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Autore: evilqueen82    25/05/2019    1 recensioni
Ginny Weasley è una giovane donna in carriera.
Fa la giornalista a Londra e convive da nove anni con la sua compagna.
Ma un incontro inaspettato con un fantasma del passato, stravolge il suo presente.
Perde il lavoro, l'amore ed è costretta a ritornare a Little Hangleton, suo paese natio, dal quale otto anni prima era fuggita.
come se non bastasse è incinta e a molti la cosa non piacerà. A qualcuno meno ancora che ad altri.
I guai per lei sono appena iniziati....
AVVISO AI LETTORI.
tutti i capitoli sono stati revisionati.
Genere: Commedia, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Draco Malfoy, Famiglia Weasley, Ginny Weasley, Narcissa Malfoy | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
Capitoli:
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Dov’eravamo rimasti…

A quanto pare per Ginny non c’è mai pace. Ogni volta che la sua vita sembra aver preso una svolta positiva, ecco che un imprevisto rimette tutto nuovamente in discussione. Dopo il disastro alla festa di Lupin la nostra “eroina” è stata lasciata da Fleur e declassata sul posto di lavoro (ma di questo ne parlerò meglio più avanti, come di altre cose di cui ancora non ho accennato).

Sola e disperata non le resta che stordirsi di birra davanti al bancone di un bar.
Ma il destino ha appena iniziato a giocare con lei. E dopo una lite con un tizio mai visto e conosciuto, decide di tornarsene a casa. Peccato che poco prima di arrivare viene fermata da un’agente della stradale che la arresta per guida (in bici) in stato di ebrezza.
Condotta in questura, chi si ritrova davanti, se non lo sconosciuto del bar che altri non è che il nuovo sceriffo della contea? Alla giovane che sembrava aver toccato il fondo, non resta che prendere una pala e iniziare a scavare...


 

La sala d'attesa era gremita di persone di diversa età: anziani con i loro acciacchi, madri che accompagnavano i loro figli influenzati e uomini usciti da lavoro. Ciononostante regnava una calma composta: non c'erano grida o piagnistei ma solo un lieve brusio dovuto al chiacchierio dei pazienti.
L'ambiente era grande e accogliente, rischiarato da luci calde e confortevoli. C'erano vari dipinti di arte contemporanea appesi alle pareti, un enorme divano e tante poltrone dove la gente aspettava comodamente il proprio turno. Infine, un piccolo tavolino sul quale erano disseminate riviste e quotidiani.
Al centro della stanza, una grande scrivania e, dietro di essa, una giovane segretaria prendeva gli appuntamenti e compilava le ricette.
In fondo alla stanza alcune porte: in una c'era lo studio medico.

Il dottore, dopo aver congedato il paziente di turno, si affacciò e si rivolse alle persone sedute.

“Avanti il prossimo”. Con una mano appoggiata allo stipite della porta e una all’orologio che stava per scoccare le 18.30, gettò un’occhiata alla sua “platea”. Probabilmente, a giudicare dall’espressione insofferente, si domandava quanto tempo occorresse prima di porre fine alla sua giornata lavorativa.
La segretaria controllò la lista dei pazienti: il successivo era una ragazza di nome Rose Granger1.
La chiamò ma nessuno rispose. Chiamò di nuovo. Invano.
Il dottore alzò gli occhi al cielo per poi rivolgerle uno sguardo seccato. “Fai passare il prossimo”. La istruì con voce asettica e inflessibile, tipica intonazione da medico. Probabilmente nello stesso modo avrebbe detto: “Le rimangono sei mesi di vita nella migliore delle ipotesi, mi dispiace”.
La giovane donna consultò nuovamente la lista e disegnò una riga sul foglio ma, prima che potesse chiamare il successivo, feci la mia comparsa con i capelli lievemente scompigliati, il fiato corto e il viso arrossato per la lunga corsa.

“Eccomi, eccomi” mi piazzai al centro della stanza: una mano sul fianco e l'altra sulla bocca mentre tossicchiavo per lo sforzo.

Il dottore mi scrutò dall’alto al basso e mi affrettai a parlare nuovamente. “Chiedo scusa per il ritardo”. Mormorai con il respiro ancora ansante cercando poi di ricompormi.
Gli rivolsi un sorriso di amabile cortesia ma lui non ricambiò. Fece un vago cenno di assenso e scrollò le spalle.

