Salve
a tutti!
Come
vedete, nonostante
il mostruoso ritardo, non sono scomparso. Sfortunatamente, il mio
computer ha
deciso di tirare le cuoia proprio in questi giorni, e non ho avuto modo
di
pubblicare più nulla. In ogni caso, non ho smesso di
scrivere, e spero da ora
di riuscire a recuperare un po' di costanza, se la tecnologia
smetterà di
essermi ostile.
Vorrei
ringraziare chi
mi ha fino ad ora commentato, chiedendo se possibile anche agli altri
di
dedicare un paio di minuti a farmi sapere la vostra opinione su
ciò che ho
scritto.
Detto questo, vi auguro una buona lettura del sesto capitolo!
AVVISO:
in questo capitolo ci sarà un po' di turpiloquio; se questo
vi da fastidio, non continuate a leggere.
CAPITOLO
SEI
Inevitabilmente,
nessuno di noi dormì un minuto in quella nottata: tutti
restammo in Sala
Comune, mentre il castello veniva perquisito. Un'azione inutile, visto
che alle
prime luci dell'alba la McGrannitt tornò da noi a dirci che
Black era nuovamente
riuscito a scappare. Intanto, le ipotesi sul modo nel quale fosse
entrato nel
castello si erano sprecate, mentre Ron era improvvisamente diventato
una
celebrità, con tutta la Casa impegnata a chiedergli cosa
fosse accaduto durante
la notte. Nel trambusto, molti si scordarono, almeno inizialmente, di
me, anche
se Mary e Ginny vennero a chiedermi come stavo, ed entrambe mi dissero
che ero
stato molto coraggioso ad affrontare Black. Avevo qualche dubbio sulla
quantità
di coraggio richiesta per affrontare un uomo armato di coltello avendo
una
bacchetta magica, continuava a risuonarmi in testa la vecchia frase del
film
"Per un pugno di dollari" su pistole e fucili, però mi tenni
il
complimento con un sorriso.
"Chissà
perché è scappato..." chiese ad un certo punto
Dean attirando la mia
attenzione e quella della dozzina di persone che ci circondavano.
"Voglio
dire... - continuò - Dopo che Ron ha urlato,
perché se l'è data a gambe?
Avrebbe potuto metterlo a tacere e continuare a cercare Harry, se
è davvero lui
che vuole...".
Ormai
non era più un segreto che il nostro compagno di stanza era
in cima alla lista
nera del killer. Il diretto interessato scosse la testa: "Forse sapeva
che
sarebbe stato difficile uscire dal castello una volta che l'allarme era
stato
dato. Avrebbe dovuto uccidere tutta la Casa per riuscire a raggiungere
il buco
nel ritratto, per poi trovarsi davanti gli insegnanti. Oltretutto, Josh
era
sveglio, ed aveva la bacchetta in mano, mentre lui aveva solo un
coltello. A
quel punto, fuggire era la sola opzione, avrebbe rischiato di farsi
catturare".
Erano
discorsi che avevano senso, in realtà, ma non quanto
sembrava al primo ascolto.
Mentre la discussione continuava, io rimasi seduto su una poltrona
vicino al
fuoco, sorseggiando una Burrobirra avanzata dalla festa del giorno
prima. Era
un po' svampita, ma me ne accorsi a stento, avevo la mente impegnata da
una
tale quantità di pensieri che avrei potuto bere del sapone
senza rendermene
conto.
La
risposta di Harry non era stupida, tutt'altro. Il problema, secondo me,
era
nella domanda. Era quella sbagliata. Il problema non era
perché Black era
scappato, ma perché si era messo nella condizione di dover
scappare. Perché si
era messo a studiare con attenzione i vari letti? Black era un
assassino plurimo,
e in quella stanza c'erano sei ragazzini disarmati ed addormentati.
Perché si
era messo a cercare Harry con tanta attenzione? Dodici anni prima non
si era
preoccupato del concetto di 'danni collaterali' quando aveva fatto
saltare in
aria un'intera strada per eliminare Peter Minus. Avrebbe potuto
tagliare la
gola a tutto il dormitorio, avendo così la certezza di aver
ucciso anche Harry.
