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Autore: MackenziePhoenix94    01/05/2020    0 recensioni
TERZO LIBRO.
“Sara inspira una seconda volta, vedo i suoi occhi scuri diventare lucidi ed una lacrima, ribelle, le scivola lungo la guancia destra.
“E se fosse cambiato? E se davanti ai miei occhi dovessi ritrovarmi un uomo completamente diverso da quello che ho conosciuto e di cui mi sono innamorata? Ho paura, Theodore” mi confessa con voce tremante “ho paura che Michael Scofield non esista più”.”
Dopo altri sette anni trascorsi a marciare in una cella a Fox River, Theodore Bagwell si trova finalmente faccia a faccia con ciò che lui ed i membri dell’ex squadra di detenuti hanno anelato per lungo tempo: la libertà.
La libertà di essere un normale cittadino.
La libertà di crearsi una nuova vita.
La libertà di lasciarsi il passato alle spalle per sempre.
Sono questi i piani della Serpe di Fox River, almeno finché il passato non torna a bussare con prepotenza nella sua vita tramite un oggetto apparentemente insignificante: una busta gialla e rettangolare, spedita dallo Yemen.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dicono che il tempo sia in grado di guarire qualunque ferita, anche quelle più profonde e sanguinose; non so quanto sia vero questo detto, o in quanti casi possa essere applicato alla lettera, tuttavia ci sono momenti in cui i giorni, le settimane, e perfino i mesi, si susseguono con una velocità così impressionante da lasciarti confuso e quasi senza fiato.

Sono trascorsi già sei anni da quando la questione ‘Poseidone’ si è conclusa, incredibilmente, con un lieto fine; e sono accadute così tante cose, che al solo pensiero di ripercorrerle mentalmente sento l’istinto di prendere un bicchiere d’acqua ed un’aspirina per il mal di testa.

Michael e Sara, dopo sette anni di lontananza forzata, si sono finalmente ricongiunti per formare la perfetta famigliola che racchiude in sé il sogno americano.

Il gorilla ottuso che risponde al nome di ‘Lincoln Burrows’ ha chiuso definitivamente i conti con la vita scapestrata che lo ha portato ad essere incarcerato a Fox River, e dopo essere riuscito ad incastrare e far arrestare il giovane Luca Abruzzi (con mio sommo compiacimento) sembra averne iniziata una nuova senza segreti, debiti, ed ombre ingombranti.

Riguardo a Jacob Ness, so che i secondini di Fox River hanno dovuto usare parecchio olio di gomito e diversi panni per ripulire il sangue e la materia cerebrale che ricoprivano il pavimento e le pareti della cella dopo il mio passaggio.

In quanto a me, la faccenda è leggermente diversa e complicata.

Dopo la violenta rottura con Gracey ho atteso, con pazienza, il ritorno di Nicole e Benjamin; e quando ciò è accaduto, io e la mia ex compagna abbiamo trascorso un’intera giornata, da soli, a discutere sul nostro rapporto, su nostro figlio ed in particolar modo su come gestire l’affidamento congiunto: siamo stati costretti a trovare il miglior accordo possibile parlando civilmente, cercando di non discutere, litigare ed urlarci addosso perché assumere degli avvocati ed andare in tribunale era assolutamente fuori discussione.

Quale giudice sano di mente lascerebbe un bambino alle cure di un padre che è stato ribattezzato dalla stampa ‘Il Mostro dell’Alabama’ per i crimini disgustosi che ha commesso, e di una madre che ha ucciso i suoi stessi genitori, altri quattro uomini, e che per questo è costretta ed usare un’identità fittizia?

La risposta è molto semplice: nessuno.

Tuttavia, non si è rivelata un’impresa così impossibile da realizzare; soprattutto perché dopo essere tornata a Chicago, Nicole mi ha rivelato un piccolo segreto che si portava appresso da qualche mese e di cui io ne ero il responsabile, visto che durante i due rapporti sessuali che abbiamo avuto nel motel non abbiamo usato alcun genere di precauzioni.

La sua gravidanza inaspettata ha aiutato entrambi a riallacciare i rapporti, anche se non siamo tornati ad essere una coppia, e la mia ex compagna è riuscita a sorprendermi facendo un ulteriore passo avanti, in segno di riconciliazione, nel giorno della nascita del nostro secondo, piccolo, fagottino: dal momento che non ho potuto essere presente al parto di Benjamin, ha voluto che questa volta spettasse a me il compito di scegliere il nome.

Ed io, senza la minima esitazione, non appena l’ho preso in braccio, ho dato al piccolo fagottino quello che, ai miei occhi ed alle mie orecchie, è il nome più bello e più dolce che esista al mondo.

“Audrey!” esclamo, sentendo un piagnucolio provenire dal salotto “che cosa succede? Perché stai piangendo?”

“Perché mi sono bloccata, papà!” esclama a sua volta lei, prima di emettere un altro singhiozzo disperato; chiudo il rubinetto, appoggio sopra un ripiano il cacciavite che ho in mano, e raggiungo la piccola donna che è la padrona del mio cuore.

Anche Michael e Sara hanno avuto una bambina, e dal momento che l’originalità è una prerogativa della famiglia Scofield l’hanno chiamata Sara jr.

Qualche volta l’ho vista, sempre in compagnia della madre, perché le nostre figlie frequentano la stessa scuola a Chicago: ha ereditato i capelli rossi da Sara, mentre i tratti del viso e gli occhi azzurri sono i medesimi di Michael; è bella, sembra una bambolina di porcellana, e quando sarà più grande farà letteralmente strage di cuori, ma non può compere con la mia piccola donna.

Perché Audrey è la bambina più bella che esista sulla faccia della Terra, e non lo dico solo perché sono suo padre.

A differenza di Benjamin che assomiglia molto a Nicole, lei, proprio come David, ha ereditato tutto dal ramo dei Bagwell: i capelli castani, gli occhi scuri, i lineamenti, le espressioni e le labbra sottili appartengono a me; fortunatamente non posso dire lo stesso del suo carattere, perché Audrey è una bambina dolcissima e sorridente, per nulla irrequieta, timida o scontrosa.