T. R. c'era scritto sulla targhetta attaccata alla porta. Quelle iniziali mi dicevano qualcosa ma anche il suo viso: quello sguardo cosi freddo e altero aveva un che di familiare, ma non ricordavo dove lo avessi già visto.

Volsi lo sguardo alla segretaria e non potei trattenermi dal sorridere e anche dal pensare a quanto fosse meravigliosa.

Non era cambiata per niente negli ultimi anni. Gli stessi meravigliosi capelli castani, lo sguardo fiero e quel portamento che la rendeva elegante qualunque cosa indossasse. Nel frangente notai, compiaciuta e un poco maliziosa, quanto le donasse la camicetta che indossava.

Emma sbatté le palpebre a più riprese e boccheggiò, era evidentemente stupita dalla mia presenza ma affatto entusiasta: specialmente per il modo in cui la stavo guardando. Sembrò irrigidirsi mentre io mi sforzavo di restare seria e trattenermi dall'abbracciarla e dal baciarla come avrei voluto fare.
“Che ci fai qui?”. Mi domandò in tono glaciale, volutamente insofferente.

Di certo non si aspettava di rivedermi: tralasciando le circostanze della nostra separazione, infatti, non l'avevo detto a nessuno del mio arrivo in città. Avevo persino dato un nome falso proprio per non rischiare di lasciarmela sfuggire. Era visibilmente sconvolta e il suo volto esprimeva solo totale disappunto nei miei confronti. Di certo non aveva torto, visto come l'avevo trattata.

Nonostante fossero passati tre anni, la gente ricordava ancora dello scandalo all'aeroporto e l'umiliazione ancora le bruciava: tanto che aveva deciso di smettere di fare la giornalista ed era stata assunta come segretaria presso uno studio medico a Bristol, città nella quale si era trasferita, per poter ricominciare una nuova vita.

 

Saputo il fatto, e dopo alcuni eventi spiacevoli che mi avevano coinvolta, avevo lasciato nuovamente Godric Hallow e l'avevo raggiunta con l'intento di riconquistarla. Sapevo che non mi avrebbe accolto a braccia aperte, che non sarebbe stato affatto facile riconquistarla, ma dopo la delusione di Tom e di Daniel e la rottura con Fleur, avevo ripensato ai mie comportamenti passati. Specialmente nei suoi confronti ed ero arrivata alla conclusione che avevo sbagliato tutto: lei e soltanto lei era l'unico amore della mia vita. Dovevo farmi perdonare e riconquistarla. Quindi avevo preso appuntamento con un nome falso, mi ero presentata solo per rivederla e rompere nuovamente il ghiaccio.

Le sorrisi con amore, ignorando lo sguardo perplesso del Dottore e dei pazienti. “Sono una paziente: ho regolare appuntamento”. Spiegai con tono dolciastro e con assoluta nonchalance.

“E sono già in ritardo: non vorrei farle perdere altro tempo, Dottore”. Finsi di avviarmi verso la sua porta aperta.
Contai mentalmente.
Uno... due...
“Appuntamento?! – la sua voce stridula mi fece ridacchiare - non mi pare”.
Le rivolsi ancora lo sguardo e la vidi sfogliare nuovamente l’elenco.
“Non c’è scritto il tuo nome!”. Si alzò, incrociò le braccia al petto e lasciò cadere il blocchetto sulla scrivania.
Un silenzio surreale scese nella stanza: gli sguardi di tutti saettavano da me a lei come fossimo avversarie in una partita di tennis.
Sospirai e le rivolsi il mio sorriso più pacato. “Guarda bene – insistetti io con insopportabile tranquillità – è scritto lì: Rose Granger”.
Avanzai di un passo per indicarglielo sul taccuino.
Mi precedette e ricontrollò. Sembrò gonfiarsi di rabbia. “Cosa?!”. Ripeté con voce strozzata di isteria. “Lurida bugiarda, figlia di...”. Si morse la lingua per trattenere l'imprecazione.

