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Autore: Yoko Hogawa    14/08/2009    5 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tuesday

Tuesday

 

Abrahel

Beyond the threshold

 

 

Non si preoccupò dell’ora, quando suonò il campanello di casa Everald. Nonostante le cinque del mattino non fossero un orario adatto per le visite, aveva motivo di credere che nessuno della famiglia stesse dormendo.

Le luci accese al piano terra lo rendevano palese; dunque attese sulla porta, paziente.

Era una cosa che andava fatta, anche solo per scrupolo. Un uomo in divisa era rassicurante fino ad un certo punto, e dopo il fermo scattato su Trent Everald si era pian piano convinto che parlare con la madre di Eric fosse una mossa necessaria.

Per sicurezza e tranquillità. L’ultima cosa che voleva, in quell’incarico sempre più intricato, era dover avere a che fare con le forze dell’ordine. Il dipartimento di polizia era abbastanza facile da prendere per il culo, ma i servizi sociali e gli investigatori privati no.

E solo Dio sapeva se, dopo lo scandalo che sicuramente sarebbe esploso, non avrebbe visto le facce di qualche agente in borghese aggirarsi nei dintorni del campus. Si trattava pur sempre di un allenatore di una squadra di basket di ragazzi; tutti adolescenti che la maggiore età la vedevano ancora con il binocolo... l’opinione pubblica ci avrebbe ricamato sopra le più incredibili dicerie.

E stava già accadendo, in realtà. Perché non era concepibile pensare che la storia si potesse limitare ai presenti in piscina, no: ormai quasi tutti gli studenti dell’università lo sapevano e sparlavano, ciarlavano come se non ci fosse niente di più interessante da dirsi. Persino gente che non si incontrava da anni all’improvviso si telefonava per perpetrare la leggenda dell’accaduto.

Schifosi umani.

Sospirò rassegnato, suonando di nuovo.

Aveva passato l’ultima ora in giro, seguendo e ascoltando le conversazioni di chiunque avesse a che fare con la vicenda, anche da semplice informatore amatoriale. Ciò, in poche parole, era equivalso a pedinare mezza città.

Ma alla fine aveva ottenuto quello che si aspettava: dell’accaduto esistevano già quattro versioni, una più fantasiosa dell’altra. Si stava trasformando in una diceria che sarebbe stata ben presto dimenticata, e lui non poteva esserne più sollevato.

Un rumore di passi poté sentirsi dall’altra parte della porta, finché questa non si aprì appena. Gli occhi cerchiati della signora Everald lo scrutarono intrisi di speranza, che si spense lentamente quando si rese conto che non era il marito di ritorno, né tantomeno il figlio che ricompariva.

Tuttavia, nonostante la situazione in cui si ritrovava – e che lui poteva solo sforzarsi di immaginare – mantenne un certo decoro nel rivolgergli la parola. « Sì? » domandò, il tono sfibrato di chi non ha chiuso occhio.

« Buongiorno signora Everald, perdoni l’ora » cominciò lui. Ponderò bene l’espressione del volto, evitando sorrisi, così come credeva fosse il caso in certi momenti. « Sono Joshua Archer, un amico di Eric. Volevo avvertirla che... »

« Sai dov’è? » lo interruppe però lei, aprendo del tutto la porta e precipitandosi fuori.

Joshua non indietreggiò, ma nemmeno si aspettava una reazione simile. Magari era normale, rifletté poi, guardando gli occhi della donna ritrovare un briciolo di quella speranza persa in precedenza.

Dopotutto lei era una madre. Una madre che non vedeva il figlio da ventiquattrore buone, che non lo aveva visto rientrare a casa e che aveva sentito del comportamento del merito da un uomo in divisa, in una di quelle situazioni sopra citate in cui di rassicurante, quella divisa, non aveva proprio niente.

Come la prenderà quando lo ucciderai, suo figlio, Abrahel?

Ignorò quel pensiero nell’istante medesimo in cui nacque.

« A casa mia » le rispose pacato; lei gli donò un leggero e quasi invisibile sorriso. Di sollievo.

« Grazie a Dio... » le sentì sussurrare, la mani che andarono a chiudersi sulla camicetta a livello del cuore. « Ma prego, entra pure. Fa freschino qua fuori... » si prodigò, come se si fosse ricordata solo in quell’istante le regole della buona educazione.

E forse era proprio così.

Ringraziò, seguendo la donna dentro casa. Non l’aveva ancora mai vista se non da fuori, ma non poteva di certo dire che non avesse l’apparenza accogliente e calorosa.

Il salotto, visibile sulla destra appena dentro dalla porta, era dipinto di un rossiccio gradevole, affiancato da mobili in ciliegio – legno dal naturale colore marron-rosso – e da tendaggi rosa antico. Un vaso di fiori secchi troneggiava su un mobile sommerso di cornici e portafoto, mentre al centro della stanza vi era un divano ad angolo, anch’esso di un colore tendente al rosa salmone.

Seduto su di esso, in pigiama e con l’aria di un altro che ha passato la notte in bianco, il fratello minore di Eric lo osservò sorpreso, togliendo gli occhi stanchi e gonfi dallo schermo del televisore. Il volume era così basso, che praticamente dall’apparecchio si potevano vedere solo le immagini.

« Chi è lui? » chiese il ragazzino, e dal tono di voce poté supporre che non avesse più di quattordici anni.

Abrahel non rispose, preferendo lasciare la parola alla donna. Non apprezzava particolarmente parlare così facilmente con persone che non conosceva, a meno che non ne fosse costretto.

« Lui è Joshua, Alex. E’ un amico di Eric. Adesso è a casa sua, è venuto ad avvisarci... » spiegò lei con tono dolce, forse sollevato dalle buone notizie che lei stessa stava ripetendo a voce alta.

Non seppe riconoscere se l’espressione di Alex Everald fosse di sollievo o di disprezzo. Probabilmente era entrambe. Ma la cosa che non poté mancare di notare fu la totale assenza di una risposta, e l’ostinazione con cui puntò il suo sguardo su di lui senza più distoglierlo.

Abrahel, per tutta risposta, si rivolse alla donna: « mi scusi ancora per l’ora, ma avrei bisogno di parlarle » cominciò, assicurandosi la sua attenzione. « Data la situazione... pensavo che potrei ospitare Eric ancora per un po’. Ero venuto a chiederle che cosa ne pensava » disse, continuando ad ignorare lo sguardo di Alex su di sé.