Ed anche se non ho mai visto una sola foto di mia madre alla sua età, dentro di me so per certo che ne è la copia vivente.

“Che cosa succede?” domando, prendendo posto a suo fianco, passandole il braccio sinistro attorno alle spalle esili; lancio un’occhiata al quaderno appoggiato sopra al tavolo, in modo particolare alle numerose cancellature che deturpano la pagina, e poi concentro lo sguardo su mia figlia, che si copre il volto con le mani: le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, così lunghi da sfiorarle i fianchi, e le parlo nuovamente “Audrey, tesoro, papà non può aiutarti se non rispondi alla sua domanda”

“Non ci riesco” si lamenta, indicando con l’indice destro uno scarabocchio scritto a matita sulla pagina; lo guardo con più attenzione e mi rendo conto che si tratta di una addizione “la maestra ci ha dato queste addizioni da risolvere, ma sono troppo difficili perché i numeri hanno le decine, ed io non riesco a capire come risolverla!”

“No, tesoro, non è così difficile. Anzi, è molto semplice, basta che ti aiuti con le dita. Guarda” prendo le sue piccole mani paffute, le dico di chiuderle a pugno e poi l’aiuto a contare ad alta voce, per trovare la soluzione all’operazione “ventuno… Allora, Audrey, che cosa fa undici più dieci?”

“Ventuno?”

“Sì, esatto! Bravissima! Te lo avevo detto che non erano affatto difficili!”

“Grazie, papà!” grida, buttandomi le braccia attorno al collo, stampandomi un bacio sulla guancia sinistra “sei il mio eroe”.

Sei il mio eroe.

Come far sciogliere il cuore al peggior avanzo di galera.

Adesso che ha quasi sei anni dice così, ma quando ne avrà sedici ed io la chiuderò a chiave in camera sua per impedirle di uscire con un ragazzo, allora diventerò il ‘vecchio bastardo che deve marcire all’inferno’.

Ma fortunatamente quei tempi sono ancora lontani, ed io preferisco non pensarci prima del dovuto.



 
Audrey è una bambina semplicemente deliziosa che non fa mai i capricci; l’unico e vero problema arriva sempre quando Nicole viene a prenderla per la settimana che deve trascorrere con lei: abbiamo deciso così per l’affidamento dei nostri figli.

Una settimana Ben e Dee stanno in compagnia di Nicole, quella successiva la trascorrono insieme a me.

Dee adora sua madre, ma il loro rapporto non ha nulla a che vedere con quello simbiotico che c’è tra noi due: è come se fossimo un’unica cosa.

E così, ogni volta che il campanello squilla ed io le abbottono il cappottino rosa con il collo in pelliccia bianca, la mia piccola donna inizia a piangere, disperarsi, ed affonda il viso sulla mia spalla destra, mentre io la prendo in braccio e cerco di consolarla, dicendole che una settimana passa in fretta e che può telefonarmi in qualunque momento; ed ogni volta che apro la porta, sulle labbra di Nicole appare sempre un sorriso compiaciuto.

Proprio come in questo momento.

“Come stai, amore?” mormora a nostra figlia, dopo avermi salutato, accarezzandole i capelli; piano piano, come solo una madre riesce a fare, convince Audrey a staccare le braccia dal mio collo e ad allacciarle al suo.

“Bene. Mamma, sai che papà mi ha aiutata con i compiti? Mi ha insegnato le addizioni con le dita. Guarda: devi chiudere le mani a pugno e poi inizi a contare, non è difficile”

“Ohh, davvero, tesoro? Allora appena arriviamo a casa me lo farai vedere. Perché non vai a dondolarti sull’altalena? Mamma e papà devono parlare” mormora Nicole, con un sorriso, posando nostra figlia a terra ed indicandole l’angolo del giardino che funge da piccolo parco giochi a sua completa disposizione: oltre all’altalena, infatti, c’è anche uno scivolo di plastica rosa e della sabbia su cui spiccano un secchiello, una paletta e delle biglie colorate; Audrey sposta lo sguardo su di me e si allontana da noi solo dopo un mio cenno affermativo “incredibile. Non muove un solo passo senza il tuo consenso. Lo sai che ti adora, vero? Mi parla sempre di te”

“Ed io adoro lei” mormoro, sorridendo a mia volta, guardando Dee che si dondola sull’altalena con qualche difficoltà, perché i suoi piedini non sfiorano neppure l’erba; ritorno serio nello stesso momento in cui mi concentro di nuovo sulla mia ex compagna, e noto la busta gialla che è apparsa tra le sue mani “queste buste stanno iniziando seriamente a darmi la nausea… Di che cosa si tratta? Michael ha voluto mandarmi una cartolina natalizia con largo anticipo perché sente la mia mancanza?”

“Non è da parte di Mike. Te la manda Alex. È un nuovo caso”.

Anche se molte cose sono cambiate dopo l’archiviazione della questione ‘Poseidone’, una è rimasta purtroppo immutata: con mio sommo rammarico Michael Scofield non è uscito per sempre dalla mia vita, tutt’altro; si è trasformato in una presenza costante, sempre annidata nell’ombra, a cui sono legato a doppia catena.

E lui si è assicurato di forgiare i primi anelli di ferro con il suo inaspettato slancio di generosità nei miei confronti, regalandomi una costosissima protesi cibernetica, una villetta a due piani ed una macchina sportiva: tre doni bellissimi, abbaglianti e invidiabili da chiunque.

Peccato che la protesi, essendo ancora un prototipo, ha bisogno di controlli mensili.

E per quanto riguarda la villetta e la macchina nuova, le bollette di acqua, gas, luce e la benzina non si pagano magicamente da sole.

E dopo i miei trascorsi, chi mai offrirebbe un lavoro ad un uomo come me? A me?

Anche in questo caso la risposta è molto semplice: nessuno.

