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Autore: heliodor    06/01/2020    1 recensioni
Joyce è nata senza poteri in un mondo dove la stregoneria regna sovrana. Figlia di potenti stregoni, è cresciuta al riparo dai pericoli del mondo esterno, sognando l'avventura della sua vita tra principi valorosi e duelli magici.
Quando scoppia la guerra contro l'arcistregone Malag, Joyce prende una decisione: imparerà la magia proibita per seguire il suo destino, anche se questo potrebbe costarle la vita...
Tra guerre, tradimenti, amori cortesi e duelli magici Joyce forgerà il suo destino e quello di un intero mondo.
Fate un bel respiro, rilassatevi e gettatevi a capofitto nell'avventura più fitta. Joyce vi terrà compagnia a lungo su queste pagine.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Sei ancora con me?
 
“Sei ancora con me?”
Il viso sorridente di suo padre incombeva su di lei. Alle sue spalle, il cielo azzurro e sereno.
È una bella giornata, pensò. Perché sono qui distesa nell’erba, invece di andarmene in giro a divertirmi, come qualsiasi atra bambina di nove anni?
“Alzati, su” disse suo padre con tono allegro, ma deciso. “Non abbiamo ancora finito.”
Sono stanca, pensò. Non possiamo continuare un altro giorno? Ora vorrei risposare o andare a giocare con Joyce. A lei viene sempre permesso di giocare finché ne ha voglia, perché io non posso?
Suo padre le tese la mano. “Avanti, andiamo. Non diventerai mai la migliore se te ne stai lì a fare niente.”
La migliore pensò. Devo diventare la migliore.
Migliore.
Migliore.
La voce riecheggiò nella sua mente, spegnendosi a poco a poco. Il viso di suo padre scomparve e lei era in piedi, tra mura grigie e dai colori smorti.
Non era più una bella giornata di sole. Lì sotto non c’erano finestre.
Ma dov’era?
Si guardò attorno. Sulle mura disadorne campeggiava la stella a cinque punte sullo sfondo blu.
Il simbolo di Valonde, il simbolo della mia casata, pensò con orgoglio.
“Non distrarti” disse Kemmen.
L’uomo era alto e slanciato e quando parlava arricciava le labbra sottili. Aveva i capelli radi e le orecchie un po’ a punta.
Forse è un elfo, si disse divertita. Come quelli dei romanzi d’avventura.
Kemmen mosse le dita sottili formando dei piccoli cerchi. Fili di energia scaturirono dalle sue mani formando una complicata ragnatela che si posò ai suoi piedi.
Lei balzò indietro con un gesto agile e semplice, che non le costò alcuno sforzo ed eseguì senza pensarci.
Quando atterrò, aveva i dardi pronti a colpire l’avversario.
“Che aspetti?” chiese Kemmen. “Perché non li hai lanciati?”
“Ti avrei colpito. Eri distratto” disse.
“E allora? È questo lo scopo dell’addestramento. Devi imparare ad approfittare di ogni errore dell’avversario. La sua debolezza deve diventare la tua forza.”
“La mia forza.”
“Solo così sarai la più forte.” Stavolta Kemmen parlò con voce diversa.
Quella di suo padre.
“La più forte” ripeté.
“La più forte.”
“La più forte.”
“La più…”
“Stupida” esclamò Garia con tono stizzito. La strega brandiva ancora la sua lama di energia come una clava. “A che cosa stavi pensando?”
“A niente” disse stringendo i denti. Giaceva a terra, le ossa che le facevano male. Da ore si stavano allenando. Prima Yashi, poi Tarov e infine quella dannata Geria si erano alternati come suoi avversari.
Yashi era stato facile da battere. Tarov l’aveva impegnata più a lungo. Quando pensava di aver finito, era sopraggiunta Garia.
La strega aveva i capelli di due colori diversi, entrambi innaturali: verde alla base e blu sulle punte.
Lo trovava ridicolo, specie per una strega di mezza età come lei. Non glielo aveva detto per rispetto al suo rango.
“E tu saresti la strega suprema?” aveva chiesto Garia. “Ti chiamerò la strega incapace, se non ti rialzi subito.”
Fece per rimettersi in piedi, ma le gambe cedettero di schianto e fini col mento sulle pietre.
Le risate di Garia le ferirono le orecchie. “Sei davvero patetica. Tuo padre si sbagliava su di te. Tu non sarai mai la strega suprema. Mai.”
“Mai.”
“Mai.”
“Mai.”
Il volto sereno di Mythey apparve dietro il velo che le aveva coperto gli occhi. Guardava da un’altra parte e annuiva con fare paziente.
