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Autore: _Princess_    10/08/2009    40 recensioni
“Tom Kaulitz,” si presentò lui alla fine, stringendole la mano. Fu allora che l’attenzione gli cadde sul cartellino che lei aveva al collo. “Vibeke V. Wolner?” lesse.
“Si legge ‘Wulner’,” lo corresse lei rigidamente. “Sono norvegese.”
“Ah,” fece lui, dimostrando scarso interesse. “Posso chiamarti Vi, per comodità?”
“No.” Ribatté lei secca.
“La v puntata per cosa sta?” le chiese allora Tom.
“Non sono fatti tuoi.”
Si occhieggiarono con un accenno di ostilità. Vibeke seppe immediatamente che tra loro due sarebbe stato impossibile instaurare un rapporto civile.
[Sequel di Lullaby For Emily]
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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C’erano giorni in cui svegliarsi era un piacere. Giorni in cui, pioggia o sole che fosse, la bellezza accecante delle cose circostanti era tanta e tale da strappare dal letto e trascinare fuori di casa a vivere.

C’erano giorni, invece, in cui anche il sole più luminoso nel cielo più azzurro poteva apparire desolante.

Vibeke sedeva da sola al tavolo della cucina di casa, immersa in una cascata di fiotti di luce bianca che sapeva già di primavera. Tutto ciò che era rimasto dell’inverno, ormai, era qualche sporadica folata di vento dal Nord che di tanto in tanto si risvegliava e scuoteva le chiome degli alberi e rare spruzzate di neve sparse sulle montagne. E il grigiore che lei si sentiva dentro.

Guardava la tazza di caffelatte, ripetendosi che se non si fosse decisa a berlo in fretta si sarebbe raffreddato, ma non aveva appetito. Normalmente reagiva allo stress ingozzandosi di dolciumi e schifezze fino alla nausea, eppure ora come ora aveva solo voglia di scaraventare la tazza a terra e chiudere tutte le persiane per lasciare fuori quell’odiosa luce che le bruciava agli occhi.

Tutto era silenzioso e immobile, tutto taceva. L’assenza di BJ, al contrario di quel che lei da sempre sosteneva, non era affatto un bene, per quella casa. Sembrava che qualcuno avesse estirpato l’anima da ogni cosa.

Il cucchiaino tintinnava a vuoto contro il bordo di ceramica della tazza, ruotando ininterrottamente per sciogliere dello zucchero che nemmeno c’era. Lei odiava lo zucchero nel caffè. Non aveva mai capito che scopo avesse scegliere una bevanda amara come il caffè, se poi lo si doveva correggere con zucchero o dolcificanti.

Il caffè era amaro. Nasceva amaro e amaro doveva essere. Se si doveva insistere per addolcirlo, tanto valeva bersi un succo di frutta.

Lei amava il caffè per quello che era: nero e torbido e amaro. Ma la mattina, a colazione, ci aggiungeva il latte, dolce ma non troppo, perché la trovava una buona combinazione.

Restò per un attimo a osservare la spirale di onde che animava il liquido beige sulla scia del passaggio del cucchiaino: caffè e latte erano perfettamente fusi l’uno nell’altro, senza però confondersi. Si potevano ancora distintamente sentire l’amarezza dell’uno e la dolce cremosità dell’altro.

Erano davvero una buona combinazione.

In quel momento qualcosa di soffice le sfiorò i polpacci nudi. Vibeke abbassò lo sguardo e quasi sorrise.

“Rogue.”

Lui le rispose con un miagolio lamentoso, continuando a strusciarsi contro le sue gambe. Faceva sempre così, quando voleva qualche vizio, e lei non sapeva mai dirgli di no.

Mi ricordi qualcuno, palla di pelo.

Si tirò appena indietro con la sedia e gli fece cenno di saltarle sulle ginocchia. Rogue non se lo fece ripetere due volte: atterrò su di lei con un balzo morbido e continuò a strusciarsi, beato delle carezze che lei gli concedeva.

“Sei tu il re indiscusso del mio cuore, amore mio,” gli sussurrò Vibeke, grattandogli il pelo tra le orecchie. “Ci ameremo per sempre, noi due, vero?” Gli stampò un bacio sul muso, ignorando le sue proteste infastidite. “Sei il mio unico, vero amore, tu.”

Lo coccolò per un po’, mentre lui le faceva le fusa soddisfatto. Era decisamente più conveniente amare una creatura che non sapeva nemmeno cosa fosse il tradimento.

“Hey, hey!” esclamò Vibeke, bloccandolo non appena lui tentò uno scatto felino per saltare sul tavolo, puntando dritto al caffelatte. “Dove credi di andare?”

Rogue socchiuse pigramente gli occhi un paio di volte, guardandola come per dirle ‘Ma tanto tu non lo bevi’. Un sospiro sfuggì dalle labbra di Vibeke e lei lasciò andare Rogue. Subito lui tuffò la testa nella tazza, iniziando a leccare con gusto. Non si disturbò a interrompere nemmeno quando squillò il telefono.

Svogliatamente, Vibeke si tirò su dalla sedia e, scalza, attraversò la cucina per raggiungere il telefono. Non guardò il numero, né si chiese chi potesse essere. A volte le sembrava di riconoscerlo semplicemente dal suono dei trilli.

“Morn, tøffing.” Salutò, senza entusiasmo. (“Buongiorno, ragazzone.”)

“Ikke ironi, baillmonster! l’avvertì BJ. Jeg er utlsitt og høyst sulten!(“Niente ironia, stronza! Sono stanchissimo ed estremamente affamato!”)

“Oh, fattig liten gutt!” lo scimmiottò lei. (“Oh, povero piccolino!”)

Come sempre, BJ soprassedette:

Si Bill på gi meg noen få rosa blomsten, vær så god!” (“Di’ a Bill di portarmi un po’ di fiori rosa, per favore!”)

Fiori rosa. Un’altra vola. Vibeke si disse che avrebbe proprio dovuto fare quattro chiacchiere chiarificanti con Bill.

“Hva? Pånytt?!” (“Cosa? Di nuovo?!”)

“Vær så god! Jeg elsker deg uansett om du ikke elsker meg!” (Per favore! Io ti voglio così incondizionatamente bene e tu non mi ami neanche un po’!”)

“Hold kjeft!” (“Ma sta’ zitto!”)

“Sta’ zitta tu, piuttosto!” la rimbeccò dispettosamente BJ. “Hai una voce che fa paura. O ti sei beccata una tonsillite a furia di urlare improperi dietro a Tom, oppure il karma ti sta dicendo che qualcosa dentro di te non va affatto bene.”

“Oh, geniale! Mi serviva una bella somatizzazione per capire che qualcosa non va, vero?”

“L’avevo detto a papà e a Sissel che la tua passione per gli agrumi era malsana… Guarda quanta acidità hai accumulato in tutti questi anni! Magari Bill può comprare un po’ di marshmallows anche a te.”

“Marshmallows?” fece Vibeke, confusa. “Ma co–?” Poi di colpo realizzò. “I fiori rosa!” sbraitò, incredula. “Quei cazzo di misteriosi fiori rosa! Non mi stupisce affatto che fossero finiti così in fretta!”

“Ops…”

“BJ!” si arrabbiò lei. “Razza di idiota irresponsabile! E quel cretino di Bill che ti spalleggia! Ah, ma mi sentirà!”

Lui, come nulla fosse, rise.

“Nobile tentativo di sviare la conversazione, devo dire,” sottolineò, angelico. “Stavamo parlando di Tom e del tuo karma.”

Non voglio parlare di Tom, rispose la testa di Vibeke, fortunatamente non assecondata dalle sue labbra.

In verità una parte piuttosto consistente di lei aveva una certa voglia non solo di parlare di Tom, ma anche di parlare con Tom, e forse, molto in fondo, anche di vederlo. Benché non sapesse proprio comprenderne il perché, dato che non aveva nessun senso, Vibeke sentiva incredibilmente la sua mancanza.