Perché si era fatto tanti problemi? E poi: in quella stanza
c'erano sei
bacchette magiche, probabilmente tutte lasciate senza troppa attenzione
sopra i
comodini. Perché non ne aveva semplicemente presa una e
fatto saltare in aria
l'intero dormitorio? Avrebbe risolto tutto in pochi secondi, creando
anche un
ottimo diversivo per la fuga. Non aveva molto senso, anzi, non ne aveva
quasi
per niente.
Per
me che avevo visto in diretta l'atteggiamento di Black,
però, c'era qualcosa di
ancora meno sensato. Presumibilmente, il suo bersaglio era Harry, e
nessuno con
una vista appena superiore a quella di una talpa avrebbe mai potuto
scambiare
un Weasley per un Potter. Appena data un'occhiata al letto di Ron,
perciò,
anche se per qualche misteriosa ragione Black avesse deciso di
lasciarlo in
vita, sarebbe dovuto passare oltre e controllare gli altri letti.
Invece,
quando mi ero svegliato, era intento ad analizzarlo con estrema
attenzione, e
ci era rimasto per quasi un minuto prima che lui si svegliasse.
Più che
qualcuno, mi aveva dato la sensazione di stare cercando qualcosa. Ma
cosa
Merlino poteva volere uno come Black da Ron?
Questa
volta, più che una semplice scossa, quello che
attraversò la mia testa fu una
vera e propria folgorazione, impossibile da ignorare o mettere da
parte: il
topo! Era quello che stava cercando!
Era
un'assurdità, lo sapevo fin troppo bene: perché
un assassino evaso dal carcere
avrebbe dovuto intrufolarsi ad Hogwarts per cercare un vecchio animale
da
compagnia spelacchiato? Eppure ne ero assurdamente sicuro, o per meglio
dire,
lo era il mio "Senso di Ragno": Black non voleva Harry, stava
cercando Crosta. Era la sola spiegazione per tutto quel tempo perso ad
analizzare il mio compagno di stanza: stava cercando di capire se
stesse
dormendo nel suo letto. Non dissi nulla a nessuno, naturalmente, mi
avrebbero
preso per pazzo, perché come al solito il mio strano potere
mi permetteva di
vedere il 'cosa', ma non il 'perché'; mi dava un elemento,
non l'intero schema.
Eppure questa volta non avevo il minimo dubbio che fosse la
verità: Black
voleva il topo di Ron.
Nei
giorni successivi la sorveglianza venne incrementata a livelli mai
visti prima
ad Hogwarts, in particolare perché nessuno era riuscito a
comprendere in che
modo Black fosse riuscito ad entrare nella scuola, ma nessuno
riuscì a venire a
capo della questione. Il povero Neville, intanto, era letteralmente
caduto in
disgrazia: la McGrannitt gli aveva proibito qualsiasi futura gita ad
Hogsmeade,
ed aveva proibito a tutti di rivelargli la parola d'ordine per entrare
nella
Sala Comune, al punto che doveva aspettare che qualcuno lo facesse
passare. Mi
faceva una gran pena, al punto che in quei giorni cercai, per quanto
possibile,
di stargli vicino, non lasciandolo ad aspettare davanti all'appena
restaurata
Signora Grassa.
Il
giorno dopo l'incursione di Black, Silente mi convocò nel
suo ufficio per
chiedermi la mia versione dell'accaduto. Come molte altre cose,
l'ufficio del
Preside, situato in cima ad una lunga scala a chiocciola, si
rivelò molto
simile a come me lo ero sempre immaginato: una grande stanza di pietra,
con le
pareti occupate da librerie e da scaffali stracarichi di oggetti, molti
dei
quali sembravano di cristallo, con un immenso camino su uno dei lati.
