Sunday
Abrahel
Human I don’t
want to be
Passare più di due secoli nel
nulla assoluto non era un dispiacere, nemmeno una condanna.
Non per lui almeno.
Però, doveva ammettere, se ci
si ritrova catapultati nel ventunesimo secolo quando l’ultimo visto era il
diciottesimo, saltava all’occhio qualche problema.
Primo fa tutti
il fatto che, così sembrava, lo sviluppo - tecnico, industriale,
culturale, artistico, stilistico, architettonico… - pareva aver cominciato a
correre veloce quanto prima procedeva a balzelli.
La Rivoluzione Industriale
aveva dato il via all’industrializzazione, al
materialismo, al capitalismo e infine al consumismo che sembrava letteralmente
consumare la società moderna.
La Rivoluzione Francese aveva
dato una svolta alla società e alla politica, indirizzandola verso un
significato profondo di patriottismo e nazionalismo, proclamando la libertà - tutte le libertà - e fornendo le basi
per un sistema di governo basato sulla democrazia.
Un peccato; non disprezzava la
monarchia se retta con il cervello al posto del vizio.
Poi le Guerre Mondiali,
soprattutto la seconda. La creazione dell’arma che potrebbe
distruggere l’intera vita in sé e il suo uso, catastrofico, poco prima
della metà del ventesimo secolo.
E ora, ormai
giunto al capitolo sulla modernità, la nuova batosta: le pandemie. AIDS, HIV, SARS, TBC… si chiedeva se avessero
inventato un acronimo anche per il raffreddore.
Leggere libri, però, non si
stava rivelando il metodo migliore per recuperare ciò che si era perso del
mondo. L’avanzamento del progresso aveva dato una bella spinta
in avanti allo sviluppo storico, creando un’immensa mole di informazioni
suddivisa in una altrettanto enorme quantità di scartoffie.
Per leggere tutti i libri che
la bibliotecaria gli aveva trovato ci avrebbe messo
come minimo due anni, ed era solo lo scaffale di Storia.
Così, aveva deciso per un
corso intensivo. Una volta imparato ad accendere un PC
era stato facile: convenne che il World Wide Web era
stata proprio una bella pensata, e trovò nella sinteticità di Wikipedia la fonte di informazione adatta alle sue
esigenze.
Tuttavia, dopo ore di
consultazioni - concentrate sul ventesimo secolo, per lo più - si trovò
nuovamente d’accordo con se stesso.
Non era importante quanto gli
esseri umani imparassero, studiassero, ricercassero o
sviluppassero. La razza umana non aveva il minimo rispetto di sé stessa, e lo
spirito di auto conservazione che aveva sempre spinto
gli uomini a racimolare le condizioni migliori in cui vivere li stava portando,
in una sorta di disgustoso controsenso, verso un futuro controllato dalle
macchine, minato dalla guerra e soffocato dall’inquinamento.
Gli umani usavano la loro
innata forza di sopravvivenza per autodistruggersi.
Faceva schifo. Dal
diciottesimo secolo non era cambiato nulla nonostante fosse mutato tutto.
Era solo un’ennesima
rappresentazione della perenne ed immutabile condizione di impotenza
umana; era solo travestita da luci a laser invece di velluto e annegava nella
droga invece che nella poesia.
Pensò a Shakespeare.
In un mondo così avrebbe avuto un’ispirazione infinita per le sue tragedie.
Per non parlare della
generazione giovanile. Oh, quella era la più sadicamente divertente!
Violenza, vizio, eccesso.
Sembrava la realizzazione dei gironi dell’inferno sul
Mediano.
Se Lucifero avesse potuto
mettere il naso fuori dalla sua voragine gli sarebbe
venuta l’ansia a causa del numero di anime oscure che vagavano in giro.
Quel locale in cui aveva
seguito l’umano era un ottimo esempio. Un concentrato di anime
scure da sembrare quasi il buco nero da dove era stato ripescato da Zerachiel.
Però…
Spense il computer della
biblioteca con calma, osservando il salvataggio della sessione sul monitor.
Era sorpreso. E non era cosa da poco esserlo, figuriamoci ammetterlo a se
stesso.
L’umano, quello che doveva
seguire, aveva un’anima intatta, candida. Quasi
fastidiosa da quanto era bianca.
Come faceva? Come faceva a
rimanere così puro immerso, anzi sommerso,
in una gioventù come quella? Con amici come il ciccione
alcolista e lo spacciatore cocainomane, per non parlare del donnaiolo malato di
sesso…
Preservava se stesso solo
grazie alla sua forza di volontà? Qualcuno gli aveva insegnato principi così
saldi da mantenere la sua coscienza integra senza causare una ribellione?
Non sapeva che pensare. E forse non doveva nemmeno ragionarci sopra così tanto.
Era uno stupido, maledetto
lavoro. Si sarebbe nutrito della sua forza vitale, lo avrebbe portato
nell’aldilà, avrebbe fatto contento Enma e tanti
saluti; sarebbe tornato nel suo limbo vuoto, a mai più rivederli.
Sbuffò, disturbato da nulla e
da tutto, alzandosi dal proprio posto e dirigendosi fuori.
La biblioteca del campus
rimaneva aperta anche la domenica, dando la possibilità agli studenti di
preparare gli esami anche nel fine settimana, in cui - aveva imparato - le
lezioni non avevano luogo. La porta d’ingresso dava direttamente sul giardino
interno dell’università, gremito di ragazzi con gli ormoni in fermento occupati
in attività più disparate.
Estrasse dalla tasca della
polo nera un paio di occhiali da sole, indossandoli.
Era un vero strazio quel tempo limpido per uno come
lui, che aveva gli occhi così dannatamente chiari da sembrare anormali anche
con l’aiuto delle lenti a contatto blu.