Ancora una volta, però, Michael Scofield è apparso al momento giunto offrendomi una catena mascherata da ancora di salvezza, ed io sono stato costretto ad accettarla perché non avevo altra possibilità: in via segreta, del tutto non ufficiale, ricopro il ruolo di ‘consulente’ per l’FBI per i casi più cruenti ed intricati, nella maggior parte si tratta di crimini molto simili, se non quasi identici, a quelli che io stesso ho commesso.

Perché, dopotutto, chi meglio di un mostro può riuscire ad entrare nella mente di un altro mostro ed anticiparne le mosse?

Magari alcuni diranno che questo è il modo migliore per espiare i miei peccati, ma io so che la realtà è un’altra: non si tratta della possibilità di redimermi, ma bensì di una tortura studiata ad arte dal mio nemico di un tempo affinché io non dimentichi, neppure per un solo secondo, qual è il mio passato e che qualunque sforzo non riuscirà a scrollarmi dalle spalle l’etichetta di ‘Mostro dell’Alabama’; e come se ciò non fosse già una dura punizione, sono costretto a indossare sempre un braccialetto elettronico che monitora ogni mio singolo movimento, ed il suo significato è impresso forte e chiaro nella mia mente: alla prima cazzata, al primo passo falso che commetto, sono dentro a vita, e questa volta niente magico lasciapassare per la libertà, niente Poseidone da fermare.

In compenso, però, la paga è ottima.

“Ohh!” esclamo, prendendo in mano la busta, rigirandola senza aprirla “mi domandavo quando sarebbe arrivato altro materiale su cui lavorare”

“Forse dovrei avvisarti sulle foto che vedrai, perché sono piuttosto forti, ma sono sicura che tu abbia visto di peggio” mormora Nickie, lanciando un’occhiata in direzione di Dee, per assicurarsi che sia tutto a posto “ti consiglio di darci un’occhiata il prima possibile perché questo caso ha la priorità assoluta. Alex vorrebbe chiudere questa faccenda il prima possibile dato che sono coinvolti dei minori…”

“Lo farò. Puoi dire a Mahone che non ha nulla di cui preoccuparsi… Salutalo da parte mia”

“Vuoi davvero che dica questo ad Alex? Sul serio?” domanda Nicole, concedendosi una breve risata divertita “non credo che sarà molto contento di ricevere i tuoi saluti”

“Però non disdice il mio aiuto laddove perfino il suo straordinario cervello fa cilecca. Non mi dire che porta ancora rancore per la questione di Scylla… Ormai sono passati anni, non pensa che sia arrivato il momento di lasciarsi il passato alle spalle?”

“Se sei davvero così convinto che portare rancore non serve a nulla, allora perché qualche volta non accompagni tu i nostri figli da Michael e Sara?”

“Questa si tratta di una faccenda completamente diversa”

“Immaginavo che avresti risposto in un modo simile” risponde Nickie, sistemandosi la cinghia della borsa sulla spalla destra, abbassa per qualche istante lo sguardo e si schiarisce la gola per riempire l’improvviso silenzio che è sceso tra di noi; accade ancora così a volte, nonostante i sei anni trascorsi, ci sono delle pause imbarazzanti che non riusciamo ad evitare “adesso devo proprio andare… A proposito, è meglio se oggi vai tu a prendere Ben a scuola”

“Perché?” chiedo subito, allarmato “è successo qualcosa?”

“Questa mattina sono andata a parlare con il preside perché è stato sorpreso mentre tentava di bucare le gomme all’auto di un suo insegnante. E due settimane fa, sempre allo stesso insegnante, ha scritto sulla cattedra la parola ‘stronzo’ con la cancellina, e poi ha dato fuoco alle lettere con un accendino… E come ciliegina sulla torta, ho trovato un pacchetto di sigarette in camera sua proprio poco prima di venire qui. Credo che sia arrivato il momento di un bel discorso ‘padre-figlio’, Theodore”
“Sì, lo credo anche io” mormoro con una smorfia, perché Benjamin sta iniziando ad assomigliare troppo a me ed è come vedere un incubo che, piano piano, assume una forma sempre più concreta; tormento ancora la busta, e prima che la mia ex compagna possa voltarmi le spalle, richiamare Dee e salire in macchina con lei, do voce ad un pensiero che mi attraversa velocemente la mente “magari questa sera, se non hai altri impegni, potremo discutere meglio di questa faccenda davanti ad un calice di vino”.

Merda, penso nello stesso istante in cui mi rendo conto di ciò che ho detto, davvero ho appena chiesto a Nicole di cenare insieme con la pretesa di parlare di nostro figlio e del suo carattere ribelle ed indomabile?

Lei solleva il sopracciglio destro e le sue labbra si distendono in un sorriso divertito e compiaciuto, eppure non c’è la minima traccia di ironia nella sua espressione.

“Aspetta… Stai parlando di un appuntamento?” mi chiede, senza mai smettere di sorridere, ed io scrollo le spalle, cercando di uscire dalla spinosa situazione in cui mi sono infilato con le mie stesse mani.

“Visto che il comportamento di Ben sta assumendo una piega così preoccupante, credo che sia meglio per entrambi parlarne di persona piuttosto che attraverso un cellulare… E un ristorante potrebbe essere un luogo perfetto… Ma se hai altri impegni, possiamo rimandare il tutto ad un’altra occasione. Oppure parlarne a telefono… Per me non c’è alcuna differenza…” dico, incrociando le braccia.

Nicole non risponde subito, mi osserva in silenzio con il sorriso che ancora le aleggia sulle labbra, forse perché sta valutando la mia proposta audace, ed infine ritorna sui suoi passi, parlandomi a bassa voce per non farsi sentire da Audrey.

