C’erano giorni in cui svegliarsi era un piacere. Giorni in cui, pioggia o sole che fosse, la bellezza accecante delle cose circostanti era tanta e tale da strappare dal letto e trascinare fuori di casa a vivere.
C’erano giorni, invece, in cui anche il sole più luminoso nel cielo più azzurro poteva apparire desolante.
Vibeke sedeva da sola al tavolo della cucina di casa, immersa in una cascata di fiotti di luce bianca che sapeva già di primavera. Tutto ciò che era rimasto dell’inverno, ormai, era qualche sporadica folata di vento dal Nord che di tanto in tanto si risvegliava e scuoteva le chiome degli alberi e rare spruzzate di neve sparse sulle montagne. E il grigiore che lei si sentiva dentro.
Guardava la tazza di caffelatte, ripetendosi che se non si fosse decisa a berlo in fretta si sarebbe raffreddato, ma non aveva appetito. Normalmente reagiva allo stress ingozzandosi di dolciumi e schifezze fino alla nausea, eppure ora come ora aveva solo voglia di scaraventare la tazza a terra e chiudere tutte le persiane per lasciare fuori quell’odiosa luce che le bruciava agli occhi.
Tutto era silenzioso e immobile, tutto taceva. L’assenza di BJ, al contrario di quel che lei da sempre sosteneva, non era affatto un bene, per quella casa. Sembrava che qualcuno avesse estirpato l’anima da ogni cosa.
Il cucchiaino tintinnava a vuoto contro il bordo di ceramica della tazza, ruotando ininterrottamente per sciogliere dello zucchero che nemmeno c’era. Lei odiava lo zucchero nel caffè. Non aveva mai capito che scopo avesse scegliere una bevanda amara come il caffè, se poi lo si doveva correggere con zucchero o dolcificanti.
Il caffè era amaro. Nasceva amaro e amaro doveva essere. Se si doveva insistere per addolcirlo, tanto valeva bersi un succo di frutta.
Lei amava il caffè per quello che era: nero e torbido e amaro. Ma la mattina, a colazione, ci aggiungeva il latte, dolce ma non troppo, perché la trovava una buona combinazione.
Restò per un attimo a osservare la spirale di onde che animava il liquido beige sulla scia del passaggio del cucchiaino: caffè e latte erano perfettamente fusi l’uno nell’altro, senza però confondersi. Si potevano ancora distintamente sentire l’amarezza dell’uno e la dolce cremosità dell’altro.
Erano davvero una buona combinazione.
In quel momento qualcosa di soffice le sfiorò i polpacci nudi. Vibeke abbassò lo sguardo e quasi sorrise.
“Rogue.”
Lui le rispose con un miagolio lamentoso, continuando a strusciarsi contro le sue gambe. Faceva sempre così, quando voleva qualche vizio, e lei non sapeva mai dirgli di no.
Mi ricordi qualcuno, palla di pelo.
Si tirò appena indietro con la sedia e gli fece cenno di saltarle sulle ginocchia. Rogue non se lo fece ripetere due volte: atterrò su di lei con un balzo morbido e continuò a strusciarsi, beato delle carezze che lei gli concedeva.
“Sei tu il re indiscusso del mio cuore, amore mio,” gli sussurrò Vibeke, grattandogli il pelo tra le orecchie. “Ci ameremo per sempre, noi due, vero?” Gli stampò un bacio sul muso, ignorando le sue proteste infastidite. “Sei il mio unico, vero amore, tu.”
Lo coccolò per un po’, mentre lui le faceva le fusa soddisfatto. Era decisamente più conveniente amare una creatura che non sapeva nemmeno cosa fosse il tradimento.
“Hey, hey!” esclamò Vibeke, bloccandolo non appena lui tentò uno scatto felino per saltare sul tavolo, puntando dritto al caffelatte. “Dove credi di andare?”
Rogue socchiuse pigramente gli occhi un paio di volte, guardandola come per dirle ‘Ma tanto tu non lo bevi’. Un sospiro sfuggì dalle labbra di Vibeke e lei lasciò andare Rogue. Subito lui tuffò la testa nella tazza, iniziando a leccare con gusto. Non si disturbò a interrompere nemmeno quando squillò il telefono.
Svogliatamente, Vibeke si tirò su dalla sedia e, scalza, attraversò la cucina per raggiungere il telefono. Non guardò il numero, né si chiese chi potesse essere. A volte le sembrava di riconoscerlo semplicemente dal suono dei trilli.
“Morn, tøffing.” Salutò, senza entusiasmo. (“Buongiorno, ragazzone.”)
“Ikke ironi, baillmonster!” l’avvertì BJ. “Jeg er utlsitt og høyst sulten!” (“Niente ironia, stronza! Sono stanchissimo ed estremamente affamato!”)
“Oh, fattig liten gutt!” lo scimmiottò lei. (“Oh, povero piccolino!”)
Come sempre, BJ soprassedette:
“Si Bill på gi meg noen få rosa blomsten, vær så god!” (“Di’ a Bill di portarmi un po’ di fiori rosa, per favore!”)
Fiori
rosa. Un’altra
vola. Vibeke si disse che avrebbe proprio dovuto fare quattro
chiacchiere
chiarificanti con Bill.
“Hva? Pånytt?!” (“Cosa? Di nuovo?!”)
“Vær
så god! Jeg
elsker deg uansett om du
ikke elsker meg!” (Per
favore! Io ti voglio così incondizionatamente bene e
tu non mi ami neanche un po’!”)
“Hold kjeft!” (“Ma sta’ zitto!”)
“Sta’ zitta tu, piuttosto!” la rimbeccò dispettosamente BJ. “Hai una voce che fa paura. O ti sei beccata una tonsillite a furia di urlare improperi dietro a Tom, oppure il karma ti sta dicendo che qualcosa dentro di te non va affatto bene.”
“Oh, geniale! Mi serviva una bella somatizzazione per capire che qualcosa non va, vero?”
“L’avevo detto a papà e a Sissel che la tua passione per gli agrumi era malsana… Guarda quanta acidità hai accumulato in tutti questi anni! Magari Bill può comprare un po’ di marshmallows anche a te.”
“Marshmallows?” fece Vibeke, confusa. “Ma co–?” Poi di colpo realizzò. “I fiori rosa!” sbraitò, incredula. “Quei cazzo di misteriosi fiori rosa! Non mi stupisce affatto che fossero finiti così in fretta!”
“Ops…”
“BJ!” si arrabbiò lei. “Razza di idiota irresponsabile! E quel cretino di Bill che ti spalleggia! Ah, ma mi sentirà!”
Lui, come nulla fosse, rise.
“Nobile tentativo di sviare la conversazione, devo dire,” sottolineò, angelico. “Stavamo parlando di Tom e del tuo karma.”
Non voglio parlare di Tom, rispose la testa di Vibeke, fortunatamente non assecondata dalle sue labbra.
In verità una parte piuttosto consistente di lei aveva una certa voglia non solo di parlare di Tom, ma anche di parlare con Tom, e forse, molto in fondo, anche di vederlo. Benché non sapesse proprio comprenderne il perché, dato che non aveva nessun senso, Vibeke sentiva incredibilmente la sua mancanza.
Il problema reale era che c’erano infinite cose di lui che le davano sui nervi e avrebbe potuto passare ore intere a elencarle, ma poi le tornava in mente quel suo modo insolente e ruffiano di sorridere, l’assottigliarsi irriverente dei suoi occhi luccicanti di malizia, ma così inequivocabilmente velati di dolcezza da stregare.
E lei poteva non accettarlo, non riconoscerlo, ma non era bastato quel colpo a tradimento che lui le aveva inferto per spezzare quello che inaspettatamente era nato tra di loro. Si era innamorata di lui prima per i suoi difetti che per i suoi pregi, e con questo, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque dovuto fare i conti, prima o poi.
Eppure era così comodo credere ciecamente di avere assoluta ragione.
“Per l’ultima volta,” intimò brusca a BJ. “Kaulitz non rientra nella mia top five di migliori argomenti per una piacevole conversazione di cortesia.”
