Capitolo
4 • Intermittenza
“…Ho conosciuto la felicità,
so cos’è,
posso parlarne con competenza,
e conosco anche la sua fine,
ciò che ne deriva di solito.
Un solo essere ti manca e tutto è spopolato,
come diceva quell’altro,
ma il termine ‘spopolato’ è proprio debole,
vi si sente ancora un po’ del suo XVIII secolo del cavolo,
non vi si trova ancora la sana violenza del romanticismo nascente.
La verità è che
solo un essere ti manca e tutto è morto,
il mondo è morto e sei morto tu stesso,
oppure trasformato in una figurina di ceramica,
e anche gli altri sono figurine di ceramica,
isolante perfetto dal punto di vista termico ed elettrico,
a quel punto non può più succederti assolutamente niente,
a parte i dolori interni
provocati dallo sfaldamento del tuo corpo indipendente…”
Serotonina – Michel Houellebecq
Com’è
che si mettevano in fila i pensieri? L’uno dopo
l’altro, concatenati da logiche e associazioni precise o alla
rinfusa?
Soprattutto
cosa li muoveva? La curiosità o l’interesse?
Com’è
che avveniva che di punto in bianco si pensava a
qualcosa o a qualcuno? Serviva un oggetto che riaccendesse
un’emozione? O forse
un odore? O anche un ricordo, uno che magari arrivava così,
mentre fai altro.
Mi
resi conto che non lo sapevo più com’è
che avveniva la
cosa più elementare al mondo.
Dov’era
la logica? La motivazione? Qual era la ratio?
Me
lo domandai più volte mentre mi stringevo al cuscino su
cui aveva dormito Hayama.
Soprattutto
quand’è che io avevo smesso di farlo? Quando
avevo cominciato a lasciarmi scorrere le cose?
Mi
venne da dire che lasciarmi scorrere le cose era ciò che
in quegli anni mi era riuscito meglio.
Era
ciò che facevo per ogni cosa mi capitasse e con ogni
persona che incontrassi.
Forse
era per quello che avevo dimenticato cosa
significasse pensare, soprattutto a cosa servisse.
Che
poi a cosa serviva pensare?
Con
Akito comunque non mi veniva, lasciarmi scorrere le
cose, dico, o anche lui, perché, pur senza percepire, da
quando era riapparso mi
balenavano nella testa troppe domande, immagini senza logica
né contesto.
Non
ne venivo a capo, non me ne spiegavo il motivo.
Sbuffai
un po’ e gettai sul pavimento il suo cuscino.
M’imposi
di non pensare più ad Hayama, anche perché tutto
quel pensare non portava a nessuna conclusione e soprattutto a nessuna
sensazione.
Era
solo un inutile spreco d’energie.
Forse
aveva ragione lui, dovevo smetterla di pensare.
E
forse aveva ragione Hisae, non dovevo lasciarmi scorrere
le cose, ma dovevo rispondere a queste sul momento, vivere la vita
così come
veniva, senza rimuginarci troppo dopo.
Anche
se si trattava di Akito Hayama.
Il
punto era che dovevo riuscirci, soprattutto se il punto
era l’unico punto che mi spingeva a non farlo.
Akito,
quello ormai era assodato, avrei dovuto spedirlo
lontano dalla mia testa e dalla mia vita, solo, mi resi conto, non era
così
semplice, dato che si divertiva a irrompermi in casa ogni volta in cui
ne
avesse voglia e il mio stupido corpo non collaborava affatto quando si
trattava
di rispedirlo lì da dov’era venuto.
Anche
lui, poi… Perché faceva così?
Perché
quella repentina fissazione con me quando erano
trascorsi tutti quegli anni di morte apparente?
Io,
poi, mica lo conoscevo più?
Perché
chi era realmente non lo sapevo mica più, soprattutto,
il fatto che avesse deciso di scegliere quella perversa maniera di
sedare il
suo senso di colpa, -ammesso che di quello si trattasse - perché doveva
essere un problema che
riguardava me?
Quante
cose gli erano capitate in quei quindici anni? Possibile
che avevano tutte a che fare con me?
Lo
trovai improbabile.
E
poi, tra l’altro, fosse stato davvero così, non
provavo
neanche uno straccio di senso di colpa nel vederglielo fare. Solo
disagio,
quindi non avrei saputo certo aiutarlo.
C’era
solo il buon senso che mi comunicava di tenerlo alla
larga, ma di fatto la mia mente e il mio corpo se ne fregavano
bellamente del
buon senso e ogni volta che lui compariva il mio corpo lo voleva e
quando lui
non c’era la mia mente me lo riproponeva.
Quello
poi, a onor del vero, la mia mente non si era mai
stancata di farlo in quei quindici anni, però ecco, era
molto più timida e
compassata, agiva nell’intimo dei sogni, non mi assillava
così come stava
facendo negli ultimi tempi, così come stava facendo da
quando Hayama aveva
sentito un certo prurito e non aveva potuto fare a meno di
comunicarmelo… Molto
apertamente, con quella irruenza che chissà da quanto tempo
era diventata una
sua caratteristica.
E
poi, a quel punto, mi chiesi, perché diamine pensavo
così
tanto a uno sconosciuto? Perché a conti fatti
l’Akito Hayama che stavo
rivedendo era a tutti gli effetti uno sconosciuto. Lui non aveva niente
– o
comunque molto poco – del mio Akito Hayama dodicenne.
C’era
più sicurezza nei suoi modi di fare, più
desolazione
nei suoi occhi, ma certo, quel parlare per enigmi senza mai lasciarsi
leggere
gli era rimasto.
Immutato
e fastidioso come innata caratteristica.
E
io! Perché diamine gli avevo quasi aperto le gambe? Come
mi era venuto in mente di dormirci insieme?
Ma
soprattutto… Perché non l’avevo trovato
così
sconveniente, ma anzi non vedendolo accanto a me avevo quasi avvertito
un
inspiegabile senso di solitudine?
Quando
ero diventata così malata? Ma poi, potevo ancora
definire tutti quei miei atteggiamenti involontari, tutte quelle
domande, malattia?
Se
fosse stata malattia, comunque, mi parve chiaro che non
doveva essere la mia, piuttosto qualcosa che mi aveva attaccato lui.
Maledetto.
Sbuffai
sonoramente archiviando la questione in un punto tra
la mia apatia e il mio vuoto interiore e mi tirai giù dal
letto perché per la
vigilia avevo promesso a mia madre che non mi sarei negata.
Mi
aveva chiesto di pranzare insieme a casa sua, in quella
stessa casa che un tempo definivo nostra, mia, della mamma, di Rei e
della
Signora Shimura e che col tempo, col lento scorrere degli anni e il
lento
ristagnare della mia malattia, aveva rimpicciolito sempre
più il senso stesso
di quell’aggettivo.
Ora
che in quella grossa casa rimaneva solo mia madre, ora
che era diventata solo casa sua, entrarci mi metteva addosso uno strano
senso
d’inappartenenza.
Forse
perché mia madre, negli anni, aveva perso il brio dei
suoi colori, i suoi copricapi strampalati, le sue risate chiassose,
l’armonia
della sua casa e la vitalità di quelli che la popolavano e
aveva sostituito
tutto con un grigio plumbeo che se l’era divorata a poco a
poco.
Non
saprei dire con esattezza quando successe, a me parve di
ritrovarmela così, sola e grigia in una grande casa, di
punto in bianco.
Eppure
doveva esser stata una cosa lenta, covata dentro, e
giorno dopo giorno, lentamente, era venuto giù tutto, pezzo
per pezzo, come
intonaco colorato raschiato via da della muffa.
Mia
madre era sola. Aveva escluso dal suo mondo tutto e
tutti eccetto me, il mio problema e il suo lavoro.
La
sua solitudine, però, era diversa dalla mia.
La
mia era volontà, non conosceva né disagi
né sofferenze.
La
sua era conseguenza, conseguenza di quel mio problema che
ormai invadeva la sua mente come un’indomita ossessione che
l’accecava, che le
raschiava da dentro rendendola ruvida e impenetrabile
all’esterno.
Certe
volte, quando ricordavo la mia infanzia, quando
ricordavo quella che era stata la mia mamma profumata di colori e la
confrontavo con quel che mi restituiva la sua immagine da adulta, mi
convincevo
del fatto che fosse partita una notte in gran segreto per un viaggio
intorno al
mondo alla ricerca di un antidoto portentoso da consegnarmi come un
graal,
lasciandomi un suo clone maldestro nell’attesa del suo
ritorno.
Presto
o tardi tornerà con il suo antidoto, mi dicevo, e nel
frattempo mi ero limitata ad essere condiscendente con quel clone che
aveva
l’aspetto di mia madre.
Nevicava
quella mattina e i mezzi pubblici erano in tilt,
così le inviai un messaggio chiedendole di spostare il
nostro appuntamento da
casa sua a casa mia, in fondo lei aveva un auto e un autista, ma
rifiutò
categoricamente dicendomi che sarebbe stato meglio un ristorante che
era a metà
strada tra le nostre abitazioni.
Lei
non amava casa mia e non ne faceva mistero, mi aveva
sempre detto che le metteva addosso disagio e tristezza,
così come mi aveva
detto che avrebbe voluto tornassi a vivere con lei perché
sapermi sola in un
appartamento lugubre e spoglio, pieno zeppo di condomini eccentrici
come il
mio, non la faceva stare tranquilla.
Io,
ovviamente non commentavo, erano ormai tre anni che
vivevo lì e avevo sempre pensato che quella fosse stata la
scelta più saggia
che avessi fatto negli ultimi quindici anni.
A
me casa mia andava bene, spoglia o no. Era una dimensione
solo mia che mi tranquillizzava, saperla sudicia, inappetibile e
invalicabile
mi metteva addosso anche una maggiore serenità.
Mi
chiesi perché Akito o la stessa Hisae non
l’avessero mai
considerato un limite quel mio barricarmi in un posto simile, ma poi
lasciai
perdere, quella mattina non volevo più avere altri pensieri
per la testa, già
bastava mia madre.
