Tuesday
Abrahel
Beyond
the threshold
Non si
preoccupò dell’ora, quando suonò il campanello di casa Everald.
Nonostante le cinque del mattino non fossero un orario adatto per le visite,
aveva motivo di credere che nessuno della famiglia stesse dormendo.
Le luci
accese al piano terra lo rendevano palese; dunque attese sulla porta, paziente.
Era una
cosa che andava fatta, anche solo per scrupolo. Un uomo in divisa era
rassicurante fino ad un certo punto, e dopo il fermo scattato su Trent Everald si era pian piano
convinto che parlare con la madre di Eric fosse una mossa necessaria.
Per
sicurezza e tranquillità. L’ultima cosa che voleva, in quell’incarico sempre
più intricato, era dover avere a che fare con le forze dell’ordine. Il
dipartimento di polizia era abbastanza facile da prendere per il culo, ma i
servizi sociali e gli investigatori privati no.
E solo Dio
sapeva se, dopo lo scandalo che sicuramente sarebbe esploso, non avrebbe visto
le facce di qualche agente in borghese aggirarsi nei dintorni del campus. Si
trattava pur sempre di un allenatore di una squadra di basket di ragazzi; tutti
adolescenti che la maggiore età la vedevano ancora con il binocolo...
l’opinione pubblica ci avrebbe ricamato sopra le più incredibili dicerie.
E stava
già accadendo, in realtà. Perché non era concepibile pensare che la storia si
potesse limitare ai presenti in piscina, no: ormai quasi tutti gli studenti
dell’università lo sapevano e sparlavano, ciarlavano come se non ci fosse
niente di più interessante da dirsi. Persino gente che non si incontrava da
anni all’improvviso si telefonava per perpetrare la leggenda dell’accaduto.
Schifosi
umani.
Sospirò
rassegnato, suonando di nuovo.
Aveva
passato l’ultima ora in giro, seguendo e ascoltando le conversazioni di
chiunque avesse a che fare con la vicenda, anche da semplice informatore
amatoriale. Ciò, in poche parole, era equivalso a pedinare mezza città.
Ma alla
fine aveva ottenuto quello che si aspettava: dell’accaduto esistevano già
quattro versioni, una più fantasiosa dell’altra. Si stava trasformando in una
diceria che sarebbe stata ben presto dimenticata, e lui non poteva esserne più
sollevato.
Un rumore
di passi poté sentirsi dall’altra parte della porta, finché questa non si aprì
appena. Gli occhi cerchiati della signora Everald lo
scrutarono intrisi di speranza, che si spense lentamente quando si rese conto
che non era il marito di ritorno, né tantomeno il figlio che ricompariva.
Tuttavia,
nonostante la situazione in cui si ritrovava – e che lui poteva solo sforzarsi
di immaginare – mantenne un certo decoro nel rivolgergli la parola. « Sì? »
domandò, il tono sfibrato di chi non ha chiuso occhio.
«
Buongiorno signora Everald, perdoni l’ora » cominciò
lui. Ponderò bene l’espressione del volto, evitando sorrisi, così come credeva
fosse il caso in certi momenti. « Sono Joshua Archer, un amico di Eric. Volevo avvertirla che... »
« Sai
dov’è? » lo interruppe però lei, aprendo del tutto la porta e precipitandosi
fuori.
Joshua
non indietreggiò, ma nemmeno si aspettava una reazione simile. Magari era
normale, rifletté poi, guardando gli occhi della donna ritrovare un briciolo di
quella speranza persa in precedenza.
Dopotutto
lei era una madre. Una madre che non vedeva il figlio da ventiquattrore buone,
che non lo aveva visto rientrare a casa e che aveva sentito del comportamento
del merito da un uomo in divisa, in una di quelle situazioni sopra citate in
cui di rassicurante, quella divisa, non aveva proprio niente.
Come la prenderà quando lo
ucciderai, suo figlio, Abrahel?
Ignorò
quel pensiero nell’istante medesimo in cui nacque.
« A casa
mia » le rispose pacato; lei gli donò un leggero e quasi invisibile sorriso. Di
sollievo.
« Grazie a
Dio... » le sentì sussurrare, la mani che andarono a chiudersi sulla camicetta
a livello del cuore. « Ma prego, entra pure. Fa freschino
qua fuori... » si prodigò, come se si fosse ricordata solo in quell’istante le
regole della buona educazione.
E forse
era proprio così.
Ringraziò,
seguendo la donna dentro casa. Non l’aveva ancora mai vista se non da fuori, ma
non poteva di certo dire che non avesse l’apparenza accogliente e calorosa.
Il
salotto, visibile sulla destra appena dentro dalla porta, era dipinto di un
rossiccio gradevole, affiancato da mobili in ciliegio – legno dal naturale
colore marron-rosso – e da tendaggi rosa antico. Un
vaso di fiori secchi troneggiava su un mobile sommerso di cornici e portafoto,
mentre al centro della stanza vi era un divano ad angolo, anch’esso di un
colore tendente al rosa salmone.
Seduto su
di esso, in pigiama e con l’aria di un altro che ha passato la notte in bianco,
il fratello minore di Eric lo osservò sorpreso, togliendo gli occhi stanchi e
gonfi dallo schermo del televisore. Il volume era così basso, che praticamente
dall’apparecchio si potevano vedere solo le immagini.
« Chi è
lui? » chiese il ragazzino, e dal tono di voce poté supporre che non avesse più
di quattordici anni.
Abrahel
non rispose, preferendo lasciare la parola alla donna. Non apprezzava
particolarmente parlare così facilmente con persone che non conosceva, a meno
che non ne fosse costretto.
« Lui è Joshua, Alex. E’ un amico di Eric. Adesso è a casa sua, è
venuto ad avvisarci... » spiegò lei con tono dolce, forse sollevato dalle buone
notizie che lei stessa stava ripetendo a voce alta.
Non seppe
riconoscere se l’espressione di Alex Everald fosse di
sollievo o di disprezzo. Probabilmente era entrambe. Ma la cosa che non poté
mancare di notare fu la totale assenza di una risposta, e l’ostinazione con cui
puntò il suo sguardo su di lui senza più distoglierlo.
Abrahel,
per tutta risposta, si rivolse alla donna: « mi scusi ancora per l’ora, ma
avrei bisogno di parlarle » cominciò, assicurandosi la sua attenzione. « Data
la situazione... pensavo che potrei ospitare Eric ancora per un po’. Ero venuto
a chiederle che cosa ne pensava » disse, continuando ad ignorare lo sguardo di
Alex su di sé.