La donna sobbalzò, ma fu veloce a riprendersi. Probabilmente non le piaceva l’idea di separarsi per molto tempo dal figlio maggiore, ma Abrahel fu sicuro che fosse arrivata alla sua stessa conclusione: il fermo amministrativo della polizia durava ventiquattr’ore, ciò voleva dire che entro sera Trent Everald sarebbe ritornato a casa. A situazione corrente, e senza sapere se aveva o no calmato i bollori, non era consigliabile far sì che l’uomo rivedesse il figlio.

Chiudendo arrendevolmente gli occhi, la signora annuì. « Sì, sono convinta che sia la soluzione migliore » ammise, per poi continuare: « vado in camera di Eric a prendere dei cambi di biancheria, e i suoi libri magari... così può continuare ad andare a lezione, se... » non terminò la frase. Non ce la fece.

Lo shinigami la osservò salire velocemente le scale, riservandosi uno sbuffo seccato non appena fu sparita nel pianerottolo.

Non era neanche in grado di fare la madre e pensare con lucidità. Eppure pensava che certe facoltà venissero istintive, quando si era in ansia per i figli e per i mariti.

Evidentemente non li capiva proprio, gli esseri umani.

Annoiato, si guardò intorno. La ricerca di qualcosa su cui e con cui scrivere non gli portò via troppo tempo, in quanto rintracciò nel blocchetto di fogli accanto al telefono tutto ciò di cui aveva bisogno.

Face qualche passo indietro, dunque, avvicinandosi all’apparecchio per poi prendere la penna nera che giaceva lì accanto. Dal tappo mangiato e dagli scarabocchi nell’angolo in alto della prima pagina ne dedusse che la signora Everald aveva passato una discreta nottataccia accanto al telefono, aspettando una telefonata sola per riceverne migliaia da amici e parenti, man mano che la notizia si espandeva a macchia d’olio.

Ignorò la strana conformazione del tappo, cominciando a scribacchiare sullo stesso foglietto già scarabocchiato.

« Cosa stai facendo? » chiese dal divano Alex, in un misto fra curiosità e durezza. Probabilmente si sentiva lui l’uomo di casa, ora che il padre e il fratello maggiore non c’erano.

Oppure, più semplicemente, Alex Everald vedeva in suo fratello la causa per cui suo padre era trattenuto al distretto di polizia, e incarnava in Joshua una sorta di alleato di Eric.

Evitandosi una risposta secca coerente con i pensieri del più giovane – perché sì, era sicuro che Alex stesse pensando esattamente quelle cose – si limitò alla dovuta replica per la domanda postagli: « scrivo il mio indirizzo e il mio numero di telefono, nel caso serva. E comunque per far sapere a tua madre dov’è tuo fratello ».

Il ragazzino non rispose, non subito almeno. Si limitava a guardarlo scrivere e, proprio come chi cerca di essere adulto quando non lo è ancora, attese che avesse finito prima di parlare.

« E’ stata colpa di Eric, vero? » chiese, come se sapesse già la risposta e stesse cercando solo una conferma.

Abrahel non poté non ammettere con se stesso di non essersela aspettata.

« Parli come se sapessi già tutto... » buttò lì, più disinteressato che altro. Non gli interessava intrattenersi con un ragazzino, soprattutto se dimostrava di essere così simile a quel padre che aveva visto con i suoi occhi comportarsi come uno spostato davanti a dei ragazzi.

Alex accusò il colpo. « Lo fa sempre. Papà si arrabbia sempre per colpa di Eric, è sempre stata colpa sua. Mio fratello non capisce un cazzo, altrimenti tornerebbe a fare basket e farebbe contento nostro padre » sputò, velenoso e ignorante.

Lo shinigami lo squadrò, e poté notare con un certo diletto di aver fatto sobbalzare quel piccolo saputello.

« Tu affermi di sapere, e dai a tuo fratello dell’ignorante mentre idolatri tuo padre. Ma io mi chiedo... » fece una pausa, un ghigno si formò sulle sue labbra: « perché una persona che non era nemmeno presente sul luogo dell’accaduto si riserva di mettere bocca in cose che non sa? Non è, allora, questa persona quella non solo più ignorante, ma anche più cafona di tutte? » domandò retoricamente, mascherando puri e semplici insulti con la retorica di un filosofo improvvisato.

Alex sembrò pensarci, ma a rispondere non fece in tempo: la madre stava ridiscendendo le scale con un mano un borsone nero di piccole dimensioni, in cui doveva aver stipato l’essenziale per il figlio.

Non parlarono più. Capiva che la donna non ne era in grado, e Alex non ne aveva il coraggio.

Si congedò con un ringraziamento, venendo gentilmente riaccompagnato alla porta. Una volta fuori respirò l’aria pulita a grandi boccate.

Come se fosse appena uscito da una discarica.

 

L’appartamento che gli era stato indicato da Zerachiel era in una posizione davvero comoda.

Consisteva in due enormi stanze al piano più alto di un vecchio palazzo, uno dei pochi rimasti in quella zona della città, e Abrahel aveva subito pensato che Zerachiel avesse preso in considerazione il suo preferire luoghi un po’ antiquati, rispetto alle architetture puramente moderne.

Era stata una buona considerazione. Mandare qualcuno che si è perso gli ultimi duecento anni dentro un abitato completamente edificato nel ventunesimo secolo equivaleva a metterlo in difficoltà già da subito.

Tuttavia non significava che il suo alloggio fosse un covo medievale. Anzi, aveva tutto quello di cui aveva bisogno per indossare bene la sua parte di essere umano normale.

All’affittuario era stato detto che gli Archer – la famiglia fittizia della sua altrettanto fittizia identità – erano una coppia di buoni diavoli, proprietari di un fazzoletto di terra nell’Idaho che coltivavano da più di quarant’anni. Avevano insistito che il figlio (unico) Joshua si facesse la cultura che il padre non aveva avuto occasione di farsi; così avevano tenuto da parte una buona somma per mandarlo all’università.

Nulla di così assurdo, insomma. Niente traumi o liti famigliari, nessun abbandono, nessun problema. Al massimo ci si poteva chiedere come avesse fatto una misera fattoria dell’Idaho a crescere un asociale, ma a quello poneva rimedio con la sua quasi perenne facciata da buono studente.

Con la chiave apposita aprì il portone d’ingresso, lasciando che si richiudesse alle sue spalle sulla città che cominciava a prendere vita. Notò il portiere, mezzo assonnato nella sua postazione appena oltre la soglia, e con un piccolo cenno della mano indicò la rampa di scale giusto oltre le buchette della posta. Quello annuì.