Sopra ai
mobili, svettavano decine di ritratti di maghi e streghe: i vecchi
presidi
della scuola. Silente mi attendeva seduto dietro la sua scrivania,
osservandomi
con i penetranti occhi azzurri da sopra gli occhiali a mezzaluna. Non
riuscii a
reprimere un piccolo brivido: per quanto apparisse incredibilmente
anziano, non
avevo mai avvertito una simile forza provenire da una persona. Accanto
alla
scrivania, appollaiata sul suo trespolo, la splendida fenice Fanny mi
osservava, vagamente incuriosita.
"Benvenuto,
Joshua - mi disse il Preside con un sorriso, indicandomi una poltrona
di chintz
dall'aria comoda di fronte a lui - Prego, accomodati. Vuoi una
caramella? - mi
chiese, aprendo un barattolo pieno di fritzlemon.
"Grazie,
Signore, molto volentieri" risposi, sedendomi e prendendo un dolcetto.
Dovetti faticare per reprimere un ghigno: la fissazione di Silente per
i
dolcetti, e in particolare per quel tipo di caramelle al limone, era
sempre
stata una delle cose che mi avevano divertito di più nei
libri. Personalmente,
non avevo mai assaggiato le fritzlemon, ma le trovai molto gustose.
La
mia faccia doveva essere particolarmente eloquente, perché
Silente si mise a
ridere: "Sono felice che ti piacciano. In tanti anni di carriera sono
state pochissime le persone che hanno accettato quando ho offerto loro
queste
caramelle, e non sono mai riuscito a spiegarmi la ragione!".
Non
riuscii a trattenere una piccola risata: un indefinibile punto
oscillante tra
'matto' e 'geniale' era la descrizione perfetta per Silente!
Improvvisamente
la serietà tornò sul suo volto, con una
velocità che mi colse di sorpresa:
"Sarebbe bello se potessimo spendere un po' di tempo a parlare di
dolciumi, ma, ahimè, temo che questioni più
urgenti richiedano la mia
attenzione, e in questo ho bisogno della tua assistenza, Joshua: ti
chiedo, per
favore, di raccontarmi tutto quello che è successo ieri
notte, senza omettere
alcun particolare".
Fu
esattamente quello che feci: gli riferii ogni cosa, da quando avevo
aperto gli
occhi a quando la McGrannitt era piombata nel Dormitorio trovandosi
puntate
contro le bacchette di mezza Casa. L'ultimo fatto portò
nuovamente un sorriso
sul volto del Preside: "Per fortuna avete deciso di dare una seconda
occhiata prima di lanciare incantesimi, altrimenti in questo momento
starei
vegliando la Professoressa in infermeria - poi aggiunse con maggiore
serietà:
"Invero, devo farti i miei complimenti, Joshua: hai alzato la tua
bacchetta contro un mago adulto, per di più estremamente
pericoloso, per difendere
i tuoi amici - mi fissò con i suoi occhi penetranti - Non
sono molti i
tredicenni che avrebbero scelto di sfidare Sirius Black, anche se
armato solo
di un pugnale".
Non
riuscii ad evitare di sentirmi a disagio: Silente era una delle persone
più piacevoli
che avessi mai conosciuto, ma il suo sguardo sembrava scavarmi
nell'anima. Mi
dava la sensazione di sapere più di quanto desse a vedere.
Probabilmente in
quel momento era solo paranoia: Silente non poteva aver capito in quale
assurdo
pasticcio mi trovavo, non poteva sapere che dietro il giovane Joshua
Carter
c’era ben più di quello che lui o chiunque altro
potesse pensare. Certamente,
però, si era mentalmente annotato il mio comportamento nel
confronto con Black,
certo non tipico di un tredicenne.
“C’è
altro che vorresti dirmi, Joshua?” aggiunse il Preside,
intrecciando le dita
davanti al volto.