La donna
sobbalzò, ma fu veloce a riprendersi. Probabilmente non le piaceva l’idea di
separarsi per molto tempo dal figlio maggiore, ma Abrahel
fu sicuro che fosse arrivata alla sua stessa conclusione: il fermo
amministrativo della polizia durava ventiquattr’ore,
ciò voleva dire che entro sera Trent Everald sarebbe ritornato a casa. A situazione corrente, e
senza sapere se aveva o no calmato i bollori, non era consigliabile far sì che
l’uomo rivedesse il figlio.
Chiudendo
arrendevolmente gli occhi, la signora annuì. « Sì, sono convinta che sia la
soluzione migliore » ammise, per poi continuare: « vado in camera di Eric a
prendere dei cambi di biancheria, e i suoi libri magari... così può continuare
ad andare a lezione, se... » non terminò la frase. Non ce la fece.
Lo shinigami la osservò salire velocemente le scale,
riservandosi uno sbuffo seccato non appena fu sparita nel pianerottolo.
Non era
neanche in grado di fare la madre e pensare con lucidità. Eppure pensava che
certe facoltà venissero istintive, quando si era in ansia per i figli e per i
mariti.
Evidentemente
non li capiva proprio, gli esseri umani.
Annoiato,
si guardò intorno. La ricerca di qualcosa su cui e con cui scrivere non gli
portò via troppo tempo, in quanto rintracciò nel blocchetto di fogli accanto al
telefono tutto ciò di cui aveva bisogno.
Face
qualche passo indietro, dunque, avvicinandosi all’apparecchio per poi prendere
la penna nera che giaceva lì accanto. Dal tappo mangiato e dagli scarabocchi
nell’angolo in alto della prima pagina ne dedusse che la signora Everald aveva passato una discreta nottataccia accanto al
telefono, aspettando una telefonata sola per riceverne migliaia da amici e
parenti, man mano che la notizia si espandeva a macchia d’olio.
Ignorò la
strana conformazione del tappo, cominciando a scribacchiare sullo stesso
foglietto già scarabocchiato.
« Cosa
stai facendo? » chiese dal divano Alex, in un misto fra curiosità e durezza.
Probabilmente si sentiva lui l’uomo di casa, ora che il padre e il fratello
maggiore non c’erano.
Oppure,
più semplicemente, Alex Everald vedeva in suo
fratello la causa per cui suo padre era trattenuto al distretto di polizia, e
incarnava in Joshua una sorta di alleato di Eric.
Evitandosi
una risposta secca coerente con i pensieri del più giovane – perché sì, era
sicuro che Alex stesse pensando esattamente quelle cose – si limitò alla dovuta
replica per la domanda postagli: « scrivo il mio indirizzo e il mio numero di
telefono, nel caso serva. E comunque per far sapere a tua madre dov’è tuo
fratello ».
Il
ragazzino non rispose, non subito almeno. Si limitava a guardarlo scrivere e,
proprio come chi cerca di essere adulto quando non lo è ancora, attese che
avesse finito prima di parlare.
« E’ stata
colpa di Eric, vero? » chiese, come se sapesse già la risposta e stesse
cercando solo una conferma.
Abrahel
non poté non ammettere con se stesso di non essersela aspettata.
« Parli
come se sapessi già tutto... » buttò lì, più disinteressato che altro. Non gli
interessava intrattenersi con un ragazzino, soprattutto se dimostrava di essere
così simile a quel padre che aveva visto con i suoi occhi comportarsi come uno
spostato davanti a dei ragazzi.
Alex
accusò il colpo. « Lo fa sempre. Papà si arrabbia sempre per colpa di Eric, è
sempre stata colpa sua. Mio fratello non capisce un cazzo, altrimenti
tornerebbe a fare basket e farebbe contento nostro padre » sputò, velenoso e
ignorante.
Lo shinigami lo squadrò, e poté notare con un certo diletto di
aver fatto sobbalzare quel piccolo saputello.
« Tu
affermi di sapere, e dai a tuo fratello dell’ignorante mentre idolatri tuo
padre. Ma io mi chiedo... » fece una pausa, un ghigno si formò sulle sue
labbra: « perché una persona che non era nemmeno presente sul luogo
dell’accaduto si riserva di mettere bocca in cose che non sa? Non è, allora,
questa persona quella non solo più ignorante, ma anche più cafona di tutte? »
domandò retoricamente, mascherando puri e semplici insulti con la retorica di
un filosofo improvvisato.
Alex
sembrò pensarci, ma a rispondere non fece in tempo: la madre stava
ridiscendendo le scale con un mano un borsone nero di piccole dimensioni, in
cui doveva aver stipato l’essenziale per il figlio.
Non
parlarono più. Capiva che la donna non ne era in grado, e Alex non ne aveva il
coraggio.
Si congedò
con un ringraziamento, venendo gentilmente riaccompagnato alla porta. Una volta
fuori respirò l’aria pulita a grandi boccate.
Come se
fosse appena uscito da una discarica.
L’appartamento
che gli era stato indicato da Zerachiel era in una
posizione davvero comoda.
Consisteva
in due enormi stanze al piano più alto di un vecchio palazzo, uno dei pochi rimasti
in quella zona della città, e Abrahel aveva subito
pensato che Zerachiel avesse preso in considerazione
il suo preferire luoghi un po’ antiquati, rispetto alle architetture puramente
moderne.
Era stata
una buona considerazione. Mandare qualcuno che si è perso gli ultimi duecento
anni dentro un abitato completamente edificato nel ventunesimo secolo
equivaleva a metterlo in difficoltà già da subito.
Tuttavia non
significava che il suo alloggio fosse un covo medievale. Anzi, aveva tutto
quello di cui aveva bisogno per indossare bene la sua parte di essere umano
normale.
All’affittuario
era stato detto che gli Archer – la famiglia fittizia
della sua altrettanto fittizia identità – erano una coppia di buoni diavoli,
proprietari di un fazzoletto di terra nell’Idaho che
coltivavano da più di quarant’anni. Avevano insistito che il figlio (unico) Joshua si facesse la cultura che il padre non aveva avuto
occasione di farsi; così avevano tenuto da parte una buona somma per mandarlo
all’università.
Nulla di
così assurdo, insomma. Niente traumi o liti famigliari, nessun abbandono,
nessun problema. Al massimo ci si poteva chiedere come avesse fatto una misera
fattoria dell’Idaho a crescere un asociale, ma a
quello poneva rimedio con la sua quasi perenne facciata da buono studente.
Con la
chiave apposita aprì il portone d’ingresso, lasciando che si richiudesse alle
sue spalle sulla città che cominciava a prendere vita. Notò il portiere, mezzo
assonnato nella sua postazione appena oltre la soglia, e con un piccolo cenno
della mano indicò la rampa di scale giusto oltre le buchette della posta.