Osservò l’orologio sulla
torre: le tredici e cinque. Secondo i documenti che Zerachiel
gli aveva fatto il favore di impacchettargli a dovere,
l’umano doveva essere a casa con la famiglia per il pranzo della domenica,
parenti compresi.
Lungi da lui
andare a disturbare la così poco attraente riunione famigliare. Si sarebbe limitato ad osservare da lontano, in barba
al suo compito; ficcare il naso in una famigliola tutta sorrisi e smancerie sarebbe stato il colpo di grazia per la sua già torturata
pazienza.
Joshua Archer si stava rivelando
una faticaccia.
Non provava nulla di
particolare a parte il disgusto, girando fra la gente.
Ai suoi occhi erano solo anime
che vagabondavano avanti e indietro sulla superficie
terrestre, occupati in attività così frenetiche da non essere nemmeno
percepite come vere attività.
Aveva letto che la
quotidianità era il veleno della società. Monotonia, noia, ripetitività:
persone che non facevano altro che ripetere gli stessi gesti giorni dopo
giorno, come automi programmati a dovere, per anni e anni senza mai variare
veramente.
Che modo insulso di sprecare la loro così breve vita.
Giunse di fronte alla casa
dell’umano dopo un quarto d’ora di cammino. Non era lontana
dal campus, notò.
Non era male, per gli standard
umani: una villetta a schiera e due piani, con giardino a fronte e sul retro,
vialetto sul garage e aiuole pulite con fiori ben curati. Due mezzi di
trasporto, uno troppo grande per occupare un posto in
garage - a giudicare dal furgoncino sei posti 4x4 parcheggiato sul vialetto,
con il nome di una società sportiva stampato sul fianco - e come minimo tre
biciclette.
Abbassò di un poco gli
occhiali da sole, concentrandosi sulla casa. Ne vide l’interno come se avesse
degli occhi ad infrarossi, ma non il mobilio: le anime.
Ve ne erano
sei, al momento. Il padre, il nonno e i due adolescenti in sala da pranzo -
l’anima dell’obiettivo era così dannatamente luminosa da coprire le altre tre -
mentre quelle della madre e della nonna brillavano fioche dalla cucina,
diffondendo un alone grigiastro.
Non poteva sentire di cosa stessero discutendo, non era onnisciente e non aveva un
udito supersonico come… qual’era il supereroe? Ah,
Superman (fantasia portaci via…); ma la situazione all’interno non sembrava una
delle più tranquille. L’anima del padre stava ingrigendo
ancora di più, e questo era un effetto tipico del risentimento.
Si sistemò meglio gli
occhiali, bloccando la sua vista “particolare”. Non ci volle molto perché la
porta sbattesse violentemente e, da essa, ne uscisse l’obiettivo
con l’aria di essere decisamente incazzato con il mondo.
O forse solo con il padre.
Fenomenale che la lucentezza
del suo spirito non diminuisse nemmeno sotto l’effetto della collera!
Significava che non era veramente arrabbiato… forse deluso, allora?
E lui era… curioso, sì. Forse vivere da umani aveva
effetti collaterali simili.
Lo osservò dirigersi a passo
svelto verso l’automobile in garage, le chiavi tintinnanti strette con forza
eccessiva nella mano destra. Si fermò interdetto pochi metri
prima della porta, palesemente disturbato dal furgoncino posteggiato sul
vialetto - gli impediva di uscire con l’auto, considerò logicamente - poi si
ficcò le mani nelle tasche dei pantaloncini neri, ignorando il laccio
slacciato delle Convers per incamminarsi velocemente
in direzione di Heaven Park.
La velocità del passo e i
fulmini che lanciava dagli occhi contro gli ignari passanti
la dicevano lunga sul suo stato emotivo. Tuttavia il lavoro era lavoro e Abrahel - ops, pardon, Joshua -
lo seguì, mantenendosi a debita distanza.
Attraversò la strada alla
prima occasione, percorrendo un pezzo della traversa alla fine della via. Come
previsto si infilò in Heaven
Park, sparendo alla vita inghiottito dalla vegetazione.
Tsk, come se fosse facile
sfuggire ad uno come lui. Quell’umano aveva un’anima
facente funzione di segnalatore luminoso e lui aveva il detector incorporato.
Attese che il semaforo
pedonale scattasse, attraversando a passo lento la
strada nella stessa direzione dell’umano.
Sarebbe sembrato un incontro
casuale, come tutti gli altri. Un sorriso, una frase cortese,
qualche commento sul caldo afoso. Un mezzo saluto
dopo l’immancabile silenzio in cui sarebbero caduti; poi la sua voce che lo
fermava, chiedendo di restare.
Aveva letto che quando le
persone erano arrabbiate, puntualmente arrivava anche la tristezza. Era
psicologico. E comune, follemente comune fra gli esseri
umani.
L’umano non avrebbe fatto
eccezione. Lo avrebbe invitato a rimanere solo per avere compagnia e non
lambiccarsi il cervello sulla discussione inutile appena avuta e sulla sua
indiscutibile fine.
E lui sarebbe rimasto, ovviamente. Era
il suo fottutissimo incarico dopotutto, altro non poteva fare.
Proseguì diritto lungo il
vialetto di Heaven Park - un nome ironico, veramente!
- ignorando la maggior parte dei passanti che incontrava man
mano. Alcuni intenti a passeggiare mano nella mano, altri in bicicletta;
un gruppo di bambini giocava a pallone sull’erba mentre, sulle panchine, alcune
vecchiette discutevano animatamente sull’uncinetto e sul punto croce,
confrontando i loro lavori.