Ebbi
un piccolo sussulto: era praticamente la stessa frase che aveva detto a
Harry
nel secondo libro… merda, al secondo anno! Era assurdo che
continuassi a pensare
in termini di libri quando stavo vivendo di persona quella folle
avventura! Per
un istante fui veramente tentato di rivelargli quello che pensavo
davvero, che Sirius
Black stesse dando la caccia al topo Crosta, ma mi bloccai
all’ultimo istante:
dire che non avevo prove era riduttivo, non avevo nemmeno uno straccio
di
indizio per sostenere la mia teoria. Per dire al Preside del topo avrei
dovuto
parlare del mio ‘Senso di Ragno’, e per rivelare
quello avrei dovuto raccontare
le mie folli origini. ‘Davvero molto interessante la tua
teoria, Joshua. Come
sei giunto a questa conclusione?’. ‘Beh, vede,
Preside, la verità è che io
arrivo da un altro mondo dove lei, Harry Potter e tutti gli altri non
siete
altro che personaggi di una saga letteraria che io ho letto una mezza
dozzina
di volte, ma poiché nel viaggio ho perso quasi completamente
la memoria, mi
devo accontentare di piccoli flash del futuro, che ho battezzato Senso
di Ragno
prendendo il nome da un fumetto!’. Un’ottima
premessa per essere preso sul
serio! No, non potevo dire tutto. Ma potevo provare a mettere Silente
sulla
strada giusta.
“Non
esattamente qualcosa da dire, Preside, però… ho
notato qualcosa di strano nel
comportamento di Black. Voglio dire… quando è
stato arrestato ha dimostrato di
non farsi nessun problema ad uccidere persone che non
c’entravano nulla. Per
quello che ne sapeva lui, aveva davanti sei studenti addormentati e
disarmati.Nel
dormitorio ormai sappiamo tutti che sta dando la caccia a Harry, ma
avrebbe
potuto facilmente tagliare la gola a tutti, e sarebbe stato certo di
avere
ucciso anche lui. Perché invece ha perso tanto tempo per
cercarlo? Perché si è
fatto tanti scrupoli ad ammazzarci?”.
“Già,
perché?” chiese Silente, apparentemente
più a se stesso che a me, continuando a
fissare davanti a se. Sembrava completamente perso nei suoi pensieri,
mi
sembrava improbabile addirittura che in quel momento mi stesse vedendo.
“Non
è tutto, Signore – continuai – Ho notato
qualcosa mentre cercavo di afferrare
la mia bacchetta. Black stava controllando Ron Weasley, ma nessuno
potrebbe mai
scambiarlo per Harry. Eppure, tra il mio risveglio e l’urlo
di Ron, è passato
almeno un minuto. Non è possibile che gli sia servito tanto
tempo per capire
che non era il suo bersaglio. Io… è solo una
sensazione ma… credo che più che
qualcuno stesse cercando qualcosa”.
Silente
non rispose subito: rimase in silenzio, osservando il vuoto davanti a
se, poi
mi disse: “Ragioni in modo analitico, Joshua, e in maniera
sorprendentemente matura
per la tua età. Ti prometto che dedicherò tutta
la mia attenzione a ciò che mi
hai appena detto. Non voglio però rubarti tutta la domenica.
Buona giornata,
Joshua”.
Compresi
che il colloquio era finito e mi alzai: “Buona giornata,
Professore”.
Il
pensiero di Crosta non volle saperne di uscire dalla mia testa nei
giorni
successivi all’attacco di Black. Ci pensavo a lezione, ci
pensavo nei corridoi,
ci riflettevo ai pasti e perfino in bagno. Il topo era
l’ultima immagine che
vedevo prima di andare a letto e la prima cosa che mi saltava in mente
non
appena mi svegliavo. Era un’idea che non aveva alcun senso
logico, lo sapevo
bene: che diavolo poteva volere uno come Black da un vecchio animale
domestico?
Cosa aveva di particolare Crosta? E poi: era veramente morto? Era
sparito sul
serio trai succhi gastrici di Grattastinchi?
‘Quand’è
che un topo non è un topo?’ continuavo a chiedermi
ad ogni ora. Sapevo che mi
stava sfuggendo qualcosa di fondamentale. Mi sarei spremuto il
cervello, se
fosse stato possibile, ma per quanto pensassi non c’era verso
di farmi tornare
in mente qualcosa in più su quella situazione. Era molto
deprimente: sapevo che
l’informazione che stavo cercando con tanta disperazione era
lì, dietro la
barriera costruita nella mia mente, ma non c’era modo di
raggiungerla.