Quello annuì.
Cominciò a
salire le scale, cercando di non sbattere ovunque la sportina di plastica
bianca che si portava dietro da una mezz’ora.
Perché sì,
sulla strada aveva considerato che Eric avrebbe dovuto almeno mangiare qualcosa
al risveglio. E il fatto che lui (per la maggior parte) non mangiasse, e che
dunque frigorifero e dispensa fossero vuoti, poteva essere un intralcio alla
sua copertura.
Perciò,
spesa. Era più facile alle sei del mattino, dato che non c’era nessuno nel
raggio di cinquanta metri da ogni lato.
Facendo
tintinnare il mazzo di chiavi prese fra le dita una delle più piccole,
infilandola nella toppa della porta all’ultimo piano. Girò due volte verso
destra, e quando sentì la serratura scattare, la spinse.
Il suo
appartamento non era grande, ma di certo non minuscolo.
La porta
principale dava sulla prima delle due stanze, la più grande, coperta di
moquette beije e adibita a salotto. Uno schermo
piatto era appeso sulla parete di fronte ad un tavolino di vetro basso, un
divano e una poltrona in pelle dello stesso colore della moquette.
Dietro ad
essi, a qualche metro, un tavolo di legno di noce dalle venature chiare e
quattro sedie.
Ancora
oltre un muretto bianco divideva il salotto dall’angolo cucina,
sufficientemente spazioso da permettere al cuoco di turno di muoversi
liberamente fra fornelli e ripiani.
Dall’altra
parte dell’appartamento, invece, due porte davano una sul bagno, l’altra sulla
camera da letto.
Non era
enorme, ma come la cucina era grande abbastanza da oltrepassare lo standard.
Un letto
matrimoniale occupava la parete accanto alla porta, in legno chiaro, a cui
aveva rimediato con delle lenzuola scure. Accanto al letto una finestra a
parete dava una luminosità quasi eccessiva alla stanza, dando su un piccolo
balcone utile solo per stenderci l’eventuale bucato (che non faceva). Di fronte
al letto vi era un mobile a muro in legno scuro, con un ripiano in marmo grigio
perla su cui, teoricamente, andava appoggiato un computer, o un’altra
televisione; cose che non aveva e che non si preoccupava nemmeno di procurarsi.
L’armadio a muro occupava poi il rimanente spazio non occupato.
Sospirando
si diresse in cucina, appoggiando la sporta sul ripiano e il borsone sul
pavimento vicino al primo muro a portata.
Aveva
appreso da parecchi libri di cucina che gli americani facevano colazione con
uova e bacon, dunque quelli aveva comprato; mise entrambi nel frigorifero a
fare compagnia all’acqua (unica cosa che ingeriva), a cui seguirono i cartoni
del latte e del succo d’arancia.
Il ripiano
sopra il lavello era occupato da pentole, piatti e bicchieri; così mise i
biscotti, le fette biscottate, i crackers, tè e caffè
nel ripiano accanto, facendo attenzione a non sbattere troppo violentemente le
ante.
Una volta
finito, osservò per un attimo la porta della camera da letto, dove al momento
dormiva Eric.
Aveva
passato una nottata schifosa. Questo
anche lui poteva capirlo.
Non aveva
fatto altro che piangere a intermittenza fino alle quattro del mattino,
alternando lacrime silenziose a interi quarti d’ora passati a fissare un punto
morto della parete, o del pavimento, o del televisore che passava programmi
notturni che nemmeno guardava. Seduto sul divano, così, semplicemente.
C’era
mancato poco che non lo muovesse a pietà. Solo il pensiero che sarebbe dovuto
morire – che avrebbe dovuto ucciderlo
– era stato sufficiente a permettergli di non sedersi al suo fianco, magari
porgendogli la tanto famigerata spalla su cui piangere.
Si era
limitato a rimanere seduto sulla poltrona, guardandolo di tanto in tanto,
sforzandosi di ignorarlo e combattendo contro la voglia di alzare il volume del
televisore per distrarsi.
Si rendeva
conto di essere stato prettamente cafone, ma non poteva farci nulla. L’ordine
era imperativo assoluto: affezionarsi avrebbe solo portato a casini
incredibilmente grandi, a problemi ancora più grossi e a conseguenze
intrattabili. Se poi ci si metteva in mezzo l’ordinamento di vita e morte sulla
Terra, la cosa diventava troppo grande per essere trattata con la razionalità e
la calma che pretendeva.
Scosse il
capo, distogliendo lo sguardo. Stava giungendo a conclusioni di cui non si
erano ancora nemmeno manifestati i sintomi... poteva quasi passare per una
persona maniacale.
Raggiungendo
di nuovo le buste ne estrasse il resto – qualcosa per il pranzo, dato che
sicuramente non sarebbero andati all’università – e mise nel frigorifero la
verdura e il sugo, la pasta finì nello stesso scaffale del caffè.
Nel
frattempo, ponderava cosa fare. Lui non aveva bisogno di dormire, dunque
avrebbe passato il tempo leggendo. Si poteva notare, dai molti volumi
appoggiati distrattamente su ogni superficie piana, che era divenuto il suo
passatempo umano preferito.
A dire il
vero aveva provato anche ad ascoltare musica. Si era reso conto che molti
ragazzi di quell’età e anche più giovani passavano giornate intere con gli
auricolari saldamente piantati nelle orecchie; il chiasso assordante di
batterie e house music tenute a volume troppo alto si poteva sentire anche a
diversi metri di distanza, se la stanza era silenziosa abbastanza.
Non aveva
apprezzato, nonostante alcune canzoni non fossero poi così male. Aveva una
predilezione naturale per il silenzio.
Nell’istante
stesso in cui terminò di sistemare tutta la spesa, con un sonoro “click” la
maniglia della camera da letto scattò, facendo si che la porta si aprisse
silenziosamente.
Dall’altra
parte, un Eric distrutto, assonnato e per nulla in forma si fermò sulla porta,
osservando l’interno attraverso gli occhi socchiusi e ancora particolarmente
gonfi.
Si
trattenne da commenti poco cortesi.
« Scusa,
ti ho svegliato? » domandò invece, facendosi uscire un tono di voce basso e non
particolarmente concitato. Nemmeno particolarmente dispiaciuto, ma era quasi
certo che Eric non lo avrebbe notato.
Quello
scosse il capo, silenzioso. Non aggiunse nulla al gesto, limitandosi ad
occhieggiare ciò che indossava.
« Questo è
tuo? » chiese poi, con un filo di voce roca e forzata, prendendo fra le dita un
lembo della maglietta nera in coordinato con relativi pantaloncini.