Il problema reale era che c’erano infinite cose di lui che le davano sui nervi e avrebbe potuto passare ore intere a elencarle, ma poi le tornava in mente quel suo modo insolente e ruffiano di sorridere, l’assottigliarsi irriverente dei suoi occhi luccicanti di malizia, ma così inequivocabilmente velati di dolcezza da stregare.

E lei poteva non accettarlo, non riconoscerlo, ma non era bastato quel colpo a tradimento che lui le aveva inferto per spezzare quello che inaspettatamente era nato tra di loro. Si era innamorata di lui prima per i suoi difetti che per i suoi pregi, e con questo, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque dovuto fare i conti, prima o poi.

Eppure era così comodo credere ciecamente di avere assoluta ragione.

“Per l’ultima volta,” intimò brusca a BJ. “Kaulitz non rientra nella mia top five di migliori argomenti per una piacevole conversazione di cortesia.”

“Se la tua me la chiami cortesia…” sottilizzò lui.

“Anzi, a dirla tutta penso che venga anche dopo la vita sentimentale del Chihuahua di Paris Hilton e la lotta ai radicali liberi di Madonna.”

“Ed è prima o dopo l’insopportabile testardaggine delle sorelle gemelle norvegesi?”

“Ora che ci penso non è nemmeno in classifica.” Aggiunse lei, senza ascoltarlo.

“Senti un po’, Vetriolo Wolner, mi sono un bel po’ rotto della tua acidità,” dichiarò BJ con disarmante placidità. “Se hai finito di trattarmi male perché sono un fratello convalescente e bisognoso che odia essere trascurato, ci sarebbe qualcosa di piuttosto serio di cui ti vorrei parlare.”

Vibeke fiutò aria di argomenti spinosi. Già il fatto che BJ avesse scelto un vocabolo impegnativo come ‘serio’ era preoccupante, se poi ci aggiungeva anche un ‘piuttosto’, allora la cosa diventava piuttosto preoccupante, e dato che da giorni a quella parte chiunque con cui avesse parlato aveva necessariamente, in un modo o nell’altro, voluto discutere di lei e Tom, le probabilità che la conversazione non si sarebbe conclusa nel peggiore dei modi erano scarse, e lei cominciava a non poterne più.

Perché non potevano semplicemente lasciarla dimenticare? O almeno lasciare che ci provasse?

“Se si tratta ancora di Kaulitz, ti avverto che non –”

Uno sbuffo irritato provenne dall’altro capo della linea.

“Sempre la solita prevenuta!” si lagnò BJ, in tono dolente. “Se si fosse trattato di Tom, avrei detto semplicemente ‘seria’. Invece ho detto ‘piuttosto seria’.”

Vibeke ne rimase così disorientata da perdere l’uso della parola per un paio di secondi buoni. BJ era il tipo che definiva una cosa ‘seria’ solo se questa implicava del cibo, una bella ragazza o un bel ragazzo, oppure, in casi rari ed estremi, questioni di vita o di morte. Per lui nemmeno il suo recente incidente era stato classificato come serio, e a questo punto Vibeke non sapeva più cosa aspettarsi.

“Mi devo preoccupare?”

Nel millisecondo di silenzio che le giunse in risposta riuscì ad immaginare una lunga serie di possibilità tra le più disparate. In realtà dovette presto ammettere che, anche dopo quasi ventitré anni di vita trascorsi simbioticamente con lui, suo fratello era ancora in grado di lasciarla senza parole.

 

***

 

“Bill, è una cazzata.”

“Non è affatto vero!”

“Andiamo, non funzionerà mai!”

“Sì, invece!”

“È una cazzata, ti dico!”

“Taci, Tom! Funzionerà eccome! Vatti a preparare e piantala di rompere!”

Tom se ne rimase impalato in mezzo al salotto, le mani con i palmi interrogativamente rivolti verso l’alto, e guardò Bill uscire sorseggiando una lattina di Red Bull.

“Cosa vuol dire ‘Vatti a preparare’?” gli urlò dietro, disperatamente confuso. Ancora, dopo tre nevrotiche spiegazioni, il piano gli risultava ben poco chiaro.

Bill tornò indietro con gli occhi rivolti al cielo, come se stesse avendo a che fare con un ritardato mentale.

“Hai presente quella serie di gesti che si compiono per rendersi presentabili prima di uscire?” domandò, gesticolando impazientemente. Dopo un istante di perplessità da parte di Tom, però, si bloccò e si diede una pacca sulla fronte. “Ah, no, scusami! Aspetta, te lo spiego.”

Tom si costrinse a non scaraventarlo contro il mobile bar, rammentando a se stesso che una vasta collezione di alcolici contava di più di una vendetta contro un fratello idiota.

“Molto, molto divertente.” Commentò, funereo. Farsi prendere in giro anche in un momento di depressione era davvero il colmo. Perché nessuno mostrava rispetto verso il suo stato?

“Insomma, ti vuoi muovere?” lo bacchettò Bill, portandosi le mani ai fianchi asciutti.

“Ma che cosa dovrei fare?” balbettò Tom, ancora incapace di afferrare il nocciolo della questione.

“Fai qualcosa!” strillò Bill, che pareva sull’orlo di un cedimento di nervi. “Qualunque cosa! Qualcosa di effetto!”

Tom aggrottò le sopracciglia.

“Di effetto… In che senso?”

Bill chinò la testa e la scosse sconsolato.

“Lo sapevo che la mamma doveva insistere a farti mangiare il pesce, da piccolo.” Sospirò. “Ormai è troppo tardi per salvarti il cervello.” Un altro sospiro, poi inspirò a fondo e, risoluto, si avvicinò a Tom e gli pose le mani sulle spalle, guardandolo negli occhi. “Dunque, te la farò molto, molto semplice: vattene a metterti qualcosa di più chic di una stupida tuta sciupata!”

“Ma io ho solo stupide tute, e sono tutte sciupate, dato che sono secoli che quella stronza non si fa vedere!” obiettò Tom, un po’ punto nel vivo. Per lui qualcosa di ‘chic’ era semplicemente costituito dalla felpa più costosa che aveva, i jeans più costosi che aveva e la scarpe più costose che aveva. Tutto lì. Per Bill, invece, la faccenda sembrava decisamente più complessa.

“Be’, dobbiamo inventarci qualcosa, allora.”

Inventarsi qualcosa. Tom si era spesso chiesto se esistesse qualcosa al mondo che potesse essere ‘di effetto’ su una come Vibeke. Sicuramente sarebbe stato ‘di effetto’ se si fosse messo un naso rosso e una parrucca variopinta, ma sicuramente non in positivo.

Al diavolo! Perché devo pensare a come vestirmi se lei nemmeno mi vuole rivolgere la parola?

“Sì, ma non –” iniziò a protestare, ma poi fu come attraversato da un fulmine a ciel sereno, e tutto gli sembrò più chiaro. “Aspetta.” si bloccò e sollevò lo sguardo su Bill, cercando riscontro in lui, le pulsazioni che incrementavano spropositatamente di intensità. “Forse ho capito dove vuoi arrivare.” Soffiò. Non solo aveva capito. Sapeva anche esattamente dove puntare. Era un’idea stupida così assurda che forse poteva addirittura funzionare. “Bill,” Tom afferrò febbrilmente il proprio disorientato fratello per le spalle e lo strinse convulsamente. “Devi darmi una mano tu.”

 

***

 

Vibeke evitava di guardare le vetrine, camminando a passo spedito per il centro. Preferiva non vedersi.

Sapeva di avere un pessimo aspetto – struccata, colorito cadaverico, occhi gonfi e arrossati, abbigliamento del tutto trascurato e capelli disastrosamente increspati dall’umidità – e non le andava di deprimersi ulteriormente nel vedersi.

