Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
19 - L’Angelo
Anche
conosciuta come “Il Giudizio”, la carta dell’Angelo rappresenta la
libertà da
legami corporei e la consapevolezza nella spiritualità. Indica la
rinascita
alla vita spirituale, la comunicazione con lo spirito divino. Significa
anche
chiaroveggenza spirituale, è un richiamo dal passato, perciò
un’evocazione.
Indica ristabilimento anche nella persona fisica, ma soprattutto morale
e
spirituale; è predicazione, spirito missionario.
Al negativo, però, indica nervosismo profondo, esaltazione, reputazione
negativa, giudizio degli altri verso di noi, mancanza di temperanza.
L’Angelo
è una carta di rinnovamento, evidentemente una situazione va mutando.
La
situazione muta poiché si è arrivati al momento della resa dei conti.
Non si
può più tergiversare, posticipare, ma si deve affrontare la resa dei
conti e le
relative conseguenze. Nodi che vengono al pettine, chiusura di una
situazione,
giudizio finale.
Seduta
su una delle sedie di legno nella sagrestia Vecchia, Gemma torturava
incessantemente l’anello d’oro che portava al dito, nella vana speranza
di
sfogare la sua angoscia.
La
messa di Pasqua era cominciata, e il momento della comunione si stava
avvicinando pericolosamente. Sarebbero bastati pochi minuti, una volta
consumata l’ostia, perché tutto quell’inferno di odio e astio avesse
fine. La
dinastia de’ Medici sarebbe crollata, i Pazzi avrebbero assunto il
controllo
della città, e il suo compito come spia del Vaticano si sarebbe
concluso.
Sarebbe
rientrata a Roma, al servizio del papa, o nel migliore dei casi avrebbe
ricevuto l’ordine di tornare a Imola, per occuparsi di politica e della
sua
città. Nel peggiore dei casi… non voleva nemmeno pensarci.
Istintivamente
fece per mordersi il labbro, in un gesto dettato dal nervosismo, ma una
fitta
di dolore le ricordò quanto successo solo una settimana prima.
Nulla
avevano potuto le guardie che avevano fatto irruzione negli Archivi
Segreti: da
Vinci aveva trovato un’altra via di fuga ed era riuscito a scappare. E
con lui,
stretta saldamente nella sua mano, la seconda chiave per aprire la
Volta Celeste.
Né
erano riuscite, quelle stesse guardie, a mitigare la rabbia di Sua
Santità,
quando l’uomo si era trovato di fronte a sua nipote. Non ci era
riuscito il suo
aspetto, né gli abiti strappati, che per tutti erano stati chiari
indizi di
un’aggressione da parte dell’artista. Non ci era riuscita la sua
espressione,
per la prima volta dopo tanto tempo umile, mortificata, dilaniata dai
sensi di
colpa.
Niente
aveva trattenuto la mano di Sisto. E una settimana dopo, i segni erano
ancora
ben visibili: sulle labbra, sullo zigomo, attorno all’occhio, sulla
tempia…
Aveva
fallito, e se era ancora viva il merito era solamente dell’imminente
congiura
contro Firenze. Era ancora lei al comando della rivolta, e quel compito
doveva
essere portato a termine, prima di poter prendere una qualsiasi altra
decisione.
Ancora
una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua
vita, o
quella di altri.
Eppure,
tutto quello a cui riusciva a pensare era l’espressione sul volto di
Leonardo,
resosi conto che la seconda chiave era sempre stata nelle sue mani. La
delusione, l’amarezza, il dolore che aveva potuto scorgere nei suoi
occhi, come
se tutto quello che avevano passato si fosse distrutto in un istante.
«Contessa
Riario», la chiamò una delle sue guardie, destandola dai suoi pensieri.
«Sì?»,
mormorò lei, alzando appena lo sguardo.
«È
il momento», rispose lui sottovoce, e Gemma capì che le ostie
avvelenate
stavano per essere servite.
«Bene»,
affermò la giovane donna con un filo di voce, e mai nulla di più falso
aveva
lasciato le sue labbra. «Tenetevi pronti», aggiunse, volgendo lo
sguardo al resto
delle guardie svizzere lì presenti, e ricevendo immediatamente un cenno
di
assenso.