Mi
diede appuntamento al “Kodocha” un posto che
entrambe
conoscevamo molto bene perché mi ci portava spessissimo da
bambina, soprattutto
quando dovevamo festeggiare qualcosa d’importante per la sua
carriera o la mia.
Mi
ricordo che da piccola amavo quel posto perché era
colorato e aveva l’odore dello zucchero filato e
quell’odore io l’avevo sempre
associato a lei.
Quando
arrivai lì mia madre non c’era ancora, pensai di
aspettarla all’interno perché quel giorno la neve
gelava le strade e imbiancava
le auto e gli ombrelli della gente che trafficava per strada, rendendo
il
panorama cittadino molto simile a come avrei voluto che fossero i miei
pensieri.
Mi
misi comoda e pensai che nonostante il passare degli
anni, tutto lì sembrava rimasto fermo alla fine della mia
infanzia, erano
cambiate solo le facce dei gestori.
Mentre
una cameriera mi salutò in un sorriso, sperai che per
quel giorno, da quella porta, entrasse la mia vera mamma, anche senza
quell’inutile antidoto.
«Aspetti
da molto, tesoro?»
La
guardai per un istante nel suo cappotto rosso, quasi mi
convinsi fosse lei, poi se lo sfilò di dosso e si mise a
sedere difronte a me.
Mi restituì il solito sorriso nervoso nel suo solito abito
grigio, più grigio
del suo viso, e capii che la vera lei doveva essere ancora in viaggio.
«Sono
appena arrivata…»
«Ma
lo sai che sei molto bella oggi, tesoro?»
Mi
riguardai un po’ seduta su quella sedia, non vidi
qualcosa di particolare nel mio look, avevo i soliti piatti capelli
castani, un
semplice maglioncino verde e dei pantaloni neri.
«No,
no, parlavo del viso, sei radiosa, sai?»
Mi
strinsi nelle spalle, pensai che molto probabilmente era
merito di tutte quelle cremine con cui Hisae
m’impiastricciava la faccia ogni
sera.
«Bene,
sono contenta.» Commentò prima
d’inforcare gli
occhiali e sprofondare nel menù.
Quando
era diventata così cieca da aver bisogno di lenti per
la presbiopia? Da qualche parte avevo letto che cominciasse a colpire
dopo i 40
anni e mi resi conto di non essermi mai accorta che anche lei avesse
cominciato
ad usarle.
«Da
quando porti gli occhiali?»
«Mi
servono solo per leggere. Ormai non metto più a fuoco le
cose vicine. La tua mamma non è più
così giovane, sai?» Fece e scoppiò a
ridere, ma non era la sua vera risata.
Era
a disagio con me, quella era una cosa che io avevo a
fuoco da tempo ormai e con cui convivevo senza pormi troppe domande.
Mangiammo
ramen e bevemmo acqua frizzante, le chiesi del suo
libro e lei mi chiese dei miei incontri con la dottoressa Naoki, le
chiesi del
dei suoi programmi per capodanno e lei mi chiese perché non
avessi voglia di
trascorrerlo con lei piuttosto che perdere tempo dietro alle stramberie
di
Hisae, poi le parlai del mio lavoro e lei mi chiese di quello di
Naozumi.
«Non
ti ha mai chiesto di ricominciare?»
«Lo
sai che lo fa.»
«Bravo
ragazzo.» Commentò, attirando poi
l’attenzione di una
cameriera. «L’attrice, sei nata per fare
l’attrice.» Concluse.
«Ordiniamo
altro, ti va?» Me lo chiese quando ormai aveva
già considerato l’idea di farlo a prescindere da
una mia qualsiasi risposta e
sospirai lievemente. Volevo solo che quel pranzo finisse alla svelta.
Avrei
mangiato senza fare troppe storie qualsiasi cosa e
sarei tornata a casa mia, sotto le coperte.
La
vidi ordinare un tonkatsu per me e un chashu per lei, una
diet coke per me e del vino rosso per lei e mi venne da pensare ad
Akito.
«Ho
rivisto Akito.» Le dissi guardando la cameriera
allontanarsi.
Lei
mi guardò stirandosi un po’ troppo il tovagliolo
sulle
gambe. «Sì… Me l’avevi detto.
Com’è? Carino?»
Me
lo chiese, ma mi sembrò poco desiderosa di ricevere una
vera risposta, si limitò a guardarsi un po’
intorno senza prestarmi troppa
attenzione.
Io,
da canto mio, mi strinsi nelle spalle, pensai che in
effetti se fosse carino ancora non me l’ero chiesto. Certo il
mio corpo lo
trovava irresistibile.
«Ho
rivisto ancora Akito.» Precisai.
«Quando?»
Mi parve irrigidirsi, si tolse gli occhiali e li
poggiò su un lato del tavolo.
«Tre
settimane fa, è venuto a casa mia e mi ha preparato la
cena… E poi stanotte…»
«Stanotte?»
«Già.
Ha dormito da me.»
A
quel punto mia madre –o forse il suo clone- mi
sembrò
ingrigirsi più di quanto già lo fosse, mi chiesi
se qualche circuito difettato
non le stesse spuntando fuori dagli occhi perché mi accorsi
che mi fissarono
intermittenti, come se di tanto in tanto emettessero dei segnali di
scarsa
ricezione.
La
cameriera arrivò al tavolo con le nostre bibite e mia
madre si versò da bere senza lasciar andare una parola.
«Ce
l’ho costantemente nella testa… Non sono sicura,
forse
non è saggio per lui, però… Penso che
mi faccia piacere vederlo.»
«Io
penso che sia una perdita di tempo.»
«Dici?»
«Dico.»
«Beh,
io…»
«E’
duro di comprendonio quello là. Lascialo perdere.»
Me lo
disse quasi come se stesse dandomi un ordine, con un tono fermo,
intransigete,
guardandomi dritta in faccia senza alcuna intermittenza negli occhi.
«Buono
questo ramen, vero?»
Quelle
sue parole mi parvero stridere con la volontà che io
avvertivo di parlargliene, corrugai la fronte fissandomi il ramen nel
piatto,
avrei voluto aggiungere altro ma mi limitai ad abbozzare un cenno poco
convinto
e non parlai più.
Per
quanto ne avvertissi un oscuro bisogno, mi resi conto
che non avrei dovuto parlare di lui a nessuno che non fosse Hisae, ma
lei non
era con me e io sentivo la testa scoppiare, dovevo pur dirlo a qualcuno
che lui
mi rombava nella mente come un motore fastidioso che
m’impediva di sentire
altro.
Non
seppi dire se quel bisogno avesse a che fare con la
paura. Lui non mi spaventava affatto, forse però tutto quel
pensare a lui stava
cominciando a spaventare me, altrimenti perché quella strana
esigenza?
Mi
concentrai sull’aspetto di alcuni clienti, sperai di
trovare qualche dettaglio interessante su cui soffermare la mia
attenzione, ma
non c’era nulla di così potente da assorbirmi e
reimmettermi al centro della
mia apatia, neanche il copricapo storto che indossava la cameriera che
ci
svolazzava di fianco a ritmi regolari.
Lasciai
andare un lungo sospiro e puntai ancora l’attenzione
su mia madre che mangiava fissandomi il piatto ancora pieno di ramen.
«Devi
mangiare.» Mi disse e io pensai che l’unica cosa
che
sentivo di dover fare era sapere cosa intendeva lei con quelle strane
parole.
«Che
vuol dire?»
«Che
hai bisogno di nutrirti, mi sembra ovvio.»
«No.
Che intendi con è duro di comprendonio?»
Mia
madre mi guardò rigirandosi il calice di vino tra le
mani, si mise meglio sulla sedia e ne mandò giù
appena un sorso.
«Due
anni e mezzo fa, quando è tornato da Los Angeles,
è
venuto a cercarti a casa nostra, sai? Penso sia la prima cosa che ha
fatto dopo
aver rimesso piede in questa dannata città.»
Quella
notizia mi destabilizzò, fissai la mano anellata di
mia madre stringere il calice con una certa intensità. Le
erano sempre piaciuti
gli anelli con le pietre turchesi o i rubini, mi chiesi
quand’è che aveva
cominciato a mettere le fasce dorate.
«Ho
chiesto ad Hayama di tenersi alla larga da te.»
«E
perché?»
«Era
malconcio… Tu stavi frequentando Naozumi da poco e dopo
tutti quegli anni avevi cominciato ad avere una sorta di
stabilità.»
«Ma…
Che gli hai detto?»
«Ma
niente di che… Che avevi passato un periodo difficile ma
che ora stavi bene ed eri felice al fianco di un’altra
persona.» Lo disse come
se stesse sciorinando la lista della spesa, mentre si riguardava il
vino nel
bicchiere con aria di sufficienza, quasi come se stesse parlando di un
cencio
vecchio, una faccenda che meritava meno attenzione delle
caratteristiche di un
vino rosso. «Un tempo qui il vino era migliore.»
Commentò.
«Cos’altro
gli hai detto?»
«Che
sbucare così all’improvviso non sarebbe stato
corretto
da parte sua… Considerando anche il modo in cui se
n’è andato.»
Sentii
un lieve contraccolpo, come se per un istante l’aria
non mi arrivasse ai polmoni. Pensai a Hisae, a Fuka, al fatto che con
ogni
probabilità lei non avesse affatto parlato ad Akito di me.
«Mamma
ma perché mi hai fatto una cosa simile?»
«Andiamo
Sana, eravate solo due ragazzini.»
«E
allora perché gli hai mentito?»
«Per
quanto sia certa delle mie convinzioni, era
un’incognita che dovevo arginare, mi dispiace.»
«Un’incognita?
Mamma è di Akito che stiamo parlando, non è
un’incognita,
lo hai sempre saputo chi era per me!»
Mi
resi conto che quel discorso, cominciato con voce
tremante, quasi incerta, si era indurito non appena le mie labbra
avevano
pronunciato il suo nome, non me ne accorsi neanche, ma di fatto le
urlai addosso
attirando l’attenzione di alcuni commensali.