In giro era pieno di giovani, molti riuniti in gruppi, altrettanti che andavano in giro in coppia, mano nella mano, scambiandosi baci e sorrisi innamorati. Seduta su una panchina, Vibeke scorse una ragazzina che avrebbe benissimo potuto essere lei a quindici anni, con qualche piccola differenza circostanziale: alta e formosa, vestita di nero da capo a piedi, trucco pesante, borchie e catene ovunque, e uno sguardo languido perso nel vuoto. Sola.

Vibeke, tuttavia, ebbe a stento il tempo di interpellare la compassione: un secondo dopo che lei la ebbe vista, alla ragazzina si avvicinò un ragazzo che doveva avere pressappoco la sua età, alto e smilzo, con uno stile nettamente più sobrio e ordinario di lei. Guardandoli abbracciarsi e baciarsi, Vibeke provò una fitta di gelosia: lei, a quell’età, era stata troppo occupata con la sua guerra contro il resto del mondo per potersi dedicare a quel genere di cose, e, in ogni caso, nessuno dei suoi compagni di scuola sarebbe stato disposto a volerla, strana com’era. Eppure lo aveva voluto lei.

Si costrinse a riscuotersi da quella contemplazione inopportuna e accelerò il passo, zigzagando nervosamente tra la lemme folla del sabato pomeriggio. Di tanto in tanto, nevroticamente, si tormentava i due piercing che da qualche giorno si era rimessa al labbro.

Lei odiava il caos, il rumore, i luoghi affollati. Era tutta colpa di BJ. Un’altra volta.

Con la scusa che il suo petto era stato perforato da un proiettile, suo fratello era diventato un tiranno capriccioso e quanto mai esigente, e, ovviamente, chi poteva mai adempiere il suo volere se non l’amata sorellina?

Vibeke non capiva che utilità potesse avere una camicia di lino – per di più di un’atroce tonalità ciclamino – per un ragazzo convalescente, ma BJ aveva sfoderato il suo collaudato musetto da cucciolo supplichevole, e lei non si era potuta rifiutare, così lo aveva lasciato con la promessa che, sì, nel pomeriggio si sarebbe recata alla boutique di Guess del centro e, no, non avrebbe sbagliato colore.

Selezionò la modalità shuffle sull’iPod e si sistemò meglio l’auricolare nell’orecchio destro. Avere entrambe le orecchie occupate dalla musica non le piaceva, in pubblico. Le sembrava di essere indifesa, di poter essere colta alla sprovvista da qualcosa, se restava isolata da suoni, voci e rumori, e lei, di natura, era una che preferiva coprirsi le spalle.

Almeno di norma.

Scansò in malo modo una donna con due bambini per mano e una vecchietta che si trascinava dietro un carrellino della spesa, aggirò una cestino della spazzatura e schivò un paio di ragazzi dall’aria fiacca che militavano accanto a un semaforo, armeggiando con i rispettivi iPhones.

Vibeke non poté fare a meno di pensare che il vizio più generoso che suo padre le avesse mai concesso era stato un paio di Dr Martens – che peraltro lui aveva pesantemente criticato – per i suoi quattordici anni, e il tutto solo dopo le assidue insistenze di Sissel.

La vita non le aveva mai regalato niente, se non forse un fratello che aveva saputo tenerla per mano anche quando lei aveva nauseato perfino se stessa.

Non c’era nulla che non avrebbe fatto per BJ. Nemmeno sorbirsi il pienone del sabato del cuore di Amburgo per comprargli una stupidissima camicia da un paio di centinaia di euro che le avrebbe senz’altro fatto schifo.

Svoltò l’angolo e finalmente, pochi metri avanti a sé, individuò la scintillante vetrina supergriffata della boutique. Si sarebbe dovuta disinfettare, una volta uscita.

Puntò al negozio di malavoglia, ma fu bloccata da una melodia nota che le giunse all’orecchio sinistro. Un’intro di pianoforte leggera e vagamente angosciosa che lei adorava e che aveva preferito sostituire alla vecchia canzone dei Cure.

Senza riflettere, recuperò il cellulare dalla borsa e rispose, senza preoccuparsi di spegnere l’iPod o sfilarsi l’auricolare. Era appena iniziato un brano che le piaceva.

Nell’istante stesso in cui si poggiò il telefono all’orecchio, prima ancora di rispondere, Vibeke si rese conto di tutto: aveva accettato una chiamata e non si era curata del numero apparso sullo schermo. Un numero che, nonostante lo avesse visto di sfuggita, aveva finora evitato con scrupolosa costanza.

“Smettila di chiamarmi!” berciò d’istinto, prima che il suo attimo di defaillance diventasse palese. Riattaccare immediatamente sarebbe stata una cosa sensata, dopo un simile scatto, ma la ragione dettata dal suo cervello non raggiunse mai la mano di Vibeke, che invece restò lì, ferma in mezzo al marciapiede, aspettando.

Aspettando, senza sapere cosa. Senza aspettarsi niente.

“No che non la smetto!” replicò la voce sostenuta di Tom. “Voglio che tu mi lasci spiegare!”

Voglio, voglio, voglio... Conti sempre e solo tu, vero?

Vibeke strinse il cellulare tra le dita, combattuta tra la propria rabbia e l’assurdo, urgente bisogno di sentire ancora il suono della voce di Tom.

Non voleva starlo a sentire. Era stanca, stanca di essere la sua serva personale senza retribuzione, stanca di farsi prendere in giro gratuitamente e non riuscire mai a ricambiare. E dall’auricolare la voce di Lauri Ylönen infieriva quasi perfidamente sulla situazione.

I think I should go and leave you alone, yeah
Stop this game and hang up the phone, and more…

“Non devi spiegarmi niente.” Tagliò corto lei. “Lara è venuta prima di me, sono io l’intrusa.”

“Di Lara non me ne è mai fregato un cazzo!” ringhiò Tom.

“Non solo di lei, a quanto pare!”

“No, Vi, stai zitta un attimo, per favore!”

“Stai zitto tu!”

It's like I wanted to break my bones…

“Vi, per favore…”

Tom aveva quel tono supplichevole nel parlarle. C’era una vibrazione strana nelle sue parole, qualcosa che le rendeva vagamente tremule. E c’era quel ‘per favore’, insistente e disperato.

Qualcosa di ignoto agguantò il cuore di Vibeke e lo strinse fino a farle avvertire un lancinante dolore nel profondo.

To get over you…

“Che cosa vuoi ancora da me, Kaulitz?” gli domandò, come se non lo sapesse già perfettamente che cos’era che lui le avrebbe chiesto. Ma lei, alla fine, non era poi meno disperata di lui. “Mio fratello è in ospedale e io non oso andare a trovarlo perché so che vedendomi capirebbe che sto male e starebbe male anche lui, la mia pseudo-ragazza mi ha lasciata perché ha capito che qualcosa non andava, e io, come una scema, anziché riparare i danni, lascio andare tutto perché tu chiami e corro da te!” Ansimava. Era come se le parole non volessero lasciare posto al silenzio. Era fatta così, lei: metteva muri ovunque, anche quando si trattava di discorsi fastidiosi. “E per cosa poi? Per farmi incastrare in una cazzo di mezza storia senza significato e poi vederti tornare dalla tua bella bambolina sexy?”

Tutto diventò vero man mano che Vibeke sentiva sé stessa dirlo ad alta voce. In realtà ci aveva rimuginato sopra parecchio – su Tom, sulle sue leggendarie imprese di playboy, sulla leggerezza delle sue bugie e sulla complicatezza delle sue verità – ma finora le era mancato il coraggio di affrontare davvero il punto. E non si trattava di coraggio nemmeno adesso, quanto piuttosto di nuda esasperazione.

“Non è come sembra, stavolta!”

“Stronzate!”

