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Autore: Retsuko    16/04/2020    4 recensioni
Il futuro è inevitabile e riserva cambiamenti che non sempre si possono affrontare da soli.
A Kaede Rukawa la parola “insieme” fa paura, ma quando la sua perfetta routine fatta di solitudine, basket e pisolini si spezza, è costretto a ricercare un nuovo equilibrio e a fare i conti con ciò che prova per Hanamichi Sakuragi.
Un anno di vita di un gruppo di ragazzi.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Ayako, Hanamichi Sakuragi, Hiroaki Koshino, Kaede Rukawa
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutte e tutti, riprendendo in mano questa storia apportando delle modifiche alle caratteristiche perché in corso d’opera sto variando degli elementi chiave. In generale sta diventando una long più corposa di quanto previsto inizialmente. Comunque i capitoli già pubblicati non sono stati modificati. 

 

Buona lettura :)

 

Now don't try to kid me, mancub
I'll make a deal with you
What I desire is man's red fire
To make my dream come true

I wanna be like you (The monkey song) - Robert e Richard M. Sherman

 

Hanamichi Sakuragi mantenne la promessa e a gennaio, subito dopo le vacanze invernali, rientrò in squadra. 
Arrivò in palestra seguito dal codazzo dei suoi amici ululanti. Un branco di scimmie di cui lui era il capo indiscusso, l’orango Luigi de “Il libro della giungla”. La palestra si riempì dell’eco di voci diverse, tutte ansiose di esprime il loro bentornato al rosso. Gli “oh, oh, oh” di Anzai, si sovrapposero agli strilli di Haruko, agli insulti giocosi di Mitsui e alle raccomandazioni di Ayako. Sakuragi salutò ad uno ad uno, sfilando come la Regina d’Inghilterra e, quando si fermò davanti ad Akagi, passato appositamente per l’occasione, riuscì, chissà come, a farsi picchiare in testa. 

«Ciao Tappo! Il grande Tensai ti è mancato eh?»

«Ma proprio per niente cretino, senza di te potevamo allenarci in santa pace. Comunque d'ora in poi devi chiamarmi capitano» disse Miyagi guardandolo da sotto in su con l’aria torva. 

«Seee! Ti piacerebbe! Ne hai di strada da fare Ryota. Guardati allo specchio, non sembri nemmeno lontanamente un Gorilla, finché non diventerai un pochino più scimmiesco per me sarai solo il Tappo.»

Si guardarono in cagnesco per circa mezzo secondo, poi scoppiarono a ridere e si abbracciarono, allegri e fraterni. Fedele alla sua parte, Rukawa era rimasto in disparte ad osservare la scena, appoggiato con gli avambracci al manico dello spazzolone con cui stava lucidando il parquet prima che scoppiasse il putiferio. Vide Sakuragi voltarsi verso la sua direzione. 

Col cavolo, Do’hao. Segui il copione, sei tu che devi venire qui. 

Lui comprese e si avvicinò. 

«Kitsune»

«Do’hao» 

Sakuragi alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso di sfida.

«Spero tu sia pronta Kitsune, perché ti massacrerò» disse in un soffio provocatorio che aveva reso la sua voce più rauca del solito. Solo anni di ferreo autocontrollo permisero a Kaede di reagire senza mostrare i segni dello scompenso che quella frase aveva causato ai suoi ormoni.

«Tsk» rispose soltanto. Poi gli diede le spalle e ricominciò a pulire, con il cuore che sbatacchiava frenetico nella cassa toracica e una gran voglia di sorridere. 

In quel periodo la volpe era impegnata nella ricerca di una tana invernale. Il freddo aveva reso il tetto impraticabile e riposare in classe durante le pause era sempre stato impossibile a causa delle oche che gli starnazzavano intorno. Fiutando in giro aveva scoperto che all’interno della struttura scolastica esisteva una biblioteca con un angolo lettura dotato di divanetti che facevano proprio al caso suo. A quanto pare; però, gli animaletti selvatici non erano ammessi ed era stata scacciata via in malo modo. Da brava volpe qual era, aveva setacciato ogni angolo della scuola e, dopo aver scartato la palestra e un’altra paio di ambienti, trovò una minuscola auletta al terzo piano dove venivano stipati gli oggetti inutilizzati. Era piena di cianfrusaglie, vecchi monitor, una batteria mal concia con il pedale rotto, banchi accatastati e sedie traballanti. Rimaneva però abbastanza spazio per ricavare un cantuccio in cui dormire. La volpe si leccò i baffi, aveva trovato il luogo perfetto. Purtroppo venne stanata soltanto una settimana dopo. 

Era una di quelle giornate di metà gennaio soleggiate eppure fredde come l’acciaio e Rukawa era  nascosto nell’aula del terzo piano, disteso su un giaciglio improvvisato fatto del suo cappotto e della cartella riconvertita in cuscino. Dormiva profondamente, quindi non sentì la porta aprirsi, né i passi e neppure si rese conto che il nuovo venuto si era inginocchiato accanto a lui. 

«Rukawa» 

Kaede cominciò lentamente a prendere coscienza del mondo circostante. 

«Rukawa»

Qualcuno lo stava chiamando, ma non voleva rispondere, perché quel limbo fra il sonno e la veglia era molto piacevole e rilassante. Piacevole come i grattini sulla testa che stava ricevendo.