“Se la tua me la chiami cortesia…” sottilizzò lui.
“Anzi, a dirla tutta penso che venga anche dopo la vita sentimentale del Chihuahua di Paris Hilton e la lotta ai radicali liberi di Madonna.”
“Ed è prima o dopo l’insopportabile testardaggine delle sorelle gemelle norvegesi?”
“Ora che ci penso non è nemmeno in classifica.” Aggiunse lei, senza ascoltarlo.
“Senti un po’, Vetriolo Wolner, mi sono un bel po’ rotto della tua acidità,” dichiarò BJ con disarmante placidità. “Se hai finito di trattarmi male perché sono un fratello convalescente e bisognoso che odia essere trascurato, ci sarebbe qualcosa di piuttosto serio di cui ti vorrei parlare.”
Vibeke fiutò aria di argomenti spinosi. Già il fatto che BJ avesse scelto un vocabolo impegnativo come ‘serio’ era preoccupante, se poi ci aggiungeva anche un ‘piuttosto’, allora la cosa diventava piuttosto preoccupante, e dato che da giorni a quella parte chiunque con cui avesse parlato aveva necessariamente, in un modo o nell’altro, voluto discutere di lei e Tom, le probabilità che la conversazione non si sarebbe conclusa nel peggiore dei modi erano scarse, e lei cominciava a non poterne più.
Perché non potevano semplicemente lasciarla dimenticare? O almeno lasciare che ci provasse?
“Se si tratta ancora di Kaulitz, ti avverto che non –”
Uno sbuffo irritato provenne dall’altro capo della linea.
“Sempre la solita prevenuta!” si lagnò BJ, in tono dolente. “Se si fosse trattato di Tom, avrei detto semplicemente ‘seria’. Invece ho detto ‘piuttosto seria’.”
Vibeke ne rimase così disorientata da perdere l’uso della parola per un paio di secondi buoni. BJ era il tipo che definiva una cosa ‘seria’ solo se questa implicava del cibo, una bella ragazza o un bel ragazzo, oppure, in casi rari ed estremi, questioni di vita o di morte. Per lui nemmeno il suo recente incidente era stato classificato come serio, e a questo punto Vibeke non sapeva più cosa aspettarsi.
“Mi devo preoccupare?”
Nel millisecondo di silenzio che le giunse in risposta riuscì ad immaginare una lunga serie di possibilità tra le più disparate. In realtà dovette presto ammettere che, anche dopo quasi ventitré anni di vita trascorsi simbioticamente con lui, suo fratello era ancora in grado di lasciarla senza parole.
***
“Bill, è una cazzata.”
“Non è affatto vero!”
“Andiamo, non funzionerà mai!”
“Sì, invece!”
“È una cazzata, ti dico!”
“Taci, Tom! Funzionerà eccome! Vatti a preparare e piantala di rompere!”
Tom se ne rimase impalato in mezzo al salotto, le mani con i palmi interrogativamente rivolti verso l’alto, e guardò Bill uscire sorseggiando una lattina di Red Bull.
“Cosa vuol dire ‘Vatti a preparare’?” gli urlò dietro, disperatamente confuso. Ancora, dopo tre nevrotiche spiegazioni, il piano gli risultava ben poco chiaro.
Bill tornò indietro con gli occhi rivolti al cielo, come se stesse avendo a che fare con un ritardato mentale.
“Hai presente quella serie di gesti che si compiono per rendersi presentabili prima di uscire?” domandò, gesticolando impazientemente. Dopo un istante di perplessità da parte di Tom, però, si bloccò e si diede una pacca sulla fronte. “Ah, no, scusami! Aspetta, te lo spiego.”
Tom si costrinse a non scaraventarlo contro il mobile bar, rammentando a se stesso che una vasta collezione di alcolici contava di più di una vendetta contro un fratello idiota.
“Molto, molto divertente.” Commentò, funereo. Farsi prendere in giro anche in un momento di depressione era davvero il colmo. Perché nessuno mostrava rispetto verso il suo stato?
“Insomma, ti vuoi muovere?” lo bacchettò Bill, portandosi le mani ai fianchi asciutti.
“Ma che cosa dovrei fare?” balbettò Tom, ancora incapace di afferrare il nocciolo della questione.
“Fai qualcosa!” strillò Bill, che pareva sull’orlo di un cedimento di nervi. “Qualunque cosa! Qualcosa di effetto!”
Tom aggrottò le sopracciglia.
“Di effetto… In che senso?”
Bill chinò la testa e la scosse sconsolato.
“Lo sapevo che la mamma doveva insistere a farti mangiare il pesce, da piccolo.” Sospirò. “Ormai è troppo tardi per salvarti il cervello.” Un altro sospiro, poi inspirò a fondo e, risoluto, si avvicinò a Tom e gli pose le mani sulle spalle, guardandolo negli occhi. “Dunque, te la farò molto, molto semplice: vattene a metterti qualcosa di più chic di una stupida tuta sciupata!”
“Ma io ho solo stupide tute, e sono tutte sciupate, dato che sono secoli che quella stronza non si fa vedere!” obiettò Tom, un po’ punto nel vivo. Per lui qualcosa di ‘chic’ era semplicemente costituito dalla felpa più costosa che aveva, i jeans più costosi che aveva e la scarpe più costose che aveva. Tutto lì. Per Bill, invece, la faccenda sembrava decisamente più complessa.
“Be’, dobbiamo inventarci qualcosa, allora.”
Inventarsi qualcosa. Tom si era spesso chiesto se esistesse qualcosa al mondo che potesse essere ‘di effetto’ su una come Vibeke. Sicuramente sarebbe stato ‘di effetto’ se si fosse messo un naso rosso e una parrucca variopinta, ma sicuramente non in positivo.
Al diavolo!
Perché
devo pensare a come vestirmi se lei nemmeno mi vuole rivolgere la
parola?
“Sì, ma non –” iniziò a protestare, ma poi fu come attraversato da un fulmine a ciel sereno, e tutto gli sembrò più chiaro. “Aspetta.” si bloccò e sollevò lo sguardo su Bill, cercando riscontro in lui, le pulsazioni che incrementavano spropositatamente di intensità. “Forse ho capito dove vuoi arrivare.” Soffiò. Non solo aveva capito. Sapeva anche esattamente dove puntare. Era un’idea stupida così assurda che forse poteva addirittura funzionare. “Bill,” Tom afferrò febbrilmente il proprio disorientato fratello per le spalle e lo strinse convulsamente. “Devi darmi una mano tu.”
***
Vibeke evitava di guardare le vetrine, camminando a passo spedito per il centro. Preferiva non vedersi.
Sapeva di avere un pessimo aspetto – struccata, colorito cadaverico, occhi gonfi e arrossati, abbigliamento del tutto trascurato e capelli disastrosamente increspati dall’umidità – e non le andava di deprimersi ulteriormente nel vedersi.
In giro era pieno di giovani, molti riuniti in gruppi, altrettanti che andavano in giro in coppia, mano nella mano, scambiandosi baci e sorrisi innamorati. Seduta su una panchina, Vibeke scorse una ragazzina che avrebbe benissimo potuto essere lei a quindici anni, con qualche piccola differenza circostanziale: alta e formosa, vestita di nero da capo a piedi, trucco pesante, borchie e catene ovunque, e uno sguardo languido perso nel vuoto. Sola.
Vibeke, tuttavia, ebbe a stento il tempo di interpellare la compassione: un secondo dopo che lei la ebbe vista, alla ragazzina si avvicinò un ragazzo che doveva avere pressappoco la sua età, alto e smilzo, con uno stile nettamente più sobrio e ordinario di lei. Guardandoli abbracciarsi e baciarsi, Vibeke provò una fitta di gelosia: lei, a quell’età, era stata troppo occupata con la sua guerra contro il resto del mondo per potersi dedicare a quel genere di cose, e, in ogni caso, nessuno dei suoi compagni di scuola sarebbe stato disposto a volerla, strana com’era. Eppure lo aveva voluto lei.