‘Cause if I stay, I'm number two anyway…

“Vi…”

Nonostante la tonalità umile di Tom, il cipiglio mordace di Vibeke non si smorzava:

“Vi un cazzo, Kaulitz! Mi sono fidata di te, anche se la mia testa cercava in tutti i modi di impedirmelo, e dio solo sa quanto mi è costato ammettere che io volevo fidarmi di te, e tu… Tu mi hai ripagata così!”

“Tu non capisci!”

“No, infatti, non capisco! Ma sai una cosa? Non me ne frega un cazzo di capire! Ne ho avuto abbastanza, davvero, ne ho piene le palle di te e del tuo egoismo!”

Like a bullet you can hurt me, take me, break me…

“Cazzo, quanto sei cocciuta! Ti odio quando fai così, sei insopportabile!”

Like fire you can burn me, convert me…
Like a bullet you can hurt me…

“E cosa devo dire io, allora?” urlò Vibeke, incurante della molta gente che si voltava a fissarla, passando. “Pensa che stupida, quasi ci avevo creduto! Mi ero quasi lasciata persuadere a credere che tu fossi umano, che avessi dei cazzo di sentimenti oltre alla fame di sesso!”

Qualcuno ridacchiava, qualcun altro scuoteva indignato la testa. Lei nemmeno li vedeva o sentiva.

“Vi, ho fatto una cazzata, ma –”

“Esattamente, una cazzata!” Vibeke tentò di moderare la propria voce, ma non ci riusciva. Ora che aveva cominciato, sentiva che avrebbe continuato fino a che non avesse vomitato fuori tutto quello che da tempo incalcolabile si era reclusa dentro. “Lo vuoi sapere quante cazzate mi sono capitate nella vita? Prima mia madre fa la cazzata di piantare la sua bella famigliola e se ne va chissà dove con un giovane riccone senza più dare notizie, poi un idiota ubriaco fa la cazzata di sparare a mio fratello e quasi lo ammazza, e poi ancora un altro idiota decide che sarebbe divertente fare la cazzata di scopare un po’ con me e condire il tutto con qualche bella frase ben studiata, per poi tornare dalla sua Miss Germania alla prima occasione! Io però sono stanca delle cazzate, io voglio vivere senza dovermi preoccupare di difendermi da tutto questo!”

“Vi…” fiatò Tom, apparentemente sconvolto, ma non ci fu altro, perché Vibeke riprese subito ad inveire:

“E lo sai qual è la cosa più divertente? Se tu te ne fossi stato zitto, allo studio, io non avrei avuto alcun diritto di arrabbiarmi! Sarei andata avanti chissà quanto lasciarmi beatamente usare da te mentre tu ti facevi anche chissà quante altre troiette, e mi sarei accontentata, perché ai miei occhi non sarebbe esistita la benché minima possibilità di illusione che io per te potessi essere di più. Ma tu invece hai dovuto per forza aprire quella tua dannata bocca e trasformare tutto in un casino! È la tua specialità, vero?! Tutte le cose semplici, con te, diventano casini!”

“Mi lasci spiegare?!” si infuriò allora Tom, gracchiando attraverso il pessimo audio del telefono. La linea era disturbata da interferenze e rumori e fruscii di sottofondo.

“Non voglio sentire un cazzo!” lo aggredì lei, ritirandosi in una stradina laterale meno battuta.

You say there are so many things going on in your life now…

“Perché non vuoi capire?” tenne duro lui. “Non è facile per me, stanno succedendo una marea di cose tutte insieme, non so più a che santo votarmi per trovare il bandolo della matassa! È un casino, Vi, e tu stai facendo di tutto per peggiorarmi le cose!”

And you say: do you believe in the destiny?
This is the way it was meant to be…

“Non provare a dare la colpa a me adesso!” si oppose Vibeke. “Non voglio sentire un’altra parola, mai più! Non azzardarti a richiamarmi!”

I gotta leave to make you see I'm over you…

“Invece ti richiamo eccome, se non mi lasci dire quello che ho da dire!”

‘Cause if I stay, I'm number two anyway…

“Credi che io abbia voglia di stare a sentire i tuoi sproloqui, dopo quello che è successo?”

“Allora lascia che ti dica un’ultima cosa.”

Con uno schiocco ironico della lingua, Vibeke si ravviò i capelli oltre la spalla.

“Sentiamo.” Sbuffò con supponenza.

“Voltati.”

Maybe I'm blind…

E lei si voltò.

Il suo cuore saltò una pulsazione nello scorgere la persona che le stava di fronte, fissandola con un’espressione pesantemente seria ed adombrata. Portava un paio di jeans insolitamente stretti – forse addirittura troppo – e una camicia bianca che gli andava decisamente larga, con tanto di cravatta nera, annodata mollemente attorno al collo, su cui ricadevano i rasta, legati in una coda sulla nuca, ed in mano reggeva un cellulare che stava richiudendo.

Era lì. Lui era lì. Tom era lì davanti a lei, passato direttamente dalla sicura, affidabile distanza di una telefonata al suo indifeso cospetto.

“Kaulitz…”

Forever young…

Non era giusto. Non sarebbe dovuta andare in quel modo.

Si era adoperata per evitarlo con la stessa dedizione con cui avrebbe evitato una malattia infettiva, e forse anche con maggiore scrupolo, perché Tom, per lei, era indiscutibilmente più pericoloso e letale di una malattia infettiva.

Dalle malattie si poteva guarire. Da Tom Kaulitz no.

Don’t get me wrong…

“Ciao.” Mormorò Tom pacato. La guardò negli occhi, e il sincero rammarico che Vibeke vide in lui la paralizzò.

“Come diavolo mi hai trovata?”

I don’t belong here…

Tom si lasciò sfuggire un minuscolo sorrisino furbo, che Vibeke connesse in un lampo a quello che le aveva rivolto BJ nel chiederle quella maledetta camicia.

“Non ha importanza.”

Ma ce l’aveva eccome.

Bjørn Jesper Wolner, sei uno schifoso, infido doppiogiochista scriteriato!

Tom le si avvicinò solenne, con un’aria tesa e cupa. Erano pochi metri, pochi secondi, pochi passi, ma sembrò una lunghissima eternità. Vibeke non riuscì a muoversi, nemmeno quando lui, deglutendo, la afferrò per le spalle. E aveva quella scintilla negli occhi.

“Lo so che sono un idiota,” mormorò labilmente, roco. “E so anche che per questo è difficile fidarsi di me,” aggiunse, abbassando per un momento lo sguardo. “Quindi…” Quando i suoi occhi tornarono su quelli di lei, Vibeke fu attraversata da un brivido. “Pensa quello che vuoi, Vi. Credi quello che vuoi.” Le disse Tom, con disarmante morbidezza. “Non mi interessa.” E, dopo un secondo di tentennamento, stupendola come mai prima, con uno slancio improvviso la avvolse in un abbraccio che le impedì di respirare. E quello che poi le sussurrò, non fu che il colpo di grazia.

Like fire you can burn me…

“Ho solo bisogno che tu mi perdoni.”

Like a bullet you can hurt me.

 

***

 

Esistevano buone probabilità che i miracoli esistessero.

Seduto in un minuscolo bar praticamente deserto, Vibeke davanti e un tumulto incalzante nel petto, Tom non si sentiva ancora pronto a credere di esserci riuscito, nemmeno dopo qualche provvidenziale sorso di Baileys alla menta.

Vibeke era rimasta a lungo immobile tra le sue braccia, muta, mentre la gente attorno a loro passava e li occhieggiava infastidita o incuriosita. L’aveva tenuta stretta, perché gli era mancata troppo la sensazione di avere il suo corpo addosso, di sentire il suo profumo selvatico nei polmoni, respirandola per ritrovarla, accarezzandola per riscoprire quanto forte e vivida la avesse sempre sentita dentro di sé.