«Mmh» mugugnò stendendosi supino per assecondare quella sensazione carezzevole.

«Ru svegliati» 

Mhn no, il suono sussurrato e suadente di quella voce, le dita che si muovevano leggere fra i capelli, il calore di un corpo che percepiva essere vicino. Conciliavano il sonno piuttosto che convincerlo a svegliarsi.  All’improvviso tutto finì.

«Nh..no…ancora…» si lamentò in uno stato di semicoscienza, allungando il collo alla ricerca di quella mano che poco prima gli stava accarezzando la testa.

«Volpe svegliati!»

Kaede spalancò gli occhi, fotografò i tratti del viso di Sakuragi e scattò a sedere, centrandolo in pieno. Fu una zuccata epica. Kaede si portò d’istinto entrambe le mani alla fronte, stava lacrimando e gli si era annebbiata la vista per il dolore, capì che Sakuragi si era fatto altrettanto male perché stava imprecando in maniera particolare colorita. Si alzarono contemporaneamente, con la  grazia di due ubriachi.

«Sei stato tu?» chiese Rukawa, frastornato.

«A svegliarti? Certo che si cretino!» guaì il numero 10 continuando a massaggiarsi la fronte, laddove stava spuntando un bel bernoccolo.

«No, a grattarmi la testa»

Le braccia di Hanamichi caddero lungo il corpo, incurvò un poco la schiena e presa a boccheggiare peggio di una triglia trascinata fuor d’acqua.

«Quella testata deve averti rincoglionito del tutto. Non ti ho nemmeno sfiorato, te lo sarai sognato, volpe letargica!» 

«Le volpi non vanno in letargo» bofonchiò Rukawa, tanto per dire qualcosa che sviasse dall’argomento.

«Beh tu ci vai, avrai tipo un bisnonno orso polare o qualcosa del genere!» esclamò puntando il dito contro il moro «come se il Tensai avesse tempo da perdere a grattarti la testa»

«Allora che sei venuto a fare?» domandò l’altro, incrociando le braccia al petto. 

«Beh vedi io…ecco…volevo parlarti» cominciò Hanamichi che nel frattempo frugava la stanza con gli occhi, senza mai fermarsi, torcendosi le dita. Sembrava che stesse avendo a che fare con concetti astratti troppo complessi. Kaede poteva quasi sentire il ronzio metallico degli ingranaggi cerebrali del Do’hao mettersi in moto. 

«Tra un pò suona la campanella» 

«Baka è una cosa difficile da dire!» 

Hanamichi sospirò e poi si strofinò il viso con le mani, come se si stesse lavando la faccia.

«Ho bisogno di aiuto per recuperare il tempo perduto. Mi sembra di aver disimparato tutto, di dover ricominciare d’accapo. Dammi una mano, per favore, allenami» 

Aveva parlato tutto d’un fiato, sputando fuori le parole quasi fossero un boccone indigesto impossibile da deglutire.

«Tu andresti ammaestrato scimmia, non allenato» 

Il rosso cacciò fuori una risatina tesa. 

«Questa era carina Kit, te la concedo» ammise guardandosi le mani.

«E comunque no, non farò nessuna delle due cose» 

«Me lo aspettavo» disse Hanamichi scrollando la testa «vabbè ti lascio al tuo letargo» 

Il sorriso non si era ancora spento, ma c’era qualcosa di amareggiato e arrendevole sulle sue labbra piegate.

«Non lo farò perché non ti sei ancora ripreso del tutto» puntualizzò Rukawa, spietato. 

«Il medico a detto che…»

«Io me ne fotto dei medici. I tuoi movimenti sono lenti rispetto a prima, ti affatichi in fretta e quando scendi dal salto ti fa ancora male la schiena.»

«Tu come fai a saperlo?» domandò Sakuragi, stupito e lievemente arrossito.

Perché ti guardo Hanamichi, ti guardo continuamente. 

Rukawa non si diede la pena di replicare, limitandosi a studiare i movimenti di Hanamichi, che era avanzato verso di lui con un paio di passi decisi.

«Come faccio a recuperare se non mi alleno? Arriverò al torneo estivo impreparato e finirò col fare le solite figuracce da principiante! Io ero migliorato!» piagnucolò allargando le braccia. 

«Ma allora sei proprio deficiente fino in fondo. Se ti carichi di un allenamento extra adesso manderai tutto a puttane, il tuo corpo non è ancora pronto. Segui il programma che ti ha dato Anzai e finisci la fisioterapia, poi ne riparliamo» 

E con questo per Rukawa la discussione poteva dirsi chiusa, diede le spalle al compagno di squadra, doveva sfruttare gli ultimi venti minuti di pausa pranzo per recuperare il sonno perduto e sopratutto levarselo dai piedi, perché stargli così vicino era sempre più difficile. Sapeva gestire l’interazione con Sakuragi sul campo da gioco, al di fuori doveva fare i conti con l’imprevedibilità altrui in modo totalmente diverso, ed era un continuo turbinio di inaspettati. Come a Capodanno, al tempio, e così come stava accadendo in quel preciso istante. Il rosso lo aveva afferrato per un avambraccio, costringendolo a girarsi e guardarlo. 

«Mollami immediatamente» sibilò. In risposta Hanamichi strinse le dita più forte e Kaede avrebbe voluto volentieri staccargliele a morsi quelle dita. Oppure leccarle una ad una, succhiarle con voluttà fino a farlo sospirare di piacere. 