Gemma
si rialzò lentamente in piedi, con tutta l’intenzione di allontanarsi
il più
possibile dalla porta che conduceva nel duomo, quando un tonfo sordo
giunse
alle sue orecchie: era senza alcun dubbio il suono delle porte
d’ingresso della
cattedrale che venivano aperte. Immediatamente tornò vigile e attenta,
e
schioccò le dita, zittendo ogni brusio proveniente dalle guardie lì con
lei.
«Che cosa vi è successo, Eccellenza?»,
domandò qualcuno in chiesa, e quelle parole furono più che sufficienti
per
capire: Giuliano de’ Medici era tornato a Firenze.
«Santo
Iddio…», mormorò la contessa, chiudendo gli occhi: sembrava davvero che
quell’inferno
non avesse fine. «Preparate le armi», aggiunse poi, rivolta ai suoi
scagnozzi.
«I Pazzi cospirano contro di noi, la mia
famiglia!», urlò Giuliano, dall’altra parte della porta. «Sono in combutta con Roma, e tradiscono
tutta Firenze».
«No…»,
gemette Gemma, con la voce così flebile che a malapena riuscì a udirsi
da sola.
«Popolo e libertà…», si intromise
Francesco Pazzi, e la giovane serrò gli occhi. «A morte i
Medici!».
Un
istante dopo, non si udì altro che colpi di spada, urla di terrore e il
caos.
Le
guardie svizzere si voltarono immediatamente verso la contessa Riario,
in
attesa di ordini, ma Gemma ebbe bisogno di alcuni istanti prima di
poter
proferire parola.
«Andate»,
mormorò semplicemente, senza nemmeno guardarli.
«Contessa…»,
tentò il capitano Grunwald, avvicinandosi a lei.
Quando
però la giovane donna rialzò lo sguardo, l’uomo non vi scorse più
quella
scintilla di forza e determinazione, quel fuoco che l’aveva sempre
contraddistinta,
ma vide solo il vuoto, qualcosa di estraneo alla sua natura. Non era
più lei, e
lo sapevano entrambi.
«Non
doveva andare così», mormorò Gemma, volgendo lo sguardo alla porta.
«Non avrà
mai fine…», aggiunse, con un filo di voce.
«Cosa
volete che faccia?», domandò il capitano, con la mano già pronta sulla
spada.
Ma
per qualche altro secondo, ci fu solo il silenzio in risposta, e mai
prima di
allora era successo: Gemma era una guerriera straordinaria,
terribilmente brava
a mantenere ogni cosa sotto controllo, anche quando un imprevisto
mandava in
pezzi i suoi piani.
«Voglio
alcuni uomini a controllare gli altri ingressi del Duomo», disse
finalmente,
incrociando le braccia al petto. «E voglio sapere ogni cosa su chiunque
fosse a
parte di questo piano», proseguì, rialzando lo sguardo su di lui. «Ogni
membro di
quella cerchia di congiurati. Chi sopravvivrà a questo… io lo voglio
qui,
davanti ai miei occhi».
Grunwald
annuì in silenzio, e si spostò verso un piccolo gruppo di guardie
svizzere
rimaste nella sagrestia, indicando loro quali ordini avessero. Al
contrario, lui
e un altro paio di uomini rimasero lì, come scorta per la contessa.
D’altro
canto, Gemma si allontanò in un angolo con una mano premuta sulla
fronte,
cercando di recuperare tutto il suo autocontrollo e di calmarsi.
Eppure, tutto
quello a cui riusciva a pensare era che non doveva andare in quel modo.
Se
tutto fosse andato come da piano, in quel momento i Medici sarebbero
caduti a
terra avvelenati e
si sarebbe vista la parola Fine a
quella che ormai Gemma sentiva di poter paragonare a una tortura.