Joshua
annuì, affaccendandosi attorno alla teiera. « Tranquillo, è pulito » aggiunse
con un sorrisetto.
« No, mica
per quello... » ribatté l’altro con una lieve nota di imbarazzo: « è che non ho
mai visto nessuno dormire con il pigiama nero, tutto qui » aggiunse, camminando
silenziosamente verso il divano e sedendovisi di
malagrazia.
« C’è
sempre una prima volta » fu il commento alquanto serafico di Joshua, la mano già chiusa attorno ad una delle scatole
comprate appena un’ora prima.
Camomilla.
I libri di botanica la davano come un sonnifero blando ma efficace.
Alzò la
fiamma del fornello, portando l’acqua ad ebollizione in tempi più brevi.
Fu Eric ad
interromperlo, spezzando quel silenzio distratto che aveva ricoperto l’ambiente
come un lenzuolo di seta. La sua voce sembrava distratta, distante, e con sole
due ore di sonno Abrahel non faticava a capirne il
motivo.
«
grazie... per l’ospitalità » borbottò, seduto a gambe incrociate sulla parte
sinistra del divano.
« Figurati
» fu la risposta, scontata e banale, che diede.
Si era più
volte domandato per quale motivo Everald avesse
chiesto proprio a lui di ospitarlo. Certo, questo facilitava di parecchio il
suo lavoro, ma non aveva potuto fare a meno di considerare che nella vita di
Eric gravitassero persone conosciute da più tempo; le quali, logica
permettendo, sarebbero state più adatte di lui come porto franco in tempi
d’emergenza.
Vide
l’acqua cominciare a sobbollire e con un certo distaccamento aprì la confezione
di camomilla, estraendone due bustine.
Forse lo
aveva fatto perché era presente al momento dello scatto di collera del padre. O
forse perché lo aveva seguito successivamente per il parco.
Si era
guadagnato la sua fiducia, probabilmente; quella conclusione era la più
razionale a cui poteva giungere con le informazioni in suo possesso.
Non era
male, no. Ma avrebbe ricambiato tale fiducia?
Scosse il
capo, cancellando quel pensiero impertinente. Il suo compito non era farsi
amico la persona che avrebbe dovuto accompagnare nell’aldilà.
Chiuse gli
occhi, recuperando la calma obiettiva che il suo “lavoro” prevedeva di
mantenere perennemente.
Sarebbe
andato tutto bene. Avrebbe fatto il lavoro, accontentato Enma
e passato altri duecento anni della sua pseudo-esistenza
a fare ciò che preferiva: annullarsi.
Aprì le
cartine, estraendone i filtri per poi immergerle nell’acqua bollente. Cominciò
a prendere un colorito giallastro non appena le mosse con il cucchiaio.
Non
resistette. « Posso farti una domanda? » se ne uscì, richiudendo il
coperchietto metallico e raggiungendo con la mano destra una tazza in ceramica
sulla mensola.
« Spara »
ironizzò appena Eric, non riuscendoci in modo credibile nemmeno di striscio.
Rimase
silenzioso il tempo necessario a versare la camomilla. « Perché io? » domandò
schietto, prendendo la tazza per il manico e dirigendosi nel salottino.
Eric non
sembrò capire subito la domanda, e appena gli fu visibile si limitò ad
osservarlo con un cipiglio confuso sul volto distrutto dalla nottata appena
trascorsa.
Abrahel
sorrise di riflesso, passandogli la tazza e sedendosi sulla poltrona: « intendo
dire come ospitalità. Non hai pochi amici, da quello che mi è sembrato di
capire... » buttò lì. Ammetteva che era per fare conversazione – forse un blando tentativo di rimediare al
comportamento della notte scorsa? – ma per una buona percentuale era
sinceramente curioso di capire come pensava la mente di Eric Everald.
Quello
storse il naso sulla camomilla, evitando però lo sguardo dello shinigami. Si morse il labbro, un tic probabilmente, per
poi cominciare a parlare: « non che non mi fidi di loro, o che non voglia loro
bene. Ma... andiamo. Doug e Rob sono più le volte in
cui sono fatti che quelle in cui capiscono attivamente una frase di senso
compiuto, e senza offesa per McFarland, ma ha la
brutta caratteristica di avere una famiglia insopportabile e tre fratelli più
piccoli tra i dieci e i quattro anni » spiegò brevemente, per poi riprendere: «
sì, forse potevo telefonare a mia zia, oppure chiedere ad un compagno di
corso... ma i parenti ne avrebbero fatto una tragedia e non ho compagni così
fidati a cui chiedere una notte d’ospitalità »
« E cosa
ti fa credere che io lo sia? » lo interruppe Joshua,
uscendosene con un tono serio abbastanza fuori luogo. Non poté controllarlo
però, contro le sue aspettative, e decise di dare più peso alla risposta che
avrebbe ottenuto che alle sue inconcludenti turbe mentali.
« Direi...
istinto » fu la risposta che ottenne, completamente illogica.
« ...non
ha molto senso » commentò il moro.
« No, è
vero. Ma niente è mai troppo logico o troppo illogico » fu la risposta pronta.
Dire che
si sentiva confuso, ora, era come usare un sinonimo in una frase che suonava
particolarmente male.
Alla sua
consueta incomprensione degli esseri umani si era unito qualcos’altro, una
specie di disturbo di fondo che non riusciva a distinguere e a nominare. Come
l’incontro di due onde della stessa lunghezza che impediva il corretto
funzionamento delle ricezioni audio.
Lo
infastidiva, ma solo perché non capiva cos’era.
Lo guardò
a lungo mentre arricciava il naso nel sentire l’odore della camomilla. Proprio
come un bambino che non vuole bere una cosa che non gli piace ma è consapevole
che gli farebbe bene.
Trattenne
un sorriso nato dal nulla.
« Questa
mattina sono stato a casa tua » esordì poi, chiudendo gli occhi nel futile
tentativo di riprendere un certo controllo su se stesso. Gli stava sfuggendo di
mano la situazione.
Eric si
bloccò ancora prima di inclinare la tazza per bere un sorso. Restò con gli
occhi puntati sul tavolino, probabilmente cercando di convincersi ad avere solo
immaginato quelle parole, e ovviamente non rispose.
Così, Abrahel continuò per conto suo.
« Ho
avvertito tua madre che eri qui, e che forse saresti rimasto un paio di giorni.
Ti ha mandato degli indumenti e i libri di scuola » spiegò: « e i suoi saluti »
aggiunse all’ultimo istante; stava quasi per dimenticarseli.
Everald
non si mosse, né diede cenno di aver capito il senso delle parole appena
sentite. Solo dopo un minuto buono di silenzio ed immobilità distaccò le labbra
dalla ceramica, tenendo la tazza fra le mani e fissandola.