“Ma io voglio andare adesso” stava dicendo Joyce con voce stridula.
Perché deve fare sempre tanti capricci, come una bambina? Si chiese. Ormai ha tredici anni, è quasi adulta. Dovrebbe crescere e imparare che non si può avere tutto.
“Ordini di vostro padre” disse Mythey con calma. “Nessuno può lasciare il palazzo fino a nuovo ordine.”
“Per quale motivo?” domandò Joyce con tono esasperato.
Mythey alzò le spalle. “Chiedetelo a lui, non a me.”
“Tu sei d’accordo?”
“Sono tenuto all’obbedienza, altezza” rispose Mythey mantenendo la calma. “Non posso contestare gli ordini di vostro padre.”
Io le avrei già dato uno schiaffo per la sua impertinenza, si disse.
“Io sì” disse Joyce marciando fuori dalla stanza.
Solo allora Mythey sembrò accorgersi della sua presenza. “Vostra altezza” disse inchinandosi.
“Peggiora ogni giorno che passa” disse con tono duro. “Mio padre è troppo tollerante verso di lei.”
Mentre con me è inflessibile, pensò.
Mythey sospirò.
“Non so come fai a sopportarla.”
“Ho combattuto contro nemici peggiori. A volte.”
Quelle parole le strapparono un mezzo sorriso. “Credi che sia recuperabile? Voglio dire, potremmo mandarla in qualche regno vassallo a fare la dama di compagnia. Questo le insegnerebbe almeno il rispetto, non trovi?”
“Vostro padre non approverebbe mai. Sapete bene che non la lascia nemmeno uscire, se non in occasioni davvero speciali.”
“L’ossessione di mio padre la sta rovinando. Così la farà restare per sempre una ragazzina.”
Lo sguardo di Mythey non mutò. “Siate comprensiva con lei, altezza. So che voi e i vostri fratelli non godete di eccessiva libertà e che dovete attendere ai doveri del vostro rango, ma vostra sorella ha ancor meno spazio. In pratica vive tra queste mura e pochi altri luoghi, e può andarci solo se scortata.”
“Un giorno mio padre dovrà spiegarmi il motivo di tanta sicurezza attorno a mia sorella. Non ha nemmeno i poteri. Chi mai si sognerebbe di sfidarla?”
“È completamente indifesa” disse Mythey.
Sospirò. “Hai ragione, a volte me ne dimentico. Fammi un favore, non perderla mai di vista. Col carattere che ha sarebbe capace di qualsiasi cosa.”
Mythey sorrise. “È da quando aveva sette anni che cerca di scappare. Sapere quante volte ci ha provato?”
“Due? Tre?”
“Settantasei” disse il cavaliere. “L’ho sempre trovata prima che riuscisse a lasciare il castello, ma le ultime cinque o sei ho faticato parecchio. Ho paura di stare diventando troppo vecchio. Forse devo pensare a un sostituto.”
“Chi mai potrebbe sostituirti? Siamo praticamente cresciuti con te. Io non sopporterei di vedere un altro al tuo posto.”
“Se ancora non l’ha notato, i miei capelli ormai sono quasi tutti bianchi e non torneranno al loro colore originale. E per quanto riguarda il mio sostituto, ci sarebbe il figlio di mio fratello.”
“Hai un nipote?”
Mythey annuì. “Dovrebbe avere più o meno la vostra età, ma sono anni che non lo vedo. Mi chiedo spesso che cosa stiano facendo in questo momento, lui e suo padre.”
Joyce tornò in quel momento, scura in viso.
“Hai parlato con nostro padre?” le chiese.
Lei non rispose e si limitò a grugnire. Proseguì decisa verso le sue stanze e richiuse la porta alle spalle sbattendola.
Quando la riaprì, era cresciuta in altezza. Il viso era cambiato, perdendo in parte i tratti da fanciulla e guadagnando alcuni di quelli da ragazza adulta. Aveva persino un accenno di colore sulle labbra e le guance.
Ma ha solo quindici anni, si disse. È ancora una ragazzina, anche se è cresciuta.
“Sei pronta?” le chiese con tono raggiante. Sembrava sul punto di mettersi a saltellare. “Non ci hai ripensato, vero? Andremo sul serio, tu e io?”
Annuì. “Persino nostro padre è d’accordo.”
“Solo tu e io?”
“Più o meno. Ci dovranno essere anche Mythey e quattro mantelli di scorta.”
Il cavaliere era proprio lì accanto. I suoi capelli adesso erano tutti bianchi e la pelle aveva qualche ruga in più. Anche le spalle sembravano più curve, ma lo sguardo era sempre attento e sereno come lo ricordava.