Si costrinse a riscuotersi da quella contemplazione inopportuna e accelerò il passo, zigzagando nervosamente tra la lemme folla del sabato pomeriggio. Di tanto in tanto, nevroticamente, si tormentava i due piercing che da qualche giorno si era rimessa al labbro.
Lei odiava il caos, il rumore, i luoghi affollati. Era tutta colpa di BJ. Un’altra volta.
Con la scusa che il suo petto era stato perforato da un proiettile, suo fratello era diventato un tiranno capriccioso e quanto mai esigente, e, ovviamente, chi poteva mai adempiere il suo volere se non l’amata sorellina?
Vibeke non capiva che utilità potesse avere una camicia di lino – per di più di un’atroce tonalità ciclamino – per un ragazzo convalescente, ma BJ aveva sfoderato il suo collaudato musetto da cucciolo supplichevole, e lei non si era potuta rifiutare, così lo aveva lasciato con la promessa che, sì, nel pomeriggio si sarebbe recata alla boutique di Guess del centro e, no, non avrebbe sbagliato colore.
Selezionò la modalità shuffle sull’iPod e si sistemò meglio l’auricolare nell’orecchio destro. Avere entrambe le orecchie occupate dalla musica non le piaceva, in pubblico. Le sembrava di essere indifesa, di poter essere colta alla sprovvista da qualcosa, se restava isolata da suoni, voci e rumori, e lei, di natura, era una che preferiva coprirsi le spalle.
Almeno di norma.
Scansò in malo modo una donna con due bambini per mano e una vecchietta che si trascinava dietro un carrellino della spesa, aggirò una cestino della spazzatura e schivò un paio di ragazzi dall’aria fiacca che militavano accanto a un semaforo, armeggiando con i rispettivi iPhones.
Vibeke non poté fare a meno di pensare che il vizio più generoso che suo padre le avesse mai concesso era stato un paio di Dr Martens – che peraltro lui aveva pesantemente criticato – per i suoi quattordici anni, e il tutto solo dopo le assidue insistenze di Sissel.
La vita non le aveva mai regalato niente, se non forse un fratello che aveva saputo tenerla per mano anche quando lei aveva nauseato perfino se stessa.
Non c’era nulla che non avrebbe fatto per BJ. Nemmeno sorbirsi il pienone del sabato del cuore di Amburgo per comprargli una stupidissima camicia da un paio di centinaia di euro che le avrebbe senz’altro fatto schifo.
Svoltò l’angolo e finalmente, pochi metri avanti a sé, individuò la scintillante vetrina supergriffata della boutique. Si sarebbe dovuta disinfettare, una volta uscita.
Puntò al negozio di malavoglia, ma fu bloccata da una melodia nota che le giunse all’orecchio sinistro. Un’intro di pianoforte leggera e vagamente angosciosa che lei adorava e che aveva preferito sostituire alla vecchia canzone dei Cure.
Senza riflettere, recuperò il cellulare dalla borsa e rispose, senza preoccuparsi di spegnere l’iPod o sfilarsi l’auricolare. Era appena iniziato un brano che le piaceva.
Nell’istante stesso in cui si poggiò il telefono all’orecchio, prima ancora di rispondere, Vibeke si rese conto di tutto: aveva accettato una chiamata e non si era curata del numero apparso sullo schermo. Un numero che, nonostante lo avesse visto di sfuggita, aveva finora evitato con scrupolosa costanza.
“Smettila di chiamarmi!” berciò d’istinto, prima che il suo attimo di defaillance diventasse palese. Riattaccare immediatamente sarebbe stata una cosa sensata, dopo un simile scatto, ma la ragione dettata dal suo cervello non raggiunse mai la mano di Vibeke, che invece restò lì, ferma in mezzo al marciapiede, aspettando.
Aspettando, senza sapere cosa. Senza aspettarsi niente.
“No che non la smetto!” replicò la voce sostenuta di Tom. “Voglio che tu mi lasci spiegare!”
Voglio,
voglio,
voglio... Conti sempre e solo tu, vero?
Vibeke strinse il cellulare tra le dita, combattuta tra la propria rabbia e l’assurdo, urgente bisogno di sentire ancora il suono della voce di Tom.
Non voleva starlo a sentire. Era stanca, stanca di essere la sua serva personale senza retribuzione, stanca di farsi prendere in giro gratuitamente e non riuscire mai a ricambiare. E dall’auricolare la voce di Lauri Ylönen infieriva quasi perfidamente sulla situazione.
I think I
should go and leave you alone, yeah
Stop this
game and hang up the phone, and more…
“Non devi spiegarmi niente.” Tagliò corto lei. “Lara è venuta prima di me, sono io l’intrusa.”
“Di Lara non me ne è mai fregato un cazzo!” ringhiò Tom.
“Non solo di lei, a quanto pare!”
“No, Vi, stai zitta un attimo, per favore!”
“Stai zitto tu!”
It's like I wanted to break my
bones…
“Vi, per favore…”
Tom aveva quel tono supplichevole nel parlarle. C’era una vibrazione strana nelle sue parole, qualcosa che le rendeva vagamente tremule. E c’era quel ‘per favore’, insistente e disperato.
Qualcosa di ignoto agguantò il cuore di Vibeke e lo strinse fino a farle avvertire un lancinante dolore nel profondo.
To get over
you…
“Che cosa vuoi ancora da me, Kaulitz?” gli domandò, come se non lo sapesse già perfettamente che cos’era che lui le avrebbe chiesto. Ma lei, alla fine, non era poi meno disperata di lui. “Mio fratello è in ospedale e io non oso andare a trovarlo perché so che vedendomi capirebbe che sto male e starebbe male anche lui, la mia pseudo-ragazza mi ha lasciata perché ha capito che qualcosa non andava, e io, come una scema, anziché riparare i danni, lascio andare tutto perché tu chiami e corro da te!” Ansimava. Era come se le parole non volessero lasciare posto al silenzio. Era fatta così, lei: metteva muri ovunque, anche quando si trattava di discorsi fastidiosi. “E per cosa poi? Per farmi incastrare in una cazzo di mezza storia senza significato e poi vederti tornare dalla tua bella bambolina sexy?”
Tutto diventò vero man mano che Vibeke sentiva sé stessa dirlo ad alta voce. In realtà ci aveva rimuginato sopra parecchio – su Tom, sulle sue leggendarie imprese di playboy, sulla leggerezza delle sue bugie e sulla complicatezza delle sue verità – ma finora le era mancato il coraggio di affrontare davvero il punto. E non si trattava di coraggio nemmeno adesso, quanto piuttosto di nuda esasperazione.
“Non è come sembra, stavolta!”
“Stronzate!”
‘Cause
if
I stay, I'm number two anyway…
“Vi…”
Nonostante la tonalità umile di Tom, il cipiglio mordace di Vibeke non si smorzava:
“Vi un cazzo, Kaulitz! Mi sono fidata di te, anche se la mia testa cercava in tutti i modi di impedirmelo, e dio solo sa quanto mi è costato ammettere che io volevo fidarmi di te, e tu… Tu mi hai ripagata così!”
“Tu non capisci!”
“No, infatti, non capisco! Ma sai una cosa? Non me ne frega un cazzo di capire! Ne ho avuto abbastanza, davvero, ne ho piene le palle di te e del tuo egoismo!”
Like a
bullet you can hurt me, take me, break me…
“Cazzo, quanto sei cocciuta! Ti odio quando fai così, sei insopportabile!”
Like fire
you can burn me, convert me…
Like a bullet you can hurt
me…
“E cosa devo dire io, allora?” urlò Vibeke, incurante della molta gente che si voltava a fissarla, passando. “Pensa che stupida, quasi ci avevo creduto! Mi ero quasi lasciata persuadere a credere che tu fossi umano, che avessi dei cazzo di sentimenti oltre alla fame di sesso!”
Qualcuno ridacchiava, qualcun altro scuoteva indignato la testa. Lei nemmeno li vedeva o sentiva.