« Mio
padre? » chiese poi, con un filo di voce appena udibile.
Avrebbe
risposto subito, Joshua, se non fosse stato attento
ad ogni minimo movimento dell’altro. Lui, che in teoria non avrebbe dovuto
capire le emozioni che potevano sconvolgere un animo umano, aveva quasi
percepito la fatica con cui Eric aveva fatto quella domanda.
Perché,
pur essendo un padre che non merita tale appellativo, il castano ancora gli
voleva bene. Lo rispettava, persino. E si leggeva in quegli occhi gonfi e
troppo stanchi fissi sul bordo della tazza fra le sue mani.
Era quella
la tristezza? Quella che ora il volto di Eric stava riflettendo?
E lui
provava... compassione? Pietà?
No, era un
controsenso. Lui non poteva provare pietà. Per definizione la morte non può provare pietà.
Eppure...
Non seppe
se seguì un istinto che in teoria non avrebbe dovuto possedere, o se il gesto
di alzarsi dalla poltrona e sedersi sul divano lo avesse letto in uno dei tanti
romanzi che si era divorato in quei pochi giorni.
Però lo
fece. Per la prima volta, qualcosa oltre la razionalità lo mosse.
Affetto,
forse. Un affetto che non avrebbe potuto e dovuto avere.
Ma non
sapeva quale altro nome dare a quella sensazione di dispiacere nei confronti di
Eric che continuava a sentire.
Non
sarebbe riuscito a rimanere distaccato, ormai ne era cosciente. Non sarebbe più
riuscito ad ignorare i suoi problemi, a guardare il tempo rimasto con occhio
critico e mente libera da pensieri.
Avrebbe reso
a se stesso quegli ultimi giorni un vero Inferno.
...e lui
che pensava di averlo anche già visto, l’Inferno.
Gli
appoggiò una mano sulla spalla prima di riprendere a parlare: « è stato
arrestato, ora è alla centrale di polizia. Ha un fermo di ventiquattr’ore,
però: questa sera sarà nuovamente a casa » riportò, ma non seppe dire se quelle
considerazioni fossero per l’altro un sollievo o una maledizione.
Lo sentì
trattenere il respiro. Le sue spalle sobbalzarono per un momento mentre un
tremore diffuso faceva vacillare la tazza e la camomilla al suo interno.
Joshua
si affrettò ad afferrarla, togliendola dalle sue mani per appoggiarla sul
tavolinetto. Notò le mani di Eric tremare.
« che
cosa... si dice qualcosa... su di lui? » domandò Eric balbettando,
probabilmente trattenendo l’ennesima crisi di pianto nervoso, dovuto più alla
notte insonne che al resto.
Era
indeciso, Abrahel. Avrebbe potuto dirgli tutte e
quattro le versioni che giravano al momento, ma dubitò che anche solo la più
lieve di esse avrebbe potuto fare del bene ai nervi già provati di Eric.
Si limitò
ad una risposta vaga, così come gli venne in mente sul momento: « è
probabile... » mormorò, cercando di non darsi una particolare inflessione di
voce al di fuori di quel moto di compatimento che sfuggiva al suo controllo: «
ma non credo porterà a conseguenze gravi. Può succedere a tutti, un attimo di
collera... »
Anche se
lui non credeva fosse così. Semplicemente, aveva ipotizzato che il signor Trent Everald fosse una persona a
cui piace avere tutto sotto controllo e le mani in pasta in ogni cosa riguardi
parenti o congiunti. La vita di suo figlio maggiore si era improvvisamente
allontanata da quello che l’uomo aveva programmato per lui, e il simbolo chiave
di quella silenziosa rivolta era il nuoto.
Indovinare
come avesse funzionato la mente del signor Everald
non era difficile, una volta fornite queste basi: il nuoto era l’ostacolo che
gli impediva di riavere Eric sotto il suo controllo, dunque era necessario
eliminare il nuoto dalla vita del figlio.
Semplice.
« Mi sono
rotto il cazzo della sua rabbia immotivata... non fa altro che urlare, e
guardarmi male, come se fossi ciò che rovina la sua altrimenti perfetta vita »
si lamentò il castano in risposta; le mani si chiusero a pugno fino a far
sbiancare le nocche. « Che cazzo ho fatto nella mia fottuta esistenza per avere
un padre simile? Porca puttana, stava quasi per menarmi... porco cazzo... »
mugugnò: « ...davanti a tutti... » aggiunse in un sussurrò scioccato.
La sua
presa sulla spalla si rafforzò maggiormente, come se, con quel gesto, volesse
impedire al cervello dell’altro di portarlo in lidi sicuramente poco adatti al
momento.
Ma non
aggiunse nulla a voce, troppo inadatto a situazioni simili per poter anche solo
pensare a qualcosa di sensato da dire che non apparisse terribilmente fuori
luogo.
Voleva
evitargli altre lacrime inutili, ma non sapeva come. Non gli era mai capitato
di dover consolare qualcuno in tutta la sua esistenza.
Poi, da
qualche parte dentro di lui, qualcosa decise: sempre meglio parlare e passare
per incompetenti che stare zitti ed esserlo davvero.
« Ehi »
chiamò, un tono molto colloquiale e privo della sua solita formalità: «
passerà. Tuo padre si renderà conto di avere sbagliato i calcoli e ti chiederà
scusa, in linea con l’uomo adulto e responsabile che dimostra di essere. Ha
solo bisogno... »
Di sbattere la testa contro un muro
chiamato “buon senso”
pensò.
« ...di
tempo » concluse però, e si stupì di quanto la sua voce poteva suonare dolce. E
non si stava nemmeno impegnando.
Contrariamente
alle sue previsioni, però, Eric ridacchiò. « Si vede che non hai la minima idea
di com’è messo mio padre... » pronunciò, spegnendo la risata nel nulla da cui
era nata.
Non
rispose. No, infatti: non lo sapeva. Lui aveva considerato i comportamenti più
giusti che gli esseri umani avrebbero dovuto tenere con altri della loro
specie, per formulare quella risposta... se Trent Everald usciva dagli schemi, lui automaticamente non aveva
basi su cui sviluppare un’ipotesi comportamentale.
Considerò
che, magari, era meglio troncare il discorso prima che si fosse trasformato in
qualcosa di più deprimente di quello che già era.
« Eric,
dovresti dormire » intervenne dunque: « hai riposato solo due ore, non è
sufficiente nemmeno per sbaglio » aggiunse, alzandosi dal divano nel tentativo
di guidarlo verso la camera da letto.
« Ti secca
se dormo qui? » domandò però l’altro, rimanendo seduto ed indicando il divano.