Ero
talmente pensieroso che finii per allontanarmi dagli altri: passavo
gran parte
del tempo isolato, mangiavo da solo e sedevo in Sala Comune nella
poltrona più
lontana dal centro, sempre riflettendo a vuoto sul problema. Dean si
era
convinto che soffrissi di una sorta di stress post traumatico, mentre
Ginny era
arrivata a minacciarmi di affatturarmi se non avessi ricominciato a
comportarmi
come prima. Mary, dal canto suo, sembrava molto dispiaciuta del fatto
che mi
stessi chiudendo sempre più in me stesso. Trovavo veramente
brutto ferirla, avevo
iniziato a volere molto bene alla dolce ragazzina, ma non riuscivo a
fare
altrimenti.
Perfino
mentre camminavo procedevo praticamente in automatico, e per questo
motivo, la
domenica successiva, mentre percorrevo un corridoio del secondo piano,
non mi
resi conto di chi avevo davanti finché non sentii una voce
sgradevole
apostrofarmi: “Ma guarda! Sei ancora in questa scuola,
Yankee?”.
Oh,
fantastico! Ci mancava solo lui! Era come avere un prurito impossibile
da
grattare!
Mi
voltai: appoggiato al muro, Nott mi fissava con un ghigno da iena
ridens.
Insieme a lui c’erano due ragazzi di Serpeverde che conoscevo
a stento e che mi
sembrava si chiamassero Vaisey e Harper, due bulletti con il cervello
di una
bustina di the, che sembravano pronti a dargli manforte.
Dopo
il nostro scontro di novembre, Nott non aveva perso nessuna occasione
per
insultarmi e deridermi, cercando di suscitare una mia reazione. Da
parte mia,
per essere un italiano bloccato nel corpo di un americano, mi ero
dimostrato un
ottimo esempio di stoicismo inglese: a parte qualche risposta
tagliente, ero
riuscito a trattenermi dall’utilizzare la violenza, nella
speranza che si
stufasse e decidesse di lasciarmi in pace. Fino a quel momento,
però, non aveva
funzionato molto bene.
“Ragazzi,
ammirate il grande eroe di Hogwarts, il mitico guerriero che ha messo
in fuga
il terribile Sirius Black! – continuò Nott con
voce magniloquente – Ci faresti
un autografo, Carter?”.
“Perché
ti sia utile un autografo dovresti essere almeno capace di leggere,
Nott –
risposi con una per niente mascherata nota di disprezzo –
Ora, se non ti
dispiace, ho molto di meglio da fare che stare ad ascoltarti”.
“Ma
prego, non sia mai che ti faccia perdere troppo del tuo prezioso
tempo– disse
Nott con voce perfida mentre mi voltavo per andarmene –
Prima, però, c'è una
cosa che volevo chiederti da un po': esattamente, quanto è
orrenda tua madre?”
Mi
bloccai, sentendomi come se mi fosse appena stato tirato uno schiaffo:
"Come?".
Nello
sguardo di Nott apparve un lampo di trionfo, facendomi capire che avevo
abboccato all'amo che lui mi aveva lanciato: "Sai, un uccellino mi ha
raccontato che i tuoi genitori hanno divorziato perché tuo
padre saltava da un
letto all'altro come uno Snaso impazzito. Non posso fare a meno di
pensare che
tua madre sia un vero e proprio mostro, per spingerlo a scoparsi ogni
donna che
incrociava la sua strada!".
Rimasi
come pietrificato, sentendo la rabbia montare come un'onda di marea.