“Hanno aperto un ristorante italiano in centro città, io e Karla lo abbiamo provato la scorsa settimana. È un posto carino e tranquillo, perfetto per parlare. Possiamo trovarci là per le sette e mezza, così mi racconterai come è andato il discorso ‘padre-figlio’”

“Sette e mezza. D’accordo. Perfetto”

“Adesso devo proprio andare. Ci vediamo questa sera, Theodore”

“Sì, a questa sera” ripeto, confuso, perché non posso credere che la mia ex compagna abbia davvero accettato il mio invito; mi appoggio allo stipite della porta d’ingresso e la guardo allontanarsi lungo il vialetto, mano nella mano con la mia piccola donna che mi rivolge un ultimo cenno di saluto prima di salire in macchina: avvicina le dita della manina destra alle labbra e poi le allontana, mimando un bacio invisibile.

Ed io chiudo la mia mano sinistra a pugno, prima di portarmela al petto, appoggiando il palmo all’altezza del cuore.



 
Studio in silenzio, con gli occhi socchiusi, un ragazzo appena adolescente che se ne sta da solo, con la schiena ed il piede destro appoggiati al palo della fermata del bus, dall’altra parte della strada: se ne sta lì, ignorando i suoi coetanei che gli passano affianco, con gli occhi chiusi ed il cappuccio della felpa calato sulla testa.

Resta in quella posizione, perfettamente immobile, per qualche minuto; poi solleva le palpebre, si guarda attorno, ed infila la mano destra in una tasca del giubbetto, estraendone un pacchetto di sigarette ed un accendino di plastica nera, su cui spicca il disegno di un teschio bianco.

Attendo ancora qualche istante e poi, proprio nel momento in cui lo vedo portarsi la sigaretta alle labbra, suono più volte il clacson, richiamando la sua attenzione; lui solleva il viso di scatto, spalanca gli occhi azzurri, ma la sua confusione dura non più di una manciata di secondi: impassibile, getta la cicca a terra, la calpesta, nasconde di nuovo l’accendino ed il pacchetto nella tasca e mi raggiunge a passo veloce, occupando il sedile affianco al mio e distendendo le gambe sul cruscotto.

Sa perfettamente che è un gesto che detesto, eppure quando gli ordino di sedersi in modo composto, dalle sue labbra esce un verso simile ad un grugnito, e mi ritrovo costretto a ripetere le mie stesse parole per la seconda volta: un’altra cosa che odio profondamente.

“Mh-mh…” borbotta Benjamin, concentrandosi sullo schermo del cellulare che gli ho regalato qualche mese prima, per il suo quattordicesimo compleanno, ma le sue gambe non si spostano di un solo millimetro.

“Ben, sai che a tuo padre non piace ripetere una cosa per la seconda volta, ed ancora meno gli piace ripeterla per la terza volta. Sei davvero sicuro di non voler togliere i piedi dal cruscotto?” finalmente, dietro la mia esortazione, decide di assumere una posizione più composta “fai sparire quel cellulare, non credi che dobbiamo parlare?”

“No, non lo credo affatto”

“Ohh, ma allora hai ancora una voce per parlare. Iniziavo a temere che ti fossi trasformato in una mucca, visto che ormai rispondi solo a muggiti. Fai sparire quel cellulare, avanti, perché dobbiamo fare un bel discorso”

“Che palle!” esclama Ben, sollevando gli occhi al tettuccio della macchina “ma si può sapere per quale motivo sei venuto a prendermi a scuola? Oggi inizia la settimana con mamma, non dovresti essere qui. Lei lo sa?”

“Sì, lo sa, e vuoi sapere un’altra cosa? È stata proprio lei a dirmi di venire a prenderti a scuola”

“Che palle!”

“Puoi continuare in questo modo anche per tutta la giornata, ma ciò non ti aiuterà ad evitare il discorso ‘padre-figlio’ che dobbiamo fare. Prima di tutto: dammi il pacchetto di sigarette e l’accendino che hai nella tasca del giubbetto. E non provare nemmeno a fingere di non sapere di che cosa sto parlando perché ti stavo osservando da un pezzo. Avanti” ordino, allungando la mano destra verso di lui; questa volta mio figlio non prova neppure a ribellarsi, mi passa controvoglia i due oggetti di cui mi libero subito, buttandoli fuori dal finestrino alla mia sinistra.

“Ehi!” protesta Ben, spalancando di nuovo gli occhi, voltandosi in direzione della strada “non puoi farlo!”

“In qualità di tuo padre posso fare questo ed altro. E se ti becco ancora con quella merda in mano, ti metto in punizione per un intero mese. Ma che cosa credi di fare?” domando, ad alta voce, senza riuscire più a trattenermi, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata fulminante al mio secondogenito “che cosa credi di dimostrare? Da quanto va avanti questa storia? Tua madre mi ha detto che ha trovato un pacchetto di sigarette nella tua camera da letto. Lo sai che non devi assolutamente fumare perché…”

“Perché ho una forma violenta di asma”

“Esatto. È come accendere la miccia di una bomba che potrebbe esplodere da un momento all’altro”

“E potrei finire in ospedale, o potrebbe andarmi molto peggio… Pensi che non sappia tutte queste cose, Theodore? Ho quattordici anni, non sono più un ragazzino! Ho questa malattia fin dalla nascita e so che dovrò portarmela appresso per tutto il resto della mia vita. E per colpa di questa stupida malattia non posso fare la maggior parte delle cose che fanno gli altri ragazzi” commenta, amareggiato, incrociando le braccia ed appoggiando di nuovo le gambe sopra al cruscotto “vorrei essere in squadra con Mike, invece mi devo accontentare di vedere il mio migliore amico dalle tribune”.

Ecco, questo è esattamente quel genere di parole che un genitore non vorrebbe mai sentire pronunciare dal proprio figlio, perché non c’è nulla che possa dire in questo momento per consolare Ben: ogni frase non sarebbe altro che una bugia, perché come ha detto lui stesso non esiste una cura definitiva alla sua malattia.

L’asma lo accompagnerà per tutta la vita e non potrà fare tantissime cose normali per qualunque altro adolescente.

Ed io, anche se sono suo padre, non posso fare nulla per cambiare questa situazione.