«Abbassa
la voce…» Disse, e finalmente mise in tavola quel
bicchiere, guardandosi intorno in un risolino colmo di disagio.
«Non gli ho
mentito.»
«Non
gli hai mentito?»
«Oh
senti! L’ho fatto per il tuo bene e poi mi sembra che tu
abbia una tua vita tranquilla e una relazione stabile con un uomo che
ti ama.»
Io
non dovevo avere percezione dei miei sentimenti, né delle
mie emozioni, ma a quel punto mi parve chiaro che mia madre non aveva
alcuna
percezione di me.
Mi
portai una mano ad accarezzarmi il collo, quella
situazione, quella conversazione mi stavano agitando, mi sembrava di
non
riuscire a incamerare aria dalle narici, sentivo il mio respiro nella
bocca e
cercai di acciuffare una certa padronanza in un sorso
d’acqua, mentre mia madre
seguitava a guardarmi con l’aria di chi aveva una visione
molto più lucida su
un piano che andava ben al di là della mia comprensione.
«Mamma,
rispondimi onestamente, pensi che io sia felice?»
«Hai
una stabilità, mi pare, no?»
«Mi
rimpinzo di farmaci, riempio alla rinfusa degli inutili
questionari per una terapeuta e ho una relazione con uomo egocentrico e
distratto che mi nasconde al mondo intero per non avere rogne. Ti
sembra una
stabilità questa?»
«La
Dottoressa Aoki non piace neanche a me, la cambieremo.
Quanto a Naozumi lo fa per il tuo bene, abbiamo pensato che non
è positivo
esporti ai media così.»
M’immobilizzai
del tutto a quelle parole. Ma gli occhi
sembravano schizzarmi ovunque, la studiarono attenti come mai avevano
fatto
prima di quel momento e registrarono frenetici ogni suo micromovimento.
Beveva ancora
quel vino rosso costoso che strideva con la diet coke che per quella
volta mi
aveva concesso, forse solo perché era un giorno di festa.
«Lo
sai che non sono più la tua bambina?»
«Sana,
piantala, stai facendo una scenata! Noi ti vogliamo
bene, ti proteggiamo e sappiamo cosa sia giusto per te! Caspita! Io lo
so, sono
tua madre.»
Piegai
un po’ la testa su un lato e strizzai gli occhi, come
se stessi cercando di vedere anche io quel piano senza macchie
né incognite che
mia madre e il mio fidanzato avevano orchestrato per me, povera stupida
vittima
di un’apatia da cui loro volevano solo salvarmi. Ma non ci
riuscii. Lessi solo
del terrore negli occhi vitrei di mia madre che mi scrutavano con
qualcosa di
oscuro e incomprensibile, con quel possesso morboso e ingombrante che
fino a
quel punto non ci avevo mai riconosciuto dentro.
«E
cos’altro avete deciso insieme tu e Naozumi per il mio
bene, sentiamo?» Glielo chiesi senza neanche guardarla in
faccia, con lo
sguardo vuoto, fermo chissà dove su qualcosa alle sue
spalle, come in trance.
«Non
voglio che tu lo veda più, ci siamo intese?»
«Certo,
poi che altro?»
Forse
ci lesse dentro del sarcasmo in quelle mie parole, e
forse c’era davvero, ma a quel punto non controllavo
più nulla, avevo lasciato
andare mente e corpo, vedevo solo una donna che non era mia madre
muovere le
labbra in un tremolio nervoso.
«Esamino
io i tuoi medici a uno a uno, so io cosa hai attraversato
a causa sua e soprattutto so io quanto è stato duro passare
questi ultimi
quindici anni a guardarti sprofondare e ridurti sempre peggio! Quindi
adesso non
permetto a nessuno di arrivare dalla preistoria e fare il bello e
cattivo
tempo! Ora fai quel che dico io, intesi?»
Ancora
quella parola, schiusi un po’ le labbra nel
sentirglielo dire. «Preistoria…»
Mormorai. «Anche Hisae l’ha chiamata
così.»
«Bene,
per una volta io e quella strana ragazza sembriamo
esser d’accordo.»
Non
mi venne neanche da dirle che Hisae ormai non sarebbe
stata affatto d’accordo con lei, non avrebbe capito, avrebbe
frainteso e forse
neanche m’importava capisse.
A
quel punto, come se fossi tornata in quel posto, difronte
a lei, a quel tavolo ricolmo di cose che non avrei voluto, la guardai
dritta in
faccia ricordandomi il viso di Akito, il suo sorrisetto furbo, la sua
bocca
sulla mia e le sorrisi reggendomi il viso con una mano.
«Avrei
tanto voluto fare l’amore con lui
stanotte…»
Sussurrai.
Quella
notizia proprio non le andò giù, la vidi perdere
il
suo aplomb, sbarrare gli occhi mettendo a tacere un improperio che una
donna
come lei non poteva lasciarsi sfuggire in un luogo pubblico e mi
pizzicò con
forza la mano che poggiavo sul tavolo, ma io neanche mi mossi, neanche
provai
dolore o fastidio.
Ormai,
la pellicola che tanto amavo mettere addosso agli
altri, l’avvolsi anche su di lei.
Non
mi arrivava.
«La
sai una cosa, mamma? Quando io e Naozumi facciamo
l’amore non sento niente e l’unica cosa che penso
è “Quando finisce tutto
questo?” Però, quando stanotte Akito mi toccava,
quando mi baciava e io non provavo
nient’altro che il piacere di sentirglielo fare, mi sono
scansata perché non
potevo stare con lui senza sentirlo come avrei voluto.»
«Smettila,
mi stai solo provocando.»
«Per
ogni volta in cui l’ho visto, non ho saputo acciuffare
neanche uno straccio di emozione, e mi ha disturbata. Lo capisci questo
cosa
significa, mamma?»
«L’unica
cosa che capisco è che da quando mi sono seduta mi
sto chiedendo per quale motivo mia figlia ha delle bende sul polso e
ora mi sto
chiedendo come la donna che ho cresciuto possa tradire gli altri senza
neanche
mostrarsi pentita.»
«Chi
sarebbero gli altri, spiegati meglio.»
«Come
chi sarebbero? Naozumi e me! Ti rendi conto che ti è
bastato rivederlo solo tre volte per peggiorare in questa
maniera?»
«Quattro…»
La corressi e mi venne da sorridere, soprattutto
mi vennero in mente le parole della Dottoressa Aoki. Se quel mio tacere
nel suo
studio era stata una reazione, ora che parlavo così a mia
madre, ora che
finalmente guardavo qualsiasi cosa mi stesse capitando -per merito, o a
causa,
di Akito- da una diversa angolazione, con quella prorompente indolenza,
potevo
ritenerla una reazione?
«Ti
rendi conto che dopo quindici anni sto reagendo a
qualcosa?»
«Nel
peggiore dei modi!»
«Può
darsi…» Le dissi, eppure, seduta a quel tavolo
difronte
a lei, per la prima volta dovetti ammettere a me stessa che rivedere
Akito era
stata l’unica cosa che mi aveva bombardato la mente dopo un
sonno di quindici
lunghi anni.
«Ma
mi sto ponendo delle domande.»
«Dunque,
mi stai dicendo che la risposta è Akito Hayama?»
C’era astio e ironia nella sua voce,
nell’increspatura che la bocca fece per
fissarsi sulla emme del cognome di Akito e ancora a me venne da
sorridere.
«Non
avrei saputo dirlo con parole migliori, mamma.»
Non
sapevo onestamente se fosse così, non lo sentivo chiaro
quanto meno, perché nonostante le domande io non avevo
né risposte né
percezioni, ma volevo che lei comprendesse l’ampiezza di quel
discorso, a
prescindere da Akito. Era più una cosa che riguardava me e
lei. Lei e
quell’irrispettoso e ingombrante amore che mi gettava addosso
e che rendeva
quel legame una colpa.
A
spezzare quell’assurdo gioco di sguardi, ci pensò
la
cameriera con l’ordinazione di mia madre. La ragazza si
chinò al tavolo in un
sorriso che presto, incrociando l’aria tesa che intercorreva
tra me e il clone
di mia madre, si dipinse di disagio.
«Da
oggi ti trasferisci da me. Tornerai a casa tua quando
Naozumi rientrerà da New York.» Concluse,
affondando una bacchetta nel suo chashu.
«Ora mangia.»
Neanche
le risposi, mi riguardai con disgusto quel tonkatsu
nel piatto, erano anni ormai che non riuscivo più a mandare
giù il maiale, ma
non avevo mai ritenuto necessario informarla.
Così
non lo feci neanche quella volta, a cosa sarebbe
servito? Era chiaro che non avrebbe ascoltato, che non le sarebbe
importato.
Mi
alzai di scatto e m’infilai il cappotto. Mia madre mi
fissò impreparata, senza riuscire a connettere parole e
ragionamento.
«Ciao,
mamma.» Le dissi semplicemente quello, prima di
prendere la porta e uscire da quel posto.
Mia
madre non si mosse dalla sua sedia, non la vidi varcare
la soglia di quel locale, ma seguirono innumerevoli telefonate a cui
risposi
secca con un unico stentoreo messaggio.
“Mi faccio sentire io,
ho bisogno di tempo per riflettere su alcune cose.”
Pensai
che quel verbo, riflettere, non lo usavo da parecchio
tempo.
Vidi
passare un taxi, mi venne in mente di chiamarne uno,
così, quando arrivò, mi ci infilai alla svelta e
sparì nel gelo di quella
città.
*****
Quando
scesi dal taxi e feci per bussare al campanello di
quell’appartamento incastrato in un lussuosissimo complesso
residenziale,
stentai a credere che fossi proprio la stessa Sana che quel mattino
aveva
lasciato casa mia.
L’alterco
con mia madre mi aveva galvanizzata, mi aveva
addirittura spinta a inviare quel messaggio a Hisae solo per ricevere
quell’indirizzo, consegnarlo al tassista e arrivare
lì.