Cominciò a salire le scale, cercando di non sbattere ovunque la sportina di plastica bianca che si portava dietro da una mezz’ora.

Perché sì, sulla strada aveva considerato che Eric avrebbe dovuto almeno mangiare qualcosa al risveglio. E il fatto che lui (per la maggior parte) non mangiasse, e che dunque frigorifero e dispensa fossero vuoti, poteva essere un intralcio alla sua copertura.

Perciò, spesa. Era più facile alle sei del mattino, dato che non c’era nessuno nel raggio di cinquanta metri da ogni lato.

Facendo tintinnare il mazzo di chiavi prese fra le dita una delle più piccole, infilandola nella toppa della porta all’ultimo piano. Girò due volte verso destra, e quando sentì la serratura scattare, la spinse.

Il suo appartamento non era grande, ma di certo non minuscolo.

La porta principale dava sulla prima delle due stanze, la più grande, coperta di moquette beije e adibita a salotto. Uno schermo piatto era appeso sulla parete di fronte ad un tavolino di vetro basso, un divano e una poltrona in pelle dello stesso colore della moquette.

Dietro ad essi, a qualche metro, un tavolo di legno di noce dalle venature chiare e quattro sedie.

Ancora oltre un muretto bianco divideva il salotto dall’angolo cucina, sufficientemente spazioso da permettere al cuoco di turno di muoversi liberamente fra fornelli e ripiani.

Dall’altra parte dell’appartamento, invece, due porte davano una sul bagno, l’altra sulla camera da letto.

Non era enorme, ma come la cucina era grande abbastanza da oltrepassare lo standard.

Un letto matrimoniale occupava la parete accanto alla porta, in legno chiaro, a cui aveva rimediato con delle lenzuola scure. Accanto al letto una finestra a parete dava una luminosità quasi eccessiva alla stanza, dando su un piccolo balcone utile solo per stenderci l’eventuale bucato (che non faceva). Di fronte al letto vi era un mobile a muro in legno scuro, con un ripiano in marmo grigio perla su cui, teoricamente, andava appoggiato un computer, o un’altra televisione; cose che non aveva e che non si preoccupava nemmeno di procurarsi. L’armadio a muro occupava poi il rimanente spazio non occupato.

Sospirando si diresse in cucina, appoggiando la sporta sul ripiano e il borsone sul pavimento vicino al primo muro a portata.

Aveva appreso da parecchi libri di cucina che gli americani facevano colazione con uova e bacon, dunque quelli aveva comprato; mise entrambi nel frigorifero a fare compagnia all’acqua (unica cosa che ingeriva), a cui seguirono i cartoni del latte e del succo d’arancia.

Il ripiano sopra il lavello era occupato da pentole, piatti e bicchieri; così mise i biscotti, le fette biscottate, i crackers, tè e caffè nel ripiano accanto, facendo attenzione a non sbattere troppo violentemente le ante.

Una volta finito, osservò per un attimo la porta della camera da letto, dove al momento dormiva Eric.

Aveva passato una nottata schifosa.  Questo anche lui poteva capirlo.

Non aveva fatto altro che piangere a intermittenza fino alle quattro del mattino, alternando lacrime silenziose a interi quarti d’ora passati a fissare un punto morto della parete, o del pavimento, o del televisore che passava programmi notturni che nemmeno guardava. Seduto sul divano, così, semplicemente.

C’era mancato poco che non lo muovesse a pietà. Solo il pensiero che sarebbe dovuto morire – che avrebbe dovuto ucciderlo – era stato sufficiente a permettergli di non sedersi al suo fianco, magari porgendogli la tanto famigerata spalla su cui piangere.

Si era limitato a rimanere seduto sulla poltrona, guardandolo di tanto in tanto, sforzandosi di ignorarlo e combattendo contro la voglia di alzare il volume del televisore per distrarsi.

Si rendeva conto di essere stato prettamente cafone, ma non poteva farci nulla. L’ordine era imperativo assoluto: affezionarsi avrebbe solo portato a casini incredibilmente grandi, a problemi ancora più grossi e a conseguenze intrattabili. Se poi ci si metteva in mezzo l’ordinamento di vita e morte sulla Terra, la cosa diventava troppo grande per essere trattata con la razionalità e la calma che pretendeva.

Scosse il capo, distogliendo lo sguardo. Stava giungendo a conclusioni di cui non si erano ancora nemmeno manifestati i sintomi... poteva quasi passare per una persona maniacale.

Raggiungendo di nuovo le buste ne estrasse il resto – qualcosa per il pranzo, dato che sicuramente non sarebbero andati all’università – e mise nel frigorifero la verdura e il sugo, la pasta finì nello stesso scaffale del caffè.

Nel frattempo, ponderava cosa fare. Lui non aveva bisogno di dormire, dunque avrebbe passato il tempo leggendo. Si poteva notare, dai molti volumi appoggiati distrattamente su ogni superficie piana, che era divenuto il suo passatempo umano preferito.

A dire il vero aveva provato anche ad ascoltare musica. Si era reso conto che molti ragazzi di quell’età e anche più giovani passavano giornate intere con gli auricolari saldamente piantati nelle orecchie; il chiasso assordante di batterie e house music tenute a volume troppo alto si poteva sentire anche a diversi metri di distanza, se la stanza era silenziosa abbastanza.

Non aveva apprezzato, nonostante alcune canzoni non fossero poi così male. Aveva una predilezione naturale per il silenzio.

Nell’istante stesso in cui terminò di sistemare tutta la spesa, con un sonoro “click” la maniglia della camera da letto scattò, facendo si che la porta si aprisse silenziosamente.

Dall’altra parte, un Eric distrutto, assonnato e per nulla in forma si fermò sulla porta, osservando l’interno attraverso gli occhi socchiusi e ancora particolarmente gonfi.

Si trattenne da commenti poco cortesi.

« Scusa, ti ho svegliato? » domandò invece, facendosi uscire un tono di voce basso e non particolarmente concitato. Nemmeno particolarmente dispiaciuto, ma era quasi certo che Eric non lo avrebbe notato.

Quello scosse il capo, silenzioso. Non aggiunse nulla al gesto, limitandosi ad occhieggiare ciò che indossava.

« Questo è tuo? » chiese poi, con un filo di voce roca e forzata, prendendo fra le dita un lembo della maglietta nera in coordinato con relativi pantaloncini.