Quando arriviamo a casa preferisco non riprendere la discussione e lo lascio salire al primo piano per auto segregarsi in camera da letto, con la speranza che sbollisca un po’ la rabbia, e ne approfitto per dare una prima occhiata al materiale che Nicole mi ha portato; mi siedo davanti al bancone in cucina, apro la busta gialla, estraggo alcuni fogli ed una serie di fotografie forti e raccapriccianti: in tutte, da diverse prospettive, è raffigurato il corpo martoriato, quasi irriconoscibile, di una bambina, il cui volto è nascosto dai lunghi capelli castani, incrostati di sangue raffermo, foglie e terriccio.

Un brivido freddo mi percorre la spina dorsale e, con orrore, mi rendo conto che la chioma e l’età della piccola vittima si avvicinano molto a quelle di Audrey.

Della mia Audrey.

Sistemo con cura fogli e le fotografie dentro la busta, nascondo il tutto con cura nella mia camera da letto e poi busso alla porta di quella di Benjamin; ed anche se non ottengo alcuna risposta, abbasso ugualmente la maniglia ed entro nella stanza.

Anche se Ben non è come gli altri ragazzi della sua età, la sua camera da letto è uguale a quella di qualunque altro adolescente: ha una scrivania, un computer, una playstation, una TV, un lettore DVD e pile infinite di film, videogiochi e CD; le pareti sono tappezzate di poster dei suoi gruppi musicali preferiti, mentre quella dietro al letto è costellata da fotografie che lui stesso ha scattato con una polaroid che Nicole gli ha regalato sempre per i suoi quattordici anni.

È proprio a quest’ultima parete che mi avvicino per osservare con maggior attenzione le diverse fotografie su cui Benjamin è sempre presente insieme alle persone a cui è più affezionato: sua madre, Dee, Mike (straordinariamente simile a Sara), David e Gracey.

Ne ha perfino una in cui è in compagnia della famiglia Scofield al completo, ma non ne ha una sola con me.

Non mi ha mai chiesto di fare una singola, fottuta, foto insieme.

“Che cosa farai quando questa parete sarà completamente piena?” domando a mio figlio, che se ne sta sdraiato sul letto, con il braccio sinistro appoggiato sopra al viso e le cuffiette infilate nelle orecchie, ma io so che riesce a sentirmi benissimo, ed infatti mi risponde prontamente.

“Staccherò qualche poster ed inizierò a riempire un’altra parete” dice, digitando qualcosa sul cellulare.

“Che cosa stai facendo?”

“Sto messaggiando”

“Con chi?”

“Con mio fratello”

“Ohh, davvero?” domando, sorpreso “non immaginavo che fossi al telefono proprio con lui. Sono quasi due mesi che non ricevo una singola notizia da parte sua”

“Questo perché non puoi comparire all’improvviso nelle nostre vite e pretendere di farci da padre”.

Colpito e affondato.

Senza pronunciare una sola parola afferro Benjamin per un braccio, costringendolo ad alzarsi dal letto ed a liberarsi delle cuffiette, e lo trascino in garage, ordinandogli di salire in macchina e di allacciarsi la cintura di sicurezza (perché la prudenza non è mai troppa); Ben obbedisce, con riluttanza, lanciandomi un’occhiata risentita per il modo brusco in cui l’ho appena trattato e domandandomi dove siamo diretti.

Dove cazzo siamo diretti, per la precisione.

“In un posto che devi vedere con i tuoi stessi occhi e forse, allora, capirai tante cose” gli rispondo in tono secco, guidando, senza dargli ulteriori spiegazioni; Benjamin sbuffa e solleva ancora gli occhi al tettuccio della vettura.

Possibile che gli adolescenti siano in grado di fare solo questo?

“E dobbiamo andarci proprio adesso? Ho fame”

“Il tuo appetito ha un tempismo piuttosto curioso, dato che fino a poco fa te ne stavi chiuso in camera tua senza la minima intenzione di voler uscire. Al ritorno prenderemo qualcosa da un fast-food, ma in questo momento non sono intenzionato a fermarmi fino a quando non arriveremo a destinazione”

“E quanto manca?”

“Ohh, non molto, tesoro. Meno di una decina di minuti” mormoro, lanciando un’occhiata all’orologio che porto al polso destro; ed infatti, qualche minuto più tardi, parcheggio la macchina poco lontano dalle mura grigie di un’imponente struttura di cui si riescono a scorgere appena i tetti dei diversi edifici “ecco. Siamo arrivati”.

Mio figlio avvicina il viso al finestrino, piega le labbra in una smorfia e mi rivolge uno sguardo perplesso.

“Che razza di posto è questo?”

“È un carcere di massima sicurezza, si chiama ‘Fox River’. Qui dentro ho trascorso complessivamente dodici anni della mia vita. Non è stato il mio periodo di detenzione più lungo, ma è stato l’ultimo carcere in cui sono stato rinchiuso, ed è stato qui che ho conosciuto tua madre” mormoro, vagando con gli occhi sulle mura rinforzate da filo spinato, e per un attimo rivivo la notte dell’evasione: otto uomini che si lasciano cadere al di là delle mura e che corrono in direzione del bosco, con i poliziotti, i cani e gli elicotteri già alle costole, verso un volo per il Messico che non riusciranno mai a prendere; sospiro e concentro lo sguardo sul mio secondogenito, che ancora mi osserva perplesso “Benjamin, hai tutto il diritto di essere incazzato con il mondo intero per quello che ti è successo. So che stai passando un periodo delicato, ma…”

“Ohh, ti prego!” m’interrompe lui, mettendo il broncio “non iniziare con questo genere di discorsi. Sono terribilmente imbarazzanti! Soprattutto perché non hanno né capo né coda. Sono i classici discorsi che voi adulti vi sentite costretti a fare a noi ragazzi”

“Ascoltami, per favore!” lo interrompo a mia volta “quando avrò finito potrai dire qualunque cosa, ma devi lasciarmi finire questo discorso, d’accordo? Ascoltami, Ben, hai tutto il diritto di essere incazzato per quello che ti è successo, ed hai anche tutto il diritto di essere incazzato con il mondo intero. Lo so quale è il tuo pensiero fisso. Ti domandi in continuazione perché l’asma deve perseguitare proprio te e che cosa hai fatto di male per meritarti una croce simile da portare sulle spalle per il resto della tua vita. Purtroppo io non ho la risposta alle tue domande, ma capisco benissimo la tua frustrazione perché non puoi fare la maggior parte di cose che i tuoi coetanei fanno. Capisco benissimo la tua voglia di ribellarti, perché anche io ho avuto quattordici anni”