Fu poco più avanti che notò
Eric, seduto all’ombra di un tiglio particolarmente rigoglioso. Tagliato un po’
fuori dal mondo, data la posizione della panchina
molto oltre il viale, dove probabilmente voleva stare in quel momento.
Si avvicinò a passo moderato,
calmo, uguale a quello che aveva mantenuto per tutto il tragitto
dall’università a casa Everald fino al parco.
Eric lo notò. Non era difficile,
dato che camminava esattamente di fronte a lui.
Azzardò un sorriso, con note
più sorprese che seccate. Joshua
rispose a sua volta, esibendosi nel più bell’esempio
di sorriso allegro della storia degli ultimi due
secoli. Nemmeno quell’attore, quel tale Orlando Bloom, sarebbe stato bravo quanto lui.
« Everald » pronunciò in saluto, fermandoglisi
davanti con le mani ancora nelle tasche dei jeans.
« Archer » rispose quello, definitivamente sorpreso: « è quasi incredibile quanto spesso ci
incontriamo. Potrei quasi asserire che mi stai
pedinando, se non lo credessi impossibile » aggiunse.
Se avesse avuto un cuore, probabilmente gli sarebbe
mancato il battito.
Ma accusò il colpo con classe, senza tradirsi. Non era
abituato a doversi comportare da essere umano, ma mentire non era mai stata una
fatica.
« Potrebbe sembrare, sì » disse
con finta complicità, per poi aggiungere: « fa caldo,
non è vero? ».
Eric annuì appena, scostando
gli occhi dai suoi come se fosse in soggezione. Come se
avesse potuto vederli oltre le lenti scure degli occhiali da sole, per giunta.
« Sì, effettivamente fa caldo » concordò, facendo ben presto cadere il silenzio fra
loro.
Joshua sorrise internamente. Esattamente
come aveva previsto.
« Beh, allora ti lascio al tuo meritato riposo » soggiunse dopo qualche istante, dando l’impressione di
aver afferrato la profondità del buco venutosi a creare nella conversazione.
Tutto calcolato, ovviamente. « Ci vediamo » salutò, voltandosi e facendo per andarsene.
Bastò contare fino a tre.
« Archer? » lo chiamò l’altro da dietro.
Si lasciò sfuggire un sorrisetto, prima di voltarsi.
« Se ti va… e non hai niente da
fare… sì, insomma, mi faresti compagnia? » domandò il
castano, spostandosi inconsciamente un poco più di lato sulla panchina.
Il sorriso interiore si
allargò ancora di più. Non sapeva come, ma provava una sorta di sadico
divertimento a predire ogni mossa di quell’essere umano.
Annuì con il capo. « Va bene, non ho impegni oggi
pomeriggio ».
E per i secoli dei secoli a venire, completò col pensiero.
Percorse al contrario i pochi
passi che li separarono, sedendosi con innata eleganza sul lato della panchina
lasciato libero dall’altro, improvvisamente rifugiatosi in un imbarazzato
mutismo.
Come minimo si stava chiedendo
per quale motivo lo avesse richiamato indietro. Ci
avrebbe scommesso sopra.
Decise di lanciargli un
salvagente: « perdonami la curiosità, ma ti vedo un po’ giù di
corda… successo qualcosa? » chiese,
senza essere in realtà per nulla interessato alla sua vita privata.
Eric esitò, scostando lo
sguardo sui giardini davanti a loro. Osservò per quasi un minuto un pastore
tedesco riportare il frisbee al padrone che lo aveva lanciato poi, sospirando
con rassegnazione, parlò.
« E’ mio padre » affermò,
portando le ginocchia divaricate al petto e appoggiando le braccia su di esse. « E’ allenatore di basket di una
squadra locale, abbastanza in gamba tra l’altro. Non gli va giù che io abbia scelto il nuoto » spiegò cupo.
Tipico. Niente
meglio di un battibecco famigliare a basso voltaggio per attaccare bottone.
« Perché eri bravo? » chiese, fingendosi moderatamente interessato.
« Perché ero il figlio » lo corresse Eric; una nota di risentimento vibrò nella
sua voce. « Aveva bisogno di me, mi ha detto quando mi sono
proposto per la squadra di nuoto del college. Ma non
aveva bisogno di me » calcò con la voce: « aveva
bisogno di un numero. O forse di gonfiare il suo
orgoglio per poter dire “tartasso mio figlio giorno e notte fuori allenamento
finchè non sputa la milza e suda sangue” » completò,
leggermente più infervorato.
« Bella immagine » ironizzò Joshua.
« E’ quello che fa con mio fratello minore » chiarì l’altro: « ma ad Alex
piace scodinzolare dietro papà, dunque peggio per lui. Almeno lascia in pace me
».
« Da come appari oggi, non si direbbe » notò Joshua, osservandolo di
sbieco. Eric restituì lo sguardo.
« Sono solo… le sue allusioni » riprese, fissando il pastore tedesco come se dovesse
dargli fuoco: « sempre. Continuamente. Soprattutto
quando ci sono degli ospiti, o dei parenti; e quando sono presente anche io,
ovviamente, altrimenti no, non si renderebbe necessario ». Una piccola pausa, un sospiro: « “è un vero peccato per Eric, ma cosa ci possiamo fare?
Ha preferito l’acqua” oppure “mi ricordo ancora i tiri da tre di Eric, anche se quelli di Alex sono meglio” » fece il verso al padre. « Se sono così tanto meglio di cosa ti lamenti? Adesso ce l’hai il tuo figlio cestista: lascia in pace il mondo,
cazzo! » sbottò infine, dando un calcio all’aria e lasciando
ricadere la gamba sul metallo della panchina.