Non
sapevo neanche se in quell’appartamento ci avrei trovato
realmente qualcuno ma lasciai correre, affidai tutto al caso, ai
movimenti del
mio corpo guidati precisamente dal confluire dei miei pensieri su
quell’unica
ingombrante sagoma.
“Che hai intenzione di
fare?”
Guardai
la notifica di quel messaggio della mia migliore
amica e scelsi d’ignorarlo, mi sentivo addosso una frenesia
che non avevo
intenzione di sprecare.
Quando
quella porta si aprì i suoi occhi si sollevarono in
una scia luminosa seguiti istantaneamente dal suo sorriso.
«Dio
mio! Che piacere!» Urlò vedendomi su quella porta.
«Qual buon vento?»
«Scusami…
Io… Devo parlarti, posso entrare?»
Fuka
si guardò l’orologio al polso. «Certo,
tra un ora però
devo uscire.» Così mi disse e mi fece cenno di
seguirla.
Il
suo appartamento era ampio e luminoso, ma freddo.
Pieno
zeppo di quadri con uomini con le facce da animali
incastrati in decori geometrici alle pareti, trovai quasi grottesca
tutta
quella perfezione.
Mi
fece accomodare sul divano in pelle scura del salotto e
s’avviò in quella che ipotizzai fosse la cucina.
Io persi buona parte del mio
tempo a fissare quei quadri.
Uno
che raffigurava una donna opulenta con la faccia da
piccione mi catturò davvero tanto, mi chiesi quale delle due
parti avesse
insidiato l’altra, era un piccione o una donna? Era la natura
umana o quella
animale a scimmiottare l’altra?
Mi
persi in quel ragionamento per un po’ quando la vidi
entrare nel salotto con dei biscotti e del tè servito in
porcellane pregiate,
sicuramente appartenenti a un antico servizio di famiglia.
«Non
dovevi scomodarti, io non mi tratterrò molto.»
«Ma
no! E’ che stanno arrivando i miei da Osaka, devo andare
a prenderli in stazione, comunque il tempo per bere un tè
insieme c’è,
tranquilla.» Spiegò, mentre io mi chiesi quando
questi fossero tornati nella
loro città d’origine, io non ne sapevo
assolutamente nulla.
A
conti fatti non sapevo nulla della vita di Fuka, ma in
quel momento non m’interessò poi molto scoprirne i
particolari.
Particolari
che sicuramente lei non reputava tali, dal
momento che a quel punto cominciò a darmene notizia con un
certo tono
d’importanza.
«I
miei sono tornati a Osaka cinque anni fa perché
l’azienda
per cui lavora mio padre l’ha richiamato in sede, io invece
sono rimasta a
Tokyo… Sai con
l’università…»
«Immagino…»
«Beh
lo so che domani è Natale e avrei anche potuto
raggiungerli, ma sai, col mio lavoro il tempo non basta mai, tra un
paio di
giorni ho una causa importante e… Dio! Spero
andrà bene, sono così agitata.»
Non
lo so se era la mia frenesia, ma lessi in quelle parole
una volontà d’importanza che non avevano, come se
stesse informandomi che la
sua vita, a dispetto della mia, le dava delle soddisfazioni, la
mantenesse
attiva e impegnata.
Le
regalai un sorrisetto di circostanza. «Sei sempre la
stessa, non sei cambiata di una virgola.»
«Già,
sempre piena d’interessi, piena di cose da fare, piena
d’impegni ma anche di soddisfazioni, ho una vita piena,
sì, lo ammetto.»
Mi
sembrò stesse rimarcando quel “piena”
volutamente, continuai a notare nel suo parlare un
fastidioso sottotesto che sapeva di rivalsa. E in effetti,
presentandomi lì da
lei così, nel giorno del suo compleanno, il sapore di quella
rivalsa, che a
conti fatti non sapevo neanche su quali basi sussistesse, un
po’ dovevo
averglielo dato.
«Beh…
Vado subito al sodo, allora.»
«Oh,
sì, dimmi pure… Mi ha fatto così
strano vederti
arrivare all’improvviso, non che mi dispiaccia, figuriamoci,
però sì… Ecco… In
genere, da quando hai smesso di fare la star, te ne stai sempre per
conto tuo…
Al massimo senti Hisae… Quindi…» Fuka
lasciò cadere il discorso lasciando che
traessi io le lecite conclusioni, mi sorrise con aria innocente e si
mise
comoda sul divano. La vidi sorseggiare del tè e rimase in
attesa delle mie
parole.
«Sei
andata a letto con Akito un anno fa.»
La
sua espressione a quel punto cambiò, sbarrò gli
occhi e
quello sciocco risolino le si cancellò dalla faccia.
«Beh…» Sussurrò cercando
di acchiappare un’espressione da appiccicarsi in faccia.
«Io veramente…»
«Non
è una domanda, sta tranquilla. La domanda è
perché?»
Glielo chiesi inespressiva, senza alzare il tono e senza nessun
nervosismo, non
era quello che mi aveva spinto fino a lei, anzi, a conti fatti non
provavo niente,
né gelosia, né delusione, neanche un senso di
tradimento, era altro il motivo
che mi aveva spinto in quella casa.
Fuka
era evidentemente a disagio, in effetti, provando a
mettermi nei suoi panni, non doveva essere una situazione facile
neanche per
una come lei. Si chinò in avanti dandosi del tempo, con una
certa flemme posò
la tazza di tè sul vassoio senza mai guardarmi in faccia.
«Beh… Sana… E’
successo una sera e non eravamo propriamente…»
Stava
cercando nervosamente di trovare le parole, una linea
di difesa preventiva e io pensai non fosse un avvocato poi
così brillante.
«Te
lo ripeto. Perché?»
«Ma…ma
perché… Non lo so… E’
capitato. E poi senti, ancora
con questa faccenda Sana Kurata e Akito Hayama? Andiamo…
Eravate dei ragazzini!
Non pensavo mica di farti torto?»
«Non
mi hai fatto torto per questo, per me ti puoi scopare
chi ti pare.»
Quella
mia risposta dovette farle guadagnare terreno,
infatti mi guardò dall’alto in basso in
un’espressione sarcastica. «E allora
per cosa? Sei venuta fin qui per dirmi che non ti dispiace?»
«No,
affatto. Sono venuta qui per chiederti perché, anche
dopo quindici anni.»
«Ah…
Quindi vuoi sapere perché a 27 anni mi sono portata a
letto il nostro fidanzatino delle medie? O perché sono stata
ancora una volta
più sveglia di te?»
Pensò
di certo di avermi colpita, in realtà, da canto mio,
ero imperturbabile, me ne rimasi lì seduta sul suo divano a
fissarla
inespressiva, come un automa. «Sei veramente fuori strada, ti
ripeto che di
Akito non m’importa affatto.»
«E
allora che cazzo vuoi?»
La
rabbia, eccola che le apparve sulla faccia, nel tono
della voce, nel corpo così proteso in avanti.
Mi
chiesi da dove le arrivasse e pensai fosse una sorta di logica
difesa delle menti deboli.
Poi
però pensai ad Hayama, volli convincermi che non ci
fosse realmente della rabbia nella sua strana perversione.
Non
avrei mai saputo immaginargli in faccia l’espressione
che Fuka aveva in quel momento.
«Allora?»
«In
questi anni, per ogni volta in cui ci siamo riviste, non
hai fatto altro che guardarmi dal tuo piedistallo e sbattermi in faccia
quanto
fosse sgradevole l’immagine che restituivo di me stessa,
quanto fossi stupida
nell’accettare lavori così poco edificanti, lavori
per cui a tuo dire “ero
sprecata”.»
«E
te lo ribadisco!»
«Mi
hai dato dell’involuta semplicemente perché non ti
andava di vedere che sono depressa?»
«Credi
che io ti abbia detto quelle cose per un senso di
rivalsa su di te?»
«Sarebbe
meschino, ma lo stai dicendo tu.»
«Io
cercavo solo di aiutarti!»
«E
come? Evidenziando l’ovvio e ignorando
l’evidenza?»
«Non
ho mai evidenziato né ignorato un bel niente, e lo
sai!» Urlò e ancora le lessi in viso quella rabbia.
«Dimmi,
Fuka, tu che scusa hai per non esser riuscita ad
andare avanti? O… parafrasandoti… Che scusa hai
per esserti involuta tanto?»
A
quel punto, Fuka alzò le mani in segno di resa scuotendo
un po’ il capo con fare disgustato.
«Tu
sei molto malata, Sana. Veramente.»
Negazione
dell’accusa e offesa della controparte. Procedura logica
per una mente debole… O per un avvocato mediocre.
O
forse ero io che avevo visto troppi psichiatri o troppi
polizieschi.
«Certo,
sono malata, mica dico il contrario. Il fatto è che
però
mi sento anche stupida se penso che a 12 anni sono caduta in un sorta
di
catalessi per dei sensi di colpa nati dall’assurda
convinzione di aver rubato
il ragazzo alla mia migliore amica.»
«Questo
è ridicolo! Ora vuoi farmi credere che hai perso le
espressioni per colpa mia? Rinfrescati la memoria, cara mia, sei caduta
in
catalessi perché Akito ti stava lasciando per trasferirsi a
Los Angeles!»
Arringa
d’effetto con prove schiaccianti. La rabbia era
sparita, ora semplicemente gongolava nel farmelo notare e si vedeva nel
suo
sorriso sfacciato, nel rigonfiamento creatosi sotto le palpebre mentre
atteggiava l’espressione soddisfatta di chi sapeva di non
poter subire alcuna
replica.
«Certo,
ma molti dei miei sensi di colpa nascevano anche da
te. Io mi ero innamorata del ragazzo della mia migliore amica, o
meglio, mi hai
fatto credere che te lo stavo rubando, ma è giusto dire
così?»
«Beh…
Se non fosse stato per Tsu… Mica sapevo cosa avevate
passato prima del mio arrivo?»