“Sì, certo, secoli fa” commenta lui, acido, incrociando le braccia “e comunque non puoi capire davvero, perché tu non hai mai avuto l’asma. Nessuno può capire anche solo lontanamente come mi sento”

“Ho avuto anche io i miei problemi, Benjamin, e proprio a causa loro mi sono sempre sentito inadeguato e diverso dagli altri ragazzi. E quando ho iniziato ad andare a scuola mi sono isolato da tutto e da tutti, diventando lo sfigato dell’intero edificio. Mio cugino James era il mio unico amico… Il punto è questo, tesoro: ad ogni giorno che passa, rivedo sempre di più in te ciò che io ho vissuto in prima persona, e non voglio che mio figlio imbocchi una strada senza ritorno”

“Ma ho solo fumato delle sigarette!”

“Adesso si tratta di sigarette e di qualche dispetto ad un insegnante. Poi arriverà il momento di piccoli furti dentro i negozi di alimentari e poi quello della cazzata che ti porterà a trascorrere anni dentro un carcere minorile. E quando uscirai, e sarai ormai un uomo, continuerai con quella strada perché sarà l’unica che avrai imparato a conoscere… E tutto si trasformerà in un enorme circolo vizioso: crimine, carcere, libertà… Crimine, carcere, libertà… Il carcere è un inferno in Terra. Non immagini neppure il mondo che si nasconde dietro queste mura, Benjamin… Potrei raccontarti storie che non ti farebbero più chiudere occhio per il resto della tua vita” mormoro, guardando ancora una volta il cancello imponente di Fox River; potrei davvero raccontare a mio figlio storie da incubo che spegnerebbero subito la fiamma di ribellione che arde in lui, ma non posso farlo perché la maggior parte (anzi, tutte) riguardano me.

Ben abbassa il viso, rivolgendo lo sguardo corrucciato alle scarpe da ginnastica, tormentandosi il labbro inferiore; dopo qualche minuto di silenzio assoluto, in cui l’osservo in attesa di una qualunque risposta da parte sua, infila la mano destra in una tasca dei pantaloni, tirandone fuori una bustina di plastica trasparente che allunga verso di me, senza guardarmi negli occhi.

“È meglio se butti fuori dal finestrino anche questa”.



 
Benjamin ed io non ci rivolgiamo la parola per il resto dell’intera giornata, ma mentre mi sto preparando per l’appuntamento vedo il suo viso riflesso nello specchio posizionato di fronte a me; lo degno a malapena di un’occhiata e torno a concentrarmi sulla cravatta che sto provando ad annodare, lui non si scoraggia, muove qualche passo e si lascia cadere sul materasso.

“Togli la scarpe dal letto” lo ammonisco immediatamente “non dovresti essere in camera tua a fare i compiti?”

“Li ho già fatti”

“Allora dovresti studiare. Sono sicuro che avrai qualcosa da studiare”

“Ho già fatto anche quello”

“Allora ripassa”

“È tutto il pomeriggio che non esco dalla mia camera…”

“E dovrà trascorrere molto tempo prima che potrai farlo di nuovo” lo interrompo, voltandomi a guardarlo negli occhi, per fargli capire quanto io sia ancora profondamente furioso con lui a causa della busta trasparente che mi ha consegnato in macchina; Ben si tira su di scatto, sedendosi sul bordo del materasso e mi fissa con gli occhi azzurri sgranati ed un’espressione sinceramente pentita.

“Mi dispiace, d’accordo? Ho fatto un’enorme cazzata a comprare quella roba, ma ti giuro che non l’ho provata! Te lo giuro su Dee! Me ne sono pentito subito! È tutto il pomeriggio che non esco dalla mia camera per fare i compiti e studiare… Mi domandavo se… Ehi, per quale motivo sei vestito in modo così elegante? Stai uscendo?”

“Ho un appuntamento”

“Un appuntamento?” ripete il mio secondogenito, sostituendo l’espressione costernata con una curiosa ed indagatrice “intendi dire che hai un appuntamento con una donna? Ma tu non frequenti una donna da anni, quando l’hai conosciuta?”

“Non si tratta di un appuntamento romantico, infatti: io e tua madre usciamo a cena perché dobbiamo parlare di una questione molto importante, ed è meglio farlo di persona. tutto qua” mormoro, riuscendo finalmente a realizzare un nodo dall’aspetto decente; Ben piega il viso di lato e sorride divertito.

“Tutto qua? Ne sei davvero sicuro, Theodore? Non è che voi due avete ricominciato a frequentarvi, ma volete tenere all’oscuro sia me che Audrey per non… Scombussolarci troppo?”

“Assolutamente no. Non farti strane idee”

“Mh, se lo dici tu…” commenta Benjamin “quindi… Siccome stai per uscire, anche se sono in punizione, Mike può venire qui a mangiare una pizza ed a guardare un film?”.



 
Nicole entra nel ristorante poco dopo il mio arrivo, e non appena poso gli occhi su di lei resto letteralmente senza fiato: l’abito da sera che indossa fascia le sue curve in modo perfetto, quasi come una seconda pelle, lasciandole le braccia e le spalle scoperte, fermandosi a pochi centimetri sopra le ginocchia; gli occhi chiari sono messi in risalto da una matita nera, ed i capelli castani e lunghi sono stati sostituiti da un corto caschetto biondo che non le sfiora neppure le spalle.

È bellissima, non posso negarlo: anche se abbiamo avuto una storia turbolenta, anche se ci sono state parecchie incomprensioni tra noi due, anche se c’è stato un periodo in cui ci siamo odiati a vicenda, ciò non cambia il fatto che in questo momento è uno spettacolo semplicemente mozzafiato che mi lascia tutt’altro che indifferente; e quando vengo colpito dal profumo dolce che indossa, misto a quello di una crema per il corpo, sento il sangue iniziare ad affluire verso il basso inguine.