«Mi stai dicendo che quando tornerò in piena forma prenderai in considerazione l’idea? Che ci penserai su?» chiese Hanamichi tutto d’un fiato.

«Forse» rispose Kaede, strattonando il braccio per liberarsi. 

Il Do’hao avrebbe potuto continuare a guardarlo speranzoso per ore. Lui non avrebbe ceduto ulteriormente, era già legato a lui da quella folle patto fatto in estate sulla spiaggia, laddove era cominciato quello strano cambiamento nel loro rapporto.

Avrebbe dovuto farsi bastare quella promessa, perché la parola di Kaede Rukawa contava. 

La volpe ritornò nel suo cantuccio a riposare e l’ orango uscì dall’aula colpendo involontariamente il piatto della batteria semidistrutta, che cadde facendo un fracasso della malora.

«Fai piano scimmia!» 

«Così magari ti darai una svegliata, volpe polare!» 

*****

Agli inizi di febbraio la prefettura di Kanagawa fu investita da una serie di correnti gelide che imbiancarono le città. Contrariamente all’opinione di molti Rukawa non era esattamente un animale articolo, soffriva particolarmente l’inverno e per difendersi dal freddo si vide persino costretto a tirar fuori dall’armadio gli orrendi maglioni di zia Mineko. Vederlo così imbacuccato, nascosto fra sciarpe, guanti e cuffie di lana, era la gioia di Sakuragi, che lo sfotteva per quello che, secondo lui, era il paradosso più divertente della Terra: una volpe artica freddolosa.

«Vieni un pò qui Kitsune, guarda che ho fatto insieme alla banda» disse un giorno Hanamichi, chiamandolo dietro la palestra appena prima degli allenamenti. 

Kaede si trovò davanti a cinque pupazzi di neve incredibilmente brutti.

«Ta daaa!» disse Hanamichi indicando con fierezza quei cumuli indistinti.

«Che sarebbero?» chiese il moro, esprimendo nel tono di voce più disgusto di quanto in realtà provasse.

«Come che sarebbero?!? Siamo noi!» replicò l’altro, persino un pò offeso «quello con le orecchie sei tu, se gli giri intorno vedrai anche la coda» 

Effettivamente la sua versione di ghiaccio era dotata di un paio di triangolini in testa ed era l’unico pupazzo a non sorridere, insieme ad Akagi, la cui bocca era un buco al centro di quello che sarebbe dovuto essere il viso. Chiaramente il pupazzo che rappresentava Sakuragi era il più curato di tutti, anche se l’unica cosa che lo distingueva realmente dagli altri era il kanji “Tensai” al centro del petto e uno strano ammasso di neve orizzontale davanti a lui. Sicuramente doveva rappresentare qualcuno sdraiato ai suoi piedi. Kaede lo studiò piegando il capo di lato e notò che la testa del pupazzo era stata infilzata con decine e decine di stuzzicadenti pigiati stretti l’uno vicino all’altro. 

«Quello è Sendoh» constatò, riuscendo a restare imperturbabile nonostante la voglia di ridere.

«Meglio, sono io che batto Sendoh.»

«Devo essermelo perso, esattamente quand’è che sarebbe successo?» 

Poi Rukawa si avviò verso l’entrata della palestra, godendosi divertito gli improperi infuocati di Sakuragi.

La neve sembrava scendere anche all’interno della palestra, ovattando i rumori. Da un paio di settimane gli allenamenti si svolgevano in uno stato di tranquillità silenziosa e un pò inquietante, considerando gli standard dello Shohoku. Il contribuito più evidente a quel nuovo corso era la tregua nella faida Rukawa-Sakuragi. I bisbiglii, nemmeno troppo sommessi, riguardo a quella strana pace venivano puntualmente tacitati da un Miyagi oltremodo scaramantico. 
«Sicuro che stiano bene?» domandò un giorno Mitsui, guardando allibito Rukawa che prendeva la mano di Sakuragi, il quale aveva allungato il braccio per aiutarlo a rialzarsi dopo un contatto falloso. Costretto - da Kogure diceva qualcuno - a frequentare un corso preparatorio all’università, Mitsui aveva lasciato la squadra subito dopo il rientro di Sakuragi, ma quando poteva passava a fare qualche tiro e a giocare la partitella di fine allenamento.
«Sht zitto che porta sfiga» rispose il capitano schiaffandogli una mano davanti alla bocca.
«Sarà, ma fossi in te mi preoccuperei» borbottò poi, ricominciando a correre. C’era un’atmosfera carica di concentrazione, in particolare il numero 10 esprimeva una risolutezza inattesa e sorprendente, stava giocando con notevole maturità, senza forzare le azioni come suo solito, bensì impiegandosi a leggere ogni situazione e agire di conseguenza. Passò in attacco dopo una stoppata magistrale e forse può darsi che Mitsui fosse solo distratto dall’atteggiamento determinato di Sakuragi, comunque il rosso riuscì ad eludere la sua difesa e andare a canestro con una schiacciata potentissima. Era uno di quei suoi dunk portentosi, buttati dentro di atletismo ed energia pura. Quando toccò terra, dopo un salto strepitoso, incontrò lo sguardo di Mitsui.

«Hanamichi» lo chiamò piano, senza riuscire a nascondere una punta di ansia.