Se non fosse stato indelicato farlo, si sarebbe messo a
ridere. Gli esseri umani trasformavano una cagata in un problema
insormontabile.
Sogghignò, in effetti, ma non
lo diede abilmente a vedere. « Mai pensato di parlarci? » propose invece, osservando a sua volta il cane con
interesse nullo. Così, tanto per guardare la stessa cosa.
« Cosa? » esclamò l’altro, a metà fra lo
sorpreso e l’orripilato.
« Parlarci » ripeté lui: « sai, è un’attività piuttosto comune per coloro che possiedono una capacità di linguaggio complessa
ed intelligibile » scherzò appena, pacatamente.
« E per dirgli cosa? » domandò retorico: « non ascolta
mai. Mai. Potrei parlargli del Super Ball come della fine del mondo e non mi
presterebbe attenzione ugualmente » esclamò.
Dio, quanto la faceva
complicata… « senza offesa Everald » cominciò però lui, voltandosi
definitivamente verso il castano: « ma l’unica
cosa che stai facendo in questo momento è lamentarti di qualcosa contro cui non
prendi nemmeno provvedimenti. E’ come disprezzare i viaggi in treno mentre ci
stai seduto sopra. Finché ti piangi addosso e vai a
nasconderti non arriverai da nessuna parte ».
Eric aggrottò
le sopracciglia, lo sguardo si fece seccato. « Sembri saperne un bel po’, eh? Dell’andare a
nascondersi » ribatté.
L’espressione di Joshua si fece più seria nonostante gli occhiali da sole ne
coprissero gli occhi.
Ne sapeva qualcosa, sì. Aveva
passato gli ultimi due secoli a nascondersi.
Non rispose alla provocazione,
tornando a fissare il parco. Eric Everald era l’ultima
- e l’unica - persona nell’universo a cui volesse dare
abbastanza peso per scatenare una reazione sentita ad una qualsivoglia
provocazione verbale.
Era un Dio della Morte, santa
merda. Lui non aveva il permesso di
avere reazioni.
Ritornando un po’ in se stesso
anche Eric si voltò verso il prato, mormorando qualche scusa sconnessa per la
sua maleducazione.
Come se lui potesse offendersi
per una cosa simile!
Non resistette a se stesso.
L’impulso di parlare lo vinse.
« Qualche anno fa… » qualche SECOLO forse, si disse: « …in occasione di un viaggio studio in Belgio conobbi
un pastore » cominciò, adattando la sua storia arcaica ad un
immaginario moderno. Non era difficile, si ritrovò a pensare, mentre si
assicurava di avere l’attenzione di Eric, silenzioso
al suo fianco.
« Non era un uomo cattivo, o particolarmente stupido…
era solo disperato. Aveva perso la moglie da poco, credo; non ricordo,
sinceramente » proseguì, il tono di voce calmo di chi parla del tempo, o del risultato di una partita di calcio: « perse letteralmente la testa per un demone pagano.
Così tanto che cominciò ad adorarlo, asserendo di
potergli parlare, spiegando con una folle contentezza che il demone ricambiava
i suoi sforzi per compiacerlo ».
Il castano pendeva dalle sue
labbra. Ma non fu la totale attenzione del suo
obiettivo la cosa che lo colpì di più.
Più che
altro la sua stessa improvvisa propensione ai racconti vecchi quanto Giotto e
il suo cerchio perfetto.
Continuò,
indolente di tutto: « un giorno, quel pastore avvelenò il figlio. Sostenne che il demone glielo aveva
richiesto come prova del suo amore incondizionato » rivelò, voltando nuovamente il capo in direzione di Eric.
La sua espressione non poteva
esprimere maggiore stupore.
« Per me la parola “padre” non ha significato. Per
questo ti consiglio di mettere le cose in chiaro, ma non da padre a figlio:
devi farlo da uomo a uomo. E’ arrivato il momento che
ti tratti come una persona, non come il prototipo venuto male di Magic Johnson » terminò.
Un silenzio di piombo cadde
fra loro. Silenzio pieno di parole per le menti di entrambi, probabilmente; o
perlomeno lo era per Joshua.
Stare sul Mediano faceva male
davvero. Si stava abituando troppo in fretta ad essere umano, a quanto pareva,
per lasciarsi trasportare così sentitamente da una discussione. Sulla famiglia,
poi! Lui che nemmeno l’aveva!
« Certo che le sai mettere le
cose in chiaro, quando serve » ironizzò poi Eric, ritrovando le
parole e accompagnandole con una leggera risata.
« Sembra di sì » rispose lui,
per nulla scomposto. A dire il vero era la prima volta che gli capitava, ma
dirlo ad alta voce avrebbe scatenato sicuramente dei
dubbi.
« Ti va di camminare un po’? » propose poi il castano, alzandosi. « Queste panchine non sono esattamente l’apoteosi della
comodità » aggiunse come pretesto, stiracchiandosi.
Joshua annuì. Lo avrebbe comunque
seguito per il resto del pomeriggio, tanto valeva farlo parlandoci. « Ho sentito che in centro hanno aperto una nuova
gelateria, andiamo a vedere che gente gira » propose,
riuscendo addirittura a far credere che la cosa lo entusiasmasse.
« Mh, aggiudicato » commentò il castano: « ho
voglia di un gelato ».
Scoprì con interesse che non
era così seccante, discorrere con Eric. Anzi, era intellettualmente piacevole.
Non era una testa vuota come la
gente che lo accompagnava; anzi, tutt’altro.
Era sveglio. Parecchio, per
essere uno studente di letteratura abituato a
immergere il naso in libri impolverati, i testi vecchi di centinaia d’anni.