Tutti, compreso il dottore le rivolsero uno sguardo accigliato, quasi di biasimo. Una giovane madre aveva emesso un gemito scandalizzato e tappato le orecchie al suo bambino, dopo averle rivolto un’occhiataccia.
“Tu...tu, non ti chiami così!”. Riprese con voce ancora tremante di rabbia prima di fulminarmi con lo sguardo e rivolgersi al dottore. “Signore: questa donna non è chi dice di essere”. Dichiarò aspramente e mi puntò il dito contro con indignazione.
“Ah, sì? – il tono vagamente scocciato: azzardò un’altra occhiata all’orologio e incrociò le braccia al petto – quindi non la devo visitare?”. Domandò spiccio, chiaramente insofferente a tutto il siparietto.
Decisi di primo acchito che se mai avessi avuto un problema, quello non sarebbe stato un medico di cui mi sarei fidata. “E’ solo un equivoco – dissi alzando le mani e rivolgendomi all’uomo – mi scusi dottore, lasci che le spieghi: la sua assistente non lo sapeva, ma ho usato il mio secondo nome e il cognome di mia madre”. Mentii spudoratamente2.
Lo vidi arcuare le sopracciglia. Probabilmente si stava domandando se soffrissi di un legame morboso con mia madre. Un complesso d’Edipo irrisolto magari.
“Rose Granger”. Precisai di nuovo.
Quel cipiglio si sciolse subito e inclinò il viso di un lato. Scrollò le spalle e mi parve di leggerne il pensiero: avrei potuto farmi chiamare fata Morgana ma il punto era che voleva solo concludere il più in fretta possibile la sua giornata lavorativa. “Vogliamo procedere, allora?”. Si scostò dalla porta per farmi entrare.
Lo vidi guardare la segretaria e il suo viso tornò nuovamente ad accigliarsi.
Mi voltai incuriosita e scoprii il perché: Emma era rossa in viso e livida di rabbia. Continuava a lanciarmi occhiate assassine ed intuii che avrebbe voluto ammazzarmi. Gli altri pazienti sentivano la tensione ma non riuscivano a fingersi indifferenti: le loro chiacchiere erano terminate, non leggevano più le riviste, ne parlottavano tra loro, ma ci osservavano incuriositi.
Rivolsi al dottore l’occhiata più innocente che riuscii a simulare.

Questi la ignorò e si rivolse nuovamente ad Emma. “C'è qualche problema? La conosci?”.
Lei mi guardò, poi guardò il suo principale e arrossì violentemente. Tentò di spiegarsi ma dalle sue labbra usci solo un balbettare confuso.
 

Mi venne da sorridere quasi intenerita: non ero abituata a vederla così. Specie se pensavo alle circostanze del nostro ultimo alterco. Evidentemente non tollerava di fare brutta figura sul posto di lavoro e l'ultima volta era stata una vera e propria umiliazione pubblica.
“È tua amica? Una parente?”, insistette l’uomo, interrompendo il suo farfugliare.
“No!”, rispose lei con enfasi.

“E allora chi diamine è?!” chiese lui cercando di controllare l’insofferenza crescente. Molto probabilmente a fine serata l’avrebbe redarguita pesantemente per il suo comportamento affatto professionale.

Decisi, mio malgrado, di venirle in aiuto, anche a costo di umiliarla ancora di più. “Sono la sua ex fidanzata!”. Dichiarai dopo essermi schiarita la voce.
Mi parve di sentire un sospiro di incredulità da parte dei presenti ma forse era solo la mia immaginazione.

Alzai il mento con fierezza.

Di certo non se lo era aspettato. Guardò da me ad Emma con aria stupita e quasi imbarazzata.

Quella ex fidanzata?”.3 Mi domandò e sembrò realmente prestarmi attenzione per la prima volta.

Annuii con cenno del capo.
“Capisco – adottò un tono pacato ma aveva il sopracciglio inarcato – la attendo nel mio studio: si sbrighi, però, ci sono altri pazienti e non ho tempo da perdere”. Era tornato ai suoi modi consueti e più bruschi. Entrò nel suo studio e si richiuse la porta alle spalle. Probabilmente non se l'era sentita di aggiungere altro per non umiliare ulteriormente Emma.
Intanto la ragazza era più imbarazzata e livida che mai. “Te la farò pagare amaramente”. Sibilò minacciosa.
Non risposi e mi avviai composta verso la porta.
Alle mie spalle il brusio riprese: le persone stavano spettegolando sull’accaduto. I loro sguardi sembravano perforarmi la nuca.
Aprii la porta ma prima di entrare, mi girai un’ultima volta verso Emma. Ero dispiaciuta per lei: forse avrei dovuto mentire su chi ero ma ormai era troppo tardi. Consapevole di cosa mi sarebbe aspettato in seguito, le lanciai uno sguardo di scuse.