“Accidenti…” commenta la mia ex compagna, facendo tintinnare gli orecchini luccicanti che indossa “in tredici anni che ti conosco non ti ho mai visto così elegante. Hai addirittura la cravatta”

“Non c’è mai stata l’occasione per un’uscita simile durante il periodo in cui siamo stati insieme. E poi, non potevo sfigurare questa sera… Che cosa hai fatto ai capelli?”

“Era da un po’ di tempo che stavo pensando ad un nuovo taglio, ho semplicemente colto l’occasione al volo… Allora? Andiamo al nostro tavolo, così possiamo parlare di nostro figlio?” mi domanda Nicole, e senza lasciarmi il tempo di acconsentire si avvicina ad un cameriere, che si offre di accompagnarci ad un tavolo posizionato ben lontano dal centro dell’immensa sala, in un angolino, vicino ad un’alta e stretta finestra “ho chiesto un posticino tranquillo ed intimo per non essere disturbati… Dunque? Che cosa mi dici riguardo al discorso ‘padre-figlio’? Sei riuscito a farlo? Quale è stata la reazione di Ben?”

“Ho fatto molto di più” rispondo, sedendomi di fronte a lei, sfogliando il menù velocemente “l’ho messo di fronte a quello che potrebbe essere il suo futuro se continua su questa strada”

“Cioè?”

“Gli ho fatto vedere le mura di Fox River e gli ho chiesto se quello che desidera veramente è trascorrere la maggior parte della sua vita dietro le sbarre di una cella”

“Un po’ troppo diretto, ma efficace” commenta Nicole, sorridendo “ed ha funzionato?”

“Ohh, sì!” esclamo, distendendo le labbra a mia volta “Benjamin è rimasto così impressionato dalle mie parole che ha infilato la mano destra in una tasca dei pantaloni e mi ha consegnato una bustina di plastica trasparente. Ho impiegato qualche secondo a capire di che cosa si trattasse, ma quando l’ho aperta ogni mio dubbio è stato sciolto dall’aroma speziato del contenuto: era della marijuana”.

Gli occhi di Nickie si spostano rapidamente dal menù al mio viso, scrutandolo a lungo, forse per capire se la sto prendendo in giro o se le sto raccontando la verità; e quando si convince che è la seconda opzione ad essere giusta, serra le labbra in una linea sottile e pallida.

Dal modo in cui butta fuori l’aria in uno sbuffo, capisco subito che si sta trattenendo a fatica dal fare una sceneggiata da madre preoccupata.

“Non immaginavo che la situazione fosse così seria. Quando ho trovato quel pacchetto di sigarette nella camera di Benjamin non mi aspettavo che potesse nascondere anche altro. Non ho mai…”

“Rilassati” mormoro, interrompendola, perché la sua voce sta iniziando a salire di tono ed a diventare sempre più acuta; senza pensarci, d’istinto, la prendo per mano per tranquillizzarla “Ben non ha preso quella merda. Mi ha confessato di essersene pentito nello stesso momento in cui è riuscito a procurarsi quella bustina, ed io gli credo. E poi, l’ho messo in punizione per un mese intero, penso che abbia capito la lezione… Ho fatto un’eccezione per questa sera perché non volevo che rimanesse a casa da solo, gli ho permesso di invitare Mike per una pizza ed un film… Molto probabilmente quando tornerò a casa, li troverò addormentati in camera mia, visto che ho un letto matrimoniale, ed io mi ritroverò relegato sul divano. Dee?”

“È da Karla”

“Ahh!” esclamo, con una smorfia, tutt’altro che contento di sapere che la mia unica figlia è in compagnia di una donna che mi odia profondamente, con ogni fibra del suo essere “dovevi per forza lasciarla dalla strega con i capelli rossi?”.

Nickie solleva il sopracciglio destro, rivolgendomi uno sguardo risentito, e ritrae la mano.

“Dovresti smetterla di offenderla” mi rimprovera, sfogliando per l’ennesima volta il menù.

“Ohh, sono sicuro che lei mi rivolge insulti molto più pesanti, non provare a negarlo” commento, ritornando a guardare a mia volta il menù, ma non riesco a trattenermi dal rivolgerle una piccola frecciatina, soprattutto perché sono curioso di sapere la sua risposta “mi domando se anche in quel caso la tua reazione è così immediata ed istintiva, o se ti diverti a mettere altra carne sul fuoco”

“Certo che reagisco nello stesso modo. Non permetto a te di parlare male di lei perché è una mia amica, ma non permetto neppure a lei di parlare male di te perché sei il padre dei miei figli. Ed anche se non sei la persona più candida e pura sulla faccia della Terra, con loro sei impeccabile e questo mi basta” risponde lei, senza la minima traccia di esitazione.

La nostra conversazione s’interrompe quando un cameriere viene a prendere le nostre ordinazioni, ed il silenzio prosegue anche durante il pasto; Nicole è assente, lo dimostrano il suo sguardo a tratti perso nel vuoto ed il filetto di manzo che giace quasi del tutto intatto nel suo piatto, e lo stesso vale anche per il calice di vino rosso.

Quando arriva il momento del dolce, decido di prendere io in mano la situazione.

“Non avere paura per Benjamin, sono sicuro che ha capito la lezione”

“Sono sua madre, è naturale che io sia preoccupata, tu non lo sei?”