La conversazione, suo
malgrado, aveva preso piede quando l’altro gli aveva confessato una certa
passione per Shakespeare. Considerando che era
l’unico autore che Joshua - o Abrahel,
più verosimilmente - leggeva con un moderato interesse, i commenti sulle sue
molteplici tragedie si concatenarono senza tregua per tutto il pomeriggio.
« il Romeo e
Giulietta » confessò Eric, leccando con cipiglio critico il gelato
al pompelmo dal cono: « sembrerà banale, ma è una delle sue opere che più apprezzo » aggiunse, annuendo a se stesso come per dirsi che la
scelta del pompelmo non era stata avventata.
« Non sembra, è banale » intervenne Joshua,
scrutando con recitata incuranza il frappè alla menta; in realtà senza esserne
molto convinto. Lo aveva preso solo per non destare sospetti,
dato che l’aveva tirata fuori lui l’idea della gelateria.
« Superficiale » lo accusò il
castano.
« Non è superficialità »
rispose lui, lasciando finalmente stare la cannuccia. « Romeo è il classico cretino che cade innamorato cotto
solo per aver visto una ragazza un po’ più bella dello standard. Ipocrita, tra l’altro, dato che solo dodici ore prima sbavava
dietro a Rosalina ».
« E’ perché è stato creato così che è diventato il
“classico cretino”. E’ il Romeo di Shakespeare che ha
dato forma al cosiddetto “classico cretino” » intervenne Everald con fervore.
« Se lo è divenuto è perché la
tragedia rispecchia le abitudini frivole del periodo, dunque i creduloni
cretini esistevano già » ribatté Joshua.
« E Giulietta? Sarà colpa del
gap generazionale, ma a me pare abbastanza libertina per
essere una pudica vergine » disse, decidendosi ad assaggiare
il frappé.
« Era solo innamorata! » la
difese Eric, scandalizzato da ciò che sentiva.
Staccò con cautela le labbra
dalla cannuccia. « E adesso mi dirai che Shakespeare ha ideato il colpo di fulmine, data la brevità
con cui Giulietta ha deciso di sposarsi Romeo »
ironizzò.
La brodaglia verde non faceva
poi così schifo.
L’altro sogghignò. « Potrebbe, che ne sai? » chiese
retorico, saltando sul posto per sedersi sul muretto al quale erano appoggiati
entrambi.
Joshua fece spallucce.
« Benedetto Signore! » esclamò Eric
a metà fra il divertimento e l’esasperazione: « c’è un
personaggio che ti piace in quell’opera? Uno solo! » chiese, quasi pregandolo di rispondere positivamente.
Lo Shinigami
attese qualche istante, prendendo un altro sorso di frappé. « Mercuzio
» sentenziò poi.
« Mercuzio?! » ripeté interdetto l’altro: « lo sboccato? » aggiunse,
con il tono di uno che non crede a quello che ha appena udito.
« Sì, Mercuzio » confermò il moro. « E’ il primo
personaggio che muore ma è lungi dall’essere inutile. Scatena il senso di
vendetta in Romeo, per il quale uccide Tebaldo, dando così il via alla caduta
libera che porterà l’intera opera ad essere una tragedia come poche dopo di essa. Inoltre è il migliore amico
di Romeo, gli vuole bene come ad un fratello, ma in punto di morte prova
abbastanza risentimento da maledire entrambe le famiglie. E’ l’incarnazione
della paura che gli umani provano di fronte alla… morte » l’ultima parola, dimentico del suo autocontrollo, gli
uscì con voce soffocata.
Eric si zittì, pensoso. « Non l’avevo mai pensata in questo modo » si limitò ad ammettere poi, mangiando distrattamente
il secondo gusto - banana - del cono.
Lo Shinigami
non rispose. Come aveva fatto a farsi trascinare così profondamente dal
discorso fino a dimenticarsi di moderare il linguaggio?
Nonostante fosse alquanto
impossibile che un essere umano se ne uscisse con un: “Maddalena puttana, sei
un dio della morte!” non voleva lasciare nulla al caso e, soprattutto, non
doveva sottovalutare l’acutezza mentale che aveva scoperto essere qualità di Eric.
Un clacson interruppe il loro
silenzio.
Alzò gli occhi probabilmente
nello stesso istante dell’altro: un furgoncino a sei posti pieno di ragazzini
era parcheggiato dall’altra parte della strada, il nome di un’associazione
sportiva spiccava in caratteri color arancio sulla fiancata.
Udì Eric borbottare un mezzo
insulto. Un uomo sulla cinquantina stava scendendo dallo sportello
dell’autista, mentre sette facce li osservavano attraverso i finestrini della
vettura.
« Eric! » sbottò l’uomo una volta
attraversata la strada, pronunciando il nome con esaustiva prepotenza ma
abbastanza piano da non attirare l’attenzione delle altre persone fuori dalla gelateria.
« Papà » ribatté il ragazzo atono, senza
la minima intenzione di scendere dal muretto.
« Oggi c’è la partita! Te ne eri
dimenticato? No, scommetto di no, vero? Lo fai apposta per farmi incazzare! » cominciò a dire, agitato ed
arrabbiato al contempo.
« Papà, ti presento Joshua Archer » lo interruppe però il castano,
incurante della sfuriata a voce bassa del padre.
Quello, come risvegliatosi da
una sorta di trance di cui facevano parte solo lui e
il figlio ribelle, lo osservò con espressione interdetta. « Oh, scusa la maleducazione » cercò subito di rimediare, probabilmente notando solo
in quel momento che il figlio maggiore era in compagnia. Tese la mano,
presentandosi: « Trent Everald
».