Joshua annuì, affaccendandosi attorno alla teiera. « Tranquillo, è pulito » aggiunse con un sorrisetto.

« No, mica per quello... » ribatté l’altro con una lieve nota di imbarazzo: « è che non ho mai visto nessuno dormire con il pigiama nero, tutto qui » aggiunse, camminando silenziosamente verso il divano e sedendovisi di malagrazia.

« C’è sempre una prima volta » fu il commento alquanto serafico di Joshua, la mano già chiusa attorno ad una delle scatole comprate appena un’ora prima.

Camomilla. I libri di botanica la davano come un sonnifero blando ma efficace.

Alzò la fiamma del fornello, portando l’acqua ad ebollizione in tempi più brevi.

Fu Eric ad interromperlo, spezzando quel silenzio distratto che aveva ricoperto l’ambiente come un lenzuolo di seta. La sua voce sembrava distratta, distante, e con sole due ore di sonno Abrahel non faticava a capirne il motivo.

« grazie... per l’ospitalità » borbottò, seduto a gambe incrociate sulla parte sinistra del divano.

« Figurati » fu la risposta, scontata e banale, che diede.

Si era più volte domandato per quale motivo Everald avesse chiesto proprio a lui di ospitarlo. Certo, questo facilitava di parecchio il suo lavoro, ma non aveva potuto fare a meno di considerare che nella vita di Eric gravitassero persone conosciute da più tempo; le quali, logica permettendo, sarebbero state più adatte di lui come porto franco in tempi d’emergenza.

Vide l’acqua cominciare a sobbollire e con un certo distaccamento aprì la confezione di camomilla, estraendone due bustine.

Forse lo aveva fatto perché era presente al momento dello scatto di collera del padre. O forse perché lo aveva seguito successivamente per il parco.

Si era guadagnato la sua fiducia, probabilmente; quella conclusione era la più razionale a cui poteva giungere con le informazioni in suo possesso.

Non era male, no. Ma avrebbe ricambiato tale fiducia?

Scosse il capo, cancellando quel pensiero impertinente. Il suo compito non era farsi amico la persona che avrebbe dovuto accompagnare nell’aldilà.

Chiuse gli occhi, recuperando la calma obiettiva che il suo “lavoro” prevedeva di mantenere perennemente.

Sarebbe andato tutto bene. Avrebbe fatto il lavoro, accontentato Enma e passato altri duecento anni della sua pseudo-esistenza a fare ciò che preferiva: annullarsi.

Aprì le cartine, estraendone i filtri per poi immergerle nell’acqua bollente. Cominciò a prendere un colorito giallastro non appena le mosse con il cucchiaio.

Non resistette. « Posso farti una domanda? » se ne uscì, richiudendo il coperchietto metallico e raggiungendo con la mano destra una tazza in ceramica sulla mensola.

« Spara » ironizzò appena Eric, non riuscendoci in modo credibile nemmeno di striscio.

Rimase silenzioso il tempo necessario a versare la camomilla. « Perché io? » domandò schietto, prendendo la tazza per il manico e dirigendosi nel salottino.

Eric non sembrò capire subito la domanda, e appena gli fu visibile si limitò ad osservarlo con un cipiglio confuso sul volto distrutto dalla nottata appena trascorsa.

Abrahel sorrise di riflesso, passandogli la tazza e sedendosi sulla poltrona: « intendo dire come ospitalità. Non hai pochi amici, da quello che mi è sembrato di capire... » buttò lì. Ammetteva che era per fare conversazione – forse un blando tentativo di rimediare al comportamento della notte scorsa? – ma per una buona percentuale era sinceramente curioso di capire come pensava la mente di Eric Everald.

Quello storse il naso sulla camomilla, evitando però lo sguardo dello shinigami. Si morse il labbro, un tic probabilmente, per poi cominciare a parlare: « non che non mi fidi di loro, o che non voglia loro bene. Ma... andiamo. Doug e Rob sono più le volte in cui sono fatti che quelle in cui capiscono attivamente una frase di senso compiuto, e senza offesa per McFarland, ma ha la brutta caratteristica di avere una famiglia insopportabile e tre fratelli più piccoli tra i dieci e i quattro anni » spiegò brevemente, per poi riprendere: « sì, forse potevo telefonare a mia zia, oppure chiedere ad un compagno di corso... ma i parenti ne avrebbero fatto una tragedia e non ho compagni così fidati a cui chiedere una notte d’ospitalità »

« E cosa ti fa credere che io lo sia? » lo interruppe Joshua, uscendosene con un tono serio abbastanza fuori luogo. Non poté controllarlo però, contro le sue aspettative, e decise di dare più peso alla risposta che avrebbe ottenuto che alle sue inconcludenti turbe mentali.

« Direi... istinto » fu la risposta che ottenne, completamente illogica.

« ...non ha molto senso » commentò il moro.

« No, è vero. Ma niente è mai troppo logico o troppo illogico » fu la risposta pronta.

Dire che si sentiva confuso, ora, era come usare un sinonimo in una frase che suonava particolarmente male.

Alla sua consueta incomprensione degli esseri umani si era unito qualcos’altro, una specie di disturbo di fondo che non riusciva a distinguere e a nominare. Come l’incontro di due onde della stessa lunghezza che impediva il corretto funzionamento delle ricezioni audio.

Lo infastidiva, ma solo perché non capiva cos’era.

Lo guardò a lungo mentre arricciava il naso nel sentire l’odore della camomilla. Proprio come un bambino che non vuole bere una cosa che non gli piace ma è consapevole che gli farebbe bene.

Trattenne un sorriso nato dal nulla.

« Questa mattina sono stato a casa tua » esordì poi, chiudendo gli occhi nel futile tentativo di riprendere un certo controllo su se stesso. Gli stava sfuggendo di mano la situazione.

Eric si bloccò ancora prima di inclinare la tazza per bere un sorso. Restò con gli occhi puntati sul tavolino, probabilmente cercando di convincersi ad avere solo immaginato quelle parole, e ovviamente non rispose.

Così, Abrahel continuò per conto suo.

« Ho avvertito tua madre che eri qui, e che forse saresti rimasto un paio di giorni. Ti ha mandato degli indumenti e i libri di scuola » spiegò: « e i suoi saluti » aggiunse all’ultimo istante; stava quasi per dimenticarseli.

Everald non si mosse, né diede cenno di aver capito il senso delle parole appena sentite. Solo dopo un minuto buono di silenzio ed immobilità distaccò le labbra dalla ceramica, tenendo la tazza fra le mani e fissandola.