Entrai nella stanza e mi chiusi la porta alle spalle.

 

Stavo per dire al dottore che non c'era bisogno di visitarmi davvero. Che naturalmente lo avrei pagato per il disturbo: mi bastava restare lì dieci minuti a girarmi i pollici.

Però non feci in tempo: con modi spicci e bruschi, quasi mi costrinse a sbottonarmi la camicetta per poi controllarmi il battito cardiaco con lo stetoscopio.

Avrei voluto oppormi ma qualcosa nel suo sguardo me lo impediva, era come se sentissi che non era il caso di protestare, cosi quando mi ordinò di inspirare e poi espirare profondamente, mi ritrovai mio malgrado a obbedire.

Tutto ciò mi provocò anche una curiosa sensazione di dejà-vu.

Era come se avessi già vissuto un momento simile e proprio con quel uomo: il suo sguardo e il suo tocco mi erano stranamente familiari.

Eppure era la prima volta che lo vedevo. Anzi, non ne conoscevo nemmeno il nome, né la sua specializzazione. Avrebbe potuto essere un cardiologo, un fisiatra o persino un

ginecologo. Per me era solo un mezzo per raggiungere un fine. E il fine era Emma.

 

La sensazione di dejà-vu aumentò ancora di più quando egli mi fece aprire la bocca, afferrandomi la mascella con tanta prepotenza da farmi male – (forse era un veterinario specializzato in equini?) e mi esaminò gola e tonsille. Dopodiché, in assoluto silenzio, si scostò e andò a sedersi dietro la sua scrivania, prendendo a scrivere o, meglio detto, a scarabocchiare qualcosa su un taccuino.

Inutile dire che anche vederlo compiere questi gesti mi sembrò quanto mai familiare.

Possibile che l’avessi già visto? Eppure non era un pediatra da quanto potevo leggere sulle sue lauree appese al muro. Quindi non ero stata lui da piccola. Non mi aveva visitata durante la gravidanza, né mi ricordavo qualche visita specialistica nei miei otto anni a Londra.

Ma allora dove lo avevo già incontrato? Avrei voluto chiederglielo ma quegli occhi, quello sguardo gelido mi mettevano stranamente soggezione.

Costui intanto, totalmente ignaro alle mie congetture mentali, fini di scrivere, staccò il foglio con la ricetta e me lo porse. “Prenda queste due volte al giorno, dopo i pasti, e fra una settimana faremo un altro controllo”. Il tono assolutamente professionale e indifferente a quanto accaduto poco prima in sala d’aspetto.

La cosa mi irritò molto. Da quello che avevo capito, Emma lo conosceva da molto: sicuramente le aveva proposto lui di trasferirsi con la promessa di un lavoro. Vi doveva essere quindi un rapporto personale e mi sarei aspettata, perciò, un'infinità di domande sulla nostra storia. O persino biasimo e giudizio per l'affetto che lo legava a lei e in nome di ciò che le avevo fatto.

Invece, niente: indifferenza totale.

Per certi versi mi ricordava il dottor House: il medico più famoso della TV. Ma quello era un personaggio di finzione e nonostante il cinismo e l’arroganza aveva anche dei lati buoni, mentre costui ne sembrava sprovvisto. In tempi di guerra avrebbe potuto essere un generale delle SS.

Provai a immaginarmelo in divisa e...

Un momento – realizzai boccheggiando incredula – non è possibile… non può essere:

“AGENTE RIDDLE!4”. Balzai in piedi dalla sedia.

Come diavolo avevo fatto a non accorgermene prima?

Era lo sbirro che mi aveva fermata quella notte in cui rientravo in bici dal pub. Non c’era stato verso di convincerlo a lasciarmi andare. Con eccessivo zelo e pedanteria mi aveva sciorinato l’elenco delle infrazioni che a sua detta avevo compiuto, dopodiché mi aveva tratta in arresto, scortandomi lui stesso in centrale. Un bastardo, con un bidone al posto del cuore5.

Ecco il perché di quella sensazione di familiarità.

 

Ma come era possibile che si trovasse lì, in veste di dottore? Magari non era lui, magari aveva un gemello (come se uno non fosse già abbastanza) mi ritrovai a pensare.