“Vi, ho fatto una cazzata, ma –”
“Esattamente, una cazzata!” Vibeke tentò di moderare la propria voce, ma non ci riusciva. Ora che aveva cominciato, sentiva che avrebbe continuato fino a che non avesse vomitato fuori tutto quello che da tempo incalcolabile si era reclusa dentro. “Lo vuoi sapere quante cazzate mi sono capitate nella vita? Prima mia madre fa la cazzata di piantare la sua bella famigliola e se ne va chissà dove con un giovane riccone senza più dare notizie, poi un idiota ubriaco fa la cazzata di sparare a mio fratello e quasi lo ammazza, e poi ancora un altro idiota decide che sarebbe divertente fare la cazzata di scopare un po’ con me e condire il tutto con qualche bella frase ben studiata, per poi tornare dalla sua Miss Germania alla prima occasione! Io però sono stanca delle cazzate, io voglio vivere senza dovermi preoccupare di difendermi da tutto questo!”
“Vi…” fiatò Tom, apparentemente sconvolto, ma non ci fu altro, perché Vibeke riprese subito ad inveire:
“E lo sai qual è la cosa più divertente? Se tu te ne fossi stato zitto, allo studio, io non avrei avuto alcun diritto di arrabbiarmi! Sarei andata avanti chissà quanto lasciarmi beatamente usare da te mentre tu ti facevi anche chissà quante altre troiette, e mi sarei accontentata, perché ai miei occhi non sarebbe esistita la benché minima possibilità di illusione che io per te potessi essere di più. Ma tu invece hai dovuto per forza aprire quella tua dannata bocca e trasformare tutto in un casino! È la tua specialità, vero?! Tutte le cose semplici, con te, diventano casini!”
“Mi lasci spiegare?!” si infuriò allora Tom, gracchiando attraverso il pessimo audio del telefono. La linea era disturbata da interferenze e rumori e fruscii di sottofondo.
“Non voglio sentire un cazzo!” lo aggredì lei, ritirandosi in una stradina laterale meno battuta.
You say there are so
many things going on in your life now…
“Perché non vuoi capire?” tenne duro lui. “Non è facile per me, stanno succedendo una marea di cose tutte insieme, non so più a che santo votarmi per trovare il bandolo della matassa! È un casino, Vi, e tu stai facendo di tutto per peggiorarmi le cose!”
And you say: do you believe in the
destiny?
This
is the way it was meant to
be…
“Non
provare a dare la colpa a me
adesso!” si oppose Vibeke. “Non voglio sentire
un’altra parola, mai più! Non azzardarti a
richiamarmi!”
I gotta
leave to make you see I'm over you…
“Invece
ti richiamo eccome, se non
mi lasci dire quello che ho da dire!”
‘Cause
if
I stay, I'm number two anyway…
“Credi
che io abbia voglia di
stare a sentire i tuoi sproloqui, dopo quello che è
successo?”
“Allora
lascia che ti dica
un’ultima cosa.”
Con
uno schiocco ironico della
lingua, Vibeke si ravviò i capelli oltre la spalla.
“Sentiamo.”
Sbuffò con supponenza.
“Voltati.”
Maybe I'm blind…
E
lei si voltò.
Il
suo cuore saltò una pulsazione
nello scorgere la persona che le stava di fronte, fissandola con
un’espressione
pesantemente seria ed adombrata. Portava un paio di jeans insolitamente
stretti
– forse addirittura troppo – e una camicia bianca
che gli andava decisamente
larga, con tanto di cravatta nera, annodata mollemente attorno al
collo, su cui
ricadevano i rasta, legati in una coda sulla nuca, ed in mano reggeva
un
cellulare che stava richiudendo.
Era
lì. Lui era lì. Tom era lì
davanti a lei, passato direttamente dalla sicura, affidabile distanza
di una
telefonata al suo indifeso cospetto.
“Kaulitz…”
Forever young…
Non
era giusto. Non sarebbe dovuta
andare in quel modo.
Si
era adoperata per evitarlo con
la stessa dedizione con cui avrebbe evitato una malattia infettiva, e
forse
anche con maggiore scrupolo, perché Tom, per lei, era
indiscutibilmente più
pericoloso e letale
di una malattia
infettiva.
Dalle
malattie si poteva guarire.
Da Tom Kaulitz no.
Don’t get me
wrong…
“Ciao.”
Mormorò Tom pacato. La
guardò negli occhi, e il sincero rammarico che Vibeke vide
in lui la paralizzò.
“Come
diavolo mi hai trovata?”
I don’t belong
here…
Tom
si lasciò sfuggire un
minuscolo sorrisino furbo, che Vibeke connesse in un lampo a quello che
le
aveva rivolto BJ nel chiederle quella maledetta camicia.
“Non
ha importanza.”
Ma
ce l’aveva eccome.
Bjørn Jesper Wolner, sei
uno schifoso, infido
doppiogiochista scriteriato!
Tom
le si avvicinò solenne, con
un’aria tesa e cupa. Erano pochi metri, pochi secondi, pochi
passi, ma sembrò
una lunghissima eternità. Vibeke non riuscì a
muoversi, nemmeno quando lui,
deglutendo, la afferrò per le spalle. E aveva quella
scintilla negli occhi.
“Lo
so che sono un idiota,”
mormorò labilmente, roco. “E so anche che per
questo è difficile fidarsi di me,”
aggiunse, abbassando per un momento lo sguardo.
“Quindi…” Quando i suoi occhi
tornarono su quelli di lei, Vibeke fu attraversata da un brivido.
“Pensa quello
che vuoi, Vi. Credi quello che vuoi.” Le disse Tom, con
disarmante morbidezza.
“Non mi interessa.” E, dopo un secondo di
tentennamento, stupendola come mai
prima, con uno slancio improvviso la avvolse in un abbraccio che le
impedì di
respirare. E quello che poi le sussurrò, non fu che il colpo
di grazia.
Like fire you can burn me…
“Ho
solo bisogno che tu mi
perdoni.”
Like a
bullet you can hurt me.
***
Esistevano buone probabilità che i miracoli esistessero.
Seduto in un minuscolo bar praticamente deserto, Vibeke davanti e un tumulto incalzante nel petto, Tom non si sentiva ancora pronto a credere di esserci riuscito, nemmeno dopo qualche provvidenziale sorso di Baileys alla menta.
Vibeke era rimasta a lungo immobile tra le sue braccia, muta, mentre la gente attorno a loro passava e li occhieggiava infastidita o incuriosita. L’aveva tenuta stretta, perché gli era mancata troppo la sensazione di avere il suo corpo addosso, di sentire il suo profumo selvatico nei polmoni, respirandola per ritrovarla, accarezzandola per riscoprire quanto forte e vivida la avesse sempre sentita dentro di sé.
E poi – dopo quanto tempo, non lo sapeva – la aveva lasciata andare, ed erano rimasti lì, l’uno davanti all’altra, a guardarsi e basta. Lui aveva aspettato che lei facesse o dicesse qualcosa; lei, gli occhi sgranati, sembrava essere rimasta ghiacciata sul posto, e allora Tom, che non aveva alcuna voglia né intenzione di perdere altro tempo, le aveva chiesto una tregua: mezz’ora di armistizio per raccontarle tutto, per tentare di farle capire come stavano le cose, e poi, se lei ancora non avesse voluto credergli, basta. La avrebbe lasciata in pace.
Ma lasciarla in pace era una cosa che non rientrava minimamente nelle sue intenzioni, quindi non c’erano se: doveva per forza farle capire.
Ormai, anche volendo, non avrebbe più avuto la forza di tenersi lontano da lei.
“Ti
ho portato una cosa.” Le disse,
infrangendo la fragile barriera di silenzio che si era innalzata tra
loro.
Vibeke,
le braccia appoggiate al
tavolo, ostilmente conserte, sollevò diffidente le sguardo.
Tom era nervoso,
timoroso di sbagliare qualcosa e compromettere tutto prima ancora di
iniziare.