«Sto bene, Mitchi » rispose Sakuragi restituendogli lo sguardo stupefatto.

«E’ ok» ripeté poi, a beneficio di tutti i presenti, anche loro in attesa. L’apprensione generale scoppiò in una bolla di gioioso sollievo e il silenzio venne spazzato via da grida di giubilo esagerate. Rukawa osservò la scena in silenzio prima di andare a recuperare la palla finita in un angolo, esultanza o no la partita non era ancora finita e soprattutto la sua squadra si trovava in svantaggio. Quando prese in mano la palla fu colto da un’incontenibile desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa che gli permettesse di buttar fuori la preoccupazione, perché si, anche lui aveva condiviso le paure di Sakuragi sulla sua guarigione. Assicuratosi velocemente che nessuno dei compagni lo stesse guardando, Kaede Rukawa sorrise pienamente, genuino come un bambino davanti ad un regalo desiderato da lungo tempo.

Dovendo seguire numerosi esercizi defaticante per la schiena, Hanamichi Sakuragi usciva dalla palestra quasi un’ora dopo i suoi compagni e di certo non si aspettava di trovare qualcuno nascosto fra le ombre buie del corridoio.

«Do’aho»

«Porca vacca!» eruppe trasalito, sentendo la voce del compagno di squadra «per la miseria Kitsune! Impara a fare rumore quando ti muovi, mi è quasi venuto un colpo» disse tenendosi una mano all’altezza del cuore.

«La capacità di muovermi in silenzio è una delle cose che mi rendono un giocatore migliore di te» replicò Rukawa, facendo un passo avanti ed esponendosi alla luce che veniva dallo spogliatoio.

«Si, si e se poi ti andasse male col basket potrai sempre svaligiare appartamenti» lo liquidò Sakuragi, ancora un pò scosso dallo spavento preso.

«Ci vediamo domenica alle 16:00 davanti alle scuole elementari di Ishikawa» disse Rukawa.

«Questa domenica? Perché?» 

Di fronte al turbamento scomposto di Sakuragi il numero 11 fece una piccola smorfia.

«Vuoi ancora allenarti oppure no?»

«Oooh certo» 

«Allora ci vediamo domenica alle 16:00. Non fare tardi» 

******

Le scuole elementari di Ishikawa erano formate da blocchi di cemento bianchi di varie dimensioni e forme. Situato nel chome numero 4, l’edificio scolastico aveva subito una serie di allargamenti nel corso degli anni, finendo col risultare una strana accozzaglia di stili diversi. Probabilmente ogni architetto incaricato dal municipio aveva voluto lasciare la sua personale visione, senza badare troppo all’impronta precedente.
Alle 16:00 esatte, un bel ragazzo alto e slanciato svoltò l’angolo del palazzo di fronte alla scuola, scavalcò un cumulo di neve annerita dallo smog e attraversò la strada, diretto verso l’ingresso dell’istituto elementare. Lì lo stava aspettando un giovane altrettanto alto, un tipo un pò strambo, impegnato a saltellare sul posto, forse per difendersi dal freddo. Non erano l’altezza fuori dal comune o la stazza da atleta ad attirare l’attenzione dei pochi passanti che lo videro, quanto piuttosto il colore dei suoi capelli, un rosso intenso impossibile da ignorare. I due s’incontrarono davanti al grande cancello d’entrata, il rosso alzò di poco un angolo della bocca e smozzicò un “ciao”, l’altro ragazzo, invece, salutò con un cenno del capo a malapena percettibile. Varcarono insieme l’ingresso della scuola, e scomparvero oltre l’edificio principale. 

Sakuragi era arrivato in anticipo e ora lo stava seguendo mansueto, in silenzio. Sembravano due ottimi presupposti per cominciare bene la seduta d’allentamento extra. Cercando di evitare le pozzanghere formatesi dallo scioglimento della neve, Rukawa fece strada fino alla palestra. Era un fabbricato col tetto leggermente spiovente, uguale in tutto e per tutto alle altre migliaia di palestre presenti nei complessi scolastici del paese. Arrivato alla porta che dava sul cortile Rukawa bussò con decisione, mentre Sakuragi alle sue spalle allungava il collo, impaziente di scoprire chi sarebbe venuto ad aprire. Preceduta dal suono ritmico di scarpe dalla suola di gomma, la porta venne fatta scorrere di lato e apparve una donna in tuta da ginnastica blu. Quando li vide, sorrise  e con lei sorrisero anche le sottili rughe d’espressione ai lati degli occhi, più scuri del giaietto. 

«Buon pomeriggio Watanabe sensei» disse Rukawa, inchinandosi. 

«Buon pomeriggio Rukawa-Kun. Entrate pure» rispose la donna, indicando ai ragazzi una stuoia al lato della porta. Rukawa vi posò sopra i piedi e si tolse le scarpe, subito imitato da Sakuragi che riuscì nell’operazione in maniera più incerta. La donna che aveva aperto la porta rimase lì a guardali, senza perdere il sorriso. Poteva avere circa quarant’anni e portava i capelli corti, un taglio che valorizzava i tratti del suo viso rotondo, così diverso rispetto al resto della corporatura, estremamente magra e scattante. Senza dubbio Watanabe aveva un fascino particolare. 

«Grazie di averci concesso l’uso della palestra» disse Rukawa togliendosi il cappotto.