E poi – dopo quanto tempo, non lo sapeva – la aveva lasciata andare, ed erano rimasti lì, l’uno davanti all’altra, a guardarsi e basta. Lui aveva aspettato che lei facesse o dicesse qualcosa; lei, gli occhi sgranati, sembrava essere rimasta ghiacciata sul posto, e allora Tom, che non aveva alcuna voglia né intenzione di perdere altro tempo, le aveva chiesto una tregua: mezz’ora di armistizio per raccontarle tutto, per tentare di farle capire come stavano le cose, e poi, se lei ancora non avesse voluto credergli, basta. La avrebbe lasciata in pace.

Ma lasciarla in pace era una cosa che non rientrava minimamente nelle sue intenzioni, quindi non c’erano se: doveva per forza farle capire.

Ormai, anche volendo, non avrebbe più avuto la forza di tenersi lontano da lei.

“Ti ho portato una cosa.” Le disse, infrangendo la fragile barriera di silenzio che si era innalzata tra loro.

Vibeke, le braccia appoggiate al tavolo, ostilmente conserte, sollevò diffidente le sguardo. Tom era nervoso, timoroso di sbagliare qualcosa e compromettere tutto prima ancora di iniziare. Eppure si trattava solo di infilarsi la mano in tasca e tirare fuori una scatoletta che nemmeno gli riempiva il palmo.

Quando finalmente ci riuscì, posò con incertezza l’oggetto di fronte a Vibeke, e attese. Lei osservava senza espressioni la piccola scatola. Era rotonda, di cartoncino grezzo, anonima e priva di pretese. La cosa più umile che fosse riuscito a trovare, per custodire una cosa che, si augurava, sarebbe stata speciale.

“Vorresti corrompermi con qualche stupido regalo?” sbuffò Vibeke, dopo un attimo di esitazione.

Sempre così. Sempre la solita, acida Vibeke.

Aveva un aspetto trascurato, quel giorno, Tom lo aveva notato subito. Era vestita in modo abbastanza sportivo, di un pallore innaturale, quasi malaticcio, e c’erano preoccupanti ombreggiature violacee agli angoli interni degli occhi opachi. E probabilmente era colpa del tempo, ma quel giorno entrambe le loro iridi sembravano grigie.

E poi c’erano i piercing. Quei due anellini argentati che erano tornati a ornarle le labbra, come una specie di segnale di avvertimento che diceva ‘Non baciarmi più’.

“Non è uno stupido regalo.” Sostenne, composto. “O almeno, spero che non lo sia.”

Glielo spinse in avanti, invitandola implicitamente ad aprirlo.

Senza mostrare interesse, Vibeke afferrò la scatoletta, squadrandola distrattamente. Non sembrava impressionata. Una volta che ebbe sollevato il coperchietto, però, la sua espressione mutò radicalmente.

Tom vide con piacere le sue labbra che si schiudevano in una piega sorpresa e anche vagamente perplessa. Sul fondo della scatola, adagiata su un cuscinetto di paglietta, c’era una cipollina dorata un po’ sporca di terra umida.

Le sopracciglia di Vibeke si aggrottarono leggermente.

“Che cos’è?” gli chiese. Tom non riuscì a riconoscere vibrazioni nel suo tono.

“Il bulbo di un fiore.” Le spiegò, il viso improvvisamente caldo. Non era mai stato bravo negli approcci pseudo-romantici. “Non chiedermi di quale fiore, ti prego,” aggiunse rapidamente, incontrando il suo sguardo interrogativo. “L’ho rubato dall’aiuola del giardino dei vicini.”

L’ultima confessione aprì a Tom un minuscolo squarcio di speranza, perché, pur involontariamente, riuscì a scucire a Vibeke un inconsulto fremito delle labbra, subito sedato, che però non poteva che essere il soffocato germoglio di un sorriso.

Si sentì un po’ più forte nel realizzare che, sotto sotto, aveva qualcosa a cui aggrapparsi.

“È il contrario di un fiore reciso.” Le disse, mentre le dita di lei sfioravano insicure la sottile pellicola semitrasparente che velava il bulbo. “Questo non è un regalo che muore,” Tom attese che lei lo guardasse negli occhi. “È un regalo che deve ancora nascere.”

 

***

 

Sapeva che non avrebbe dovuto sollevare lo sguardo.

Sapeva che guardare Tom negli occhi sarebbe stato fatale per la sua determinazione.

Sapeva che avrebbe dovuto resistere, ma non ne fu capace.

Alzò lo sguardo, e Tom era lì, davanti a lei, stringendo il bicchiere che sembrava perdersi in quelle mani grandi, e la scrutava, silenzioso ma carico di aspettativa e timore.

Mandalo via! Digli che non ne vuoi sapere di lui!, la supplicava il suo amor proprio. Ti farà soffrire ancora, lo sai. Litigherete in ogni momento, avrete un’infinità di incomprensioni, non funzionerà mai!

Ma Vibeke fissava ora il piccolo bulbo dorato, ora Tom, e tutto ciò a cui riusciva a pensare era che voleva stare con lui, contro ogni ragione e buonsenso.

“Vi, mi dispiace che sia successo tutto questo casino.”

Vi, Vi, Vi…, rimuginò lei, infastidita. Non glielo avessi mai detto che odio essere chiamata così…

“Perché ci provi tanto gusto a farmi arrabbiare?” sbottò.

Tom inclinò il capo di lato, rigirandosi il bicchiere vuoto tra le mani. Lei il suo non lo aveva nemmeno ancora toccato.

“Mi piaci.” Fu l’inaspettata risposta.

“Scusa?”

“Mi piaci quando sei arrabbiata.”

Poco ci mancò che a Vibeke sfuggisse una risatina incredula.

“Questa è bella.”

Ma Tom rimaneva impassibile.

“Non sto scherzando.” Asserì. “Quello che dicono i ragazzi è vero: mi piace litigare con te, è molto… Stimolante.”

“Curiosa scelta del termine.”

“Vi, non è questo il punto.”

“E quale sarebbe allora?”

Tom congiunse le mani davanti a sé, le dita intrecciate, e chinò la testa.

Vibeke avrebbe voluto essere capace di non guardarlo, di smettere di seguire i battiti pensosi delle sue ciglia scure, ma non ce la faceva. Le fattezze di Tom erano maturate molto, rispetto a certe fotografie che lei aveva visto, ma il suo viso conservava ancora qualcosa di acerbo, una morbidezza dei lineamenti che lo rendeva uno strano ibrido tra un giovane uomo e un bambino che non voleva crescere. Ed era così bello che sarebbe potuta restare a studiarlo per ore, e non se ne sarebbe stancata. Poteva essere in collera con lui quanto voleva, ma non poteva negare a se stessa che lui le smuovesse qualcosa dentro.

Dopo diversi secondi di assorta riflessione, Tom risollevò lo sguardo, trafiggendola da parte a parte. Si era armata fino ai denti per affrontarlo, eppure vinceva sempre lui.

“Io non voglio una squallida oca qualunque.” Le disse. “Io voglio una stronza schizoide norvegese che adora farmi incazzare almeno quanto io adoro incazzarmi con lei.”

Suo malgrado, Vibeke avvertì un’impercettibile stretta allo stomaco.

Fai il tenero bastardo, adesso? Gioco scorretto, Kaulitz. Gioco maledettamente scorretto.

“Ti sei già preso tutto quello che potevi, di me,” replicò, sperando che la propria voce non tremasse. “E devo dire che sono stata lautamente ripagata.”

Tom sospirò e si sfregò impazientemente la fronte tra le mani.

“Ma allora non hai capito proprio un cazzo!”

“Cos’è che non ho capito di così elementare in quest’intrico di bugie, psicopatia e perversione?”

“Non si tratta solo di… Di sesso.”

“Ah no? Ci mettiamo anche un po’ di droga e rock’n’roll?”

Il modo impotente in cui Tom la guardò la fece sentire un verme per come lo stava trattando. Sembrava sincero, in fin dei conti.

“Vi, io credo… Io so che le cose sono andate un po’ più in profondità, stavolta.”