«Perché
tu avevi bisogno di Tsuyoshi? Vuoi farmi credere che
la mia migliore amica, quella sveglia, molto più sveglia di
me, non era stata sveglia
al punto da rendersi conto anche senza le parole di Tsu che tra me e
Akito ci
fosse qualcosa?»
«Ovvio
che lo avevo intuito, ma poi mi sembra di esser stata
chiara, mi sembra che alla fine di tutto “non devi sentirti
in colpa” è proprio
quello che ti ho detto in quel parco.»
«No,
è quello che hai sotteso, perché in
verità mi hai solo rimbalzato
con una domanda…»
«Già,
ma è la stessa cosa comunque...»
Avevamo
parlato a raffica, senza mai sovrapporci, immobili
nelle nostre posizioni. Io lievemente rivolta a lei, nel fondo del
divano, con
le braccia che mi ricadevano inermi ai lati delle gambe, lei totalmente
spostata in avanti, sul bordo, con le mani incrociate strette alla vita.
Però,
pur nella nostra simile immobilità, c’era una
differenza tra noi che forse a me parve irrilevante, ma che lei
percepiva
silente e che doveva agitarla.
Rimase
ferma, rivolta a me senza però mai protendersi verso
di me, i miei occhi non le restituivano nessuno sguardo di rimprovero,
non le
chiedevano niente se non di guardarla, i suoi viaggiavano inquieti,
pronti a
scovarmi dentro un impercettibile movimento, mi parve quasi lo stessero
elemosinando.
Ma
non mi mossi, neanche assecondai il prurito che il
maglione stava cominciando a suscitarmi attorno al collo.
«Te
lo ricordi in quel parco, sulle altalene? Io volevo
scusarmi, tu però mi hai guardata in faccia e mi hai chiesto
“Hai fatto
qualcosa di sbagliato?”»
«E’
la stessa cosa.» Ripeté.
«Allora
puoi davvero ammettere che neanche una parte di te abbia
formulato quella frase senza il punto di domanda?»
E a quel punto la
vidi sprofondare sul divano in un gran sospiro, mi fissò con
uno sguardo fermo,
denso di collera.
«No.»
Ammise.
Abbozzai
un lieve cenno soddisfatto e mi passai una mano sul
collo ad allargarmi il maglione, mi accorsi che ero fredda e al
contempo sudata
e mi chiesi se il mio corpo stesse tentando di dirmi qualcosa.
«Ecco...
Allora cosa volevi dirmi per davvero?»
«Bene…
Se la metti così… A me lui piaceva, lo avevo
capito che
eravate cotti l’uno dell’altra, ma non volevo
vederlo, non volevo ammetterlo...
E quando ti ho vista ritornare, quando ho capito che te lo saresti
ripresa… Ti
ho odiata, perché tu non te lo meritavi.»
«Ti
è uscito, finalmente.»
«Già,
non te lo meritavi... Tu non te lo meritavi e non lo
meriti. Dio mio! Non sai che soddisfazione stia provando nel
dirtelo.»
Avrebbe
anche potuto evitare di sottolinearlo, perché si
vedeva. Pensai che per la prima volta da quando avevo messo piede
lì dentro
stesse sentendo il pavimento di casa sua mantenerle il divano.
Mi
chiesi quanto le fosse pesato addosso quel sentimento
covato per quindici lunghi anni e che le veniva fuori stonato solo
attraverso
quelle umiliazioni pregne di un significativo sotteso che di tanto in
tanto mi
dedicava.
Forse
a quel punto un po’ la capii e al contempo mi fece
tenerezza.
«Lo
immagino e sono contenta, in fondo.»
«Ah
sei contenta? L’ho detto e lo ribadisco, sei da
neuro!»
«Vedi,
Fuka, io lo so, non ho mai capito niente con
chiarezza, non c’entra solo la malattia. Io… Sono
confusa di natura e anche da
ragazzina, quando ancora non ero malata, se non fosse stato per te, non
avrei
mai capito neanche i miei sentimenti per Akito.»
«Esatto,
per quello non lo meritavi. Io invece lo sapevo
quello che provavo, sono sempre stata più sveglia di te, ed
è per questo che ho
agito, prima ancora che tu capissi, perché non volevo
sentirmi in colpa.»
«E
allora, perché… Perché non mi hai
semplicemente detto che
non c’era nessuna colpa nell’essere confusi?
Perché non mi hai mai detto che il
mio senso di colpa era immotivato perché eri tu
quell’amica sveglia che non
avrebbe dovuto approfittare della mia sbadataggine e della mia assenza
per agire?»
«Andiamo…
C’erano tutte quelle notizie su te e
Kamura…»
«Avresti
dovuto aspettarmi, soprattutto per te stessa.»
«Sana…
Ma veramente? Ero solo una ragazzina… Ma poi, che
cazzo serve rivangare così il passato?»
«Perché
non mi hai mai scagionata da questo senso di colpa?»
«Perché
non mi piaceva l’idea di uscirne così sconfitta,
ecco.
E perché ero solo una sciocca ragazzina di 12 anni e
perché non capisco neanche
perché ne stiamo riparlando a 27!»
«Perché
io sto aspettando queste parole da quindici anni… Ma
tu fino ad oggi hai preferito umiliarmi anziché
dirmele.»
«Questo
cosa c’entra con oggi? E tra l’altro, non so cosa
ti
abbiano riferito, ma io e Akito siamo stati insieme una sola volta un
anno fa
durante una festa.»
«Già…
Mentre io ero altrove. Di nuovo.»
«Piantala!
Tu non hai l’esclusiva su una persona che non
vedi da quindici anni, sei veramente fuori luogo, tu e questa ridicola
scenata
di gelosia!»
«Non
è affatto una scenata di gelosia, dovevo solo saldare
un conto. Per quanto mi riguarda adesso puoi farti chi ti
pare.»
A
quel punto mi alzai e lei mi fissò interdetta, era chiaro
che,
nonostante avessimo parlato, non avesse capito a pieno il senso della
mia
presenza lì.
Ancora
una volta quella volontà di affermarsi come donna
migliore di me però, le si presentò prepotente
sulla bocca.
«Penso
che lo farò, sai? E’ stata una scopata
indimenticabile.» Tuonò.
E
a quel punto, senza neanche capire come, le mollai un
violento schiaffo.
Mi
venne da ridere nel guardare la sua faccia sorpresa, i
suoi capelli rivoltati su un fianco. Mi venne da ridere
perché pensai che
quello schiaffo avrei dovuto darglielo molti anni prima.
E
mi sentii stupida.
Poi,
come se niente fosse, scrollai le spalle e fissai
ancora i suoi quadri.
Erano
animali vestiti da uomini, la natura animale dominava
sempre su quella umana, pensai fosse quello il senso di quei quadri.
Le
regalai un sorrisetto di circostanza e mi avviai verso
l’uscita, lasciandola lì, in piedi davanti al suo
divano in pelle a reggersi la
faccia.
«Ah…
Buon compleanno.» Le dissi voltandomi a guardarla dalla
porta. Poi, finalmente, uscii da quell’appartamento.
Quello
schiaffo, pensai, era stato come una
botta istantanea
di serotonina.
Mi
sentivo molto stanca, ma inspiegabilmente felice.
Leggera.
*****
Quando
rimisi piede nel mio appartamento, tutta la frenesia
che avevo avvertito sembrò scendermi lungo gli arti
intorpidendoli. Mi parve
che qualcosa di simile alla melma mi stesse ristagnando nel petto, come
se
tutta la stanchezza che avvertivo si stesse concentrando lì,
addensandosi e
ammassandosi, bloccandomi l’aria alla gola.
Ansimai
divisa dal desiderio di fiondarmi a letto o di
trascinarmi verso il bagno.
Accadde
però che mi accorsi di uno strano bruciore lungo il
polso, le bende che ci avevo avvolto attorno, benché coperte
dal maglione,
erano zuppe di sangue. Mi chiesi come fosse possibile che quelli che a
me erano
sembrati solo tre graffi stentassero a rimarginarsi. Mi tirai via il
maglione
di dosso e mi sfilai pian piano le fasce, lasciando che ricadessero a
mo’ di
spirale sul pavimento.
Mi
colpì il colore rosso intenso che colorava il bianco delle
bende, me ne rimasi un po’ ingobbita a fissare quella spirale
fatta di me più
qualche fibra aperta sul pavimento, l’idea di avere dentro
qualcosa di così
vivo mi restituì una sensazione strana, quasi rincuorante.
Così,
per averne conferma, mi guardai il polso, con l’altra
mano scacciai via il sangue come se stessi pulendo un vetro appannato e
cominciai a muoverlo, provando una incomprensibile soddisfazione nel
notare che
quel sangue vivido e caldo stesse fuoriuscendo dalla mia pelle a ogni
movimento.
Quanti
strati aveva attraversato per venir fuori?
Me
lo chiesi stringendo la mano in un pugno più e
più volte,
con lentezza, continuando a guardarlo sgorgare da me. Mi accorsi che
benché
sottili, due dei tre tagli erano abbastanza profondi e che il sangue mi
colava
di lato.
Forse
gocciolò un po’ sul pavimento grigio.
Sanguinavo,
eppure ero fredda, come se in corpo non avessi
avuto neanche un goccio di sangue, e al contempo sudavo. Pensai fosse
strano,
ma poi la testa cominciò a girare, così lasciai
perdere e mi trascinai verso il
bagno.
Ravvisai
la mia immagine allo specchio e mi accorsi di
essere pallida come un lenzuolo.
Dovevo
prendere le medicine.
E
lo feci, considerando che in quella giornata di fuori
controllo, probabilmente, erano successe troppe cose che mi avevano
sconvolto
ma che quel mantello d’adrenalina doveva avermi nascosto.
Ora
che, tornata a casa, mi era sembrato di riacciuffare la
mia dimensione, tutto quel che ero stata fino a poche ore prima mi
arrivò come
sgradevole e insensato.
Mi
ero ribellata alle cure di mia madre e avevo schiaffeggiato
Fuka.