«Nessun problema. Mi fa sempre piacere vederti, anche se mi fai sentire irrimediabilmente invecchiata. Lui è un tuo compagno di squadra, Rukawa-Kun?» chiese la donna, lievemente sorpresa, spostando lo sguardo sull’altro ragazzo. Il volpino annuì, dando una manata al compagno per svegliarlo dalla catalessi in cui era piombato. Sentendosi interpellato, Sakuragi si guardò intorno con l’aria di uno che si risveglia in un posto sconosciuto dopo uno svenimento e si presentò a Watanabe. Lo aveva già notato a Capodanno, il Do’aho sapeva essere gentilmente educato quando voleva.

«In che ruolo giochi Sakuragi?» chiese la donna, una volta conclusa la breve presentazione.

«Diciamo che sto cercando di diventare un buon centro. Ho cominciato a giocare solo l’anno scorso, poi ho subito un’infortunio e ho dovuto fermarmi per qualche mese»

Kaede rimase in disparte ad ascoltare il resto della loro conversazione. Era lampante che la coach aveva riscosso le simpatie di Sakuragi.

«Va bene ragazzi» disse lei ad un certo punto «finisco di sistemare qui e vi lascio liberi di allenarvi»

«Possiamo pensarci noi, sensei» disse il moro.

«Non è necessario»

«Lasci almeno che le diamo una mano!» proruppe Sakuragi, togliendosi la giacca e gettandola a terra «esattamente cos’è che dobbiamo fare?» domandò poi, perplesso ma entusiasta, suscitando l’ilarità di Watanabe, che ridacchiò divertita. 

Il proverbiale “Do’aho” di Rukawa morì sulle sue labbra, bloccato da un riflesso condizionato pavloviano: la coach Watanabe non accettava insulti o prese in giro ai compagni. 

«Vedi Sakuragi, trattandosi di una scuola elementare di solito qui si disputano più che altro partite fra bambini. Li hai notati i canestri più bassi?» chiese indicando con il pollice uno dei due «sono quelli del mini-basket e sono montati su supporti mobili, così li possiamo spostare. Per le categorie dei più piccoli le dimensioni del campo sono ridotte di un paio di metro» spiegò, facendogli presente che all’interno dello spazio regolamentare erano disegnate linee delimitatrici di un campo più piccolo.

«Ah e i marmocchi, cioè i bambini, come se la cavano?»

Mentre la testa rossa tempestava di domande Watanabe, Kaede si diresse ad uno dei canestri, alzò la levetta che frenava le rotelle alla base della struttura e lo spinse, sino ad addossarlo al muro. Finito di sistemare, la donna consegnò a Rukawa un mazzo di chiavi.

«Puoi lasciarle in guardiola come al solito» disse e il ragazzo la ringraziò nuovamente. 

Watanabe si congedò salutandoli affettuosamente. 

«Porta i miei saluti ai tuoi genitori Rukawa-kun» 

«Sarà fatto» 

«Quest’anno cercherò di venire a vedervi giocare, ragazzi» aggiunse. 

«Ne saremmo onorati coach Watanabe!» replicò Sakuragi tutto allegro. Fissò la donna sinché non sparì oltre la porta che conduceva al corridoio interno della scuola.

«Sembra una persona molto in gamba» commentò, ancora concentrato sulla porta. 

«Lo è» puntualizzò l’ala piccola.

Kaede era fermo sulla linea dei tre punti, di colpo indeciso sul da farsi e, distratto, scivolò in una sorta di sogno ad occhi aperti in cui lui e Sakuragi s’incontravano su quel campo invece che sul tetto dello Shohoku. Cercò d’ immaginare come sarebbe cambiata la sua vita se avesse conosciuto quel tornado dai capelli rossi a 6 anni.

La voce di Sakuragi che chiamò «Kitsune» lo fece tornare in sé.

«Mh» rispose uscendo dalle sue fantasticherie.

«Vieni qui spesso?» 

«D’inverno. Watanabe mi fa usare la palestra, ogni tanto» 

«Queste sono le scuole elementari che hai frequentato?»

«Si» 

«Watanabe era la tua coach?»

«Si»

«Quindi è qui che hai iniziato a giocare a basket?»

«Si»

Schiena dritta e braccia lungo il corpo, Sakuragi aveva fatto quelle domande rimanendo perfettamente immobile. Il suo sguardo, concentrato sul compagno di squadra, emanava calma e sicurezza. Poi espirò con forza e piegò le labbra in un vago sorriso. 

«Cominciamo?» disse Hanamichi. La voce era ferma, priva di ogni incertezza. Kaede deglutì, gli ci volle qualche secondo primi di riuscire a rispondere a quell’ultima, banalissima, richiesta. 

«Si» 


Alle 18:00 precise l’orologio elettronico al polso di Kaede emise un breve bip. 

«Facciamo una pausa Do’hao» 

Tirò fuori dal borsone due Pocari Sweet e ne lanciò una a Sakuragi. Seduti ai margini del campo, con le schiene appoggiate al muro, bevvero in silenzio, l’uno di fianco all’altro.

«Uh, quasi me ne dimenticavo» disse Sakuragi all’improvviso «ho qualcosa anch’io» 

Gattonò sino al suo borsone, vi trafficò un pò dentro e alla fine riemerse con una scatola rettangolare bordeaux. La spinse, modulando la forza in modo tale che arrivasse da Rukawa scivolando sul parquet. 