Joshua ricambiò la stretta il più brevemente possibile, quasi
sfiorando con le sue dita fredde la mano calda e sudaticcia dell’uomo. « Joshua » si presentò a sua volta, riportando la mano nella
tasca dei jeans.
Trent aveva notato la temperatura un po’ bassa della sua
pelle, a giudicare da come aveva guardato la mano che lui aveva stretto. Ma Abrahel era altrettanto sicuro
che avrebbe accantonato la cosa come una stranezza senza significato,
dimenticandosela in quattro e quattr’otto.
« Allora, Joshua… come hai conosciuto
mio figlio? » chiese, evidentemente costretto dall’etichetta a
cercare di intrattenere una sottospecie di conversazione di
cortesia con la persona che si è appena conosciuta.
Notò uno scatto di panico
nell’espressione di Eric, ma lui aveva già la risposta
pronta.
« Frequentiamo lo stesso college » disse infatti, pacato e con
un sorriso tranquillo in volto.
« Oh, splendido »
evidentemente apprezzava, data la spontaneità della risposta: « quale facoltà, se posso chiedere? » domandò.
« Fisica » rispose rapidamente, ma non
troppo per palesare la sua poca intenzione di intrattenersi oltre le formalità
di rito.
Anche Eric parve sorpreso. Dopotutto, considerò Joshua, non gli aveva ancora detto che frequentava Fisica
nella sua stessa università. Non vi era ancora stata l’occasione.
« Buona fortuna per i tuoi studi, allora » augurò l’uomo, Joshua annuì.
Poi tornò con gli occhi al figlio, incenerendolo quasi: « vorresti per cortesia venire con noi? C’è la partita » ricordò veemente.
« Non è la partita, è una
partita! » puntualizzò il ragazzo, seccato: « e Alex di sicuro non si metterà a piangere dalla
disperazione se per una volta non vado ad una sua partita di basket! ».
Lo sguardo del padre
dardeggiò. « Ci siamo sempre andati tutti, e continueremo ad
andarci tutti! E adesso scendi e sali in macchina! » ordinò, alzando il tono.
Alcuni ragazzi nelle vicinanze
si voltarono, osservando straniti nella loro direzione per qualche istante.
Fu Eric a cedere. E Abrahel non si stupì che
un’altra sua previsione avesse fatto centro.
« Per le mie gare non vale lo stesso ragionamento, però…
» lo sentì bisbigliare, ma fece finta di nulla. Eric lo
salutò controvoglia, mimando un ringraziamento con le labbra
unito a delle scuse, probabilmente per la scena a cui aveva assistito.
Lui fece semplicemente un
cenno negativo, sollevando appena la mano per salutarlo di rimando.
Osservò il furgone sparire e,
considerando le facce degli occupanti, la rabbia di Trent
Everald era infine esplosa.
Non rincasò.
Per un qualche motivo che non
riusciva a spiegarsi, preferì di gran lunga
passeggiare senza meta fino a sera e oltre, rendendosi conto di aver vagato
praticamente per tutta la città solo quando il sole era completamente scomparso
dietro la linea dell’orizzonte.
Lui non sentiva
la fatica, era da dire. Per quello non si rendeva conto di quanto
camminava, quando era immerso nei suoi pensieri.
E di cose su cui riflettere ne aveva fin troppe.
A cominciare
dal pomeriggio passato in compagnia dell’obiettivo e dalla sua totale mancanza
di precauzioni, da un certo punto in poi. Da qualche parte la sua autocoscienza aveva fatto acqua e lui non
riusciva a trovare il punto in cui si era aperta la falla.
Secondo ma non meno
importante, cominciava a sentire fame.
Probabilmente due secoli di incoscienza ed immobilità
avevano indebolito la sua resistenza, donandogli la sgradevole necessità di
soddisfare il suo impulso a saziarsi prima del solito.
Si guardò attorno. A giudicare
dalla vegetazione era di nuovo ad Heaven
Park, solamente in un punto diverso rispetto a quello del primo pomeriggio;
attorno a lui vi erano larici, infatti, non tigli, anche se con il buio della
prima notte apparivano come una massa di alberi scuri dalle forme appena
abbozzate.
Scrutò meglio, senza nemmeno
il bisogno di assottigliare gli occhi. Era risaputo che i parchi pullulano di coppie di fidanzatini durante la notte, gli
bastava trovarne una.
Ed eccoli, infatti, su di una panchina non molto lontana da
lui. Abbracciati teneramente,
sembravano impegnati in una conversazione a bassa voce fatta di paroline dolci
e promesse d’eterno amore.
Storse il naso, profondamente
disgustato dalle sue stesse ipotesi.
Le loro anime erano grigie,
come quasi tutte le altre. Solo quella della donna sembrava un po’ più chiara,
anche se di poco; un grigio cinereo sicuramente più gradevole del grigio
asfalto di quella di lui.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
Doveva accontentarsi.
Quando li riaprì, era pronto per entrare in scena.
« Scusatemi! » sussurrò,
dipingendosi in volto un’espressione di tenerezza colpevole. Corse
verso la loro panchina, dove entrambi lo osservarono pacatamente stupiti.
« Sì? » chiese la ragazza una volta che
fu davanti a loro, sicuramente molto più disposta del
ragazzo ad accogliere la sua ancora inespressa richiesta d’aiuto.
« Mi dispiace disturbare il vostro…
sì, insomma… la vostra chiacchierata » finse
imbarazzo, magistralmente: « ma la mia ragazza si è persa -
sapete, non è di queste parti - e io ho finito il credito nel cellulare » spiegò, velocemente ma senza dare l’idea che fosse tutto
improvvisato: « potreste prestarmene uno? Ci metterò solo due minuti, il tempo di farmi
spiegare dov’è » aggiunse, ancora fastidiosamente colpevole.