“Ci sei arrivata, finalmente”, rispose lui nel frattempo. “Come diavolo hai fatto a non accorgertene prima?”. Domandò, quasi mi avesse letto nella mente, mentre mi fissava come se fossi un'idiota.

No. Nessun gemello, era lui in carne ed ossa.

Il che era un bene per l’umanità ma un male per me che me lo ritrovavo di nuovo davanti.

Che cosa avevo fatto i male?

Il suo sguardo sprezzante non smetteva di trafiggermi, mentre io continuavo a boccheggiare non sapendo come dovevo comportarmi a quel punto. Poi d’un tratto l’uomo guardò orologio al suo polso, quindi tornò a rivolgersi a me. “Sei qui da cinque minuti e ancora non mi hai chiesto se stai sognando”. Lo disse come se fosse una cosa ovvia, probabilmente aveva già avuto la stessa conversazione con altri pazienti (da lui arrestati) e sapeva cosa avrebbe dovuto aspettarsi.

Non risposi. Non sapevo davvero che cosa dire.

Lui invece era perfettamente a suo agio, i gomiti sul tavolo, la testa tra le mani, sembrava non aver più fretta di liquidarmi. “Stai sognando, non stai sognando? – mormorò– Cosa importa, in fondo? In ogni caso resterai qui finché non ti avrò sbattuta fuori”.

“Sempre che non decida di andarmene prima io”. Replicai dopo essermi finalmente ripresa da quell’attimo di shock.

Se davvero mi fossi trovata in un sogno (o meglio dire incubo, data la sua presenza) o se fosse stato tutto vero, non avrei comunque avuto nulla da temere dalla sua persona. Anzi, non ero nemmeno costretta ad ascoltarlo.

Mi alzai dalla sedia, sbrigandomi a riabbottonare la camicetta e raccogliere le mie cose per poter tagliare la corda. Ma non ero ancora arrivata alla porta che me lo ritrovai davanti a bloccarmi il passaggio.

“Dove credi di andare? Non così in fretta”. Mormorò vicino al mio orecchio dopo essersi chinato verso di me.

Con una mano mi aveva artigliato il braccio mentre con l’altra mi teneva il mento che aveva portato all’altezza del suo volto per costringendomi a guardarlo.

Sorrideva. Ma ciò non ne addolciva i lineamenti. Il suo volto era freddo e gli occhi avevano il colore di un lago ghiacciato in una landa tetra e desolata. Metteva i brividi.

Avrei voluto divincolarmi e fuggire ma il terrore mi attanagliava il cuore immobilizzandomi sul posto e rendendomi una facile preda, alla sua totale mercé.

Ancora una volta – pensai con rabbia - mi trovavo tra le grinfie di un uomo. In trappola, senza poter fuggire. La prima volta era stato con Tom all’aeroporto (anche se lui stava solo scherzando), poi Daniel (e lì avevo rischiato brutto) e adesso questa specie di … non sapevo nemmeno io come definirlo.

“Lasciami andare – gli intimai ritrovando un briciolo di determinazione dopo quell’attimo di smarrimento – c’è un sacco di gente di là, mi metterò a urlare e la denuncerò per molestia. Stavolta ci finirà lei in manette”.

Non stavo scherzando, lo avrei fatto davvero. Che si trattasse di un sogno oppure no. Ero pronta a lottare e stavo già per farlo ma inaspettatamente lui mi lasciò andare.

Non perché fosse spaventato, anzi non si era minimamente scomposto dalla mia minaccia. Piuttosto mi guardava beffardo. “E cosi tu saresti la famosa Ginny, eh?”.

Stavo per rispondergli ma non mi diede il tempo.

“Certo che per una che ha creato tanto scompiglio, finendo sulle prime pagine dei rotocalchi, non sei affatto un granché”. Fu il commento affatto lusinghiero accompagnato da un sorrisetto di scherno.

Cosa?! Ma brutto…

Sbarrai gli occhi e gli rivolsi un’occhiataccia.

“Oh, non guardarmi così. Sei tu che lo pensi di te stessa: è un tuo sogno, non lo dimenticare”.

Volle precisare in tono divertito. Gli occhi gli brillavano di malizia. Sembrava che se la stesse spassando. Mentre io cominciavo ad averne abbastanza.

“Come faccio a sapere se sto sognando?”. Gli chiesi spazientita.

“Oh, è piuttosto semplice”. Commentò e senza ulteriori indugi, mi diede un pizzicotto sul braccio.