«Cioccolatini misti!» esclamò entusiasta dopo aver raggiunto il moro.

«Prova questo. Fondente ripieno, è da orgasmo» aggiunse, aprendo la scatola e indicando i dolcetti dalla tonalità più scura. 

«Meglio se passo, allora. Non ho con me un cambio» 

Hanamichi rise allegramente. Rukawa sentiva sempre una bolla di calore scoppiargli dentro quando lui sorrideva a quel modo. Lo sapeva distinguere dagli altri sghignazzi fasulli, perché Hanamichi arricciava un pò il naso e sembravano ridere anche gli occhi, in accompagnamento alle labbra. 

«Dai prova, se hai qualche incidente ti faccio un prestito, ho un paio di boxer puliti nel borsone» 

Rukawa emise un piccolo sbuffo divertito, prese un cioccolatino e se lo ficcò in bocca. Il nucleo morbido gli si sciolse in bocca, spandendo un sapore intenso e aromatico davvero piacevole. 

«E’ molto buono» convenne il moro, assaporando soddisfatto il retrogusto amaro.

«Ai piani bassi tutto bene?»

«Si, cioè, niente che non sappia gestire, credo» rispose Rukawa, scrollando le spalle. 

Con una sonora sghignazzata, Sakuragi suggerì: «vediamo come va con gli altri?» 

Li mangiarono tutti, seduti l’uno di fronte all’altro con le gambe incrociate, commentando il gusto di ognuno. Essendo poco abituato al sapore dell’alcol, quando Rukawa assaggiò quello al rum fece una smorfia disgustata, sbrodolandosi il mento e Sakuragi rise così forte da rischiare di soffocarsi col suo cioccolatino alla nocciola. Arrivati all’ultimo Rukawa domandò: «Ci giochiamo l’ultimo, Do’hao?»

«Sarò magnanimo Kitsune, puoi mangiarlo tu. D’altronde sono un regalo per te da parte di…» Sakuragi girò il coperchio della scatola e, piegando di lato la testa, controllò qualcosa «…Tomiko di 1^B, no aspetta forse è Somiko di 1^B, va beh, una ragazza che mi ha chiesto di consegnarteli» 

Detto ciò allungò il coperchio a Rukawa, che solo allora si accorse della dedica scritta in angolo, in una bella grafia minuta. Si sentì attraversare da un tremito freddo e il suo primo impulso fu quello di ficcare la scatola in gola ad Hanamichi e spingere giù, molto forte.

«Come cazzo ti permetti di accettare regali da parte mia?!?» domandò in un fil di voce, allontanando bruscamente la scatola di cioccolatini con un gesto stizzito. 

Sakuragi osservò i suoi movimenti in silenzio, poi scrollò il capo e si mise a braccia conserte, perfettamente tranquillo.

«Io non ho accettato un bel accidenti di niente da parte tua, ho solo promesso ad una ragazza di consegnarti un regalo. Lei ha insistito e alla fine ho ceduto, dicendole però che non avrebbe dovuto aspettarsi nessuna risposta da te, che i suoi cioccolatini sarebbero finiti dritti, dritti nella spazzatura e che probabilmente nemmeno ti eri accorto di San Valentino. Ah si, a proposito, oggi è San Valentino» specificò, notando l’ombra di confusione apparse sul viso di Rukawa «oggi è San Valentino e io ho trascorso gli ultimi giorni a rifiutare ragazze che cercavano di convincermi a fare da tramite. Ho detto no a tutte, poi venerdì pomeriggio prima degli allenamenti mi ha fermato Tomiko/Somiko. Abbiamo parlato un pò - è carina Kit e sembra anche molto in gamba - e, beh, non so cosa avesse lei più delle altre, forse ero solo stanco, ma alla fine mi sono detto: perché no?»

«Te lo dico io perché, idiota» lo interruppe Rukawa, vibrando di collera «perché non sono cazzi tuoi! Perché a me, delle ragazze che regalano cioccolato a San Valentino non frega un cazzo e non le voglio tra i piedi!» 

Scattò in piedi. Sentiva il sangue pulsare nelle tempie e un atroce bruciore in gola che somigliava tremendamente ad un pianto intrappolato. Anche Sakuragi si alzò.

«Hai idea di come mi sia sentito quando ho capito che le ragazze si avvicinavano a me solo perché conosco il ragazzo più figo della scuola?  Di quanto sia stato umiliante?»

Hanamichi s’interruppe. Trasse un profondo sospiro e chiuse brevemente gli occhi. Non sembrava triste o sconvolto, solo rassegnato e la sua voce suonò incredibilmente pacata quando ricominciò il discorso. 

«Sono stato di merda, almeno finché non ho cercato di mettermi nei loro panni e allora mi sono reso conto di una cosa: io al loro posto mi sarei comportato esattamente allo stesso modo. Parlarti è impossibile Rukawa, tu allontani sempre chiunque. Allora ho pensato che avrei voluto vederti fare un gesto gentile nei confronti degli altri, almeno una cazzo di volta nella vita. Ti ho fatto mangiare quei cioccolatini apposta, perché tu facessi qualcosa di carino, anche senza saperlo. Onestamente, sembra davvero che t’importi solo di te stesso. »  

Kaede sentì il cielo crollargli addosso. Letteralmente. Una reale sensazione fisica di avere un peso sul collo che lo costringeva a chinare la testa. L’odio furioso che aveva provato poco prima, mentre Sakuragi gli spiegava da dove venissero i cioccolatini, si era trasformata di botto in un dolore annichilente. Deglutì, riuscendo a mandar giù anche le lacrime, ancora con lo sguardo basso, fisso sulle punte delle sue Air Jordan. 