I mantelli invece attendevano allineati lungo il muro opposto. Tre streghe e uno stregone.
Joyce li aveva guardati con un misto di delusione e rassegnazione. “Possiamo andare allora?”
Presero una carrozza per loro due mentre Mythey e i mantelli le seguirono a cavallo. Sedettero una di fronte all’altra.
“Sono così emozionata” disse Joyce stringendosi nelle spalle. “Nostro padre deve essere proprio impazzito per lasciarmi uscire. Voglio dire, non l’avrebbe mai fatto se non fosse un’occasione speciale, vero?”
Annuì. “Mi spieghi almeno a che serve uscire? Potevi convocare a corte il sarto come facciamo tutti invece di andarci di persona, sai? Folwin sarebbe venuto di corsa.”
“Ma non avrebbe portato tutti i vestiti, no? Si sarebbe limitato a farci vedere quelli che lui pensava potessero piacerci.”
Si accigliò. “E allora?”
“Come potrei scegliere quello adatto senza poterli vedere tutti?”
“Che importanza ha? Un vestito è uguale all’altro. Basta che copra abbastanza e tenga al caldo.”
Joyce la fissò scandalizzata. “Non è affatto come dici.”
La guardò meglio. Sua sorella indossava un vestito color celeste con elaborati ricami in argento e oro che sembravano brillare sotto il sole primaverile di Valonde.
Trovava quell’accostamento frivolo e lo sfarzo superfluo.
Lei invece aveva scelto una blusa grigia su pantaloni di colore marrone chiaro e stivali neri. Semplice e comodo, come doveva essere un qualsiasi vestito.
Joyce si guardava attorno con espressione febbricitante. Ogni tanto indicava una statua o un palazzo.
“Quello è il monumento di Mythanar. Lo sapevi che si è sposato nove volte e ha avuto ventisei figli? E quella è la piazza intitolata a Nalkima Tairode. Fu la prima decana del circolo di Valonde. Lo so perché era scritto nel libro di un erudito, un certo Agradas. Ha scritto una specie di enciclopedia di tutti i personaggi storici di Valonde.”
Si limitò ad annuire davanti a quel fiume in piena di parole e di nozioni e ben presto perse il filo del discorso.
Joyce si calmò solo quando la carrozza si fermò davanti al negozio del sarto.
Il laboratorio di Folwin aveva quattro entrate e altrettante vetrine dalle quali si potevano ammirare i suoi vestiti.
Joyce saltò giù dalla carrozza e si lanciò verso una delle entrate.
“Aspetta” disse cercando di afferrarla al volo, ma non ci riuscì.
Da quando è diventata così agile? Si chiese.
Mythey la seguì dentro il negozio.
Persino il vecchio cavaliere, con tutti i suoi acciacchi, è stato più pronto di me, si disse. Scese dalla carrozza con calma e dopo aver scambiato due parole con la scorta, entrò nel negozio.
Venne accolta da manichini addobbati come se dovessero andare a un ballo ufficiale. Dovunque si voltasse vedeva tessuti delicati che drappeggiavano figure sinuose, pizzi e ricami preziosi e fiocchi che si stringevano attorno a vite così sottili che faticava a credere potessero appartenere a persone vere.
I manichini risposero impassibili alle sue occhiate piene di scetticismo e passò oltre, dirigendosi verso il fondo del negozio, dove tra banconi ingombri di tessuti e pelli appena lavorate, una decina di uomini e donne erano chini e al lavoro.
“Che onore” stava squittendo Folwin, un ometto pelle e ossa con il cranio che luccicava. “Se mi aveste avvertito prima della vostra visita, vi avrei accolto con tutti gli onori, principessa.”
“Sono qui solo per provare qualche vestito” disse Joyce piena di entusiasmo. “Siamo, in realtà. C’è anche mia sorella.”
Gli occhi di Folwin si spalancarono alla sua vista. “Anche voi qui principessa? L’onore è doppio allora. Non so se ne sono degno.”
Accennò un sorriso incerto. “Io non sono qui per provare un vestito” si affrettò a dire. “Ma solo per accompagnare.”
Mythey si guardava attorno con attenzione. “Vorrei dare un’occhiata al negozio” disse a Folwin. “Col vostro permesso, s’intende.”
“Ma certo, ma certo” disse il sarto. “Tutto quello che volete, nobile cavaliere.”
Mythey sollevò un sopracciglio. “Mentre sono lontano, potete dare voi un’occhiata a vostra sorella, principessa?”