« Mio padre? » chiese poi, con un filo di voce appena udibile.

Avrebbe risposto subito, Joshua, se non fosse stato attento ad ogni minimo movimento dell’altro. Lui, che in teoria non avrebbe dovuto capire le emozioni che potevano sconvolgere un animo umano, aveva quasi percepito la fatica con cui Eric aveva fatto quella domanda.

Perché, pur essendo un padre che non merita tale appellativo, il castano ancora gli voleva bene. Lo rispettava, persino. E si leggeva in quegli occhi gonfi e troppo stanchi fissi sul bordo della tazza fra le sue mani.

Era quella la tristezza? Quella che ora il volto di Eric stava riflettendo?

E lui provava... compassione? Pietà?

No, era un controsenso. Lui non poteva provare pietà. Per definizione la morte non può provare pietà.

Eppure...

Non seppe se seguì un istinto che in teoria non avrebbe dovuto possedere, o se il gesto di alzarsi dalla poltrona e sedersi sul divano lo avesse letto in uno dei tanti romanzi che si era divorato in quei pochi giorni.

Però lo fece. Per la prima volta, qualcosa oltre la razionalità lo mosse.

Affetto, forse. Un affetto che non avrebbe potuto e dovuto avere.

Ma non sapeva quale altro nome dare a quella sensazione di dispiacere nei confronti di Eric che continuava a sentire.

Non sarebbe riuscito a rimanere distaccato, ormai ne era cosciente. Non sarebbe più riuscito ad ignorare i suoi problemi, a guardare il tempo rimasto con occhio critico e mente libera da pensieri.

Avrebbe reso a se stesso quegli ultimi giorni un vero Inferno.

...e lui che pensava di averlo anche già visto, l’Inferno.

Gli appoggiò una mano sulla spalla prima di riprendere a parlare: « è stato arrestato, ora è alla centrale di polizia. Ha un fermo di ventiquattr’ore, però: questa sera sarà nuovamente a casa » riportò, ma non seppe dire se quelle considerazioni fossero per l’altro un sollievo o una maledizione.

Lo sentì trattenere il respiro. Le sue spalle sobbalzarono per un momento mentre un tremore diffuso faceva vacillare la tazza e la camomilla al suo interno.

Joshua si affrettò ad afferrarla, togliendola dalle sue mani per appoggiarla sul tavolinetto. Notò le mani di Eric tremare.

« che cosa... si dice qualcosa... su di lui? » domandò Eric balbettando, probabilmente trattenendo l’ennesima crisi di pianto nervoso, dovuto più alla notte insonne che al resto.

Era indeciso, Abrahel. Avrebbe potuto dirgli tutte e quattro le versioni che giravano al momento, ma dubitò che anche solo la più lieve di esse avrebbe potuto fare del bene ai nervi già provati di Eric.

Si limitò ad una risposta vaga, così come gli venne in mente sul momento: « è probabile... » mormorò, cercando di non darsi una particolare inflessione di voce al di fuori di quel moto di compatimento che sfuggiva al suo controllo: « ma non credo porterà a conseguenze gravi. Può succedere a tutti, un attimo di collera... »

Anche se lui non credeva fosse così. Semplicemente, aveva ipotizzato che il signor Trent Everald fosse una persona a cui piace avere tutto sotto controllo e le mani in pasta in ogni cosa riguardi parenti o congiunti. La vita di suo figlio maggiore si era improvvisamente allontanata da quello che l’uomo aveva programmato per lui, e il simbolo chiave di quella silenziosa rivolta era il nuoto.

Indovinare come avesse funzionato la mente del signor Everald non era difficile, una volta fornite queste basi: il nuoto era l’ostacolo che gli impediva di riavere Eric sotto il suo controllo, dunque era necessario eliminare il nuoto dalla vita del figlio.

Semplice.

« Mi sono rotto il cazzo della sua rabbia immotivata... non fa altro che urlare, e guardarmi male, come se fossi ciò che rovina la sua altrimenti perfetta vita » si lamentò il castano in risposta; le mani si chiusero a pugno fino a far sbiancare le nocche. « Che cazzo ho fatto nella mia fottuta esistenza per avere un padre simile? Porca puttana, stava quasi per menarmi... porco cazzo... » mugugnò: « ...davanti a tutti... » aggiunse in un sussurrò scioccato.

La sua presa sulla spalla si rafforzò maggiormente, come se, con quel gesto, volesse impedire al cervello dell’altro di portarlo in lidi sicuramente poco adatti al momento.

Ma non aggiunse nulla a voce, troppo inadatto a situazioni simili per poter anche solo pensare a qualcosa di sensato da dire che non apparisse terribilmente fuori luogo.

Voleva evitargli altre lacrime inutili, ma non sapeva come. Non gli era mai capitato di dover consolare qualcuno in tutta la sua esistenza.

Poi, da qualche parte dentro di lui, qualcosa decise: sempre meglio parlare e passare per incompetenti che stare zitti ed esserlo davvero.

« Ehi » chiamò, un tono molto colloquiale e privo della sua solita formalità: « passerà. Tuo padre si renderà conto di avere sbagliato i calcoli e ti chiederà scusa, in linea con l’uomo adulto e responsabile che dimostra di essere. Ha solo bisogno... »

Di sbattere la testa contro un muro chiamato “buon senso” pensò.

« ...di tempo » concluse però, e si stupì di quanto la sua voce poteva suonare dolce. E non si stava nemmeno impegnando.

Contrariamente alle sue previsioni, però, Eric ridacchiò. « Si vede che non hai la minima idea di com’è messo mio padre... » pronunciò, spegnendo la risata nel nulla da cui era nata.

Non rispose. No, infatti: non lo sapeva. Lui aveva considerato i comportamenti più giusti che gli esseri umani avrebbero dovuto tenere con altri della loro specie, per formulare quella risposta... se Trent Everald usciva dagli schemi, lui automaticamente non aveva basi su cui sviluppare un’ipotesi comportamentale.

Considerò che, magari, era meglio troncare il discorso prima che si fosse trasformato in qualcosa di più deprimente di quello che già era.

« Eric, dovresti dormire » intervenne dunque: « hai riposato solo due ore, non è sufficiente nemmeno per sbaglio » aggiunse, alzandosi dal divano nel tentativo di guidarlo verso la camera da letto.

« Ti secca se dormo qui? » domandò però l’altro, rimanendo seduto ed indicando il divano.