Rialzò la testa di scatto e chiese: «sai chi è il mio punto di riferimento nel basket?» 

Hanamichi sbalordì, ogni parte del suo corpo gridava stupore.

«Oh come sarebbe bello poter credere di essere preso per il culo, ma conoscendoti...» borbottò snervato, massaggiandosi le tempie con gli indici. Alzò le spalle e rispose: «Michael Jordan?»

«Harumi Watanabe. Mi piacerebbe farti vedere chi è, ti va?» 

«Ok, va bene» replicò il rosso, dopo alcuni secondi di perplesso silenzio. 

«Seguimi. Dovremmo fare piano però, non ho il permesso di uscire dalla palestra » disse, incamminandosi lentamente verso la porta affacciante sull’interno della scuola. Assicuratosi che Sakuragi lo seguisse Rukawa svoltò a destra lungo un corridoio buio. Tenendo una mano appoggiata al muro, continuò ad avanzare sinché non percepì sotto il palmo il legno della porta che stava cercando. Istintivamente si fermò, scordandosi di avvertire Sakuragi e questi gli venne addosso, cozzandogli contro la schiena coi suoi 80 chili di muscoli solidi.

«Scusami» mormorò a bassa voce, indietreggiando subito.

«Fa niente» esalò Rukawa. Il cuore gli era rimbalzato in gola, poi, una volta tornato tra le costole, aveva preso a martellare pesantemente. 

Lascia perdere, Kaede. Lascia perdere tutto e bacialo. Divoralo.  

Prima o poi quella vocina interiore l’avrebbe spuntata sul resto (forse anche sulla sua sanità mentale), ma non ora, ora la cosa importante era che Hanamichi capisse. Incuneò le dita nella maniglia a fessura, facendo scorrere la porta di lato. A tentoni trovò l’interruttore della luce e un paio di neon si accesero sfarfallando fastidiosamente. L’ufficio dell’allenatrice Watanabe era sempre lo stesso; piccolo, essenziale e disordinato.

«Entra e chiudi la porta, per favore» disse rivolto al compagno di squadra. Rukawa si diresse al muro dietro la scrivania, dove erano appese diverse foto incorniciate, e, in silenzio, guardò Sakuragi avanzare circospetto. In quello spazio così piccolo la sua presenza sembrava ancor più imponente del solito. 

«Lui è Harumi Watanabe» disse Rukawa indicando il ritratto centrale, quello più grande. 

«Ma è…» 

«In carrozzina, si. E’ stato investito da un pirata della strada quando aveva la nostra età, circa dieci anni fa, si è salvato per miracolo, ma ha subito l’amputazione di una gamba. Come vedi non si è mai arreso.» 

Non aggiunse altro, convinto che la foto di Harumi, con la maglia della nazionale ai mondiali paralimpici, potesse raccontare la determinazione e la vittoria diecimila volte meglio di lui. 

«Giocava nello Shoyo. Dopo l’indicente, quando si è ripreso del tutto, con l’aiuto della coach Watanabe ha cominciato a giocare in una squadra di pallacanestro in carrozzina. Harumi è il nipote di Watanabe, spesso veniva in palestra ad aiutarla con noi marmocchi» chiarì Rukawa, indicando un’altra foto più piccola che ritraeva la donna insieme ad Harumi prima dell’incidente.

«Guarda il bambino, Do’hao.» 

Sakuragi si piegò in avanti, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il bambino moro seduto sulle spalle di Harumi, doveva avere sei o sette anni e mostrava all’obiettivo una risata entusiasta e bucherellata dalla caduta dei denti da latte.

«Oh.Mio.Dio! Sei tu!» esclamò. Spostò lo sguardo dal bimbo nella foto all’adolescente in carne ed ossa diverse volte, infine, con una tono estremamente dolce, disse: «eri un cucciolo di volpe proprio carino.»

«Non lasciarti ingannare dal sorriso, ero burbero e taciturno già allora. Praticamente sono nato anziano.»

Sakuragi si voltò e a Rukawa parve di scorgere nel suo sguardo un residuo della tenerezza riservata al cucciolo di volpe. Stando ben attento a non toccare niente, Rukawa si appoggiò al piano della scrivania e incrociò le braccia al petto.

«Delle parole non mi sono mai fidato granché. Contano le azioni per me, ciò che si decide di fare.»

«Lo capisco, infatti apprezzo che tu abbia deciso di portarmi qui. Grazie di avermi mostrato qualcosa di così importante per te.» 

Kaede nemmeno tentò di nascondere il rossore sulle guance, né s’illuse di poter controllare il lieve tremolio delle ginocchia. I sentimenti sanno sfuggire al controllo, trovano sempre una via per mostrarsi. Ormai tanto valeva spiattellare tutto. 

«Lo vedi Sakuragi, ci sono persone di cui m’importa. Magari sono poche, ma ci sono e la maggior parte di loro è in questa stanza.» 

Hanamichi assunse un’espressione pensierosa, sembrava stesse rimuginando sul da farsi.

«Ora ti abbraccio, Kitsune» annunciò solenne. 