Joshua
lo guardò un po’ accigliato. « No, puoi stare dove preferisci » acconsentì poi.
« Grazie »
ringraziò l’altro, stendendosi sul divano senza nemmeno posizionarsi bene i
cuscini sotto la testa. Si vedeva dai movimenti che non aveva la forza
necessaria e che Morfeo richiedeva ancora la sua presenza nel suo mondo.
Abrahel
sospirò, arrivando velocemente in camera da letto per recuperare una coperta.
Tornando in salotto la distese sopra Eric, coprendolo alla bene e meglio.
Fece per
tornare in cucina, ma la mano del castano si chiuse velocemente sul suo polso,
trattenendolo.
« Resti
nei paraggi? » chiese biasciando, la voce già impastata.
Di nuovo,
lo shinigami non poté evitarsi di piegare le labbra
in un sorrisetto lieve. « Non vado da nessuna parte » assicurò, tornando sui
suoi passi e sedendosi sul tappeto ai piedi del divano, la schiena appoggiata
ad esso.
Non ci
volle molto – giusto qualche minuto – perché l’altro di addormentasse di nuovo.
Prese uno
dei libri a portata di mano e cominciò a leggere, in silenzio.
Da quella
posizione non si mosse mai.
Eric dormì
per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio. Quando riaprì gli occhi
erano ormai le quattro e il sole al di là delle tende era ancora alto. C’era
bel tempo, e il vociare degli studenti radunati al vicino campus universitario
si poteva sentire molto bene, dato il silenzio che regnava nella camera.
Lui aveva
passato tutto il tempo leggendo. Prima un trattato scientifico sull’ultima
teorizzazione del tempo dentro ai buchi neri, poi un romanzo poliziesco che
aveva l’aria di non essere molto serio, ma che alla fine aveva apprezzato.
Almeno dipingeva la vita per quello che era: senza lieto fine.
Leggere lo
aveva distratto a sufficienza, così aveva evitato furbescamente di porsi le
domande del caso in relazione al suo comportamento del tutto fuori dagli
schemi.
E di
sicuro non cominciò dopo che il castano riaprì gli occhi.
Parlarono.
Di tutto, per la verità.
Eric non
aveva intenzione di sollevarsi dal divano e, d’altro canto, lo shinigami nemmeno glielo chiese. Anzi, neanche lui si
spostò da quella posizione, che aveva tenuto per quasi dieci ore di seguito.
Eric gli
chiese molte cose, quasi tutte senza un senso logico a cui fare appello. Gli
domandò se aveva dormito (« un po’ nel
pomeriggio, ma sono abituato a dormire poco »), perché avesse scelto Fisica
(perché è l’unica cosa che non cambia a
distanza di secoli... pensò, ma rispose tutt’altro, ovviamente) e se era
sempre stato un suo hobby leggere così tanto (« i miei genitori sono contadini, in campagna ci si annoia se non si
hanno lavori da sbrigare »).
Non
toccarono mai il discorso “Trent Everald”.
Almeno non fino a cena, in cui Joshua espresse le sue
qualità di tentato cuoco preparando ad Eric un piatto di pasta al pomodoro e un
filetto di vitello con verdure. Lui si limitò alla sua insalata-copertura.
« Penso
che tornerò a casa, domani mattina » confidò il castano ad un certo punto,
fissando con un sorriso spento il rimanente pezzo tagliuzzato di carne.
Joshua
evitò di mettersi in bocca l’ennesima, insapore forchettata di insalata,
drizzando le orecchie. « Non sei costretto » commentò poi, riscoprendosi
contrariato dalla sua scelta.
« Lo so »
gli rispose Eric, abbandonando definitivamente i tentativi di mangiare anche
quel misero pezzetto di carne che gli avanzava nel piatto. « Però non è giusto
per la mamma. E poi è casa mia... devo tornare. Non posso comportarmi come un
moccioso in preda ad una crisi esistenziale che scappa di casa dopo una
sculacciata del padre » spiegò.
Le
sopracciglia di Joshua scattarono brevemente,
invisibili allo sguardo basso di Eric.
Certo, se
paragonare il manrovescio spacca-denti che aveva
intenzione di tirargli il padre ad una sculacciata era un esempio corretto...
Chiuse gli
occhi un istante, facendo per alzarsi dal tavolo. « La scelta è tua » liquidò
velocemente, raccogliendo i piatti per poi dirigersi al lavello.
Non
parlarono per tutto il resto della serata.
Eric si
era addormentato di nuovo verso le undici, proprio quando la sua pazienza stava
per giungere a quel limite che segnava il confine di non ritorno.
Aveva
fame. Mangiare cibi umani non nutriva veramente il suo corpo; era un po’ come
l’acqua: disseta ma non è fonte di sostentamento . E stare vicino ad un’anima
candida non era di certo un bel modo per placare l’appetito.
Aveva
cominciato a percepirne il leggero odore dolce intorno alle nove. E, di
conseguenza, aveva trascorso le successive due ore a trattenere il fiato ad
alternanza, cercando di non pensare all’acquolina che la presenza dell’anima di
Eric sembrava scatenargli.
Lui non
era abituato alle anime candide. Era come fare annusare del cioccolato a
qualcuno che vive solo di sesamo.
Così fu
costretto ad uscire.
Aspettò
mezz’ora prima di aprire la porta – così da essere sicuro che Eric dormisse
veramente – e si diresse a passo svelto verso Heaven’s
Park.
Trovò
quasi subito la persona che faceva al caso suo: un uomo solitario che si
aggirava pensieroso fra i viottoli della parte orientale del parco, accanto
alle fontane. Sembrava un uomo d’affari a giudicare dalla cravatta di seta e
dalla ventiquattrore in cuoio, ma non ci badò molto. Lo avvicinò con una scusa
e, senza la minima fatica, gli sottrasse il minimo dell’energia vitale
necessaria a sfamarlo.
Lo lasciò
stordito sul bordo della fontana, ma non se ne preoccupò molto: entro un’ora si
sarebbe ripreso e, comunque, lungo tutto il parco vegliavano già ronde di
sorveglianti notturni in divisa.
Sicuramente
rifocillato, uscì dal parco e si diresse verso nord.
A nord di Heaven’s Park c’era un cimitero. Il campo dall’erba
accuratamente rasata era puntellato di lapidi in marmo, che risplendevano
biancastre nel riflettere la luce della mezzaluna di quella notte.
Il posto
ideale per un dio della morte, osò pensare. E, in effetti, era come mettere
piede dentro un carcere i cui occupanti ce li hai spediti tutti tu.
La cosa
bella era che, di sicuro, non potevano parlare.
E poi il
cimitero aveva effetti benefici sui suoi nervi.