“AHI”. Gridai più per lo sdegno che per il dolore.

AHI”. Mi fece il verso, in tono di scherno, accompagnandolo ad una smorfia di melodrammatico dolore. “Quante storie per un pizzicotto, neanche te lo avessi dato sul sedere”.

“Ci provi e la stendo”, minacciai brandendo il pugno in aria. Il sangue mi ribolliva nelle vene. Ero stanca di fare la vittima, sentivo il coraggio e l’indole Granger rinascere in me.

Il pensiero della mia famiglia mi fece sorridere mio malgrado.

“Che ti prende, perché sorridi? Aspetta, non dirmelo: ho capito – alzò le mani in aria e poi mi posò il dito sulla bocca per non farmi parlare – scommetto che stai pensando che non ti sarebbe dispiaciuto ricevere quel pizzicotto sul sedere”.

Ma questo è un porco. Mi dissi mentre lo fissavo accigliata.

Lui interpretò la mia espressione come un assenso. Soddisfatto, tolse il dito e tornò a sedersi alla scrivania, lanciandomi di tanto in tanto occhiate con aria di chi la sapeva lunga.

“Allora Rossa fammi indovinare: sei venuta qui perché speri di riconquistare la tua ex? Io non ci spererei se fossi in te. Hai visto come ha reagito poc'anzi? Sei l’ultima persona al mondo che rivuole nella sua vita. Anzi mi correggo, non sei nemmeno sull’elenco”. Commentò sciorinando nuovamente il tono professionale da medico che si rivolge ai loro pazienti, sbattendogli in faccia una sentenza di morte.

“Ma come si permette? Questi non sono affari suoi”. Dichiarai più aspramente di quanto avessi voluto. Più che altro mi rodeva perché sapevo che aveva ragione.

“Ma sei tonta o cosa?! Te l’ho detto, è un tuo sogno: sto solo dando voce ai tuoi pensieri”. Scosse la testa e mi guardò come se avessi un ritardo mentale.

“Non è vero!”, replicai punta sul vivo. “Il pizzicotto mi fa ancora male: guardi, ho il livido”. Alzai la manica e mostrai il segno rossastro sull'avambraccio.

“Al tuo risveglio non avrai più niente”.

“E quando mi sveglierò?”.

“Quando vuoi – rispose con una scrollata di spalle – ma prima che ne diresti di giocare al dottore?”.

Sbarrai gli occhi e lo fissai incredula.

“Come ha detto?!”. Forse avevo capito male. O almeno me lo auguravo.

Ma lui mi lanciò uno sguardo ammiccante e allusivo. Boccheggiai incredula e indignata quando mi accorsi che il suo sguardo si era soffermato sulla scollatura a v della mia camicia (che avevo riabbottonato poco prima).

Incrociai le braccia al petto per coprirmi e gli intimai di smetterla o lo avrei denunciato.

 

“Veramente non parlavo di me: lei non è assolutamente il mio tipo”. Replicò con una tale schiettezza che invece di farmi tirare un sospiro di sollievo mi fece incupire. Non era bello per una donna, in qualunque circostanza, sentirsi respinta.

“La cosa è reciproca”. Sbottai offesa.

Ma guarda che razza di cafone.

“Pensavo piuttosto alla mia assistente”. Proseguì, ignorando le mie parole. Prima che potessi reagire, vidi entrare l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere in quello studio: Fleur, l’altra mia ex fidanzata. Indossava un camice da infermiera e in mano teneva un vassoio con vari strumenti che posò sulla scrivania, dopo aver salutato il dottore.

I due iniziarono a chiacchierare amabilmente.

No, non può essere vero.

A quel punto realizzai che doveva trattarsi senz’altro di un sogno, ma come facevo a svegliarmi?

Non riuscivo a muovermi o a formulare motto. Invero, potevo sentire a malapena ciò che si dicevano: nei miei timpani rimbombava il battito furioso del mio cuore mentre brividi caldi e freddi mi attraversavano la spina dorsale come scosse elettriche.

Quando i due si voltarono verso di me, mi ritrovai a indietreggiare istintivamente, quasi avessi paura di quello che stava per succedere. Fleur mi sorrise e si avvicinò, ma io continuai ad arretrare cercando di arrivare alla porta. Riddle si alzò nuovamente e mi bloccò il passaggio. Ostacolata da entrambi fui costretta ad obbedire all’uomo che mi aveva intimato di sdraiarmi sul lettino.