Eppure si trattava solo di infilarsi la mano in tasca e tirare fuori
una
scatoletta che nemmeno gli riempiva il palmo.
Quando
finalmente ci riuscì, posò
con incertezza l’oggetto di fronte a Vibeke, e attese. Lei
osservava senza
espressioni la piccola scatola. Era rotonda, di cartoncino grezzo,
anonima e
priva di pretese. La cosa più umile che fosse riuscito a
trovare, per custodire
una cosa che, si augurava, sarebbe stata speciale.
“Vorresti corrompermi con qualche stupido regalo?”
sbuffò Vibeke, dopo un
attimo di esitazione.
Sempre
così. Sempre la solita,
acida Vibeke.
Aveva
un aspetto trascurato, quel
giorno, Tom lo aveva notato subito. Era vestita in modo abbastanza
sportivo, di
un pallore innaturale, quasi malaticcio, e c’erano
preoccupanti ombreggiature
violacee agli angoli interni degli occhi opachi. E probabilmente era
colpa del
tempo, ma quel giorno entrambe le loro iridi sembravano grigie.
E
poi c’erano i piercing. Quei due
anellini argentati che erano tornati a ornarle le labbra, come una
specie di
segnale di avvertimento che diceva ‘Non baciarmi
più’.
“Non è uno stupido regalo.” Sostenne,
composto. “O almeno, spero che non lo
sia.”
Glielo
spinse in avanti,
invitandola implicitamente ad aprirlo.
Senza
mostrare interesse, Vibeke
afferrò la scatoletta, squadrandola distrattamente. Non
sembrava impressionata.
Una volta che ebbe sollevato il coperchietto, però, la sua
espressione mutò radicalmente.
Tom
vide con piacere le sue labbra
che si schiudevano in una piega sorpresa e anche vagamente perplessa.
Sul fondo
della scatola, adagiata su un cuscinetto di paglietta, c’era
una cipollina
dorata un po’ sporca di terra umida.
Le
sopracciglia di Vibeke si
aggrottarono leggermente.
“Che cos’è?” gli chiese. Tom non riuscì a riconoscere vibrazioni nel suo tono.
“Il bulbo di un fiore.” Le spiegò, il viso improvvisamente caldo. Non era mai stato bravo negli approcci pseudo-romantici. “Non chiedermi di quale fiore, ti prego,” aggiunse rapidamente, incontrando il suo sguardo interrogativo. “L’ho rubato dall’aiuola del giardino dei vicini.”
L’ultima confessione aprì a Tom un minuscolo squarcio di speranza, perché, pur involontariamente, riuscì a scucire a Vibeke un inconsulto fremito delle labbra, subito sedato, che però non poteva che essere il soffocato germoglio di un sorriso.
Si sentì un po’ più forte nel realizzare che, sotto sotto, aveva qualcosa a cui aggrapparsi.
“È il contrario di un fiore reciso.” Le disse, mentre le dita di lei sfioravano insicure la sottile pellicola semitrasparente che velava il bulbo. “Questo non è un regalo che muore,” Tom attese che lei lo guardasse negli occhi. “È un regalo che deve ancora nascere.”
***
Sapeva che non avrebbe dovuto sollevare lo sguardo.
Sapeva che guardare Tom negli occhi sarebbe stato fatale per la sua determinazione.
Sapeva che avrebbe dovuto resistere, ma non ne fu capace.
Alzò lo sguardo, e Tom era lì, davanti a lei, stringendo il bicchiere che sembrava perdersi in quelle mani grandi, e la scrutava, silenzioso ma carico di aspettativa e timore.
Mandalo via!
Digli che
non ne vuoi sapere di lui!, la supplicava il suo amor
proprio. Ti farà soffrire ancora,
lo sai. Litigherete
in ogni momento, avrete un’infinità di
incomprensioni, non funzionerà mai!
Ma Vibeke fissava ora il piccolo bulbo dorato, ora Tom, e tutto ciò a cui riusciva a pensare era che voleva stare con lui, contro ogni ragione e buonsenso.
“Vi,
mi dispiace che sia successo
tutto questo casino.”
Vi, Vi, Vi…, rimuginò
lei, infastidita. Non glielo avessi mai
detto che odio essere chiamata così…
“Perché
ci provi tanto gusto a
farmi arrabbiare?” sbottò.
Tom
inclinò il capo di lato,
rigirandosi il bicchiere vuoto tra le mani. Lei il suo non lo aveva
nemmeno
ancora toccato.
“Mi
piaci.” Fu l’inaspettata
risposta.
“Scusa?”
“Mi
piaci quando sei arrabbiata.”
Poco
ci mancò che a Vibeke
sfuggisse una risatina incredula.
“Questa
è bella.”
Ma
Tom rimaneva impassibile.
“Non
sto scherzando.” Asserì. “Quello
che dicono i ragazzi è vero: mi piace litigare con te,
è molto… Stimolante.”
“Curiosa
scelta del termine.”
“Vi,
non è questo il punto.”
“E
quale sarebbe allora?”
Tom
congiunse le mani davanti a
sé, le dita intrecciate, e chinò la testa.
Vibeke
avrebbe voluto essere
capace di non guardarlo, di smettere di seguire i battiti pensosi delle
sue
ciglia scure, ma non ce la faceva. Le fattezze di Tom erano maturate
molto,
rispetto a certe fotografie che lei aveva visto, ma il suo viso
conservava
ancora qualcosa di acerbo, una morbidezza dei lineamenti che lo rendeva
uno
strano ibrido tra un giovane uomo e un bambino che non voleva crescere.
Ed era
così bello che sarebbe potuta restare a studiarlo per ore, e
non se ne sarebbe
stancata. Poteva essere in collera con lui quanto voleva, ma non poteva
negare
a se stessa che lui le smuovesse qualcosa dentro.
Dopo
diversi secondi di assorta
riflessione, Tom risollevò lo sguardo, trafiggendola da
parte a parte. Si era
armata fino ai denti per affrontarlo, eppure vinceva sempre lui.
“Io
non voglio una squallida oca
qualunque.” Le disse. “Io voglio una stronza
schizoide norvegese che adora
farmi incazzare almeno quanto io adoro incazzarmi con lei.”
Suo
malgrado, Vibeke avvertì
un’impercettibile stretta allo stomaco.
Fai il tenero bastardo, adesso? Gioco
scorretto, Kaulitz.
Gioco maledettamente scorretto.
“Ti
sei già preso tutto quello che
potevi, di me,” replicò, sperando che la propria
voce non tremasse. “E devo
dire che sono stata lautamente ripagata.”
Tom
sospirò e si sfregò impazientemente
la fronte tra le mani.
“Ma
allora non hai capito proprio
un cazzo!”
“Cos’è
che non ho capito di così
elementare in quest’intrico di bugie, psicopatia e
perversione?”
“Non
si tratta solo di… Di sesso.”
“Ah
no? Ci mettiamo anche un po’
di droga e rock’n’roll?”
Il
modo impotente in cui Tom la
guardò la fece sentire un verme per come lo stava trattando.
Sembrava sincero,
in fin dei conti.
“Vi,
io credo… Io so che le
cose sono andate un po’ più in
profondità, stavolta.”
E
lo diceva così, con quel sentore
di paura misto a timidezza, occhi negli occhi con lei.
Vibeke
non aveva mai imparato a
difendersi da quello sguardo. Era forte, era penetrante, era bruciante.
Era
invincibile, perché non poteva mentire.
“Non
è solo questo il problema,
Kaulitz.” precisò lei. “Il fatto
è che a me non piace rapportarmi con una
persona che si incolla addosso una maschera quando gli fa
più comodo. Ne ho
avute troppe di bugie, non me ne servono altre.” Si
interruppe per un attimo,
inumidendosi le labbra. Aveva sempre desiderato affrontare
quell’argomento con
lui, ma ora che c’erano arrivati, si stava rivelando
più difficile del
previsto. “Se solo tu non fossi così egoista da
non pensare sempre e solo a te
stesso, se solo tu riuscissi, per una volta, a pensare che quello che
tu fai
può avere delle ripercussioni sugli
altri…”
“Io
non penso solo a me stesso.”
