanno sempre piacere e, suvvia, mi hai decisamente elogiato al di sopra di ogni mia immaginazione. Diciamo che ci godo come il riccio sulla spontex, dato che la mia autostima solitamente fatica a galleggiare intorno allo zero U___ù.

Per quanto riguarda i personaggi, beh… posso dire che mi impegno per renderli interessanti, ma non riesco a stabilire autonomamente se mi riesce. Cerco sempre di evitare i soliti cliché scontati, ma non è detto che abbia successo XP. Eric, soprattutto, dovrebbe riservare ancora qualche sorpresina.

Prima che mi dilunghi troppo, ti ringrazio nuovamente per tutti i complimenti e per aver recensito.

 

_Metallica_: Oddio, no, l’infarto no! *sventola il foglio degli appunti nel tentativo di evitare la crisi cardiaca*.

Bando alle ciance: sì, anche io solitamente le fic che parlano di Shinigami le salto in pacca. Mi ricordano troppo Yami no Matsuei, o trovo collegamenti con il suddetto, dunque non mi fido. Il fatto che poi io mi sia trovata a scriverne una è totalmente estrinseco dal mio volere, lo giuro! XD Il corso degli eventi ha voluto così.

Ti ringrazio molto per la recensione e per i complimenti sullo stile. Sono felice, ovviamente, che piaccia… non riesco mai a capire se sia venuta bene o meno, rileggendola. Se apprezzi vuol dire che non sta uscendo poi così male XD

E poi, ti dirò. Sono sette capitoli più Antefatto ed Epilogo… quindi alla fine sono nove, no? *si sente il rumore degli specchi su cui si sta arrampicando*.

 

dea73: come detto abbondantemente sopra, grazie per la recensione. E no, il fatto che i protagonisti siano dei bei fanciulli non è assolutamente casuale. Insomma… com’è che si dice? “L’occhio vuole la sua parte”, no? XP

   
 
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