“La visita non è ancora conclusa”. Aveva detto, mentre la mia ex continuava a parlarmi e a sorridere. Adesso riuscivo a sentirla: parlava in tono dolce, mi tranquillizzava, dicendomi che ero in buone mani.

Mio malgrado, grazie alla sua voce familiare, iniziai a rilassarmi.

 

Sentii le sue mani esplorarmi delicatamente sotto la camicia, dopo avermela sbottonata. Il dottore, dopo essersi chinato, mi tolse gli stivali e …. un momento, ma cosa?!

Sbarrai gli occhi quando mi accorsi che mi aveva ammanettato le caviglie tra loro (ma adesso era di nuovo uno sbirro?). Guardai da lui a Fleur con aria confusa e spaventata e stavo quasi per scendere e tentare la fuga ma la mia ex mi prese per le spalle. In maniera dolce e delicata mi ripeté ancora una volta che andava tutto bene.

Così, dopo essermi distesa, chiusi gli occhi e sospirai, pronta a vivere un'esperienza fuori dal comune.

Dopotutto stavo sognando...

 

La porta dello studio si apri improvvisamente e i pazienti della sala d’aspetto irruppero tutti assieme nella stanza.

Oh no, ci risiamo.

Dopo lo sconcerto iniziale alcuni iniziarono a scattare foto coi loro telefoni.

Cercai di coprirmi e di fuggire ma il dottore e Fleur mi bloccarono e sorrisero agli obbiettivi, completamente a loro agio. Poi la folla si fece largo ed entrò Emma. La sua espressione era persino peggiore di quando eravamo all’aeroporto.

Provai a tirarmi un altro pizzicotto ma nemmeno stavolta mi svegliai. Non potei evitare la sua invettiva: puntandomi il dito contro, mi rinfacciò di essere una donna perversa e incapace di controllarsi. Ero “merce avariata”, ormai lo sapeva e se in passato ne aveva sofferto, adesso non le importava più nulla. Le facevo schifo e non voleva più saperne nulla di me. Dopo quelle parole astiose si allontanò rapidamente.

 

Il dolore parve sconquassarmi il petto. Allontanai Fleur e Riddle con uno strattone, mi rimisi seduta, a tutti di andarsene ma loro non mi ascoltarono: continuarono a ridere e a scattare foto.

Chiusi gli occhi per evitare i flash e mi tappai le orecchie per non sentirli più. Intanto continuavo a gridare di rabbia.

 

“Ehi, non urlare: sveglierai tuo figlio”. Mormorò all'improvviso una voce alle mie spalle.

La udii nonostante avessi le orecchie tappate. La riconobbi e mi si gelò il sangue.

Aprii di nuovo gli occhi e mi voltai bruscamente. Come temevo, Daniel era lì.

Teneva Peagreen in braccio e lo cullava dolcemente: il piccolo non sembrava accorgersi di nulla, mentre dormiva beatamente con la testa poggiata alla sua spalla.

Non più un bimbo di tre anni ma nuovamente in fasce.

“Ti prego, mettilo giù”. Lo implorai in preda al panico.

Lui sorrise e obbedì ma, invece di metterlo nella culla (magicamente apparsa alle sue spalle), lo gettò a terra in malo modo.

Peagreen si svegliò e scoppiò a piangere disperatamente e Daniel iniziò a prenderlo a calci. Il bimbo urlò sempre di più. In preda al panico, mi alzai per cercare di fermarlo ma con le gambe ammanettate caddi sul pavimento in un sordo tonfo scatenando l’ilarità generale. Ignorai le risate, cercai di sollevarmi ma il mio corpo sembrava pesare come un macigno. Arrancai e strisciai, ma per quanto ci provassi non riuscivo a raggiungerlo e a mettere fine a quell'orrore.

Tentai di convincerlo a fermarsi ma inutilmente: continuava a infierire su Peagreen e rideva chiamandolo “piccolo bastardo”.

Provai a richiamare l'attenzione di Riddle e Fleur affinché intervenissero, ma loro erano spariti, c’erano solo i pazienti che continuavano a ridere e denigrarmi.

Era ormai fuori dubbio che si trattasse di un incubo. Tentai nuovamente di tirarmi un pizzico per svegliarmi ma neanche quello parve funzionare.