Il
suo ultimo
barlume di speranza, l’unica cosa a cui riusciva a pensare senza
sentire la gola
chiudersi per il panico, era il destino di Leonardo: l’artista doveva
imbarcarsi sul Basilisco e partire alla volta del Nuovo Mondo. In tutto
quell’inferno di spade, odio e tradimenti, almeno lui sarebbe rimasto
al sicuro
e neppure lei, assieme a tutti i suoi uomini, sarebbe stata in grado di
trovarlo in tempo per catturarlo.
Nel
groviglio
dei suoi pensieri, nemmeno si accorse dello scorrere del tempo, fino a
quando
una voce a lei familiare non la ridestò.
«Contessa»,
la chiamò Lucrezia Donati,
con il respiro affannoso e la paura ben marcata nella voce.
Gemma
però si
prese un secondo per un profondo respiro, e rimase voltata di spalle.
Doveva
essere passato molto più tempo di quanto non pensasse, se le sue
guardie erano
già riuscite a trovare i congiurati di cui aveva chiesto notizie, ma
non era
ancora il momento. Non era ancora pronta a ritornare alla realtà e a
fare
quello che doveva essere fatto.
«Non
adesso, Madonna»,
rispose freddamente la nipote
del papa, con lo sguardo verso un punto indefinito.
«Contessa»,
ripeté l’altra di nuovo, con
più decisione.
«Ho
detto: non adesso»,
ribatté bruscamente la Riario,
la rabbia che iniziava a crescerle dentro.
«Gemma!»,
urlò Lucrezia, con la voce
ormai ben lontana dalla calma, ma impregnata di panico e angoscia. «Lui
è qui».
E
fu come se il
tempo si fosse fermato.
La
giovane
donna si sentì gelare il sangue nelle vene, mentre lentamente rialzava
il capo
e si voltava verso Lucrezia, la sua espressione che pregava di aver
capito
male. Ma quando le due donne si guardarono l’un l’altra negli occhi,
per Gemma non
ci furono più dubbi. E fu peggio di uno schiaffo in faccia.
Il
capitano
Grunwald teneva saldamente la nobildonna fiorentina ferma dov’era,
stringendo
le mani sulle sue spalle. Rialzando lo sguardo, Gemma capì subito che
la
guardia la stava studiando, perché era chiaro a lui come era chiaro a
tutti: la
contessa Riario non avrebbe mai reagito in quel modo senza un’ottima
ragione. Ma
lei era troppo occupata a non farsi prendere dal panico per curarsene.
Salvare
da
Vinci, sempre ammesso di riuscirci, significava tradire il Vaticano, e
a quel
punto niente e nessuno sarebbe stato in grado di garantirle più di un
paio di giorni
di vita. Ma mantenere il suo ruolo avrebbe condannato l’artista a morte
certa.
Ancora
una volta, la sua sopravvivenza si era ridotta ad una scelta: la sua
vita, o
quella di altri. Ma l’altra non era più la vita di uno sconosciuto o di
un
nemico. Era quella di Leonardo.
Gemma
non disse nulla, nemmeno una parola, mentre superava a passo svelto le
guardie
lì presenti ed usciva dalla sagrestia Vecchia. A malapena si rese conto
di
quale carneficina stesse avendo luogo nel mezzo del Duomo; il suo
sguardo
guizzava da una parte all’altra per trovare, in un groviglio di volti
estranei,
quello che ormai aveva imparato a conoscere.
A
malapena notò il corpo senza vita di Giuliano, accanto a una delle
panche di
legno della navata centrale, né il Magnifico a terra con una mano
premuta sul
collo, pallido in volto e con il terrore negli occhi. Quando vide
l’artista, il
suo corpo agì di vita propria, e corse nella sua direzione.
Gemma
ebbe appena il tempo di avvicinarsi di qualche passo, quando una
violenta
esplosione si frappose tra Leonardo e i congiurati, assicurandogli
qualche
istante di vantaggio. La contessa scattò fulminea ed evitò le fiamme,
mentre la
famiglia Pazzi indietreggiava e tentava di proteggersi dal fuoco.