Il ragazzo lo squadrò, facendo
per tirare fuori il suo non appena si convinse della sua menzognera buona fede.
Gli tese il piccolo apparecchio e, approfittando del gesto, Anbrahel
gli sfiorò le dita della mano con le proprie. Ci volle poco: in nemmeno cinque
secondi le sue palpebre si abbassarono e il ragazzo cadde addormentato contro
lo schienale della panchina.
« Jake? » chiamò lei, ancora interdetta da quello strano
comportamento: « cosa ti succede? ».
« Starà bene » esordì il
dio della morte, appoggiando il cellulare sulla panchina. Subito dopo toccò con
l’indice destro la fronte della ragazza, i cui occhi si velarono di apatia, facendola cadere in una sorta di trance.
Fece un passo indietro,
tenendo teso l’indice con cui aveva toccato la donna. Lo mosse da sotto in su in un movimento alquanto elegante e quella, seguendo
la volontà dello Shinigami, si alzò in piedi.
Odiava quel lavoro per molti
motivi, ma quello era sicuramente al primo posto: il doversi nutrire della
forza vitale senza uccidere.
Non era facile. La differenza
fra l’uccidere e il nutrirsi era enorme per loro, gli Shinigami, incatenati da leggi severe quanto crudeli. Un
sottile equilibrio regolava la vita e la morte e loro erano le prime entità a
non doverlo assolutamente infrangere.
Per tale motivo non potevano uccidere
chi non era stato designato e, in modo analogo, non potevano far sì che la
persona indicata continuasse a vivere.
Lui era sempre riuscito a
scampare all’inconveniente. Li uccideva subito, senza aspettare, infrangendo le
leggi di “buona condotta” imposte da Enma ma
preservando perfettamente intatte quelle del mondo.
Obbligato ad attendere si
sentiva come in trappola.
Chiuse gli occhi per un
istante soltanto, concentrandosi. Non doveva ucciderla. Solo
nutrirsi, rubarle energia vitale senza darle la morte. Non era la sua
ora.
Riaprendo gli occhi con
rinnovata convinzione si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei.
Non un vero e proprio bacio,
anche se lo somigliava. Poteva essere ironicamente chiamato “bacio della
morte”, con un certo gusto per il macabro.
Attraverso le labbra socchiuse
di entrambi cominciò a scorrere un fiotto di aria
fredda, dalla bocca di lei a quella di lui. Energia vitale, più semplicemente,
anche se il sapore era alquanto sgradevole.
Acida. Come un’arancia non
ancora matura, scorreva nella sua gola dandogli forza e disgusto al contempo.
Era come bere un bicchiere di succo puro di limone, non zuccherato o allungato
con acqua o sciroppo. Sinceramente disgustoso.
Forzando se stesso, dopo quelli che parvero minuti quanto in realtà erano si e no
venti secondi, Abrahel si distaccò con uno scatto
indietro del busto, accompagnato da un passo. Strinse gli occhi, portandosi la
mano destra alla bocca, chiudendola per non avere la tentazione di terminare di
rubare quello che aveva cominciato a prendere dalla ragazza, caduta a peso
morto a terra, girata su un fianco.
Tutto si faceva dolce, nella
morte. Persino il sapore schifosamente acido di quell’anima
cinerea.
Ed era difficile smettere di succhiare fluido vitale
quando si conosceva la dolcezza che emanava un’anima che muore.
« Maledizione… » imprecò a
denti stretti, serrando gli occhi con tutta l’intenzione di recuperare un
minimo di controllo su se stesso e sulle sue pulsioni. Sembravano amplificate di dieci volte, da quando aveva ritrovato la
forma umana e si era messo a vivere come uno di loro.
Ed erano passate solo quarantotto ore…
Un leggero battere di mani
pervase l’aria, poco distante. Un battito che, si rese conto,
poteva tranquillamente essere un applauso appositamente lento.
Voltò il capo nella direzione
da cui proveniva. Non si stupì di quello che vide, ma sicuramente non si
aspettava di avere anche pubblico di quel tipo.
Un giovane stava in piedi
esattamente al centro del vialetto, immobile e così effimero da sembrare una
scultura di innaturale bellezza.
La pelle del viso era delicata
e chiara, con appena un tocco rosato sulle guance che però non dava eccessivo
colore al suo pallore. Lunghi capelli, sottili come fili di seta, erano
racchiusi da un elastico in una coda di cavallo alta sulla nuca, di un biondo
così chiaro da rilucere d’argento alla luce soffusa delle lampade del parco.
Vestiva di scuro - jeans neri e una maglia smanicata a collo alto - ma quello
che dava sicuramente più nell’occhio era il colore dei suoi occhi, rilucenti in
modo sinistro nella semi oscurità: rossi. Un rosso
rubino molto simile a quello del sangue.
Sembrava un adolescente, ma il
suo sguardo esprimeva molto più della quasi ventina d’anni che dimostrava.
« Shinigami » disse poi, abbassando le mani ancora intente a battere
l’una sull’altra: « incontrare roba come te è raro quanto parlare alla Madonna » esordì.
Il linguaggio non era gentile
quanto lo era la sua bellezza.
Arricciò il naso. « Vampiri » si fece
scivolare fuori dalla bocca nel medesimo tono, ma non
vi riuscì propriamente; venne molto, molto peggio: « il vostro senso dell’umorismo è scarso come sempre » commentò, ritrovando la compostezza.
Aveva messo in conto di poter
incontrare altre creature “metafisiche”, ma mai in un parco pubblico così
affollato.