Si difese Tom a denti stretti.
“No,
è vero. Pensi anche a Bill.
Ma Bill è te, tu sei lui, quindi cambia poco. Ma una cosa vi
distingue: Bill
ammette la propria sensibilità, sa prendersi in giro, sa
mettersi in gioco, si
lascia dare del gay come se fosse un insulto e poi ci ride sopra, si
prende una
cotta per una ragazza e non la butta via quando scopre che lei non lo
ricambia…
Tu non sei così. Tu hai una paura mostruosa di quello che
sei davvero, ti
servono quintali di impalcature attorno che la gente possa rimirare e
valutare
anziché farlo con il vero te. Temi il giudizio delle persone
e quindi ti sei
creato questo personaggio forte ed irreprensibile che ti fa da
facciata. Ma
questo non sei tu, c’è un altro Tom che io ho
conosciuto, uno più umano e
simpatico, uno a cui non spaccherei la faccia come prima cosa, e voglio
capire quale
dei due Tom mi sta parlando adesso.”
Lui
scosse la testa.
“Non
fa nessuna differenza.”
“Fa
tutta la differenza, invece.”
Si impuntò lei.
Tom
sollevò il bicchiere e bevve
in un sorso tutto il Baileys rimanente.
“No.”
Dichiarò, posando nuovamente
il bicchiere. “Quello che fa tutta la differenza è
che tu conosci entrambe le
parti e, che tu lo creda o no, le sai scindere e distinguere. Credi che
non
sappia di risultare artificiale, certe volte? Ne sono perfettamente
conscio. È
solo più forte di me. Ma tu…”
Esitò, inspirando a fondo. “Vi, tu non lo vuoi
proprio capire, vero?”
“Che cosa?”
“Ti
ho dato tutto quello che
potevo. Più di quanto io sia mai stato in grado di dare a
una ragazza. Il cento
percento di me, nel bene e nel male, senza riserve,” Lei era
senza fiato; lui
sembrava del tutto intenzionato a fenderle il colpo di grazia.
“E gradirei che
tu me ne dessi credito.”
Vibeke
si mise a frugare la
propria mente alla ricerca di un appiglio, qualcosa da poter usare
contro di
lui per riuscire a dargli torto, per dimostrargli che aveva sempre
ragione lei,
su quello e tutto il resto, ma non trovò nulla, se non la
propria coscienza in
tumulto.
“Cosa
staresti cercando di dirmi?”
gli domandò, incapace di formulare qualcosa di
più sensato.
“Dimmelo
tu.” La sfidò Tom,
impassibile. Qualcosa nel suo modo di porsi, tuttavia, era irrequieto.
“Dimmi
cosa vedi.”
Vibeke
indugiò, spiazzata.
Che
cosa vedeva?
Vedeva
il gradasso borioso che
aveva incontrato mesi prima fuori da un festino da cui entrambi erano
usciti
brilli e irritabili.
Vedeva
il vanesio chitarrista
sicuro di sé di una rockband che spopolava in tutto il mondo.
Vedeva
il giovane imbranato,
indisponente e non autosufficiente per cui BJ le aveva suggerito di
lavorare.
Vedeva
il ragazzo di successo ma
forse non troppo felice, circondato da amici eppure solo, ambiguo e
scorbutico,
ma affascinante, dotato di dolcezza e premura tutti suoi, modi di fare
altalenanti e un carattere ingestibile.
Vedeva
una persona che, per
qualche assurdo, inconcepibile motivo, l’aveva conquistata.
“Vedo
un ragazzino smarrito che
non sa cosa fare, una persona immatura che pretende di crescere tutta
in un
colpo.”
Tom
azzardò un microscopico
sorriso speranzoso.
“Qualcosa
di buono?”
“Non
lo so.” ammise Vibeke. “Io
riponevo qualche aspettativa in te, nonostante tutto. Mi sono fidata di
te e mi
sono sentita tradita. In un certo senso, ti ho messo io nelle
condizioni di
potermi ferire, ti ho dato io questo potere, e anche se questo non
giustifica
quello che hai fatto, devo almeno ammettere che…
Be’, forse qualcosa
c’è davvero, dopotutto.”
Tom
annuì, ma non pareva granché
soddisfatto o rincuorato.
“Lo
so che non mi credi quando
dico che non ho fatto nulla di male, con Lara…”
Tasto
dolente. Onestamente, Vibeke
non sapeva più cosa credere in merito a quella faccenda. Era
stata così sicura
della bravata di Tom, appena si era ritrovata faccia a faccia con
quella
patetica scena… Adesso, invece, cominciava a nutrire qualche
perplessità.
“Senti,
ne abbiamo già –”
“Quindi
ti chiedo scusa e basta.”
La
frase si spense in gola a
Vibeke, mentre la sua mente accusava il colpo senza la minima
preparazione. Era
abbastanza sicura di aver frainteso.
“Mi
chiedi scusa?” balbettò per
verificare l’impossibile.
Ma
Tom, dopotutto, aveva già
varcato la barriera di quello che lei aveva creduto
l’impossibile già un paio
di volte, da quando lo conosceva.
“Sì.”
Confermò infatti lui.
“Cos’è
questo voltafaccia
improvviso?”
Tom,
semplicemente, le sorrise.
“Io so cos’è successo veramente, so di
avere la coscienza pulita, ma se tu non
mi credi… Mi hai sempre rinfacciato che sono privo di
umiltà, giusto? Perché ci
vuole umiltà per chiedere perdono per un proprio torto. Ma
quanta ce ne vuole
per chiedere perdono per un torto che si sa di non
avere?” Lasciò il discorso in sospeso, e con esso
il respiro di
Vibeke. “Io ci tengo a sistemare le cose con te, Vi, e se
l’unico modo che ho per
riuscirci è scusarmi, allora… Ti chiedo di
perdonarmi, se puoi.”
La
cosa più folle, di tutto ciò,
era che Vibeke sentiva di credergli.
Improvvisamente,
nel mezzo della
frastornazione, ricordò uno stralcio di conversazione avuta
con Gustav tempo
prima riguardo ad un litigio tra Georg e Nicole.
“Io al suo posto non mi
sarei mai piegata a chiedere scusa,
soprattutto per una colpa non mia.”
“Forse non hai ancora
trovato la persona per cui valga la
pena di farlo.”
Tom
le stava chiedendo scusa,
anche se si era sempre animatamente dichiarato non colpevole di fronte
alle
accuse che lei gli aveva rivolto.
Tom,
che non chiedeva mai scusa a
nessuno, stava chiedendo il suo perdono per qualcosa che forse davvero non aveva mai fatto.
Tom
si stava addossando una colpa che
non aveva, solo per riuscire a fare pace con lei.
Solo
per lei.
“Non
servono queste patetiche
scuse-placebo.” Gli disse pacata.
“Vi,
per favore…” la pregò lui.
Lei,
per la prima volta da giorni,
sorrise.
“Ti
credo, Kaulitz.”
“Davvero?”
“Sì.”
Il
volto di Tom si illuminò.
“Grazie.
Davvero, per me era
importante mettere tutto a posto.”
“Ho
detto che ti credo, non che è
tutto a posto.” Lo frenò lei.
La
gioia sul volto di Tom di
dissolse.
“Ma…”
Vibeke
non sapeva più nemmeno lei
cosa dire. Da un lato, la voglia irrefrenabile di rimettere tutto a
posto;
dall’altro, l’aspra consapevolezza che rimettere
insieme i cocci avrebbe
significato per lei una lunga strada accidentata da percorrere.
“Le
persone come te e me non
stanno insieme.” Mormorò. Provò quasi
compassione per Tom, vedendo riflessa in
lui tutta quell’ansia. “Andava bene finché
riuscivamo a fare finta che fosse
solo una storiella futile, tanto per fare, ma
adesso…” Si tirò indietro i
capelli, temporeggiando. Quello che stava per dire avrebbe fatto
più male a lei
che a lui. “Tu cerchi cose che io non posso darti.