Joshua lo guardò un po’ accigliato. « No, puoi stare dove preferisci » acconsentì poi.

« Grazie » ringraziò l’altro, stendendosi sul divano senza nemmeno posizionarsi bene i cuscini sotto la testa. Si vedeva dai movimenti che non aveva la forza necessaria e che Morfeo richiedeva ancora la sua presenza nel suo mondo.

Abrahel sospirò, arrivando velocemente in camera da letto per recuperare una coperta. Tornando in salotto la distese sopra Eric, coprendolo alla bene e meglio.

Fece per tornare in cucina, ma la mano del castano si chiuse velocemente sul suo polso, trattenendolo.

« Resti nei paraggi? » chiese biasciando, la voce già impastata.

Di nuovo, lo shinigami non poté evitarsi di piegare le labbra in un sorrisetto lieve. « Non vado da nessuna parte » assicurò, tornando sui suoi passi e sedendosi sul tappeto ai piedi del divano, la schiena appoggiata ad esso.

Non ci volle molto – giusto qualche minuto – perché l’altro di addormentasse di nuovo.

Prese uno dei libri a portata di mano e cominciò a leggere, in silenzio.

 

Da quella posizione non si mosse mai.

Eric dormì per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio. Quando riaprì gli occhi erano ormai le quattro e il sole al di là delle tende era ancora alto. C’era bel tempo, e il vociare degli studenti radunati al vicino campus universitario si poteva sentire molto bene, dato il silenzio che regnava nella camera.

Lui aveva passato tutto il tempo leggendo. Prima un trattato scientifico sull’ultima teorizzazione del tempo dentro ai buchi neri, poi un romanzo poliziesco che aveva l’aria di non essere molto serio, ma che alla fine aveva apprezzato. Almeno dipingeva la vita per quello che era: senza lieto fine.

Leggere lo aveva distratto a sufficienza, così aveva evitato furbescamente di porsi le domande del caso in relazione al suo comportamento del tutto fuori dagli schemi.

E di sicuro non cominciò dopo che il castano riaprì gli occhi.

Parlarono. Di tutto, per la verità.

Eric non aveva intenzione di sollevarsi dal divano e, d’altro canto, lo shinigami nemmeno glielo chiese. Anzi, neanche lui si spostò da quella posizione, che aveva tenuto per quasi dieci ore di seguito.

Eric gli chiese molte cose, quasi tutte senza un senso logico a cui fare appello. Gli domandò se aveva dormito (« un po’ nel pomeriggio, ma sono abituato a dormire poco »), perché avesse scelto Fisica (perché è l’unica cosa che non cambia a distanza di secoli... pensò, ma rispose tutt’altro, ovviamente) e se era sempre stato un suo hobby leggere così tanto (« i miei genitori sono contadini, in campagna ci si annoia se non si hanno lavori da sbrigare »).

Non toccarono mai il discorso “Trent Everald”. Almeno non fino a cena, in cui Joshua espresse le sue qualità di tentato cuoco preparando ad Eric un piatto di pasta al pomodoro e un filetto di vitello con verdure. Lui si limitò alla sua insalata-copertura.

« Penso che tornerò a casa, domani mattina » confidò il castano ad un certo punto, fissando con un sorriso spento il rimanente pezzo tagliuzzato di carne.

Joshua evitò di mettersi in bocca l’ennesima, insapore forchettata di insalata, drizzando le orecchie. « Non sei costretto » commentò poi, riscoprendosi contrariato dalla sua scelta.

« Lo so » gli rispose Eric, abbandonando definitivamente i tentativi di mangiare anche quel misero pezzetto di carne che gli avanzava nel piatto. « Però non è giusto per la mamma. E poi è casa mia... devo tornare. Non posso comportarmi come un moccioso in preda ad una crisi esistenziale che scappa di casa dopo una sculacciata del padre » spiegò.

Le sopracciglia di Joshua scattarono brevemente, invisibili allo sguardo basso di Eric.

Certo, se paragonare il manrovescio spacca-denti che aveva intenzione di tirargli il padre ad una sculacciata era un esempio corretto...

Chiuse gli occhi un istante, facendo per alzarsi dal tavolo. « La scelta è tua » liquidò velocemente, raccogliendo i piatti per poi dirigersi al lavello.

Non parlarono per tutto il resto della serata.

 

Eric si era addormentato di nuovo verso le undici, proprio quando la sua pazienza stava per giungere a quel limite che segnava il confine di non ritorno.

Aveva fame. Mangiare cibi umani non nutriva veramente il suo corpo; era un po’ come l’acqua: disseta ma non è fonte di sostentamento . E stare vicino ad un’anima candida non era di certo un bel modo per placare l’appetito.

Aveva cominciato a percepirne il leggero odore dolce intorno alle nove. E, di conseguenza, aveva trascorso le successive due ore a trattenere il fiato ad alternanza, cercando di non pensare all’acquolina che la presenza dell’anima di Eric sembrava scatenargli.

Lui non era abituato alle anime candide. Era come fare annusare del cioccolato a qualcuno che vive solo di sesamo.

Così fu costretto ad uscire.

Aspettò mezz’ora prima di aprire la porta – così da essere sicuro che Eric dormisse veramente – e si diresse a passo svelto verso Heaven’s Park.

Trovò quasi subito la persona che faceva al caso suo: un uomo solitario che si aggirava pensieroso fra i viottoli della parte orientale del parco, accanto alle fontane. Sembrava un uomo d’affari a giudicare dalla cravatta di seta e dalla ventiquattrore in cuoio, ma non ci badò molto. Lo avvicinò con una scusa e, senza la minima fatica, gli sottrasse il minimo dell’energia vitale necessaria a sfamarlo.

Lo lasciò stordito sul bordo della fontana, ma non se ne preoccupò molto: entro un’ora si sarebbe ripreso e, comunque, lungo tutto il parco vegliavano già ronde di sorveglianti notturni in divisa.

Sicuramente rifocillato, uscì dal parco e si diresse verso nord.

A nord di Heaven’s Park c’era un cimitero. Il campo dall’erba accuratamente rasata era puntellato di lapidi in marmo, che risplendevano biancastre nel riflettere la luce della mezzaluna di quella notte.

Il posto ideale per un dio della morte, osò pensare. E, in effetti, era come mettere piede dentro un carcere i cui occupanti ce li hai spediti tutti tu.

La cosa bella era che, di sicuro, non potevano parlare.

E poi il cimitero aveva effetti benefici sui suoi nervi.