Annuì. “Credo di potermene occupare. Vai pure, nobile cavaliere” concluse con tono pomposo.
Mythey ghignò. “Col vostro permesso” disse facendo un rapido inchino.
“Da questa parte” disse Folwin indicando un guardaroba. “Lì dentro custodisco gli abiti migliori.”
Joyce sparì dietro uno dei guardaroba. Lei la seguì aggirando il mobile. Nel farlo un drappo colorato le ostruì la visuale. Lo allontanò con un gesto veloce. Era la parte finale di una lunga gonna color cielo, impreziosita da centinaia di perle che disegnavano un motivo stilizzato simile alle onde del mare.
“Vi piace quel modello, principessa?” domandò Folwin.
Solo allora si accorse di stare accarezzando la superficie liscia e setosa del vestito. Allontanò subito la mano come se avesse toccato un ferro rovente.
“Se non vi piace quel modello posso farvene vedere uno diverso” disse il sarto.
“Io non so se ho tempo per queste cose” disse incerta.
“Perché non provi un abito anche tu?” propose Joyce con tono allegro.
“Non credo sia il caso.”
“Solo uno” disse lei. “Per favore” aggiunse col tono di una bambina.
Sospirò. “Uno solo.”
“Ho un modello che sembra cucito per voi, principessa” disse Folwin scavando in uno dei guardaroba.
“Basta che ti sbrighi” disse spazientita.
Il sarto tirò fuori dall’armadio un completo color giallo crema con pizzi e ricami preziosi impreziositi da fili d’oro così sottili che sembravano essere stati tessuti da un ragno.
Folwin lo reggeva con l’attenzione che avrebbe dedicato a un neonato. “Volete provarlo? Penso che con qualche leggera modifica vi starebbe a meraviglia.”
Fissò il vestito con un misto di scetticismo e sorpresa. Sembrava uscito da un quadro con quei delicati colori che sfumavano uno nell’altro e le figure aggraziate ricamate sul tessuto vellutato.
“È meraviglioso” disse Joyce entusiasta. “Devi assolutamente provarlo.”
Si ritrovò ad annuire. “Solo questo” disse.
 
Ci vollero tre valletti per scaricare gli otto scatoloni che straripavano di abiti, cappelli, scarpe e mantelline.
A quella vista sospirò affranta.
Joyce dirigeva i valletti saltando da un lato all’altro. “Attenti con quello, è un filato di Taloras. Non rovesciatelo o lo rovinerete.”
Mythey dovette notare la sua espressione. “Sembrate turbata, principessa.”
“Sembro?” fece scuotendo la testa. “Non so nemmeno perché ho comprato quella roba.”
“Forse perché vi piaceva?”
“Niente affatto” rispose scandalizzata. Guardò i valletti che portavano di sopra lo scatolone con i suoi acquisti provando una vaga irrequietezza. “Sarà meglio che vada anche io di sopra o metteranno a soqquadro le mie stanze.”
Mythey le rivolse un inchino deferente.
I valletti depositarono a terra lo scatolone e si ritirarono. “Volete che chiami le ancelle?” chiese uno di esse.
Scosse la testa. “No, andate per il momento.”
I tre si ritirarono e lei chiuse la porta a chiave. Passò cinque minuti a vagare per la stanza, prima sostando davanti alla finestra che le regalava uno scorcio dei giardini che circondavano il castello e poi sedendo sul bordo del letto dalle lenzuola azzurre con sopra ricamato il simbolo di Valonde, i due triangoli intrecciati tra loro.
I suoi occhi caddero sullo scatolone. Si alzò, gettò una rapida occhiata e poi si voltò, dirigendosi verso il mobile su cui era appoggiato uno specchio.
Una giovane dai capelli dorati che le ricadevano a lunghe ciocche sulle spalle la fissò dall’altra parte. Incrociò per un attimo i suoi occhi azzurri e limpidi, lasciando che lo sguardo scivolasse sul corpo dalle forme ormai mature.
Andò verso lo scatolone e lo aprì con un gesto deciso. Infilò le mani all’interno e ne tirò fuori un abito di seta vaporosa, dove il giallo tenue si intrecciava col verde e il nero e l’oro dei ricami.
Per un attimo ne assaporò la delicata consistenza, la morbidezza dei tessuti, il delicato incastro di ogni singolo gioiello, né pochi né troppi.
Lo sollevò in aria per guardarlo meglio e poi lo avvicinò al suo corpo, facendolo aderire mentre con l’altra mano l’accarezzava.
Si girò verso lo specchio e le sfuggì un sorriso.