Mi
chiesi cosa diavolo mi era preso, cosa mi aveva
fagocitato così tanto.
Mi
risposi mandando giù un'altra pillola.
Cominciai
a sentirmi a disagio nel mio stesso corpo, il
sangue che ora mi colava dal polso non mi evocava nessuna
considerazione, come
se me ne fossi accorta solo in quel momento lo tirai sotto il getto
dell’acqua
e lo avvolsi con delle bende nuove.
Poi
a quel punto, non mi ricordo cosa successe, mi parve
solo che tutto prese la forma di un loop che aveva a che fare con il
mio letto,
la spirale fibrosa sul pavimento, l’armadietto delle medicine
e il lavandino.
Un
loop continuo e frenetico dilatato in un tempo così lungo
che sembrava declinarsi nell’eterno.
*****
La
luce intermittente del neon del mio bagno che traballava.
Sì,
mi parve fu proprio quella la prima cosa che vidi.
Poi
un flebile colpo di tosse, la sensazione di avere altre due
mani che mi reggessero all’in piedi difronte al lavandino e
poi dell’acqua,
tanta, che mi colava dal viso e dai capelli.
Un
rantolio e poi un ansimo prolungato, simile a
un’inspiegabile ripresa d’aria dopo una lunga apnea.
«Cristo!»
Delle
parole e poi quelle mani ancora me le sentii addosso,
capii che forse non erano le mie quando mi strinsero le spalle e mi
trascinarono via dal lavandino.
Persi
l’equilibrio, ma quelle mani mi sorressero, mi
spinsero a piegarmi sul pavimento difronte alla tazza del water.
«Cazzo,
Kurata! Devi vomitare! Ce la fai?»
Non
riuscii neanche a capire se stessi pensando a voce alta
o se quelle parole così urgenti arrivassero al di fuori di
me, nemmeno riuscii ad
acciuffare un contesto che sentii delle dita solleticarmi la gola e
subito un
vomito violento mi travolse la bocca.
Mi
parve che gli occhi mi stessero schizzando dalle orbite,
volevo smettere di starmene lì, con la faccia stravolta
rivolta al gabinetto, mi
sentivo una specie di Mark Renton, anche se per me non c’era
niente di così
eccitante da raccogliere lì dentro.
Provai
a scostarmi da lì, ma sentii qualcosa mantenermi la
schiena, una mano sorreggermi la fronte.
Tentando
di strozzare i conati, roteai un po’ gli occhi di
lato, mi accorsi che qualcosa alle mie spalle bloccava i miei movimenti
e che una
mano stringeva forte il bordo della tazza del water facendo bella
mostra di
alcuni tagli vividi sulle nocche sbiancate.
A
quel punto, ebbi la totale consapevolezza che non fossi
più sola e il vomito mi si fermò in gola.
Mi
tirai un po’ indietro e la mano che prima mi manteneva la
fronte si affrettò a scivolarmi sulla spalla,
l’altra, quella che stringeva
veemente il bordo della tazza, mi volò su un fianco.
«Cazzo,
Kurata…»
Quando
mi voltai, tirando un po’ su col naso, quando
incrociai i suoi occhi, avrei voluto fargli tante domande, ma riuscii
solo a
boccheggiare qualche suono simile agli spasmi di un conato strabuzzando
gli
occhi.
Di
tutta risposta lui si lasciò andare sul pavimento
stropicciandosi la faccia e i capelli con una mano. «Cazzo!
Cazzo! Cazzo!» Lo
ripeté a lungo, come se volesse staccarsi la faccia dal
viso, mentre io me ne
rimasi lì in ginocchio a guardarlo, strozzando un conato sul
dorso della mano.
Poi,
d’improvviso, mi sembrò di non percepirmi
più, né in
me, né in quello spazio.
L’immagine
di Hayama divenne come un grande mosaico
colorato, i cui contorni sembravano distorcersi e precipitare verso il
basso, mi
sembrò di chinarmi in avanti, come desiderosa di
rimetterglieli in sesto, sperando
che non scivolassero sul pavimento, ma poi, tutti i colori che emanava,
mi
parvero accecanti, così tanto che chiusi gli occhi e tutto
si tinse di nero.
«Kurata!
Cazzo Kurata, no!» Perché diamine mi stava
schiaffeggiando?
Stavo
per rispondergli male, ma mi acciuffò il viso e mi
strinse le guance con una mano. «Ehi! Resta, ok?»
«Sono
stanca...»
«No,
Kurata, sei solo strafatta come una pigna!»
Mi
sembrò di non riuscire a tenere gli occhi aperti, ero
così stanca, ma Hayama non capiva, proprio non mi permetteva
di lasciarmi
andare, mi tirò tra le sue braccia e muovendosi
all’indietro si parò sotto al
muro.
«Ti
prego, Kurata, guardami!» Lo urlò e il suono della
sua
voce mi arrivò quasi come una supplica, ma io forse ero
troppo persa per
ascoltarla.
O
forse lontana.
Già
altrove.
«Lasciami
andare…» Biascicai e forse addirittura mi ribellai
ai suoi modi dispotici, ma lui parve infischiarsene, come se fossi un
corpo
senza vita, mi fece voltare verso di lui e mi mantenne su dritta
sorreggendomi
le spalle, mentre tutto il resto di me sembrava scivolarmi sul
pavimento.
Mi
parve tutto così freddo, nonostante sentissi il calore
delle sue mani sulla pelle.
Pensai
che fosse strano.
Stridente.
Parlò
ancora poi, mi scosse e mi afferrò il viso tra le mani
obbligandomi di fatto a restare.
Lo
guardai storcendo un po’ la testa, c’era la sua
bocca che
si muoveva, incastrata in un’espressione un po’
troppo preoccupata per
appartenergli sul serio e poi i suoi occhi.
Un
tempo mi sarebbero bastati quelli e io li avrei trovati
sempre una valida motivazione per restare, ma in quel momento, pensai
che forse
non bastavano più.
«Ehi!
Non te la faccio fare la vigliacca questa volta,
Kurata!»
A
quelle parole sussultai, gli occhi mi si spalancarono e
s’incollarono inspiegabilmente ai suoi.
Era
quello che pensava di me? Che ero una vigliacca?
Non
so cosa mi prese a quel punto, ma sentii divamparmi
dentro un fuoco rabbioso che mi risalì dal fondo delle
viscere per fermarsi di
colpo al centro dello stomaco, una bomba di calore che ebbe come logica
conseguenza un’intensa necessità di vomitare tutto
quel che era rimasto.
«Sei
tu il vigliacco…» Così gli risposi,
anche se la rabbia con
cui glielo urlai di fatto gli dava ragione.
Ero
una vigliacca e mi ero arrabbiata perché lui lo aveva
visto.
La
rabbia, la logica difesa delle menti deboli.
Lo
pensai in quel preciso istante e mi chiesi se la mia
faccia fosse simile a quella di Fuka.
Poi
sentii la saliva aumentarmi nella bocca, cominciai a deglutire,
boccheggiare e Hayama mi afferrò di fretta e mi spinse verso
la tazza.
Mentre
vomitavo lo sentii lasciarsi andare a un lungo e
intenso sospiro.
Per
quella volta, pensai, era rimasto.
*****
Rasente
alla parete era seduto lui, il suo maglione blu
doveva fare un brutto contrasto con il marrone sbiadito dei miei
capelli che
gli si aprivano umidi e spettinati tra il petto e la spalla,
lì dove io
poggiavo la testa.
Il
petto di Hayama si sollevava e abbassava lentamente, il
cuore, invece, gli batteva esasperato, come se avesse appena finito di
correre
una maratona.
Non
disse neanche una parola su quanto era appena successo,
si limitò a riorganizzarsi il respiro mentre mi sfregava le
mani sulle braccia
nude cercando di darmi calore.
Perché
io, me ne accorsi solo in quel momento, stavo
tremando.
«Hayama…
Ma tu perché sei sempre qui?» Biascicai dopo un
po’.
Lui
non rispose, mi parve solo molto agitato quando mi
avvicinò una mano al collo e mi costrinse a guardarlo
sollevandomi il mento.
Mi
sembrò che schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma
poi lasciò perdere e ridusse tutto a uno sbuffo.
A
quel punto, mentre ancora tremavo, sentii la sua mano accarezzarmi
il collo, vidi i suoi occhi fissare intensamente lo scivolare delle sue
dita fino
alla mia guancia, e non potei fare a meno di chiedermi da dove mi
arrivasse
quell’assurdo tremare perché non avevo mai sentito
tanto calore in vita mia.
Non
saprei dirlo con molte parole, ma ecco, ebbi come la
sensazione che il suo corpo era caldo come qualcosa che sedava e al
contempo mi
rassicurava.
Non
glielo dissi che lì con lui cominciavo a star bene e lui
non mi fece alcuna domanda, neanche quando smisi di tremargli addosso.
Non
so quanto tempo passò, so solo che ce ne rimanemmo
lì immobili
ed era come se entrambi, in quel silenzio, stessimo cercando di
acciuffare dei
pezzi mal disposti e nascosti in lungo e in largo.
Era
una ricerca disturbata, resa forse più difficile da quel
neon allo specchio che sembrava impazzito.
Doveva
essere lui a non farci vedere niente con chiarezza.
Se
ne stava lì, appeso ad uno specchio, alternando
psichedelico l’intensità della luce, dilatandola e
strozzandola a intervalli
irregolari.
Pensai
che dovevo sostituirlo presto o tardi perché mi
sembrava di volteggiare.
Prima
di spegnersi del tutto, illuminò per un lungo istante
le gambe di Hayama e una mia mano sulla sua coscia.
Mi
chiesi perché, nonostante gli fossi addosso, avevo un
intimo bisogno di toccarlo o forse di trattenerlo.
Come
un desiderio inconscio, una specie di paura.
O
forse non ero io, ma il mio corpo.
Poi
però tutto sembrò farsi più buio.
Nella
stanza fece il suo ingresso solo una luce fioca, annunciata
dal suono del corto circuito del neon.