Magari era proprio il luogo. Morte attira morte, una cosa del genere... ma di sicuro quello era il posto più adatto per mettersi a riflettere senza fretta, mettendo in ordine pensieri impilati da qualche parte nel cervello e lì lasciati a fare polvere.

L’importante era non scavare troppo a fondo. Pensieri di cento anni erano tutt’uno con le ragnatele, ormai, e toglierle tutte era sconsigliabile oltre che difficile, per uno come lui con la tendenza alla depressione.

Così si limitò a considerare quelli relativi alla giornata.

Non poteva fingere con se stesso di non avere provato alcuna sensazione, passando tutto quel tempo a stretto contatto con Eric. Lo avevano colpito più cose di lui in due ore che in tre giorni interi.

Come la sua speranza incrollabile, o il suo ottimismo. La sua rabbia verso il padre e poi la successiva preoccupazione, sempre per quel padre che pochi istanti prima stava insultando.

Segno che non lo faceva davvero. O, se veramente voleva sbeffeggiarlo, tutti gli improperi che gli rivolgeva non li pensava seriamente.

Sbuffò. Era caratteristica peculiare delle anime candide questa inarrestabile speranza; una cosa che avrebbe detestato, se solo avesse potuto arrivare oltre al fastidio. Se avesse potuto provare sentimenti forti come l’odio, per esempio.

Ma gli shinigami non potevano. Loro non provavano sensazioni forti.

Solo lievi ombre delle stesse.

Ecco dunque che la rabbia pura e semplice di trasformava in irritazione, l’odio spiccato in pressante fastidio, la felicità in sollievo, la gioia in lieve contentezza. Altre volte, semplicemente, il sentimenti non venivano nemmeno riconosciuti e finivano per mescolarsi a tutti gli altri in un’accozzaglia senza capo né coda.

Sospirò, stendendosi di schiena sulla base quadrata di una scultura in pietra levigata: un angelo donna dalle ali spiegate, distese sulle lapidi come se fossero tutte sotto la sua protezione.

Sghignazzò. Ironico, quantomeno, che si fosse messo proprio lì sotto.

« Un dio della morte in un cimitero ha un po’ il senso del macabro » sentì dire da qualche parte alla sua destra, il tono di voce vellutato che aveva già udito in precedenza senza un’inflessione particolare di tono, se non quella punta di sbeffeggio e ironia tipica degli eterni giovani.

Voltò pigramente il capo in quella direzione, incontrando la figura del vampiro conosciuto due notti prima. Il modo in cui quei capelli e quegli occhi dannatamente chiari riflettevano la luna era così particolare da rimanere impresso, anche contro la volontà.

Non rispose alla provocazione, tornando a chiudere gli occhi e lasciando che la creatura si avvicinasse. Non era particolarmente desideroso di avere compagnia, ma nemmeno così impaziente di liberarsene.

Lo sentì camminare in sua direzione, poi salire sulla base della statua e appoggiarsi con la schiena a quella della donna scolpita, la testa semi nascosta dalle ali di pietra.

Rimasero in silenzio entrambi, assorti nei più diversi pensieri. Finché non fu, contrariamente alle aspettative, Abrahel a stancarsi di quel pesante silenzio che solo nei cimiteri si poteva avere.

« Tu sei in giro ogni notte? » chiese, conscio anche senza aprire gli occhi che il vampiro lo stava ascoltando.

« In qualche modo mi devo nutrire, se non voglio azzannare la famiglia che mi ospita » spiegò apatico; anche se Abrahel si convinse che forse non gli sarebbe dispiaciuto troppo, piazzare i denti nella giugulare di qualcuno della sua “famiglia”.

« Potresti farlo e basta » ribatté di nuovo, particolarmente pessimista.

« Sì certo, e poi chi li sente quei rinsecchiti degli anziani? No grazie, voglio vivere il resto della mia immortalità senza rotture di palle varie » ribatté Marcus – si chiamava così? – tranquillo nonostante il vocabolario da orco delle montagne.

Lo shinigami ghignò. Come loro, anche i vampiri erano legati a leggi antiche che prevedevano una cosa innanzi tutto: la segretezza. Entrambe le loro razze, per il mondo, esistevano solo sottoforma di miti e leggende.

« Posso sapere cosa ci fai sul Mediano? » domandò poi il vampiro, probabilmente approfittando della conversazione appena iniziata.

Sembrava di buon’umore, quella notte.

« Lavoro » rispose lui, sinteticamente.

« Qualcuno che conosco? » chiese l’altro.

« Everald... Eric » si ritrovò a dire lo shinigami, dimentico della clausola sulla segretezza della vittima prescelta dal fato.

Beh, poco male. Non era come rivelare al mondo la loro esistenza; e poi non era sicuro che una particolarità simile fosse valida anche per altre creature oscure come i vampiri.

Tuttavia, Marcus rimase in silenzio. Per troppo.

Abrahel aprì un occhio, guardandolo di sbieco. « Lo conosci » considerò, e non era una domanda.

« Non io » disse subito l’altro, puntando lo sguardo da qualche parte nella semi oscurità: « Noah » rivelò.

« Un tuo amico? » domandò Abrahel.

« Il mio fratellastro » corresse l’altro.

« Vampiro? » chiese di nuovo.

« Umano » specificò l’altro, di nuovo.

Abrahel si lasciò sfuggire un ghigno particolarmente ironico. « Quanti ne hai già avuti? » esordì, ancora ghignando.

« Quattro » disse Marcus: « ma questo sarà l’ultimo ».

Abrahel non ricordava dove aveva già sentito un’inclinazione di voce talmente decisa, ma era sicuramente qualcuno che bazzicava nelle alte sfere dell’aldilà. Tuttavia non ci diede molto peso, mettendosi seduto per osservare Marcus senza avere le ali di pietra come impiccio. « Spiegati » ordinò poi, improvvisamente perentorio.

L’occhiata che gli riservò il vampiro, quelle iridi rosse di chi ha appena consumato un pasto abbondante, era quanto di più minaccioso esistesse sul Mediano. La sfortuna dell’essere era che lui aveva visto di peggio; per quello non si lasciò smuovere.

Marcus non replicò, ma qualcosa dentro quegli occhi fornì comunque ad Abrahel la risposta che cercava. Capire gli esseri notturni era complicato, sì, ma non quando si trattava di emozioni umane facilmente intuibili.

« Vuoi trasformarlo » notò, e anche quella non suonava come una domanda.

« Non lo so ancora » si difese l’essere, improvvisamente sulla difensiva.