Il ragazzo sembrò ilarmente
accigliato, quasi curioso, come se non si aspettasse altro che una piacevole
chiacchierata da quell’incontro. « Hai visto
altri vampiri? » chiese, nello stesso modo in cui si chiede il conto in
un ristorante, o che tempo farà nel week end.
« E tu altri Shinigami? » domandò lui in
risposta.
Un piccolo sorriso: « Sono abbastanza vecchio da poter dire di sì ».
« Perfetto. Allora ti manca solo la Madonna » ribatté spontaneamente, infilandosi le mani nelle
tasche dei jeans e rimanendo ad osservare il vampiro.
Entrambi non avevano motivo di temere l’altro; come
molte altre creature, i vampiri non erano soggetti alle leggi che regolavano il
loro mondo. Il fatto che non potessero morire - nemmeno invecchiare, veramente
- fungeva da scappatoia alla morte vera e propria.
Il loro corpo era già morto,
dopotutto.
« Cosa ci fai qui? Credevo che
voi sanguisughe batteste i vicoli in cerca degli scarti della società » disse poi, aspettando invano che il vampiro
rispondesse alla sua battuta.
« Una regola che non vale più » fece spallucce l’altro, facendo sparire le mani nelle
tasche dei pantaloni neri: « i vicoli ora sono battuti anche
dai poliziotti, non solo da noi.
Umani, non si fidano mai di ciò che non possono vedere » ironizzò, sogghignando appena alla sua sottile
battuta. « E’ in posti come questo che si trova parecchia feccia.
Ovviamente non sul vialetto… »
Abrahel storse il naso; era una frecciatina
puntata diritta su di lui.
« …ma nascosti dietro gli
alberi ci trovi scippatori, spacciatori… se dice bene la serata, anche qualche
violentatore seriale » terminò l’altro.
Il suo stomaco ebbe un moto di
disgusto. Tutte anime oscure, tutte; poteva sentirne il sapore amaro della loro
sporca linfa vitale anche senza avercela direttamente in bocca.
« Disgustoso » commentò.
« Concordo » rispose
l’altro: « ma, per quanto strano, anche noi sanguisughe abbiamo delle regole. Non posso mettermi a mordere
bambini, mammine, giovani ragazzine o ragazzini di
nemmeno vent’anni » affermò,
calcando con la voce sul termine usato prima dallo Shinigami.
Abrahel non rispose. Si limitò a guardarlo camminare,
osservandolo procedere in avanti in sua direzione fino a superarlo, il passo pacato e l’aria di chi non si cura di nulla.
« Nome? » chiese quando ce
lo ebbe a pochi passi di fronte.
« Marcus » rispose quello: « ma data
l’epoca, è meglio Alec »
precisò.
Lo Shinigami annuì solamente, ricambiando le formalità: « Abrahel » disse, rispettando il tacito accordo appena accesosi
fra loro: complicità. Fra tutti
loro, creature ultraterrene, nonostante le apprensioni che dividevano le
diverse razze vi era una sorta di codice d’onore unitario.
E questo codice
era prima di tutto la cortesia.
« Con permesso » sussurrò il
vampiro passandogli a fianco. Poi, uno spostamento d’aria.
Non rispose e non si voltò.
Molto probabilmente era già sparito.
Earvin “Magic” Johnson
jr.: giocatore NBA molto famoso, praticamente uno
dei mostri storici del basket. Giocava come playmaker.
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So che Marcus sembra un personaggio piantato lì dal nulla, ma fidatevi: più avanti avrà il suo ruolo XD
Per ora, ringrazio tutti quelli che hanno avuto il fegato di arrivare a leggere fino a qui. Troppo buoni, davvero.
E, naturalmente, tutti coloro che hanno recensito!
Kicchina: Oh, Peter Pan Theory. Ed è vero, effettivamente mi sembrava di aver visto il tuo nick da qualche altra parte O.ò
Comincio con il ringraziarti per i complimenti sulla scrittura. Mi fanno sempre piacere e, suvvia, mi hai decisamente elogiato al di sopra di ogni mia immaginazione. Diciamo che ci godo come il riccio sulla spontex, dato che la mia autostima solitamente fatica a galleggiare intorno allo zero U___ù.
Per quanto riguarda i personaggi, beh… posso dire che mi impegno per renderli interessanti, ma non riesco a stabilire autonomamente se mi riesce. Cerco sempre di evitare i soliti cliché scontati, ma non è detto che abbia successo XP. Eric, soprattutto, dovrebbe riservare ancora qualche sorpresina.
Prima che mi dilunghi troppo, ti ringrazio nuovamente per tutti i complimenti e per aver recensito.
_Metallica_: Oddio, no, l’infarto no! *sventola il foglio degli appunti nel tentativo di evitare la crisi cardiaca*.
Bando alle ciance: sì, anche io solitamente le fic che parlano di Shinigami le salto in pacca. Mi ricordano troppo Yami no Matsuei, o trovo collegamenti con il suddetto, dunque non mi fido. Il fatto che poi io mi sia trovata a scriverne una è totalmente estrinseco dal mio volere, lo giuro! XD Il corso degli eventi ha voluto così.
Ti ringrazio molto per la recensione e per i complimenti sullo stile. Sono felice, ovviamente, che piaccia… non riesco mai a capire se sia venuta bene o meno, rileggendola. Se apprezzi vuol dire che non sta uscendo poi così male XD
E poi, ti dirò. Sono sette capitoli più Antefatto ed Epilogo… quindi alla fine sono nove, no? *si sente il rumore degli specchi su cui si sta arrampicando*.
dea73:
come detto abbondantemente sopra, grazie per la recensione. E no, il fatto che
i protagonisti siano dei bei fanciulli non è assolutamente casuale. Insomma…
com’è che si dice? “L’occhio vuole la sua parte”, no? XP