Il
bagno di fatto rimase in penombra, illuminato solo grazie
alla luce calda che proveniva dalla mia stanza.
Mi
sembrò di poter riuscire a mantenere gli occhi aperti,
finalmente.
Così
lo realizzai davvero che ero proprio nel mio bagno,
seduta sul pavimento, o per meglio dire rannicchiata sul pavimento, tra
le
braccia di Hayama. Soprattutto realizzai che indosso avevo solo i miei
pantaloni neri, un reggiseno color carne e delle bende al polso.
Quelle
in effetti mi imbarazzarono più di tutto il resto, mi
nascosi il polso tra le gambe pensando al contempo quanto fosse stupido
da
parte mia sperare che non se ne fosse accorto.
Sussurrai
il suo nome un po’ a disagio, ma lui parve non badarci.
Poggiato
al muro sembrò non badare neanche alle luci, al
fatto che fossimo rimasti lì in penombra, praticamente
immobili.
Come
sotto ipnosi faceva sfilare lentamente le dita di una
mano tra i miei capelli, mentre con l’altra mi manteneva sul
suo petto.
Pensai
che a quel punto, se fosse crollato il mondo, non
avrebbe fatto poi molta differenza.
Quello
stesso pensiero, però, mi riportò alla
realtà come
uno schiaffo.
Allora
scattai su dritta come una molla, o almeno ci provai.
Mi
allontanai dal quel calore e mi voltai a guardarlo, lui
corrugò un po’ la fronte e mi fissò
quasi infastidito, con l’espressione imbronciata
di un bambino a cui era stato strappato un regalo dalle mani.
«Ciao,
Kurata.» Mugugnò, prima di riacciuffarmi e farmi
poggiare ancora contro di lui.
«Bentornata…»
Anche
se eravamo quasi al buio, continuai a immaginarmi
mezza nuda tra le sue braccia e sentii l’esigenza di muovermi
da lì alla
svelta, prima che il mio corpo potesse commettere una qualsiasi
impudenza.
«Devo…»
Farfugliai e ancora mi liberai da quella posizione, feci
per alzarmi in piedi, ma mi accorsi di non avere la forza nelle gambe,
mi
sembrò di annaspare nel vuoto e di nuovo lui mi
afferrò riposizionandomi lì, questa
volta in ginocchio, tra le sue braccia.
«Kurata,
dove vorresti andare?»
«Io…
Gira tutto…» Farfugliai.
«Ma
non mi dire.» Fece con una punta di sarcasmo sulla
lingua e io mi rassegnai a rimanere lì, o almeno
così mi sembrò perché a quel
punto ricordo solo che schiacciai il viso sul suo petto e mi
rannicchiai in
posizione fetale tra le sue braccia.
Lui
forse sospirò, almeno così mi parve, e mi strinse
più
forte.
Mi
ritrovai a riflettere sul fatto che il mio corpo doveva
sembrare estremamente piccolo sotto le sue mani, quasi inconsistente.
Sperai
non avvertisse l’idea delle mie forme, che addirittura
neanche ci pensasse.
Forse,
mi dissi, se mi stringessi ancora di più, se mi
rimpicciolissi al punto di svanire, smetterebbe anche di sentirmi su di
lui.
E
soprattutto, mi dissi, se fossi scomparsa, anche il mio
corpo finalmente avrebbe smesso di percepirlo così come
faceva.
Non
glielo dissi, non avrei saputo spiegarlo a chiare
lettere neanche a me stessa, ma lì, su quel pavimento
gelido, mentre Hayama mi
stringeva a sé, avvertii un piacevole tepore nel basso
ventre che intuii avesse
a che fare con lui e che per un istante m’annebbio.
Non
mi piaceva quella sensazione.
Hayama
comunque, mi sembrava un po’ inquieto, percepivo nel
suo corpo una certa frenesia, come se i muscoli gli si stessero
dilatando
insieme al respiro, e al contempo gli percepivo dentro una strana
tensione.
Chinai
un po’ lo sguardo sulle sue mani, la luce dalla mia
camera sembrava fare capolino nel bagno solo per illuminargliele e mi
fissai a
guardarle. Sulle nocche gli ravvisai alcuni tratti violacei e tanti
piccoli
graffi. Da alcuni si vedeva del sangue un po’ rappreso, su
altri, invece, c’era
del sangue fresco, ma non era vivido come il mio, non sgorgava affatto
dalle
sue piccole ferite, rimaneva compatto all’interno.
Era
contenuto.
Mi
chiesi se fosse una questione di spessore o di profondità
e m’imbambolai così tanto a guardarle che a stento
mi accorsi che una mia mano
era volata proprio lì.
«Va
un po’ meglio?» Me lo chiese afferrandomi di colpo
proprio quella mano, coprendomela con la sua.
«Mi
brucia la gola…» Glielo dissi in un soffio, ancora
imbambolata su quel punto in cui prima c’era la sua mano e
ora la mia nella
sua.
«Tu
però sei come… Rigido ma anche…
Elettrico… Credo…
Dovresti provare una delle mie pillole.»
Lui
allora buttò fuori uno strano mugugno, simile a uno
sbuffo incazzato e sollevò la mano a toccarsi il viso. Non
mi voltai a
guardarlo, ma sentii come se si stesse stringendo la fronte con le dita.
«Sul
serio... Sono nel mobiletto…»
«Piantala,
Kurata.»
«Guarda
che sono buone, sai?»
«Già,
da morire…»
Disse
solo quello, ma mi parve volesse quasi incolparmi di
qualcosa.
Scosse
un po’ la testa e ancora mi strinse, forse anche
più
forte di prima, sentii le sue dita sfilarmi sulla pelle e
d’improvviso, come se
fosse stata una strana e libera associazione, un’immagine mi
tornò alla mente.
Mi
parai in ginocchio difronte a lui e lo guardai perplessa.
«Ma tu… Dio mio… Ma prima mi hai messo
le dita in gola?»
«Cosa
avrei dovuto fare?»
«Ma…
ma che schifo, Hayama!»
«Dici?»
«Beh…
Sì.»
Lui
allora mi guardò abbozzando un impercettibile sorriso.
«C’è
di peggio, Kurata.»
Così
mi disse e mi avvicinò una mano alla guancia, come se
mi stesse sorreggendo la faccia.
La
luce che proveniva dalla mia stanza gli illuminava il
viso.
Sentii
i suoi occhi nei miei, il lento tocco della sua mano,
il suo pollice muoversi lentamente in su e giù sulla mia
guancia e per un attimo
mi parve di avvertire dentro qualcosa, sembrava adagiata sul cuore, ma
in
realtà non aveva locazione precisa perché
sembrò attraversarmi per intero e per
un solo istante, come
un’intermittenza.
Come
il neon allo specchio.
Io
lo guardavo, eravamo in penombra, ma forse per la prima
volta lo stavo vedendo per davvero, riscoprendo nella forma della sua
bocca, nei
precisi lineamenti del suo viso, nell’intensità
dei suoi occhi che continuavano
a fissarmi enigmatici e profondi, tutte quelle caratteristiche che un
tempo
chiamavo motivazione.
O,
più semplicemente, tutte quelle caratteristiche che un
tempo avevo legato a ciò che a me piaceva di più
al mondo.
Le
dita di Hayama mi sfioravano una guancia e io lo guardavo
sentendo dentro una strana intermittenza adagiata sul cuore.
Pensai
potesse riassumersi tutto lì.
Eppure
io, anche se mi sentivo così stordita, mi resi conto
di essere al contempo lucida.
Perché,
quello lo capii proprio chiaramente, lui mi piaceva
ancora.
E
lo faceva in una maniera così potente che non poteva che
essere intermittenza.
Come
una luce talmente accecante che il mio cuore non poteva
contenere tutta insieme, e allora si limitava a irradiare potenti fasci
intermittenti.
Anche
se non avvertivo nulla di preciso nello stargli così
accanto, anche se non sapevo darmene alcuna spiegazione diversa da
quella
intermittenza di percezioni, sentii che era proprio così.
Mi
chiesi se tutta quella luce sarebbe mai esplosa del
tutto, come un qualcosa che non voleva più essere contenuto,
soprattutto se
sarei stata in grado di accorgermene.
«Cosa
c’è di peggio?» E non seppi dire se lo
stessi
chiedendo a me o a lui.
Le
sue dita a quel punto si mossero sulle mie labbra, sentii
il suo pollice imprimermi sul labbro inferiore una certa pressione.
«Tante cose
che non vorresti sapere.»
«Fammi
un esempio.»
«Non
sono il tuo burattino, Kurata. Fattelo bastare.»
«Ma
lo sai che sei veramente antipatico?»
Glielo
chiesi senza veramente provare interesse per la sua
risposta, forse perché sapevo che non sarebbe arrivata, o
forse perché mi
ricordai che di fatto a me di lui era sempre piaciuto anche quello.
*****
«Ti
porto a letto.» Me lo aveva detto rollandosi una
sigaretta, senza sorrisini sbruffoni, mentre eravamo davanti al
lavandino.
Io
mi ero lavata la faccia e Hayama mi era rimasto alle
spalle, impegnato a fare altro con gli occhi costantemente puntati
addosso a
me.
Era
sempre stato molto più abile di me in quello, mi aveva
sempre studiato facendo finta di occuparsi di altro.
Infatti
non la fumò affatto.
Però
a letto mi ci aveva portato per davvero e il mio corpo
avvertii una strana delusione quando vidi che mi aveva rimboccato le
coperte e
si era limitato a sedersi sul pavimento difronte a me.
E
io non glielo dissi che mi sarebbe piaciuto sentire
addosso ancora un po’ di quel calore che emanava e che sedava.
«Va
un po’ meglio, Kurata?»
Mugugnai
un sì tirandomi ancora addosso la coperta, mentre
lui si limitò a guardarmi poggiando la testa sul materasso.
«Sono così…»
Sbuffò
qualcosa, forse un’imprecazione, e poi sfregò la
faccia sul bordo del letto,
strozzando di fatto il suo parlare tra le lenzuola.