« Vuoi sottrarlo alla morte » proseguì però Abrahel: « perché? » chiese.

Gli occhi carmini volarono nuovamente su di lui, e li rimasero. « Perché è importante. Per quale altro cazzo di motivo, secondo te? » sbottò l’altro sgarbatamente, senza però alzare troppo la voce.

“Importante”. Strano il significato profondo che poteva avere una semplice parola.

Il dio della morte lo scrutò a lungo, provando a setacciare  l’anima del vampiro attraverso quegli occhi innaturalmente rossi. Non vi riuscì, ma intuì comunque quale fosse l’importanza che attribuiva a quell’umano.

« E’ il tuo amante, vero? Tu lo ami » asserì, troppo sicuro di se stesso per considerare la presenza di qualche dubbio.

Marcus ghignò. « La legge mi impone di dire “donatore” » commentò e no, quella non era una negazione.

« Tu lo ami! Un umano! » esclamò, l’ombra di una fuggevole indignazione nelle iridi così innaturalmente chiare.

Per uno come lui, che degli umani disprezzava persino l’aria che respiravano, pensare uno come Marcus accanto uno di loro era un errore sistematico, qualcosa di sbagliato.

Il vampiro però non la pensò uguale e non condivise l’indignazione. Si limitò a scendere dalla scultura, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

Prima di andarsene, il suo sguardo color rubino si posò ancora una volta su quello di ghiaccio dello shinigami.

« E’ vero, è umano. E forse non dovrei nemmeno imbarcarmi in una cagata colossale come questa sottospecie di relazione amorosa, ne sono pienamente consapevole. Non puoi sapere la quantità immonda di tare mentali che mi sono sparato nel cervello da quando è cominciata fino a qualche ora fa » disse: « ma fidati quando ti dico che piuttosto che ridurmi come te, che l’amore non lo puoi nemmeno provare... preferisco rischiare di fare del male alla persona che amo » concluse, sparendo così velocemente che Abrahel fece appena in tempo a seguirne la scia.

Sospirando, si lasciò andare di nuovo con la schiena contro la pietra.

Non faticava a credergli. Nessuno voleva essere come la Morte.

Neanche la Morte.

 

Quando rientrò nell’appartamento, buio e silenzioso esattamente come lo aveva lasciato, aprì la porta della camera da letto e si soffermò sulla soglia a guardare Eric.

Dormiva placidamente girato su un fianco, le lenzuola scure a coprirgli il corpo fino alla vita.

Osservandolo comprese davvero il significato delle parole del vampiro, dopo quasi tre ore che ci rifletteva sopra. Così come gli balenò in testa una delle possibili interpretazioni della parola “importante”.

Non poteva affermare di amarlo, come Marcus nei confronti di Noah... ma, nonostante la sua impossibilità di provare sentimenti, comprendeva che Eric era importante per lui come mai nessuno era arrivato ad essere in tutta la sua esistenza.

Senso di protezione, forse. Affetto. Non superava quelle sensazioni, ma anch’esse erano comprese all’interno di “importante”, e tanto bastava.

Avrebbe potuto avvicinarsi e accarezzargli il volto senza la paura che potesse essere d’intralcio alla missione. Dopotutto, un intralcio a se stesso lo era già diventato, praticamente dal momento in cui aveva cercato di proteggere Eric dal ceffone del padre; dal momento in cui si era messo in mezzo, decretando inconsciamente di volerlo proteggere.

Poteva oltrepassare quella porta e decidere; decidere di lasciarsi andare... oppure tornare indietro, e decidere di rinunciare.

Rimase su quella soglia fino all’alba.

 

 

__________________________________________________________________

 

Il capitolo più noioso che abbia mai scritto. Mi sono stancata solo ad idearlo, santi numi...

By the way: prima dei consueti ringraziamenti, un avviso. E’ probabile che il prossimo capitolo di Untill arriverà un po’ in ritardo.

Ho in programma una shot su Hetalia, e alcuni utenti su un altro fandom aspettano un aggiornamento che ritarda da due mesi. L’ispirazione non aiuta molto, in questo periodo.

Ok, ora che ho dato il pretesto base per farmi linciare: risposte!

 

Shichan: non posso assicurarti che Trent soffrirà le pene dell’inferno, perché ancora non lo so nemmeno io (^^’’’) però farò del mio meglio. Ti ringrazio molto sulle opinioni riguardanti i personaggi e il modo di scrittura, ma dato che di solito ne parliamo ampiamente in separata sede, ancora mi chiedo perché sto a risponderti qui XP.

Ma sappi che me gode del fatto che ti piaccia Eric, a dire il vero ci speravo XD

 

angel15: complimenti che sono molto apprezzati: il mio ego ringrazia di cuore. Sono felice che ti piaccia la storia, davvero; fa sempre piacere sapere che le trame folli che mi sparo di tanto in tanto siano abbastanza originali da piacere XD

Grazie mille per la recensione!

 

Mikayla: eh sì, la teoria di Yuuko di xxxHolic ha un suo perché. Ode all’hitsuzen.

Ti confesso che quando leggo recensioni come le tue mi viene quasi da saltellare. Il mio ego non vede confini.

Ma la contentezza che mi provoca vedere che il mio stile di scrittura, la trama e la caratterizzazione che do ai personaggi non annoia non ha eguali. Sono complimenti che tutte le ficwriter vorrebbero sentirsi dire, credo, e io non faccio eccezioni.

Perciò ti ringrazio (e complimenti per il vocabolario XD) sia per i complimenti che per la recensione. Piacerebbe anche a me incontrare Timoty in giro per l’università, se non fosse che pure io vivo in Italia e Timoty non esiste XD.

 

dea73: sì, quel povero shinigami è un po’ lento di comprendonio. Più che altro è tarlato con l’idea di essere in mezzo ad un branco di esseri inferiori... poverino, dobbiamo cercare di capirlo XD.

No, beh, in realtà il dolorino non c’entra niente XD la tachicardia è una cosa che capita abbastanza spesso quando si è molto stressati e si fa incetta di caffeina, al liceo mi capitò un paio di volte... ho semplicemente preso ad esempio. Il ruolo di Eric... beh... a dire il vero ci sto ancora pensando, avrei una scelta da fare su due finali diversi... vedrò, comunque.

Ti ringrazio comunque molto per la recensione e i complimenti sulla scrittura, fanno sempre piacere U___u.

 

Fine del mondo. No, scherzo! XP

Alla prossima dunque!

   
 
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