Sì, è vero, forse provi
qualcosa per me, ma non è abbastanza. Io non sono
abbastanza. E non voglio
stare con te mentre tu cerchi quello che io non ho in altre ragazze.
Sono
quella che sono, Kaulitz, con i miei difetti e le mie lacune, e non
sono
abbastanza cinica e disillusa, purtroppo, da riuscire ad accettare di non essere
tutto
ciò che hai sempre voluto.”
Tom
non fiatò. Era rimasto
completamente indifferente a quelle parole, o, se così non
era, non lo dava a
vedere. Vibeke pensò che probabilmente loro due non si erano
mai parlati con
tanta calma e sincerità come ora.
“E
va bene,” esordì Tom,dopo una
discreta pausa. “Sì, è vero, non lo
sei. Non sei la ragazza che ho sempre
voluto, nemmeno lontanamente. Lo ammetto.” Una spina di
dolore punse il cuore
di Vibeke. “Sei abissalmente diversa da qualunque altra
ragazza io abbia mai
desiderato, e forse sarà per questo che, anche dopo averti
avuta, ti voglio
ancora più di prima.”
Flash
di momenti passati con lui
balenarono nella mente di Vibeke. I suoi baci, le sue carezze, tutte le
volte
che avevano fatto l’amore… Un crescendo di
intensità e sensazioni in diametrale
antitesi con quanto aveva appena detto, e perfettamente coerente,
invece, con
quanto appena detto da Tom.
“Il
fatto è che non me ne frega
niente, Vi.” Continuò lui. “Chi se ne
frega se sei alta, se adoro le tue tette
e il tuo fondoschiena, se i tuoi occhi mi paralizzano. Credi che me ne
importi
qualcosa se sei bella? Ne ho incontrate
un’infinità, di belle ragazze, e in
tutta sincerità anche di più belle di te. Eppure
tu… Quando penso a te – quando
mi manchi – non
è al tuo corpo che
penso. È al bene che mi fai.”
Ragazzino immaturo e smarrito: uno,
Vibeke agguerrita ed
ostile: zero,
ghignò la perfida vocina che
dimorava nelle profondità della coscienza di Vibeke.
“Vi,
seriamente…” aggiunse ancora
Tom, mentre lei ancora non riusciva a muoversi. “So di non
essere perfetto… Come
persona, ma soprattutto come compagno…”
“Dire che non sei perfetto non ti sembra un eufemismo un
tantino eccessivo?” interloquì
lei. “Sei uno stronzo egocentrico, egoista, permaloso,
narcisista, orgoglioso,
cocciuto e menefreghista, con allucinanti complessi di
inferiorità che non sai
più come nascondere. E so che non potrei aspettarmi rose
rosse e cioccolatini,
da te, né cene galanti, né lunghe passeggiate
notturne mano nella mano, e
nemmeno parole dolci sussurrate
nell’orecchio…” Finalmente, anche lei
prese il
proprio Baileys e lo vuotò tutto d’un colpo, poi
restituì a Tom la piena attenzione.
“È per questo che mi piaci.” Gli
buttò lì con casualità, poi gli
elargì un
piccolo sorriso rilassato. “Sei la persona più
incongruentemente adatta a me
che io abbia mai conosciuto”
“Quindi
ci stai?” fece Tom,
fiducioso, sporgendosi leggermente in avanti.
Vibeke
inarcò un sopracciglio ed
incrociò le braccia.
“Insomma,”
Tom si schiarì la gola.
“Non mi è mai capitata una cosa
così… Così.
Non so come ci si comporta, non so cosa bisogna fare e come,
e… So già che
sbaglierò un milione di volte e ti farò incazzare
a morte, ma se… Se tu potessi
avere la pazienza di farmici abituare e di… Di lasciarmi imparare… Capisci?”
Sì,
capiva.
Non
solo capiva, ma vedere Tom
così in difficoltà – insicuro, quasi
timido, che balbettava con quell’adorabile
imbarazzo – le fece capire che qualcosa
c’era, e senza forse, sotto a quella complicata rosa di
eventi che li aveva
portati fin lì.
“D’accordo,
Kaulitz, sarò
paziente. Ci proverò, perlomeno. Ma esigo un serio impegno
anche da parte tua.”
“Te
lo prometto.”
“Per
ogni cazzata, ci sarà un
prezzo da pagare.”
Tom sbiancò.
“Un
prezzo?”
“Io sacrifico la mia preziosa pazienza. Tu ci metti i tuoi
preziosi rasta. Mi
pare un buon deterrente, non trovi?”
“Ma così resterò calvo entro la
prossima settimana!”
“Prendere
o lasciare.”
Tom
non disse altro. Si limitò a
fissarla con attenzione, quasi stesse cercando di capire se si
trattasse di uno
scherzo.
Un
sospiro sconfortato già
aleggiava sulle labbra di Vibeke – no, lui non avrebbe mai
accettato delle
condizioni simili, e ancor meno le avrebbe capite – quando
improvvisamente Tom
si alzò in piedi e, senza mezza parola, ma con
un’aria risoluta, le voltò le
spalle e si diresse disinvoltamente verso il bancone.
Ma che diavolo…?
Basita,
Vibeke lo guardò dire
qualcosa alla barista, la quale annuì, voltandosi per un
secondo, per poi
tornare a porgergli qualcosa. Tom ringraziò. Vibeke non
comprese che cosa la
donna gli avesse dato finché non lo vide impugnare lo
strumento lucente e
prendersi un dreaklock biondo tra le dita, sfilandolo dalla coda.
Non
le lasciò nemmeno in tempo di
stupirsi: un taglio netto e deciso, vicino alla radice, e il dreadlock
si staccò,
ricadendogli in mano.
Tom
ringraziò nuovamente la
sconvolta barista e le restituì le forbici, poi, con
assoluta naturalezza,
ritornò baldanzosamente al tavolo e consegnò il
rasta a Vibeke.
“Ecco
qui,” disse, rimettendosi a
sedere. “Tutto tuo.”
Era
calmo. Era rilassato. Era
soddisfatto. E aveva un sorriso che gli andava da un orecchio
all’altro.
“Kaulitz,”
Vibeke sembrava a corto
di commenti. “Hai ringraziato la barista.”
“Sì.”
“Due volte!”
“Sì. E ho anche detto ‘per
favore’ quando le ho chiesto le forbici.”
“Non
ci credo…”
Tom
fece subito il permaloso:
“Chiedilo a lei!”
“Mi
fido.” Rise Vibeke. “Ho solo
un’ultima domanda,” disse infine, squadrandolo da
cima a fondo. “Cosa ci fai
conciato così?”
Lui
assunse un cipiglio evasivo.
“Mi
darai del patetico.”
“Tranquillo,
niente di nuovo.”
Tom
sollevò una mano e se la
sfregò sulla bocca.
“Lo
vuoi sapere sul serio?”
Vibeke
scrollò le spalle.
“Forse
no, ma la curiosità e la
voglia di riderti in faccia stravincono su tutto.”
“Me
la stai ancora facendo pagare,
vero?”
“E
continuerò fino a tempo
indeterminato.”
“Sei
perfida.”
“Avanti,
Kaulitz, confessa.”
“E
va bene.” Si arrese Tom. “Hai
detto una cosa a San Valentino, quando hai visto Georg vestito
così per Nicole…
Ricordi?”
Ricordava.
Eccome se ricordava.
“Solo l’amore
può far impazzire un uomo a tal punto da
vestirsi in quel modo spontaneamente.”
No.
Non poteva averlo fatto per
quello. Non poteva essere così pazzo da…
Ma
Tom abbassò lo sguardo
sconfitto e visibilmente a disagio, e a quel punto fu indubbio che
fosse
effettivamente così
pazzo, e Vibeke
si sentì in dovere di farglielo notare.
“Sei
un pazzo, Kaulitz.”
Tom
sorrise.
“Lo
siamo tutti e due, o non
saremmo qui.”