Rukawa sciolse le braccia dal petto, lasciandole andare lungo il corpo. Sapeva che sarebbe bastato quel movimento a comunicare il suo assenso. 
Il corpo di Hanamichi era caldo e avvolgente proprio come se l’era sempre immaginato. Un calore che infondeva serenità. Stretto fra le sue braccia, con i palmi aperti sulle sue scapole, Kaede provò un senso di completezza che trascendeva il desiderio fisico e scavava nel profondo, provocandogli un lieve capogiro. Oscillò, allora Hanamichi gli posò una mano sulla nuca, spingendogli gentilmente la testa nel incavo tra il collo e la spalla, in uno spazio che sapeva di rifugio. 
Quando si allontanarono l’uno dall’altro il viso di Sakuragi era paonazzo, quello di Rukawa ricoperto da una sottile patina di sudore. 

«Ehm, ecco mi dispiace per la faccenda dei cioccolatini» disse immediatamente Hanamichi, forse per dissolvere il senso di disagio che andava a riempiere l’ambiente. 

«Hai fatto bene, erano buoni. A proposito, quelle ragazze che ti hanno dato i cioccolatini per me, lasciale perdere.»

Si morse il labbro inferiore e ricercò nella parete le parole adatte. Avrebbe voluto saper dire ad Hanamichi quanto la sua bellezza, ruvida e sincera, fosse intensa. Raccontagli come si sentiva  quando si scordava di distogliere lo sguardo dalle sue iridi color del legno che gli ricordavano la freschezza di un bosco in una mattina d’estate. Cedere alla smania di avventarsi sulle sue labbra, di affondare le dita fra i suoi capelli, di accarezzarlo ovunque e scoprire ogni curva, ogni angolo, ogni sfaccettatura del suo corpo. Rukawa esitava, mentre l’aria sembrava vibrare a causa di quei giganteschi non detti.

«Va tutto bene, Kit. Ci sono abituato» disse Hanamichi, piatto. 

Non ti ci devi abituare, babbeo pensò Rukawa guardandolo ficcarsi le mani nelle tasche dei pantolancini e distogliere in fretta lo sguardo. 

«E comunque tu sei qui con me, volpaccia. Nessuna di loro ha potuto competere col fascino del grande Tensai» aggiunse, cercando, malamente, di dissimulare l’amarezza con un’ ironia fasulla. Francamente Rukawa trovava l’autocommiserazione qualcosa di intollerabile, di norma avrebbe reagito assestando al Do’hao un paio di pugni, ma a quel punto la situazione si era fatta sufficientemente assurda da permettergli di cambiare strategia senza sembrare uscito di senno. O almeno così sperava. 

«Se ti conforta immaginarti questa competizione assurda, e soprattuto ti accontenti di un Mc’donalds, posso anche portarti fuori a cena, Do’hao. Sarebbe una vittoria schiacciante su tutte loro» disse allora, azzardando persino un piccolo sorrisetto d’intesa. Funzionò. Il rosso cacciò uno strillo acuto e prese a saltellare sul posto. Si schiacciò le guance con le mani, spalancando gli occhi, nella versione imbecille dell’urlo di Munch. 

«Kaede Rukawa mi ha chiesto di uscire a San Valentino! Cielo! Mi sto bagnando tutto!» 

«Piantala»

«Non ce la faccio, sono troppo emozionato!» 

«Guarda che ti mollo qui»

Kaede sbuffò e uscì dall’ufficio di Watanabe, seguito da Hanamichi, impallato a ripetere «Oddio. Oddio. Oddio»

«Cazzo, Do’hao, non ce l’hai un tasto OFF da qualche parte?» brontolò nel buio del corridoio.

«Certo che ce l’ho, ma dubito che tu voglia provare a premerlo, sta proprio sotto i testicoli, sai quel punto…»

«Ho capito, ho capito» lo interruppe Rukawa, improvvisamente accaldato e ansante. 

Sakuragi sghignazzò.

«Te l’avevo detto»

Oddio. Oddio. Oddio.

Si prospettava una serata lunghissima. 

 

 

 

 

 

Note 

Fiuuuu. Finalmente sono riuscita a dar forma a questo capitolo che stava in sospeso da mesi. Sanno essere impegnativi questi due. 

Spendo giusto due parole sulla pallacanestro in carrozzina. Di recente (somma recente, nel pre-quarantena) ho scoperto che nella zona in cui abito ci sono squadre di mini-basket, ma anche scuole, che sperimento insieme ai bambini e alle bambine anche il basket in carrozzina come parte attiva dei loro corsi. Sinceramente l’ho trovata un’iniziativa bellissima e una grandissima opportunità sia per i piccoli, ma sopratutto per i grandi. Nel capito ho deciso di farne accenno ispirandomi a questa iniziativa. Sulle prime avrei voluto richiamare Real, ma ne ho letto solo il primo numero, quindi ho preferito evitare. Rischiare il pastrocchio nel nome de: “ehi che figata facciamo il crossover fra le opere di Inoue!” mi sembrava scemo. L’intenzione era raccontare una parte della vita di Kaede.

Oh mamma che lungaggine!

 

Grazie per la lettura 

 

Sendoh: «Tanti auguri a me, tanti auguri a me!»

Rets: «Guarda che lo so che nella storia è il tuo compleanno. Pazienta un attimo, tesorino»

Sendoh: ^______^

 
  
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