Una vocina
in fondo alla mia mente provò inutilmente a ricordarmi che
quella che Nott
aveva offeso non era veramente mia madre, ma la scacciai come un
insetto
fastidioso. Anche se non l'avevo mai vista, per Joshua Carter quella
donna era il
centro del mondo, un porto sicuro nella tempesta, me lo dicevano
chiaramente i
suoi ricordi. Non era però tutto: il problema era che anche
gli ‘altri’ ricordi
concordavano con la giusta reazione ad una simile offesa. 'Madre
è l'altro nome
di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli', diceva il
protagonista di un film che avevo amato dall'altra parte, ed avevo
sempre
ritenuto quella frase vera come se fosse stata scolpita nella pietra.
Da
ragazzino avevo rotto il naso ad un compagno che aveva insultato mia
madre in
maniera meno grave di quanto avesse appena fatto Nott. Non potevo
semplicemente
lasciargliela passare liscia. Un sogghigno incurvò la mia
bocca mentre Josh
lasciava, senza che me ne rendessi realmente conto, il posto a Matteo:
avevo
tutte le armi per rispondere a tono, e poi andasse come doveva andare.
Nott
aveva messo di mezzo mio padre, ma visto chi era il suo, non era stata
una
mossa particolarmente intelligente. Il fatto che Joshua Carter non
avesse modo
di sapere nulla del passato di Nott Senior passò
completamente inosservato al
mio io razionale.
"Sai,
in fondo hai ragione - dissi, quasi sorprendendomi nel sentire la nota
di gelo
che aveva invaso la mia voce - Mio padre è un infedele
patologico - li vidi
pronti a farsi una risata, ma li freddai immediatamente -
Però c'è una cosa
importante che vorrei farti presente: preferisco mille volte essere
figlio di
un puttaniere impenitente piuttosto che di un assassino con le mani
lorde di
sangue!".
La
temperatura nel corridoio sembrò improvvisamente essere
calata di una ventina
di gradi.
"Che
cosa hai detto?" mi chiese Nott con un sibilo degno di un cobra.
Avrei
dovuto capire che la situazione stava precipitando (o forse era
già
precipitata?), ma nella vita non ero mai riuscito a individuare il
momento
giusto per zittirmi, e ormai ero lanciato a bomba verso il precipizio:
"Credevo di essere stato chiaro, ma se ne hai proprio bisogno mi
ripeterò:
preferisco avere come padre un uomo-troia che cambia amante come cambia
le
mutande piuttosto che uno sporco Mangiamorte che ha evitato la galera a
forza
di menzogne!".
Mi
voltai per andarmene, ma la mia mente aveva già registrato
lo sguardo omicida
di Nott. Non lo vidi realmente estrarre la bacchetta e puntarmela alla
schiena,
fu più che altro un'intuizione. La mia reazione fu quasi
automatica: infilai la
mano sotto la veste e, come una pistola in una vecchia pellicola
western, la
tirai fuori mentre mi gettavo a terra.
"
Furnunculus!".
Sentii
l'incantesimo passarmi ad un millimetro dal braccio sinistro. Toccai
pesantemente sul pavimento di marmo e rotolai sul fianco. Nott aveva
ancora la
bacchetta puntata, la furia dipinta sul volto. Vaisey e Harper
sembravano
immobilizzati, quasi sorpresi dalla svolta improvvisa che gli eventi
avevano
preso, Quasi senza accorgemene, presi la mira contro Nott prima che
potesse
lanciare un secondo incantesimo e risposi al fuoco: "Depulso!”.
Vidi
la scena quasi come al rallentatore: il raggio dorato lasciò
la mia bacchetta e
centrò in pieno petto il mio avversario. Sembrò
che un bufalo lo avesse
incornato: il mio Incantesimo di Esilio scagliò Nott
indietro di almeno tre
metri, mandandolo a sbattere violentemente contro il muro. Il giovane
Serpeverde scivolò a terra con un gemito, lasciando cadere
la bacchetta e
arpionandosi la parte destra del petto con la mano sinistra.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio quasi irreale: sia io che gli altri due
Serpeverde
rimanemmo a fissare Nott con stupore, increduli per l'effetto avuto dal
mio
incantesimo. Nonostante stesse evidentemente soffrendo, con gli occhi
semichiusi per il dolore, lui cercò di allungare la mano
verso la bacchetta,
nel tentativo di controbattere. Fu abbastanza per risvegliarmi dal
torpore nel
quale sembravo caduto: mi tirai in ginocchio e presi nuovamente la mira.