Indubbiamente,
era una grande
verità.
“Già.”
“Allora
posso dire a David che può
riprendere a mangiare e dormire perché abbiamo un tecnico
delle luci?” chiese
Tom, sornione.
“Puoi
dire a David che può
riprendere a mangiare e dormire perché avete un tecnico
delle luci.” Gli
concesse lei.
Strinse
il rasta e rammentò a se stessa che
ne sarebbero seguiti molti altri, a quello, ma, per quanto la
riguardava, era
già un grande passo.
***
Devo ricordarmi di far erigere un
monumento a quei disgraziati,
pensava Tom, intento a
persuadere se stesso che quanto stava accadendo era reale e concreto.
Ce
l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta
davvero.
Vibeke
continuava a rigirarsi il
rasta tra le dita, compiaciuta come una bambina che aveva ricevuto il
regalo di
compleanno dei suoi sogni. Tutto sommato bastava poco per farla
contenta.
E
anche lui era contento di
vederla così. Era stato sufficiente un sorriso per farla
apparire abissalmente
diversa da come era stata poco prima.
Dopo
un po’ Tom si stancò di
starsene lì a fare niente. Euforico com’era, aveva
voglia di uscire e andare a
mostrare ai ragazzi il risultato della sua ardua impresa. Avrebbe
offerto la
cena a tutti, più tardi.
“Avanti,”
disse, alzandosi in
piedi. “Leviamo le tende, mi sono rotto di questo
posto.”
Porse
una mano a Vibeke e lei la
accolse, alzandosi a sua volta.
“Eravamo
qui da neanche mezzora.”
“Fin
troppo.”
Uscirono.
Tom la teneva per mano,
felice di ritrovare la sensazione della sua pelle morbida e fredda
contro la
propria.
C’era
molta gente in giro, tra cui
un considerevole numero di ragazzine, così Vibeke lo aveva
costretto a mettersi
in testa la propria felpa, e ora lui se ne andava in giro con una
sottospecie
di velo nero a coprirgli i rasta e oscurargli il viso, e la cosa
più pazzesca
era che non riusciva a smettere di ridere. Era una fortuna che si fosse
conciato in quel modo: se fosse stato vestito alla solita maniera,
sarebbe
stato comunque riconoscibilissimo.
Raggiunsero
l’Audi in pochi
minuti. Lei, come suo solito, era arrivata in centro a piedi.
Tom
aveva parcheggiato dietro a un
supermercato, perché, se per caso le cose fossero andate
male, avrebbe avuto
bisogno di un supporto ad alto tenore di zuccheri, prima di rimettersi
alla
guida. Erano tanti i dettagli, anche se recessivi, in cui somigliava a
Bill.
Tom
aprì l’auto e la prima cosa
che fece fu sbarazzarsi di quell’insopportabile copricapo che
Vibeke gli aveva
messo addosso. Aprì a portiera e gettò la felpa
sul sedile, poi si voltò verso
Vibeke. Le appoggiò una mano su un fianco e con
l’altra le spostò i capelli
dietro all’orecchio.
“Migliaia
di ragazze in tutto il
mondo piangeranno per questo.” Le sussurrò,
sfiorandole la punta del naso con
le labbra. “Forse qualcuna delle più fanatiche si
suiciderà.”
La
schiena appoggiata all’Audi,
Vibeke tentò di dissimulare una breve risata sommessa. Gli
accarezzò il viso
con entrambe le mani, dolcemente, osservandolo con affetto.
Tom
si sentì straordinariamente
importante.
“Stai
per caso cercando di
compiacermi?”
“Si nota?” ridacchiò lui.
Lei
finse di soppesare la questione.
“Sai fare di meglio.”
“Sei una stronza ingrata!”
“Ecco, intendevo proprio questo!”
Oh, Vi…
Tom
non riusciva a trattenere
l’entusiasmo. Riaverla con sé gli faceva un
effetto inebriante, lo sovreccitava
a livelli impensabili. In quel momento si ripromise che si sarebbe
sempre
ricordato di quello che aveva passato in quei giorni, per evitare in
ogni modo
che dovesse capitare una seconda volta.
“Allora, come funziona?” si informò.
“A questo punto dovremmo baciarci e vivere
per sempre felici e contenti, no?”
Vibeke
fece una faccia scettica.
“Per il tuo compleanno ti regalo un po’ di sano
realismo, che ne dici?”
“Saltiamo il bacio e il vivere felici e contenti,
allora.” Propose Tom,
decisamente favorevole alla prospettiva. “Passiamo
direttamente al livello
successivo.”
Lei
lo colpì al petto.
“Maiale.”
Lui
le rivolse un sorriso da
angelo.
“Ma tu mi ami così.”
“Mai detta una stronzata simile.”
Dissentì Vibeke.
“Oh, sì, invece.” La corresse Tom,
avvicinandosi ulteriormente. “Tra le righe.”
A
Vibeke sfuggì un’altra piccola
risata.
“Ma sta’ zitto!”
Tom
fece spallucce.
“Ok.”
Il suo viso era ormai a un soffio da quello di lei. Erano giorni che non la baciava e aveva abbondantemente superato ogni limite di resistenza. Incapace di attendere oltre, la attirò verso di sé e le loro labbra collisero in un bacio incontaminato da qualsiasi tipo di lussuria. Erano solo grati di essere di nuovo insieme. Tom non vedeva l’ora di ricominciare a bisticciare con lei.
Era morbida e amarognola come la ricordava lui, cedevole e mansueta nelle sue braccia. Per niente al mondo la avrebbe più lasciata andare via.
Ad un tratto, però, smise di baciarla.
“Vi?” mormorò, staccandosi appena dalle sue labbra.
“Mmh?” rispose lei, in un sussurro arrochito.
Tom cercò di sollevarsi, ma non ce la fece. L’anellino destro che lei aveva al labbro era rimasto incastrato nel suo piercing.
“Devi proprio toglierti questi dannati cosi.”
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Note: ed eccoci qui, miracolosamente, con il famigerato capitolo ventiquattro! Il titolo è tratto dall'omonima canzone degli Smiths, mentre l'altra citata, quella che Vibeke ascolta per strada, è Bullet, dei the Rasmus. Questo capitolo è il penultimo, miei cari. Il prossimo sarà l’epilogo, dopodiché The Truth Beneath The Rose sarà ufficialmente conclusa.
Ad oggi, ci sono 40 persone che hanno la storia tra le seguite, 246 che la hanno tra le preferite, e 108 che hanno me tra gli autori preferiti. Non so se potete immaginare quanto questo significhi per me, ma, credetemi, è veramente tanto.
Ora che ci avviciniamo alla fine, mi piacerebbe che tutti voi che state seguendo e, spero, apprezzando la storia lasciate un segno del vostro passaggio, qualche parola che racconti il perché la storia vi piace – o non vi piace, in caso. Vorrei davvero che i miei lettori si facessero sentire tutti, almeno una volta, per concludere degnamente una storia che per me è stata splendida e difficile al tempo stesso, sia nella stesura fisica che nell’analisi più profonda.
Vi preannuncio che alla fine del prossimo capitolo, l’ultimo, ci sarà una sorpresa speciale per voi, creata dalla mia indispensabile Lady Vibeke con tanta pazienza, dedizione e affetto. Vi piacerà com’è piaciuta a me, lo so già. J
Per ora voglio solo ringraziare nuovamente tutti voi, perché sarò anche stata io a scrivere The Truth, ma voi l’avete creata con me, mi avete aiutata a darle vita, a migliorarla, a farla conoscere anche a chi, diversamente dalla maggior parte di noi, ama i nostri adorabili crucchi alla follia.
Grazie, grazie e ancora grazie.
Vi devo tutto.
P.S. Nel capitolo precedente non ho
specificato una cosa: il
titolo, What Lies Beneath, è lo stesso del prossimo album di
Dio Tarja Turunen.
In realtà l’ho scoperto solo dopo, ma mi
è parsa una buffa coincidenza, quindi
sempre meglio specificare. ^^