 
Suo padre l’attendeva nella sala dove si riunivano ogni sera per allenarsi.
Re Andew di Valonde era un uomo imponente. I capelli erano castani e folti, con solo qualche filo bianco. Anche la barba era dello stesso colore, ma più bianca attorno al mento.
“Sembri di buon umore” disse.
Fece spallucce. “Ripensavo alla giornata appena passata.”
“Hai accompagnato Joyce in città? Com’è andata?”
“Bene” disse.
“È tornata con parecchi scatoloni. Chissà quanto avrà speso.”
“Dovrà comprare molti più vestiti prima di intaccare il tesoro” disse con una punta d’ironia.
“Il tesoro appartiene a Valonde” rispose suo padre serio. “Non possiamo disporne a nostro piacimento. Quei soldi vengono dalle casse della nostra famiglia, non dimenticarlo.”
“Non lo dimentico” disse seria.
Suo padre annuì. “Hai preso qualcosa per te?”
In quel momento Joyce entrò nella sala. “Che ci fai qui?” disse con voce squillante.
“Mi alleno. Come sempre” rispose.
“Dovresti essere di sopra a provare il vestito. Voglio vedertelo addosso” disse sua sorella.
Re Andew si accigliò. “Vestito?”
Joyce annuì. “Non un vestito” disse piena di entusiasmo. “Ma un vestito magnifico. Non è vero?”
Lei arrossì.
“Hai comprato un vestito?”
Cercò le parole giuste.
“Devi vederlo” disse Joyce. “È stupendo. Deve indossarlo alla prossima festa che daremo.”
Suo padre la guardò stupito. “Davvero intendi indossarlo?”
“Io…”
“Cosa penserebbero tutti vedendoti addosso un vestito da ragazzina?” fece il re stupito. “Tra meno di un anno ci sarà la tua consacrazione.”
“Lo so” disse annaspando alla ricerca di una risposta come un naufrago in mezzo alla tempesta. “Pensavo che per una volta…”
“Sei destinata ad altre cose che un bel vestito da mostrare a una festa” disse re Andew. “Vuoi deludere tutti? Sai che ti considerano già la strega suprema, la più forte.”
“No” disse cercando di non mostrare la sua disperazione. “Non voglio deludere nessuno, sul serio. La verità e che ho comprato quel vestito solo per fare contenta Joyce.”
“Davvero?” fece sua sorella con tono deluso. “Eppure sembrava piacerti così tanto.”
Fece spallucce. “Sembravi così entusiasta e allora ho finto che mi piacesse.”
“Se è così” disse re Andew. “Domani stesso lo restituirai al sarto con le tue scuse.”
Annuì solenne. “Me ne occuperò io stessa.”
“Non è giusto” fece Joyce. “È così bello e ti sta così bene.”
“Non possiamo tenere qualcosa che non ci serve” disse il re. “Come casa regnante, abbiamo dei doveri. Dobbiamo dare l’esempio.” Le gettò un’occhiata. “Non è vero?”
Annuì di nuovo. “È vero” disse.
“Ora vai a sistemare i tuoi vestiti” disse suo padre rivolto a Joyce. “E mostrali a tua madre. A lei piaceranno di sicuro.”
Sua sorella annuì a lasciò la sala a capo chino.
“Era molto delusa” disse dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato.
“So che ti abbiamo chiesto molto in questi anni” disse con tono solenne suo padre. “E molto di più ti verrà chiesto nei prossimi. Posso ancora contare su di te?”
“Sì” rispose cercando di mostrarsi sicura.
“Sai che tutto questo ha uno scopo che va oltre le nostre singole vite, no?”
“Lo so.”
“E che dovrai essere forte per entrambe, perché lei non ha i poteri.”
Annuì.
“Allora sei ancora con me, Bryce? Sei ancora con me?”
Sei ancora con me?
Sei ancora con me?
Sei ancora con me?
Il viso di suo padre si dissolse e al suo posto comparve quello abbronzato e grinzoso di uno sconosciuto.
“Sei ancora con me?”
Cercò di dire qualcosa ma tutto quello che fu capace di fare fu di gorgogliare una risposta incomprensibile.
“Resta sveglia” disse l’uomo. “E forse vedrai un’altra alba.”
Un secondo viso apparve al fianco del primo e due occhi di un azzurro profondo come il cielo terso la fissarono incuriositi.
Mani si protesero verso di lei mentre scivolava di nuovo nel buio.

Note
Ed eccoci di nuovo qui per un nuovo anno in compagnia di Joyce.
Prossimo Capitolo Giovedì 9 Gennaio

 
  
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