"Expelliarmus!".
Il
raggio rosso lo colpì al polso quando aveva appena afferrato
la bacchetta: il
bastoncino di legno saltò via con violenza, andando a
rotolare a un paio di
metri di distanza. Stavolta Nott lasciò partire un urlo,
afferrandosi il polso
con l'altra mano.
Fu
abbastanza per risvegliare anche gli altri due, che estrassero a loro
volta le
bacchette mentre io mi rimettevo in piedi: "Questa volta l'hai fatta
grossa, Carter - grugnì Harper, che però non
sembrava essere più del tutto
convinto di quello che stava facendo - Quando avremo finito con te...".
"BASTA
COSI'!".
Mi
voltai tanto velocemente da farmi male al collo: la McGrannitt stava
arrivando
a passo veloce dall'altro lato del corridoio. Credetti di vedere dei
fulmini
partire dai suoi occhi, tanto appariva furiosa.
“In
corridoio… - stava quasi balbettando per la rabbia
– Mai nella mia vita… mai
visto… - si piazzò tra me e i due Serpeverde
ancora in piedi, mentre Nott, pur
sembrando estremamente dolorante e reggendosi il polso danneggiato, mi
guardava
in cagnesco – Spiegatevi!” ringhiò.
“Carter
ci ha aggredito, Professoressa!” urlò
immediatamente Harper con voce velenosa –
Eravamo qui tranquilli, e lui ha iniziato ad insultarci, poi ha
estratto la
bacchetta e ha colpito Nott!”.
Spudorato
bugiardo! La cosa peggiore era che sapevo che l’avrebbero
avuta vinta senza uno
stramaledetto testimone. Il peggio era che non avevo neanche
l’energia per controbattere.
Il mio sguardo continuava a correre verso Nott: lo detestavo con tutto
me
stesso, ma non avevo avuto l’intenzione di colpirlo con tanta
violenza. La
potenza dell’Incantesimo d’Esilio che gli avevo
sparato contro mi aveva
sorpreso non poco: in classe mi ero dimostrato uno studente nella
media, non
avevo mai dimostrato di essere in grado di emettere una simile potenza.
La
McGrannitt si voltò verso di me: “Lei cosa ha da
dire, signor Carter?”.
Scossi
la testa: “Qualsiasi cosa io dica non cambierà le
cose, Professoressa. A che
servirebbe se dicessi che prima mi hanno insultato e poi aggredito alle
spalle,
e che io mi sono limitato a difendermi? E’ la mia parola
contro la loro, e io
sono da solo. Non ci sono testimoni, quindi mi punisca pure”.
Lo
sguardo della McGrannitt era duro, ma in fondo ai suoi occhi vidi una
scintilla
di qualcosa di simile ad un sorriso: “Non esattamente
‘nessun testimone’,
signor Carter – si avvicinò ad un quadro appeso al
muro – Hai visto tutto, Jocelyn?”
chiese la professoressa.
“Assolutamente
sì, Minerva” rispose un’anziana strega
seduta su una poltrona all’interno della
tela.
La
mascella di Harper crollò di qualche centimetro.
“Jocelyn
Williamson –disse la McGrannitt – era
l’insegnante di Trasfigurazione prima del
Professor Silente. Era già in pensione quando sono arrivata
ad Hogwarts, ma ha
tenuto comunque alcune lezioni. Era una grande insegnante, ed una donna
di una
correttezza assoluta. Mi fido ciecamente di lei – si rivolse
nuovamente al
dipinto – Come sono andate le cose?”.
“Il
ragazzo Serpeverde ha insultato pesantemente il Grifondoro e la sua
famiglia –
disse la donna –Lui ha risposto, e l’altro lo ha
aggredito mentre era girato di
spalle. Il Grifondoro si è solo difeso, sia pure con
notevole veemenza”.