 

Chiusi gli occhi e gridai dall'orrore e dalla paura.

Improvvisamente sentii bussare, vidi che mi non mi trovavo più nello studio di Riddle, bensì ad Azkaban, il carcere dov’era stato rinchiuso Tom. Egli comparve davanti al tavolo attorno a cui avevamo parlato, aveva indosso la sua divisa da carcerato.

Gli chiesi aiuto perché volevo che salvasse Peagreen ma mi accorsi che il bambino era già fra le sue braccia. Non più neonato, ma com'era attualmente: un cucciolo di tre anni, con lunghi boccoli e le guance rosa. Rideva tra le sue braccia e gli tirava i capelli.

Daniel e Peagreen neonato erano scomparsi nel nulla. E con loro gli altri pazienti.

Tom scosse la testa in risposta e Peagreen ne emulò il gesto per gioco.

Gli chiesi il perché: rispose che ero una madre snaturata. Che avevo esso a repentaglio la vita di nostro figlio prima ancora che nascesse andando a trovare Daniel e che, anche dopo la sua nascita, la mia condotta era stata tutt’altro che irreprensibile.

Replicai in tono altrettanto accusatorio e gli ricordai che era stato arrestato per droga e che pertanto era l’ultima persona che potesse permettersi di giudicarmi.

“Sei tu quello in galera”.

“Ah si? Perché tu dove sei ora?”.

“Mi trovo in incubo”, risposi con aria di sfida. “È il ricordo di quando sono venuta a farti visita in carcere”.

Sorrise e scosse la testa. “Davvero? Ma ti sei vista?”. Domandò in tono di scherno e mi puntò il dito contro.

Sbarrai gli occhi incredula quando mi accorsi di avere anche io la medesima divisa da galeotta.

No, non può essere. Boccheggiai incredula.

Ma prima ancora che potessi dire qualcosa Il campanello della prigione ci avvisò che il tempo del colloquio era finito, dopodiché arrivarono due poliziotti. Pensai che fossero venuti per Tom, invece vennero verso di me e mi afferrarono ognuno per un braccio.

Iniziai a urlare e a divincolarmi. Intanto Tom, improvvisamente in abiti civili, mi sorrideva e mi faceva ciao ciao con la mano, esortando Peagreen a fare altrettanto, mentre gli sbirri mi trascinavano via.

Il suono del campanello ancora nelle orecchie.

 

Il suono del campanello che continuai a sentire anche dopo aver, finalmente, riaperto gli occhi.

 

La mia compagna di cella si affacciò dall’alto del letto al castello e mi diede il buon giorno con il suo consueto ghigno beffardo.

Era vero. Mi trovavo in prigione.

 

Continua…

 

Salve bella gente, so cosa state pensando: “Questa non posta un nuovo capitolo da mesi, e adesso invece di andare avanti con la storia, ci prende in giro con questa specie di sogno che non racconta niente di nuovo?”.

Lo so, avete ragione. La verità è che ho avuto un blocco dello scrittore così forte che in confronto George R.R. Martin non è nessuno: sono 8 anni che cerco di riscrivere questa fan -fiction, 8 anni!!

E cosi tra cambi di cast, dubbi, ripensamenti e via dicendo, ho pensato fosse il caso di fare prima un punto della situazione. Allora ho riciclato (vergogna vergogna, vergogna Cersei!) lo spezzone di una vecchia versione del 2013, che mi era venuto particolarmente bene ( ma se vi dico chi erano i personaggi originali vi sbellicate dalle risate) e che mi dispiaceva sprecare. È stato un passo azzardato ma questo mi ha innescato nuove idee e sono già in procinto di metterle nero su bianco.

Vi prometto che non dovrete attendere ancora per molto.

Nel frattempo vi saluto e vi abbraccio forte. Scusate ancora.

1 La figlia di Hermione e Ron, non sapevo che nome scegliere. lol

2 Infatti in questa versione il cognome di Molly è Rankin. Se vi siete scordati il motivo rileggete il capitolo 2.

3 Aveva sentito parlare dello scandalo dell'aeroporto ma non conosceva i dettagli e di certo nemmeno lui si aspettava che andasse lì.

4 Ebbene sì! Tom Riddle alias Ralph Fiennes, che negli anni novanta interpretò, appunto, un nazista in Shindler’s List.

5 Perdonatemi ma questa ci stava tutta.

   
 
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