Con
molta fatica, da Vinci trascinò sé stesso e Lorenzo verso la sagrestia
delle
Messe e si lanciò contro le porte con tutte le sue forze, spalancandole
sotto
il suo perso. Spinse il Magnifico all’interno della stanza, e si rialzò
velocemente
in piedi per tornare indietro e chiudere l’ingresso.
Fu
allora che si videro.
Il
tempo di scambiarsi uno sguardo, ma lo capirono entrambi.
Capirono
che era giunto il momento da cui avevano tentato di scappare. Capirono
che non
c’erano più vie di fuga o sotterfugi: erano l’uno contro l’altra, ma
solo una
delle loro vite poteva salvarsi. Capirono che era la fine. E non c’era
niente
che potessero fare.
Gemma
lo vide, vide quale dolore lo stesse colpendo a quella consapevolezza,
quanto
quei sentimenti tanto a lungo combattuti gli stessero straziando il
cuore. Ma
per la prima volta da quando si erano conosciuti, anche Leonardo
intravide lo
stesso dolore negli occhi della giovane donna. Lo scorse nel suo volto,
in uno
sguardo che non era il suo, ma quello di una persona imprigionata in
una
maschera di dolore, costrizioni e manipolazioni.
Quello
non era lo sguardo della Gemma che aveva conosciuto e per la quale
avrebbe dato
ogni cosa, pur di salvarla e di riportarla alla vita. Qualcosa in lei
si era
spezzato. E quando vide, un istante prima che le porte della sagrestia
si
chiudessero, i lividi e le ferite sul suo volto, fu come ricevere una
pugnalata
al cuore.
Il
tempo di scambiarsi uno sguardo, e le porte si chiusero.
Da
Vinci abbassò gli occhi sulle sue mani e si accorse che stavano
tremando
violentemente, così come il suo respiro che sembrava essersi bloccato
in gola. Tentò
di calmarsi, di concentrarsi su qualcos’altro, e corse da Lorenzo per
provare a
medicare il profondo taglio che aveva sul collo. Ma i suoi gesti erano
poco più
che movimenti vuoti ed automatici, il suo corpo stava agendo da solo;
la sua mente
invece era ben lontana da lì, devastata da quanto aveva visto.
Dall’altra
parte della porta, Gemma non si stava nemmeno sforzando per recuperare
il fiato
in gola. Non si era neppure accorta di aver smesso di respirare, fino a
quando
una voce alle sue spalle non la riportò violentemente alla realtà.
«Contessa»,
sibilò il capitano, e a lei non sarebbe servito a nulla voltarsi e
vederlo in
faccia: il suo tono era in tutto e per tutto una minaccia.
Grunwald
aveva visto l’intera scena, e come lui altri testimoni, e ogni secondo
a cui
avevano assistito era soltanto una prova in più ad avvalorare i loro
sospetti.
E se Gemma non avesse fatto qualcosa per smentirli, non sarebbe uscita
viva dal
Duomo.
«Capitano…»,
mormorò lei, e si costrinse a respirare prima di proseguire. «Abbattete
le
porte», aggiunse, la voce miracolosamente più ferma di prima.
Lo
sentì allontanarsi a passi pesanti alle sue spalle, e fece tesoro di
quel breve
momento da sola per indossare di nuovo la sua maschera. E per pregare
che, in
un modo o nell’altro, Leonardo trovasse il modo di salvarsi.
Poco
dopo alcune guardie svizzere e la famiglia Pazzi la superarono a grandi
passi,
impugnando qualsiasi oggetto che potesse essere un’arma, e iniziarono a
colpire
l’ingresso della sagrestia. Ma Gemma non era un’ingenua, le era bastato
un solo
sguardo a quel possente portone di legno per capire che non avrebbe
ceduto
tanto facilmente.
Prese
un ultimo profondo respiro, prima di rinunciare per sempre a sé stessa,
e fare
ciò che andava fatto.
Si
voltò alle sue spalle, cercando con lo sguardo il capitano Grunwald, e
l’uomo
capì immediatamente quale ordine gli fosse stato rivolto. Tornò poco
dopo con una
pesante spingarda tra le sue mani, ma Gemma nemmeno si voltò verso di
lui,
perché sapeva che facendolo quella flebile traccia di determinazione in
lei
sarebbe svanita.