“Grazie
mille, Jocelyn – disse la McGrannitt, per poi voltarsi verso
i Serpeverde, che
apparivano stupefatti e orripilati allo stesso tempo – Una
versione decisamente
differente dalla vostra. Dunque… venti punti in meno a lei,
Harper, per la sua
menzogna; dieci a lei, Vaisey, per non averlo contraddetto; e quaranta
al
signor Nott per aver scatenato una rissa in corridoio! – si
avvicinò al mio
avversario, che si stava faticosamente tirando in piedi con
l’aiuto di Harper e
lo controllò brevemente–Vada in infermeria,
potrebbe avere un paio di costole
incrinate e forse un polso slogato. Quando starà meglio
venga nel mio ufficio,
parleremo della sua punizione”.
Nott
sembrava furibondo, ma si trattenne dall’aprire bocca.
Aiutato da Harper e da
Vaisey, stava già avviandosi lungo il corridoio quando venne
bloccato dalla
voce della professoressa: “Ancora un momento, per
favore”.
Lo
sguardo della McGrannitt saettò rapidamente da me alla mia
nemesi: “So
perfettamente che questo non è il vostro primo diverbio, i
professori Vitious e
Piton mi hanno detto che vi siete già scontrati in diverse
occasioni, sia pure
presentandomi versioni molto diverse. Posso assicurarvi però
che questo sarà
l’ultimo dei vostri conflitti, perché se dovesse
di nuovo venirvi l’idea di
battervi nei corridoi vi assicuro che una punizione sarà
l’ultimo dei vostri
problemi”. Le ultime parole della McGrannitt mi ricordarono
un po’ Piton, ma su
Nott ebbero un effetto limitato, almeno a giudicare dallo sguardo di
fuoco che
mi lanciò mentre si dirigeva verso l’infermeria.
Mi accinsi ad andarmene
anch’io.
“Aspetti
un istante, signor Carter”.
Mi
bloccai prima di aver mosso un solo passo.
“Sebbene
comprenda che lei si è difeso, è vero che ha
comunque preso parte alla rissa –
disse la professoressa – Devo forzatamente infliggere anche a
lei dieci punti
di penalità”. Mi fissò per alcuni
secondi, poi il suo sguardo rigido si
addolcì: “Posso comunque comprendere il suo stato
d’animo, e pur non potendo
approvare ciò che ha fatto, devo ammettere che lei ha
coraggio: ha affrontato
da solo tre avversari. Avventato, ma degno di un vero
Grifondoro” e si
allontanò, lasciandomi sul posto.
Impiegai
qualche minuto prima di riuscire a raccogliere l’energia
necessaria a muovermi.
Un turbine di pensieri mi attraversava la testa. Non era stato lo
scontro a
sorprendermi, anche dall’altra parte mi era capitato di
prendere parte a
qualche rissa. No, a colpirmi era stato il mio primo incantesimo.
Mi
guardai le mani, come se avessi potuto trovarvi delle risposte. Non
avevo mai
lanciato un Incantesimo di Esilio fino a quel momento, Vitious in
classe ne
aveva parlato soltanto in teoria. In realtà, lo conoscevo
grazie ad un
videogioco che dall’altra parte avevo letteralmente
consumato. Lì veniva
utilizzato come incantesimo da duello, quindi quando mi ero ritrovato
in una
situazione d’emergenza era stato il primo a venirmi in mente,
e lo avevo
lanciato senza riflettere troppo. Non era però quello il
problema, a colpirmi
era stata la potenza con la quale era uscito: avevo fatto volare Nott
per
diversi metri, e si era fermato solo perché aveva sbattuto
contro il muro! Come
era possibile? Joshua Carter era solo un mago di tredici anni! Non
poteva avere
il potenziale magico necessario a lanciare un incantesimo con una
simile
violenza! Mi appoggiai al muro, pensando alle implicazioni di quello
che era
successo: di che altro potevo essere capace? E che cosa sarebbe
successo se
avessi scelto un incantesimo potenzialmente più pericoloso?
Che
cazzo mi stava succedendo?