E lo diceva così, con quel sentore di paura misto a timidezza, occhi negli occhi con lei.

Vibeke non aveva mai imparato a difendersi da quello sguardo. Era forte, era penetrante, era bruciante. Era invincibile, perché non poteva mentire.

“Non è solo questo il problema, Kaulitz.” precisò lei. “Il fatto è che a me non piace rapportarmi con una persona che si incolla addosso una maschera quando gli fa più comodo. Ne ho avute troppe di bugie, non me ne servono altre.” Si interruppe per un attimo, inumidendosi le labbra. Aveva sempre desiderato affrontare quell’argomento con lui, ma ora che c’erano arrivati, si stava rivelando più difficile del previsto. “Se solo tu non fossi così egoista da non pensare sempre e solo a te stesso, se solo tu riuscissi, per una volta, a pensare che quello che tu fai può avere delle ripercussioni sugli altri…”

“Io non penso solo a me stesso.” Si difese Tom a denti stretti.

“No, è vero. Pensi anche a Bill. Ma Bill è te, tu sei lui, quindi cambia poco. Ma una cosa vi distingue: Bill ammette la propria sensibilità, sa prendersi in giro, sa mettersi in gioco, si lascia dare del gay come se fosse un insulto e poi ci ride sopra, si prende una cotta per una ragazza e non la butta via quando scopre che lei non lo ricambia… Tu non sei così. Tu hai una paura mostruosa di quello che sei davvero, ti servono quintali di impalcature attorno che la gente possa rimirare e valutare anziché farlo con il vero te. Temi il giudizio delle persone e quindi ti sei creato questo personaggio forte ed irreprensibile che ti fa da facciata. Ma questo non sei tu, c’è un altro Tom che io ho conosciuto, uno più umano e simpatico, uno a cui non spaccherei la faccia come prima cosa, e voglio capire quale dei due Tom mi sta parlando adesso.”

Lui scosse la testa.

“Non fa nessuna differenza.”

“Fa tutta la differenza, invece.” Si impuntò lei.

Tom sollevò il bicchiere e bevve in un sorso tutto il Baileys rimanente.

“No.” Dichiarò, posando nuovamente il bicchiere. “Quello che fa tutta la differenza è che tu conosci entrambe le parti e, che tu lo creda o no, le sai scindere e distinguere. Credi che non sappia di risultare artificiale, certe volte? Ne sono perfettamente conscio. È solo più forte di me. Ma tu…” Esitò, inspirando a fondo. “Vi, tu non lo vuoi proprio capire, vero?”

“Che cosa?”

“Ti ho dato tutto quello che potevo. Più di quanto io sia mai stato in grado di dare a una ragazza. Il cento percento di me, nel bene e nel male, senza riserve,” Lei era senza fiato; lui sembrava del tutto intenzionato a fenderle il colpo di grazia. “E gradirei che tu me ne dessi credito.”

Vibeke si mise a frugare la propria mente alla ricerca di un appiglio, qualcosa da poter usare contro di lui per riuscire a dargli torto, per dimostrargli che aveva sempre ragione lei, su quello e tutto il resto, ma non trovò nulla, se non la propria coscienza in tumulto.

“Cosa staresti cercando di dirmi?” gli domandò, incapace di formulare qualcosa di più sensato.

“Dimmelo tu.” La sfidò Tom, impassibile. Qualcosa nel suo modo di porsi, tuttavia, era irrequieto. “Dimmi cosa vedi.”

Vibeke indugiò, spiazzata.

Che cosa vedeva?

Vedeva il gradasso borioso che aveva incontrato mesi prima fuori da un festino da cui entrambi erano usciti brilli e irritabili.

Vedeva il vanesio chitarrista sicuro di sé di una rockband che spopolava in tutto il mondo.

Vedeva il giovane imbranato, indisponente e non autosufficiente per cui BJ le aveva suggerito di lavorare.

Vedeva il ragazzo di successo ma forse non troppo felice, circondato da amici eppure solo, ambiguo e scorbutico, ma affascinante, dotato di dolcezza e premura tutti suoi, modi di fare altalenanti e un carattere ingestibile.

Vedeva una persona che, per qualche assurdo, inconcepibile motivo, l’aveva conquistata.

“Vedo un ragazzino smarrito che non sa cosa fare, una persona immatura che pretende di crescere tutta in un colpo.”

Tom azzardò un microscopico sorriso speranzoso.

“Qualcosa di buono?”

“Non lo so.” ammise Vibeke. “Io riponevo qualche aspettativa in te, nonostante tutto. Mi sono fidata di te e mi sono sentita tradita. In un certo senso, ti ho messo io nelle condizioni di potermi ferire, ti ho dato io questo potere, e anche se questo non giustifica quello che hai fatto, devo almeno ammettere che… Be’, forse qualcosa c’è davvero, dopotutto.”

Tom annuì, ma non pareva granché soddisfatto o rincuorato.

“Lo so che non mi credi quando dico che non ho fatto nulla di male, con Lara…”

Tasto dolente. Onestamente, Vibeke non sapeva più cosa credere in merito a quella faccenda. Era stata così sicura della bravata di Tom, appena si era ritrovata faccia a faccia con quella patetica scena… Adesso, invece, cominciava a nutrire qualche perplessità.

“Senti, ne abbiamo già –”

“Quindi ti chiedo scusa e basta.”

La frase si spense in gola a Vibeke, mentre la sua mente accusava il colpo senza la minima preparazione. Era abbastanza sicura di aver frainteso.

“Mi chiedi scusa?” balbettò per verificare l’impossibile.

Ma Tom, dopotutto, aveva già varcato la barriera di quello che lei aveva creduto l’impossibile già un paio di volte, da quando lo conosceva.

“Sì.” Confermò infatti lui.

“Cos’è questo voltafaccia improvviso?”

Tom, semplicemente, le sorrise.

“Io so cos’è successo veramente, so di avere la coscienza pulita, ma se tu non mi credi… Mi hai sempre rinfacciato che sono privo di umiltà, giusto? Perché ci vuole umiltà per chiedere perdono per un proprio torto. Ma quanta ce ne vuole per chiedere perdono per un torto che si sa di non avere?” Lasciò il discorso in sospeso, e con esso il respiro di Vibeke. “Io ci tengo a sistemare le cose con te, Vi, e se l’unico modo che ho per riuscirci è scusarmi, allora… Ti chiedo di perdonarmi, se puoi.”

La cosa più folle, di tutto ciò, era che Vibeke sentiva di credergli.

Improvvisamente, nel mezzo della frastornazione, ricordò uno stralcio di conversazione avuta con Gustav tempo prima riguardo ad un litigio tra Georg e Nicole.

“Io al suo posto non mi sarei mai piegata a chiedere scusa, soprattutto per una colpa non mia.”

“Forse non hai ancora trovato la persona per cui valga la pena di farlo.”

Tom le stava chiedendo scusa, anche se si era sempre animatamente dichiarato non colpevole di fronte alle accuse che lei gli aveva rivolto.

Tom, che non chiedeva mai scusa a nessuno, stava chiedendo il suo perdono per qualcosa che forse davvero non aveva mai fatto.

Tom si stava addossando una colpa che non aveva, solo per riuscire a fare pace con lei.

Solo per lei.

“Non servono queste patetiche scuse-placebo.” Gli disse pacata.

“Vi, per favore…” la pregò lui.

Lei, per la prima volta da giorni, sorrise.

“Ti credo, Kaulitz.”

“Davvero?”

“Sì.”

Il volto di Tom si illuminò.

“Grazie. Davvero, per me era importante mettere tutto a posto.”

“Ho detto che ti credo, non che è tutto a posto.” Lo frenò lei.

La gioia sul volto di Tom di dissolse.