Magari era
proprio il luogo. Morte attira morte, una cosa del genere... ma di sicuro
quello era il posto più adatto per mettersi a riflettere senza fretta, mettendo
in ordine pensieri impilati da qualche parte nel cervello e lì lasciati a fare
polvere.
L’importante
era non scavare troppo a fondo. Pensieri di cento anni erano tutt’uno con le
ragnatele, ormai, e toglierle tutte era sconsigliabile oltre che difficile, per
uno come lui con la tendenza alla depressione.
Così si
limitò a considerare quelli relativi alla giornata.
Non poteva
fingere con se stesso di non avere provato alcuna sensazione, passando tutto
quel tempo a stretto contatto con Eric. Lo avevano colpito più cose di lui in
due ore che in tre giorni interi.
Come la
sua speranza incrollabile, o il suo ottimismo. La sua rabbia verso il padre e
poi la successiva preoccupazione, sempre per quel padre che pochi istanti prima
stava insultando.
Segno che
non lo faceva davvero. O, se veramente voleva sbeffeggiarlo, tutti gli
improperi che gli rivolgeva non li pensava seriamente.
Sbuffò.
Era caratteristica peculiare delle anime candide questa inarrestabile speranza;
una cosa che avrebbe detestato, se solo avesse potuto arrivare oltre al fastidio.
Se avesse potuto provare sentimenti forti come l’odio, per esempio.
Ma gli shinigami non potevano. Loro non provavano sensazioni
forti.
Solo lievi
ombre delle stesse.
Ecco
dunque che la rabbia pura e semplice di trasformava in irritazione, l’odio
spiccato in pressante fastidio, la felicità in sollievo, la gioia in lieve
contentezza. Altre volte, semplicemente, il sentimenti non venivano nemmeno
riconosciuti e finivano per mescolarsi a tutti gli altri in un’accozzaglia
senza capo né coda.
Sospirò,
stendendosi di schiena sulla base quadrata di una scultura in pietra levigata:
un angelo donna dalle ali spiegate, distese sulle lapidi come se fossero tutte
sotto la sua protezione.
Sghignazzò.
Ironico, quantomeno, che si fosse messo proprio lì sotto.
« Un dio
della morte in un cimitero ha un po’ il senso del macabro » sentì dire da
qualche parte alla sua destra, il tono di voce vellutato che aveva già udito in
precedenza senza un’inflessione particolare di tono, se non quella punta di
sbeffeggio e ironia tipica degli eterni giovani.
Voltò
pigramente il capo in quella direzione, incontrando la figura del vampiro
conosciuto due notti prima. Il modo in cui quei capelli e quegli occhi
dannatamente chiari riflettevano la luna era così particolare da rimanere
impresso, anche contro la volontà.
Non
rispose alla provocazione, tornando a chiudere gli occhi e lasciando che la
creatura si avvicinasse. Non era particolarmente desideroso di avere compagnia,
ma nemmeno così impaziente di liberarsene.
Lo sentì
camminare in sua direzione, poi salire sulla base della statua e appoggiarsi
con la schiena a quella della donna scolpita, la testa semi nascosta dalle ali
di pietra.
Rimasero
in silenzio entrambi, assorti nei più diversi pensieri. Finché non fu,
contrariamente alle aspettative, Abrahel a stancarsi
di quel pesante silenzio che solo nei cimiteri si poteva avere.
« Tu sei
in giro ogni notte? » chiese, conscio anche senza aprire gli occhi che il
vampiro lo stava ascoltando.
« In
qualche modo mi devo nutrire, se non voglio azzannare la famiglia che mi ospita
» spiegò apatico; anche se Abrahel si convinse che
forse non gli sarebbe dispiaciuto troppo, piazzare i denti nella giugulare di
qualcuno della sua “famiglia”.
« Potresti
farlo e basta » ribatté di nuovo, particolarmente pessimista.
« Sì
certo, e poi chi li sente quei rinsecchiti degli anziani? No grazie, voglio
vivere il resto della mia immortalità senza rotture di palle varie » ribatté
Marcus – si chiamava così? – tranquillo nonostante il vocabolario da orco delle
montagne.
Lo shinigami ghignò. Come loro, anche i vampiri erano legati a
leggi antiche che prevedevano una cosa innanzi tutto: la segretezza. Entrambe
le loro razze, per il mondo, esistevano solo sottoforma di miti e leggende.
« Posso
sapere cosa ci fai sul Mediano? » domandò poi il vampiro, probabilmente approfittando
della conversazione appena iniziata.
Sembrava
di buon’umore, quella notte.
« Lavoro »
rispose lui, sinteticamente.
« Qualcuno
che conosco? » chiese l’altro.
« Everald... Eric » si ritrovò a dire lo shinigami,
dimentico della clausola sulla segretezza della vittima prescelta dal fato.
Beh, poco
male. Non era come rivelare al mondo la loro esistenza; e poi non era sicuro
che una particolarità simile fosse valida anche per altre creature oscure come
i vampiri.
Tuttavia,
Marcus rimase in silenzio. Per troppo.
Abrahel
aprì un occhio, guardandolo di sbieco. « Lo conosci » considerò, e non era una
domanda.
« Non io »
disse subito l’altro, puntando lo sguardo da qualche parte nella semi oscurità:
« Noah » rivelò.
« Un tuo
amico? » domandò Abrahel.
« Il mio fratellastro
» corresse l’altro.
« Vampiro?
» chiese di nuovo.
« Umano »
specificò l’altro, di nuovo.
Abrahel
si lasciò sfuggire un ghigno particolarmente ironico. « Quanti ne hai già
avuti? » esordì, ancora ghignando.
« Quattro
» disse Marcus: « ma questo sarà l’ultimo ».
Abrahel
non ricordava dove aveva già sentito un’inclinazione di voce talmente decisa,
ma era sicuramente qualcuno che bazzicava nelle alte sfere dell’aldilà.
Tuttavia non ci diede molto peso, mettendosi seduto per osservare Marcus senza
avere le ali di pietra come impiccio. « Spiegati » ordinò poi, improvvisamente
perentorio.
L’occhiata
che gli riservò il vampiro, quelle iridi rosse di chi ha appena consumato un
pasto abbondante, era quanto di più minaccioso esistesse sul Mediano. La sfortuna
dell’essere era che lui aveva visto di peggio; per quello non si lasciò smuovere.
Marcus non
replicò, ma qualcosa dentro quegli occhi fornì comunque ad Abrahel
la risposta che cercava. Capire gli esseri notturni era complicato, sì, ma non
quando si trattava di emozioni umane facilmente intuibili.
« Vuoi
trasformarlo » notò, e anche quella non suonava come una domanda.