«Procedete»,
mormorò la contessa, e sfogò ogni sua esitazione mordendosi
violentemente
l’interno della guancia.
Sentì
dei passi deboli e indecisi alle sue spalle, ben diversi dai pesanti
colpi
caratteristici delle sue guardie, e capì che Lucrezia le si era
avvicinata.
«Gemma…»,
la supplicò sommessamente, la voce incrinata e ormai prossima al
pianto.
Ma
la giovane non l’ascoltò. Non poteva permetterselo, perché stava già
morendo
dentro al pensiero di quello che stava per compiere.
«Contessa?»,
domandò un’ultima volta il capitano Grunwald, al suo fianco.
Lucidi
e velati di lacrime, Gemma rialzò gli occhi sull’ingresso della
sagrestia, ed
annuì.
«Fuoco»,
mormorò, con un filo di voce.
L’uomo
la superò e prese posizione di fronte al portone, mentre la corda del
colpo in
canna si stava consumando, divorata dalle fiamme. Ormai prossima allo
sparo,
Gemma serrò gli occhi, e una lacrima le rigò la guancia mentre voltava
il capo
dall’altra parte.
La
fiamma si spense e il colpo esplose, diretto alla porta della
sagrestia.
E
con essa, anche il cuore di Gemma andò in pezzi.
Angolo
dell’autrice
Sarà
un angolo molto grande…
Buonsalve
a tutt*!
Che
dire… Non ho mai pensato ad un finale roseo, volevo
una scena spacca cuore e, spero, qualche lacrima. Se ci sono riuscita,
anche
solo a metà, sono già felice.
(Vi
svelo un segreto: poteva andare peggio.
Ipoteticamente, potevano pugnalare Gemma e poteva toccare a Leonardo
cercare di
salvarle la vita. E, sempre ipoteticamente, il capitolo poteva finire
con un La contessa si salverà o non si salverà?)
Avevo
rimandato “saluti,
ringraziamenti, ed
eventuali cosine da comunicare” a questo capitolo, dunque così sia.
I
saluti sono d’obbligo in quanto ultimo capitolo, ma c’è anche da dire
che
questa era la prima stagione su tre, quindi questi possono essere
saluti
definitivi o in vista di una reunion. Tempo libero permettendo, a me
piacerebbe
molto proseguire, perché mi sono affezionata al personaggio di Gemma
molto più
di quanto pensassi e vorrei continuare a raccontare la sua storia. La
contessa
di Imola ha ancora tante cose da dire. A voi piacerebbe leggere di lei
ancora?
Insieme
a questi saluti, lascio una piccola richiesta a chi mi ha letto in
questi mesi.
Vedo le vostre visite e quei numeri mi scaldano sempre il cuore,
soprattutto
quanto aggiorno e vedo che un’ora dopo siete già passat*. Spero che in
occasione di questo finale, vogliate farmi un piccolo (ma per me
grandissimo)
regalo e lasciarmi un commento, anche di poche righe, con le vostre
opinioni
sulla storia. Non avete idea di quanto mi fareste felice. In qualsiasi
caso,
però, vi ringrazio uno per uno per questi mesi insieme e per aver
dedicato del
tempo a leggere quest’avventura.
“Eventuali
cosine da comunicare”? Dopo tante insistenze da parte di una persona di
mia
conoscenza, ho ceduto e ho aperto un profilo instagram tutto per Gemma
e per la
sua storia, e se vi va di passare lo trovate qui: https://www.instagram.com/gemma.riario/
Perché
solo ora, che è finita la storia? Perché finisce qui su EFP, ma… inizia
altrove, su Ao3. Per ora in italiano, ma chissà… Anche lì, mi trovate
come
AmyWendys (tutto attaccato): https://archiveofourown.org/users/AmyWendys
E
direi che può bastare o mi dilungherei troppo.
Che
sia un addio o un arrivederci, io vi saluto con un forte abbraccio e vi
mando
un bacione grandissimo!
Con
affetto
Amy
W. Gildeary