“Ma…”

Vibeke non sapeva più nemmeno lei cosa dire. Da un lato, la voglia irrefrenabile di rimettere tutto a posto; dall’altro, l’aspra consapevolezza che rimettere insieme i cocci avrebbe significato per lei una lunga strada accidentata da percorrere.

“Le persone come te e me non stanno insieme.” Mormorò. Provò quasi compassione per Tom, vedendo riflessa in lui tutta quell’ansia. “Andava bene finché riuscivamo a fare finta che fosse solo una storiella futile, tanto per fare, ma adesso…” Si tirò indietro i capelli, temporeggiando. Quello che stava per dire avrebbe fatto più male a lei che a lui. “Tu cerchi cose che io non posso darti. Sì, è vero, forse provi qualcosa per me, ma non è abbastanza. Io non sono abbastanza. E non voglio stare con te mentre tu cerchi quello che io non ho in altre ragazze. Sono quella che sono, Kaulitz, con i miei difetti e le mie lacune, e non sono abbastanza cinica e disillusa, purtroppo, da riuscire ad accettare di non essere tutto ciò che hai sempre voluto.”

Tom non fiatò. Era rimasto completamente indifferente a quelle parole, o, se così non era, non lo dava a vedere. Vibeke pensò che probabilmente loro due non si erano mai parlati con tanta calma e sincerità come ora.

“E va bene,” esordì Tom,dopo una discreta pausa. “Sì, è vero, non lo sei. Non sei la ragazza che ho sempre voluto, nemmeno lontanamente. Lo ammetto.” Una spina di dolore punse il cuore di Vibeke. “Sei abissalmente diversa da qualunque altra ragazza io abbia mai desiderato, e forse sarà per questo che, anche dopo averti avuta, ti voglio ancora più di prima.”

Flash di momenti passati con lui balenarono nella mente di Vibeke. I suoi baci, le sue carezze, tutte le volte che avevano fatto l’amore… Un crescendo di intensità e sensazioni in diametrale antitesi con quanto aveva appena detto, e perfettamente coerente, invece, con quanto appena detto da Tom.

“Il fatto è che non me ne frega niente, Vi.” Continuò lui. “Chi se ne frega se sei alta, se adoro le tue tette e il tuo fondoschiena, se i tuoi occhi mi paralizzano. Credi che me ne importi qualcosa se sei bella? Ne ho incontrate un’infinità, di belle ragazze, e in tutta sincerità anche di più belle di te. Eppure tu… Quando penso a te – quando mi manchi – non è al tuo corpo che penso. È al bene che mi fai.”

Ragazzino immaturo e smarrito: uno, Vibeke agguerrita ed ostile: zero, ghignò la perfida vocina che dimorava nelle profondità della coscienza di Vibeke.

“Vi, seriamente…” aggiunse ancora Tom, mentre lei ancora non riusciva a muoversi. “So di non essere perfetto… Come persona, ma soprattutto come compagno…”

“Dire che non sei perfetto non ti sembra un eufemismo un tantino eccessivo?” interloquì lei. “Sei uno stronzo egocentrico, egoista, permaloso, narcisista, orgoglioso, cocciuto e menefreghista, con allucinanti complessi di inferiorità che non sai più come nascondere. E so che non potrei aspettarmi rose rosse e cioccolatini, da te, né cene galanti, né lunghe passeggiate notturne mano nella mano, e nemmeno parole dolci sussurrate nell’orecchio…” Finalmente, anche lei prese il proprio Baileys e lo vuotò tutto d’un colpo, poi restituì a Tom la piena attenzione. “È per questo che mi piaci.” Gli buttò lì con casualità, poi gli elargì un piccolo sorriso rilassato. “Sei la persona più incongruentemente adatta a me che io abbia mai conosciuto”

“Quindi ci stai?” fece Tom, fiducioso, sporgendosi leggermente in avanti.

Vibeke inarcò un sopracciglio ed incrociò le braccia.

“Insomma,” Tom si schiarì la gola. “Non mi è mai capitata una cosa così… Così. Non so come ci si comporta, non so cosa bisogna fare e come, e… So già che sbaglierò un milione di volte e ti farò incazzare a morte, ma se… Se tu potessi avere la pazienza di farmici abituare e di… Di lasciarmi imparare… Capisci?”

Sì, capiva.

Non solo capiva, ma vedere Tom così in difficoltà – insicuro, quasi timido, che balbettava con quell’adorabile imbarazzo – le fece capire che qualcosa c’era, e senza forse, sotto a quella complicata rosa di eventi che li aveva portati fin lì.

“D’accordo, Kaulitz, sarò paziente. Ci proverò, perlomeno. Ma esigo un serio impegno anche da parte tua.”

“Te lo prometto.”

“Per ogni cazzata, ci sarà un prezzo da pagare.”

Tom sbiancò.

“Un prezzo?”

“Io sacrifico la mia preziosa pazienza. Tu ci metti i tuoi preziosi rasta. Mi pare un buon deterrente, non trovi?”

“Ma così resterò calvo entro la prossima settimana!”

“Prendere o lasciare.”

Tom non disse altro. Si limitò a fissarla con attenzione, quasi stesse cercando di capire se si trattasse di uno scherzo.

Un sospiro sconfortato già aleggiava sulle labbra di Vibeke – no, lui non avrebbe mai accettato delle condizioni simili, e ancor meno le avrebbe capite – quando improvvisamente Tom si alzò in piedi e, senza mezza parola, ma con un’aria risoluta, le voltò le spalle e si diresse disinvoltamente verso il bancone.

Ma che diavolo…?

Basita, Vibeke lo guardò dire qualcosa alla barista, la quale annuì, voltandosi per un secondo, per poi tornare a porgergli qualcosa. Tom ringraziò. Vibeke non comprese che cosa la donna gli avesse dato finché non lo vide impugnare lo strumento lucente e prendersi un dreaklock biondo tra le dita, sfilandolo dalla coda.

Non le lasciò nemmeno in tempo di stupirsi: un taglio netto e deciso, vicino alla radice, e il dreadlock si staccò, ricadendogli in mano.

Tom ringraziò nuovamente la sconvolta barista e le restituì le forbici, poi, con assoluta naturalezza, ritornò baldanzosamente al tavolo e consegnò il rasta a Vibeke.

“Ecco qui,” disse, rimettendosi a sedere. “Tutto tuo.”

Era calmo. Era rilassato. Era soddisfatto. E aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.

“Kaulitz,” Vibeke sembrava a corto di commenti. “Hai ringraziato la barista.”

“Sì.”

“Due volte!”

“Sì. E ho anche detto ‘per favore’ quando le ho chiesto le forbici.”

“Non ci credo…”

Tom fece subito il permaloso:

“Chiedilo a lei!”

“Mi fido.” Rise Vibeke. “Ho solo un’ultima domanda,” disse infine, squadrandolo da cima a fondo. “Cosa ci fai conciato così?”

Lui assunse un cipiglio evasivo.

“Mi darai del patetico.”

“Tranquillo, niente di nuovo.”

Tom sollevò una mano e se la sfregò sulla bocca.

“Lo vuoi sapere sul serio?”

Vibeke scrollò le spalle.

“Forse no, ma la curiosità e la voglia di riderti in faccia stravincono su tutto.”

“Me la stai ancora facendo pagare, vero?”

“E continuerò fino a tempo indeterminato.”

“Sei perfida.”

“Avanti, Kaulitz, confessa.”

“E va bene.” Si arrese Tom. “Hai detto una cosa a San Valentino, quando hai visto Georg vestito così per Nicole… Ricordi?”

Ricordava. Eccome se ricordava.

“Solo l’amore può far impazzire un uomo a tal punto da vestirsi in quel modo spontaneamente.”

No. Non poteva averlo fatto per quello. Non poteva essere così pazzo da…

Ma Tom abbassò lo sguardo sconfitto e visibilmente a disagio, e a quel punto fu indubbio che fosse effettivamente così pazzo, e Vibeke si sentì in dovere di farglielo notare.