« Non lo
so ancora » si difese l’essere, improvvisamente sulla difensiva.
« Vuoi
sottrarlo alla morte » proseguì però Abrahel: «
perché? » chiese.
Gli occhi
carmini volarono nuovamente su di lui, e li rimasero. « Perché è importante.
Per quale altro cazzo di motivo, secondo te? » sbottò l’altro sgarbatamente,
senza però alzare troppo la voce.
“Importante”.
Strano il significato profondo che poteva avere una semplice parola.
Il dio
della morte lo scrutò a lungo, provando a setacciare l’anima del vampiro attraverso quegli occhi
innaturalmente rossi. Non vi riuscì, ma intuì comunque quale fosse l’importanza
che attribuiva a quell’umano.
« E’ il
tuo amante, vero? Tu lo ami » asserì, troppo sicuro di se stesso per
considerare la presenza di qualche dubbio.
Marcus
ghignò. « La legge mi impone di dire “donatore” » commentò e no, quella non era
una negazione.
« Tu lo
ami! Un umano! » esclamò, l’ombra di
una fuggevole indignazione nelle iridi così innaturalmente chiare.
Per uno
come lui, che degli umani disprezzava persino l’aria che respiravano, pensare
uno come Marcus accanto uno di loro era un errore sistematico, qualcosa di
sbagliato.
Il vampiro
però non la pensò uguale e non condivise l’indignazione. Si limitò a scendere
dalla scultura, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni neri.
Prima di
andarsene, il suo sguardo color rubino si posò ancora una volta su quello di
ghiaccio dello shinigami.
« E’ vero,
è umano. E forse non dovrei nemmeno imbarcarmi in una cagata colossale come
questa sottospecie di relazione amorosa, ne sono pienamente consapevole. Non
puoi sapere la quantità immonda di tare mentali che mi sono sparato nel
cervello da quando è cominciata fino a qualche ora fa » disse: « ma fidati
quando ti dico che piuttosto che ridurmi come te, che l’amore non lo puoi
nemmeno provare... preferisco rischiare di fare del male alla persona che amo »
concluse, sparendo così velocemente che Abrahel fece
appena in tempo a seguirne la scia.
Sospirando,
si lasciò andare di nuovo con la schiena contro la pietra.
Non
faticava a credergli. Nessuno voleva essere come la Morte.
Neanche la
Morte.
Quando
rientrò nell’appartamento, buio e silenzioso esattamente come lo aveva
lasciato, aprì la porta della camera da letto e si soffermò sulla soglia a
guardare Eric.
Dormiva
placidamente girato su un fianco, le lenzuola scure a coprirgli il corpo fino
alla vita.
Osservandolo
comprese davvero il significato delle parole del vampiro, dopo quasi tre ore
che ci rifletteva sopra. Così come gli balenò in testa una delle possibili
interpretazioni della parola “importante”.
Non poteva
affermare di amarlo, come Marcus nei confronti di Noah...
ma, nonostante la sua impossibilità di provare sentimenti, comprendeva che Eric
era importante per lui come mai nessuno era arrivato ad essere in tutta la sua
esistenza.
Senso di
protezione, forse. Affetto. Non superava quelle sensazioni, ma anch’esse erano
comprese all’interno di “importante”, e tanto bastava.
Avrebbe
potuto avvicinarsi e accarezzargli il volto senza la paura che potesse essere
d’intralcio alla missione. Dopotutto, un intralcio a se stesso lo era già
diventato, praticamente dal momento in cui aveva cercato di proteggere Eric dal
ceffone del padre; dal momento in cui si era messo in mezzo, decretando
inconsciamente di volerlo proteggere.
Poteva
oltrepassare quella porta e decidere; decidere di lasciarsi andare... oppure
tornare indietro, e decidere di rinunciare.
Rimase su
quella soglia fino all’alba.
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Il
capitolo più noioso che abbia mai scritto. Mi sono stancata solo ad idearlo,
santi numi...
By the way: prima dei consueti
ringraziamenti, un avviso. E’ probabile che il prossimo capitolo di Untill arriverà
un po’ in ritardo.
Ho in
programma una shot su Hetalia, e alcuni utenti su un altro fandom
aspettano un aggiornamento che ritarda da due mesi. L’ispirazione non aiuta
molto, in questo periodo.
Ok, ora che
ho dato il pretesto base per farmi linciare: risposte!
Shichan: non posso assicurarti che Trent soffrirà le pene dell’inferno, perché ancora non lo
so nemmeno io (^^’’’) però farò del mio meglio. Ti ringrazio molto sulle
opinioni riguardanti i personaggi e il modo di scrittura, ma dato che di solito
ne parliamo ampiamente in separata sede, ancora mi chiedo perché sto a
risponderti qui XP.
Ma sappi
che me gode del fatto che ti piaccia Eric, a dire il vero ci speravo XD
angel15: complimenti che sono molto
apprezzati: il mio ego ringrazia di cuore. Sono felice che ti piaccia la
storia, davvero; fa sempre piacere sapere che le trame folli che mi sparo di
tanto in tanto siano abbastanza originali da piacere XD
Grazie
mille per la recensione!
Mikayla: eh sì, la teoria di Yuuko di xxxHolic ha un suo
perché. Ode all’hitsuzen.
Ti
confesso che quando leggo recensioni come le tue mi viene quasi da saltellare.
Il mio ego non vede confini.
Ma la
contentezza che mi provoca vedere che il mio stile di scrittura, la trama e la
caratterizzazione che do ai personaggi non annoia non ha eguali. Sono
complimenti che tutte le ficwriter vorrebbero sentirsi dire, credo, e io non
faccio eccezioni.
Perciò ti
ringrazio (e complimenti per il vocabolario XD) sia per i complimenti che per
la recensione. Piacerebbe anche a me incontrare Timoty in giro per
l’università, se non fosse che pure io vivo in Italia e Timoty non esiste XD.
dea73: sì, quel povero shinigami è un po’ lento di comprendonio. Più che altro è
tarlato con l’idea di essere in mezzo ad un branco di esseri inferiori...
poverino, dobbiamo cercare di capirlo XD.
No, beh,
in realtà il dolorino non c’entra niente XD la tachicardia è una cosa che
capita abbastanza spesso quando si è molto stressati e si fa incetta di
caffeina, al liceo mi capitò un paio di volte... ho semplicemente preso ad
esempio. Il ruolo di Eric... beh... a dire il vero ci sto ancora pensando,
avrei una scelta da fare su due finali diversi... vedrò, comunque.
Ti
ringrazio comunque molto per la recensione e i complimenti sulla scrittura,
fanno sempre piacere U___u.
Fine del
mondo. No, scherzo! XP
Alla
prossima dunque!