“Ora non più, perché ho visto i suoi occhi mentre guardava le mura di Fox River. Non essere troppo dura con lui quando gli dirai che sai tutto della marijuana, soprattutto perché ci ho già pensato io a fargli una bella lavata di capo. Digli che ha sbagliato, che ha commesso una leggerezza, ma non farglielo pesare troppo: ha appena quattordici anni, tutti i ragazzini di quell’età commettono delle piccole cazzate. Io ne avevo solo uno in più quando ho scolato un’intera bottiglia di whisky insieme a mio cugino, e poi abbiamo fumato un intero pacchetto di sigarette. Siamo stati male un’intera settimana, mia zia credeva che avessimo preso qualche virus che girava nell’aria. Rilassati, Nickie, conosco nostro figlio proprio perché assomiglia a me. La sua mente è un libro aperto ai miei occhi” faccio una pausa per rinfrescarmi la gola con un sorso d’acqua “a quell’età tutti cercano un modello da seguire ed imitare, e Benjamin l’ha identificato in David: adora suo fratello, stravede per lui, di conseguenza cerca di assomigliargli il più possibile. Domani mattina lo chiamerò, gli spiegherò la situazione e gli chiederò d’incontrarsi con il suo fratellino per fargli a sua volta un bel discorso… Adesso sei più tranquilla?”.

Sì, è più tranquilla, e lo dimostrano le spalle rilassate, come se un enorme peso fosse improvvisamente sparito.

“Sì, però gli farò a mia volta un bel discorso… Uno di quelli che non dimenticherà per molto tempo. Come va con Whip e Gracey?”

“Stanno insieme, stanno bene, dovresti saperlo anche tu visto il legame di amicizia che hai con mio figlio”

“Lo so, infatti mi stavo riferendo ad altro. Non hai più avuto occasione di parlare con Gracey?”

“Ohh, adesso ho capito la tua domanda” mormoro, bevendo dell’altra acqua “anche se sono trascorsi sei anni non ho mai provato ad avere un altro chiarimento con lei. Non so se sarebbe disposta ad ascoltare le mie parole o a perdonarmi, e non voglio rovinare l’equilibrio che c’è tra lei e David. L’ultima cosa che voglio al mondo è rovinare la relazione più duratura di mio figlio. E poi, come tu stessa mi hai detto tempo fa, Gracey è la figlia di Susan… Non credo che sarebbe molto contenta se dovesse scoprire che David è mio figlio. Preferisco rimanere in un angolo, almeno per il momento. E Burrows?”

“La nostra è una storia finita da tempo, ma siamo rimasti in ottimi rapporti. Sta insieme a Sheba”

“Sheba?”

“Il contatto che C-Note aveva nello Yemen. L’ha conosciuta quando è venuto a cercare Michael”.

Ripenso al giorno in cui ho parlato con Scofield al parco, in modo particolare alla ragazza dai tratti orientali seduta sull’erba, che parlava e rideva con Sara.

Avevo ragione a sostenere che tra loro due c’era già un po’ di maretta.

Dopo essermi elegantemente offerto di pagare il conto, invito la mia ex compagna a fare una passeggiata al parco, dal momento che è una splendida nottata ed il cielo è tempestato da una miriade di piccoli puntini luminosi; entrambi prendiamo posto su una panchina per goderci appieno le stelle.

Ancora una volta tra noi due cala il silenzio, ed ancora una volta sono io ad interromperlo.

“Ho dato un’occhiata al materiale che mi hai dato” mormoro, scompigliandomi i capelli con la mano destra “per un solo istante ho avuto la terribile sensazione che quella bambina fosse Audrey”

“È la stessa, identica, sensazione che ho avuto anch’io, ma fortunatamente non è lei. E mai lo sarà” Nicole distoglie gli occhi azzurri dalle stelle per fissarli nei miei, e nonostante non sia più una ragazzina, ma una donna di trentaquattro anni, mi sembrano sempre grandi ed infantili “giusto?”.

Finalmente capisco che cosa si cela dietro la sua assenza mentale ed ai suoi lunghi silenzi: Nickie non ha paura che Benjamin possa prendere altre scelte sbagliate che condizionerebbero la sua vita per sempre, è semplicemente terrorizzata dalla prospettiva che Mahone la contatti per annunciarle, con immenso dolore, che la nostra Dee è rimasta vittima di qualche sadico mostro; è terrorizzata dalla prospettiva che la prossima busta non contenga foto di una bambina che assomigli ad Audrey, ma proprio della nostra Audrey.

Nicole continua a fissarmi con gli occhi azzurri sgranati e carichi di timore, in attesa di una mia risposta che possa farle dormire sogni tranquilli, vedo le sue labbra percorse da un lieve tremolio e devo lottare contro l’impulso di baciarle: rischierei solo di commettere uno sciocco errore e di rovinare l’intera serata.

È ancora troppo presto per un gesto intimo e profondo come un bacio.

Abbasso lo sguardo, vedo la sua mano sinistra appoggiata al legno della panchina e capisco che cosa devo fare.

Poso la mano destra sopra la sua e la stringo leggermente, ricevendo un sorriso inaspettato; non so se la mia ex compagna ha capito il perché del mio gesto, ma è proprio da esso che le nostre vite si sono intrecciate per la prima volta, tredici anni fa: tutto, ogni singola cosa, non è iniziato dal giorno in cui gli uomini di Abruzzi mi hanno pestato a sangue e Nicole si è occupata delle mie ferite, e non è neppure iniziato dal giorno in cui abbiamo parlato attraverso la recinzione.

No.

Tutto è iniziato dal giorno in cui, in infermeria, lei si è seduta a mio fianco sulla brandina e le dita della mia mano destra si sono intrecciate con quelle della sua mano sinistra.

Forse in questo momento, complice anche l’atmosfera da film romantico, dovrei prodigarmi in un discorso strappalacrime che lasci Nickie a bocca aperta, confessandole anche quanto io sia ancora profondamente innamorato di lei, dicendole che non ha senso continuare a stare l’uno lontano dall’altra e che è arrivato il momento di ricongiungerci e di creare la famiglia che ad entrambi è sempre stata negata e che entrambi desideriamo ardentemente.

Ma ancora una volta è troppo presto.

Ancora una volta rischierei di rovinare tutto.

E così, mi limito a sorriderle con dolcezza, dicendo esattamente ciò che vuole sentire uscire dalle mie labbra.

“Giusto”.

Per tutto il resto c’è tempo.
 
 
   
 
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