“Sei un pazzo, Kaulitz.”

Tom sorrise.

“Lo siamo tutti e due, o non saremmo qui.”

Indubbiamente, era una grande verità.

“Già.”

“Allora posso dire a David che può riprendere a mangiare e dormire perché abbiamo un tecnico delle luci?” chiese Tom, sornione.

“Puoi dire a David che può riprendere a mangiare e dormire perché avete un tecnico delle luci.” Gli concesse lei.

Strinse il rasta e rammentò a se stessa che ne sarebbero seguiti molti altri, a quello, ma, per quanto la riguardava, era già un grande passo.

 

***

 

Devo ricordarmi di far erigere un monumento a quei disgraziati, pensava Tom, intento a persuadere se stesso che quanto stava accadendo era reale e concreto.

Ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta davvero.

Vibeke continuava a rigirarsi il rasta tra le dita, compiaciuta come una bambina che aveva ricevuto il regalo di compleanno dei suoi sogni. Tutto sommato bastava poco per farla contenta.

E anche lui era contento di vederla così. Era stato sufficiente un sorriso per farla apparire abissalmente diversa da come era stata poco prima.

Dopo un po’ Tom si stancò di starsene lì a fare niente. Euforico com’era, aveva voglia di uscire e andare a mostrare ai ragazzi il risultato della sua ardua impresa. Avrebbe offerto la cena a tutti, più tardi.

“Avanti,” disse, alzandosi in piedi. “Leviamo le tende, mi sono rotto di questo posto.”

Porse una mano a Vibeke e lei la accolse, alzandosi a sua volta.

“Eravamo qui da neanche mezzora.”

“Fin troppo.”

Uscirono. Tom la teneva per mano, felice di ritrovare la sensazione della sua pelle morbida e fredda contro la propria.

C’era molta gente in giro, tra cui un considerevole numero di ragazzine, così Vibeke lo aveva costretto a mettersi in testa la propria felpa, e ora lui se ne andava in giro con una sottospecie di velo nero a coprirgli i rasta e oscurargli il viso, e la cosa più pazzesca era che non riusciva a smettere di ridere. Era una fortuna che si fosse conciato in quel modo: se fosse stato vestito alla solita maniera, sarebbe stato comunque riconoscibilissimo.

Raggiunsero l’Audi in pochi minuti. Lei, come suo solito, era arrivata in centro a piedi.

Tom aveva parcheggiato dietro a un supermercato, perché, se per caso le cose fossero andate male, avrebbe avuto bisogno di un supporto ad alto tenore di zuccheri, prima di rimettersi alla guida. Erano tanti i dettagli, anche se recessivi, in cui somigliava a Bill.

Tom aprì l’auto e la prima cosa che fece fu sbarazzarsi di quell’insopportabile copricapo che Vibeke gli aveva messo addosso. Aprì a portiera e gettò la felpa sul sedile, poi si voltò verso Vibeke. Le appoggiò una mano su un fianco e con l’altra le spostò i capelli dietro all’orecchio.

“Migliaia di ragazze in tutto il mondo piangeranno per questo.” Le sussurrò, sfiorandole la punta del naso con le labbra. “Forse qualcuna delle più fanatiche si suiciderà.”

La schiena appoggiata all’Audi, Vibeke tentò di dissimulare una breve risata sommessa. Gli accarezzò il viso con entrambe le mani, dolcemente, osservandolo con affetto.

Tom si sentì straordinariamente importante.

“Stai per caso cercando di compiacermi?”

“Si nota?” ridacchiò lui.

Lei finse di soppesare la questione.

“Sai fare di meglio.”

“Sei una stronza ingrata!”

“Ecco, intendevo proprio questo!”

Oh, Vi…

Tom non riusciva a trattenere l’entusiasmo. Riaverla con sé gli faceva un effetto inebriante, lo sovreccitava a livelli impensabili. In quel momento si ripromise che si sarebbe sempre ricordato di quello che aveva passato in quei giorni, per evitare in ogni modo che dovesse capitare una seconda volta.

“Allora, come funziona?” si informò. “A questo punto dovremmo baciarci e vivere per sempre felici e contenti, no?”

Vibeke fece una faccia scettica.

“Per il tuo compleanno ti regalo un po’ di sano realismo, che ne dici?”

“Saltiamo il bacio e il vivere felici e contenti, allora.” Propose Tom, decisamente favorevole alla prospettiva. “Passiamo direttamente al livello successivo.”

Lei lo colpì al petto.

“Maiale.”

Lui le rivolse un sorriso da angelo.

“Ma tu mi ami così.”

“Mai detta una stronzata simile.” Dissentì Vibeke.

“Oh, sì, invece.” La corresse Tom, avvicinandosi ulteriormente. “Tra le righe.”

A Vibeke sfuggì un’altra piccola risata.

“Ma sta’ zitto!”

Tom fece spallucce.

“Ok.”

Il suo viso era ormai a un soffio da quello di lei. Erano giorni che non la baciava e aveva abbondantemente superato ogni limite di resistenza. Incapace di attendere oltre, la attirò verso di sé e le loro labbra collisero in un bacio incontaminato da qualsiasi tipo di lussuria. Erano solo grati di essere di nuovo insieme. Tom non vedeva l’ora di ricominciare a bisticciare con lei.

Era morbida e amarognola come la ricordava lui, cedevole e mansueta nelle sue braccia. Per niente al mondo la avrebbe più lasciata andare via.

Ad un tratto, però, smise di baciarla.

“Vi?” mormorò, staccandosi appena dalle sue labbra.

“Mmh?” rispose lei, in un sussurro arrochito.

Tom cercò di sollevarsi, ma non ce la fece. L’anellino destro che lei aveva al labbro era rimasto incastrato nel suo piercing.

“Devi proprio toglierti questi dannati cosi.”

 

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Note: ed eccoci qui, miracolosamente, con il famigerato capitolo ventiquattro! Il titolo è tratto dall'omonima canzone degli Smiths, mentre l'altra citata, quella che Vibeke ascolta per strada, è Bullet, dei the Rasmus. Questo capitolo è il penultimo, miei cari. Il prossimo sarà l’epilogo, dopodiché The Truth Beneath The Rose sarà ufficialmente conclusa.

Ad oggi, ci sono 40 persone che hanno la storia tra le seguite, 246 che la hanno tra le preferite, e 108 che hanno me tra gli autori preferiti. Non so se potete immaginare quanto questo significhi per me, ma, credetemi, è veramente tanto.

Ora che ci avviciniamo alla fine, mi piacerebbe che tutti voi che state seguendo e, spero, apprezzando la storia lasciate un segno del vostro passaggio, qualche parola che racconti il perché la storia vi piace – o non vi piace, in caso. Vorrei davvero che i miei lettori si facessero sentire tutti, almeno una volta, per concludere degnamente una storia che per me è stata splendida e difficile al tempo stesso, sia nella stesura fisica che nell’analisi più profonda.

Vi preannuncio che alla fine del prossimo capitolo, l’ultimo, ci sarà una sorpresa speciale per voi, creata dalla mia indispensabile Lady Vibeke con tanta pazienza, dedizione e affetto. Vi piacerà com’è piaciuta a me, lo so già. J

Per ora voglio solo ringraziare nuovamente tutti voi, perché sarò anche stata io a scrivere The Truth, ma voi l’avete creata con me, mi avete aiutata a darle vita, a migliorarla, a farla conoscere anche a chi, diversamente dalla maggior parte di noi, ama i nostri adorabili crucchi alla follia.

 

Grazie, grazie e ancora grazie.

 

Vi devo tutto.

 

 

P.S. Nel capitolo precedente non ho specificato una cosa: il titolo, What Lies Beneath, è lo stesso del prossimo album di Dio Tarja Turunen. In realtà l’ho scoperto solo dopo, ma mi è parsa una buffa coincidenza, quindi sempre meglio specificare. ^^

 

   
 
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