Gli
occhi allora mi caddero sulle sue mani che stringevano
con forza i lembi della coperta, non potei fare a meno di chiedermi
cosa le avesse
ridotte così e poi mi chiesi se quella notte
c’entrasse qualcosa.
Se
io e il mio essere me c’entrasse qualcosa.
«Perché
sei venuto qui?»
Lui,
allora sollevò la testa, mi ritrovai il suo viso a
pochi centimetri dal mio, soprattutto i suoi occhi che non facevano
altro che
fissarmi intensi e pieni di parole che a conti fatti non mi disse.
Mi
regalò solo quelli, sperando fossero abbastanza, o forse,
sperando che fossi ancora in grado di leggerli e capirli come un tempo.
Purtroppo
però, l’avevo persa
quell’abilità.
Loro
però non avevano affatto perso quella di schiantarmi e
immobilizzarmi facendomi sentire nervosa e al contempo coinvolta.
«Non
volevi dormire, Kurata?» Me lo chiese in tono acido,
prima d’incrociare le braccia sul bordo del letto e
nasconderci dentro la
testa.
Sembrava
un bambino in castigo, di quelli costretti al gioco
del silenzio.
Feci
una strana associazione proprio su quello e mi parve di
sorridere tra me e me.
Hayama
era in castigo da una vita o forse era diventato un
asso in quel gioco perverso di cui aveva finito col diventare unico
incaponito
giocatore.
C’era
della spavalderia in quel suo buffo atteggiamento,
pensai.
Poi
però passò del tempo, lui non si mosse, ma mi
parve
fosse crollato in un sonno profondo.
Il
suo respiro regolare, i suoi capelli biondi e le mani
rotte.
Rimanendo
su un fianco gli portai una mano tra i capelli,
dormiva tutto, pensai.
Era
tutto avvolto da un sonno profondo.
Lui,
io, i miei sentimenti e la mia comprensione
intermittente.
«Mi
hai sfondato la porta ancora una volta…» Glielo
sussurrai e lui non sentii, non avrebbe potuto in effetti, ma non lo
considerai
affatto un problema, perché tanto quelle parole erano
più per me che per lui.
E
non saprei dire se fosse una domanda, un’affermazione o
una constatazione.
*****
Quando
mi svegliai lui era lì, con le braccia conserte e la
faccia rivolta su un fianco.
Aveva
la guancia rossa, quella espressione un po’
imbronciata e impertinente.
Pensai
fosse tenero e che anche da addormentato sembrava
quel bambino abilissimo nel suo gioco del silenzio.
Mi
chiesi perché era lì, poi però le
immagini di quella
notte mi balenarono confuse davanti agli occhi, ricordai un paio di
cose e
allora a quel punto mi chiesi perché era ancora
lì.
Mi
sentii così a disagio a starmene lì accanto a lui
e a ricordare
quel che era successo che mi trascinai seduta sul bordo opposto del
letto.
Avvertivo
la gola secca e una lieve difficoltà a respirare e
rimettermi in piedi.
Perché
non se n’era andato? Soprattutto perché la sera
precedente era entrato in casa mia?
Massaggiandomi
gli occhi mi ricordai dei tagli che gli avevo
visto sulle mani, mi chiesi se fosse venuto per quelli.
In
fondo non lo trovai strano, meno di 24 ore prima aveva
bussato alla mia porta con le budella tra le mani.
Non
era per niente leggibile il suo modo di fare, pensai, e
istintivamente mi voltai a guardarlo.
Che
diamine aveva in quella testa?
Chi
era veramente? Che stava combinando?
Sbuffai
esasperata fino ad imbambolarmi a guardarmi i polsi.
Lui
aveva visto, mi parve chiaro, mi chiesi cosa ne aveva
dedotto, se si fosse recriminato qualcosa e mi sforzai di cercarmi
dentro un
senso di colpa che non arrivò.
Così
come non arrivò neanche la riconoscenza.
Se
ero lì, se respiravo, se ancora potevo guardarlo, avrei
dovuto realmente sentirmi riconoscente?
Anche
se tutto, persino lui, mi arrivava a intermittenza?
Aveva
senso vivere così o era semplicemente crudele?
Mi
stropicciai la faccia con le mani.
Dovevo
smetterla di farmi quelle domande, comunque.
La
luce del giorno cominciava a investire persino il mio
appartamento, lo considerai un motivo per tirarmi almeno fuori dal
letto.
Scrollai
le spalle, ma lo feci un po’ a disagio.
Perché
quello scrollare per la prima volta mi parve più una
difesa che una risposta.
Mi
avviai in bagno, ignorai volutamente dei solchi sul muro
che giurai di non aver mai visto, le bende colorate dal mio sangue
ormai secco
e marrone buttate in un angolo sul pavimento, proprio in corrispondenza
di quei
solchi e la porta d’ingresso sfondata.
Ignorai
tutto e mi nascosi nel bagno.
Mi
feci una doccia con la speranza che potessi lavarmi di
dosso anche quella giornata appena trascorsa, mia madre, Fuka, Hayama,
le domande,
le comprensioni e le intermittenze.
*****
Fuori
dal bagno avvertii un forte odore di caffè.
Hisae
ne aveva comprato uno con un aroma e un profumo
inconfondibile, per un istante pensai fosse tornata, che quella notte
era stata
solo un sogno o che forse quella doccia aveva lavato via davvero tutto.
Mi
avviai in cucina quasi con quella speranza, ma poi ci ritrovai
Hayama.
Lo
vidi poggiato al mobile su cui Naozumi l’anno prima aveva
installato il tostapane e a quel punto pensai anche a lui
dall’altra parte
dell’oceano.
Avrei
dovuto chiamarlo, ma che diavolo di ore erano a New
York?
Quando
si accorse di me abbozzò un cenno e mi squadrò da
capo a piedi a lungo prima di sollevare la tazza di caffè a
mezzaria come se
fosse stata una coppa di champagne.
Non
gli vidi nessuna particolare espressione sul viso, era
indecifrabile come al solito.
Mi
avvicinai alla moka e ne presi un po’ anche per me.
Per
tutto il tempo non fece altro che studiarmi senza
neanche regalarmi un cenno o una parola, nemmeno il suo laconico
“Ciao, Kurata.”
Semplicemente
mi tagliò il suo sguardo addosso, me lo sentii
ovunque, come una lama rovente.
Forse
non era stata una buona idea entrare lì con indosso
solo il mio accappatoio, comunque, pensai mentre soffiavo sulla tazza,
ormai
era fatta.
Me
ne rimasi accanto al lavello e concentrai tutte le mie
attenzioni su quel liquido bruno evitando di guardarlo troppo.
«Stai
meglio.» Mi disse, e non capì se fosse una domanda
o
una constatazione.
«Ho
fatto una doccia…»
«Vedo…»
Disse e mi si avvicinò, pensai volesse provocarmi,
addirittura pensai volesse cogliermi in fallo e approfittare della
situazione,
così mi scansai un po’.
Lui
però mi guardò inarcando un sopracciglio e
poggiò la
tazza nel lavandino. «Posso farla anche io?»
«Cosa?»
«Secondo
te?»
Ero
inspiegabilmente confusa e capii che i suoi occhi
addosso non mi aiutavano affatto a rimettere ordine tra i miei pensieri
troppo
affollati, era come se, quell’intermittenza che avevo provato
quella notte tra
le sue braccia mi si stesse riproponendo anche più veloce e
irregolare.
Tentavo
di non farci caso ma proprio non ci riuscivo.
Che
voleva Hayama? Forse fare una doccia? Lo capii solo in
quel momento.
«Oh…
Sì… certo.» Gli dissi.
«Vieni, ti do qualcosa… Per…
Insomma, qualcosa da usare per te…»
Mi
accorsi di essere un po’ impacciata nel dirgli quelle
cose che sapevano un po’ troppo
d’intimità, così come mi accorsi che
anche lui
se ne accorse, lo vidi abbozzare un risolino a cui non volli dare
troppa
attenzione.
Così
abbandonai la tazzina nel lavandino e mi avviai in
camera mia lasciando che mi seguisse.
Spalancai
il mio armadio e gli presi un accappatoio.
«Puoi
usare questo…» Gli dissi e gli poggiai sul letto
disfatto uno dei tanti accappatoi con le cifre ricamate di Naozumi.
Lui
lo fissò per un po’, mi sembrò che con
le mani ne stesse
studiando la consistenza. «N…
K…» Sussurrò arricciando un
po’ lo sguardo e a
quel punto afferrò l’accappatoio e lo
lanciò tra le coperte. «Sul serio,
Kurata? Kamura?»
«Volevi
qualcosa per asciugarti, no?»
«Dio!
Non ci credo! Ancora Kamura? Non sei per niente
originale, Kurata.»
«Beh,
mi pare che anche tu in quanto a originalità non sia
andato poi così lontano!»
Non
saprei dire se quella mia uscita spiazzò più lui
o me, se
ne rimase lì a guardarmi inarcando un sopracciglio, forse
sperando che
aggiungessi altro, ma poi fu più abile di me a nascondere
tutto con un velo di
strafottenza.
Mi
si avvicinò in una maniera che avvertii pericolosa
già
dai primi movimenti. «Quindi sei andata in giro ad informarti
sul mio conto?»
E
a quel punto mi resi conto che lui non aveva fatto lo
stesso con me, si era praticamente arreso alle parole di mia madre e me
ne
chiesi il perché.
«No,
affatto, l’ho semplicemente saputo.»
Lo
vidi annuire lievemente nascondendo un risolino sarcastico
e soddisfatto.
«Sei
libero di non crederci, Hayama.» Ribattei notando che a
conti fatti quella situazione mi stesse dando parecchio fastidio e non
solo per
il suo modo di fare, ma anche perché mi tornò
addosso quella insana frenesia di
andare da Fuka e urlarle che a conti fatti aveva rubato anche quello.
E
non c’entrava affatto il sesso, era quella
intimità che mi
aveva rubato a infastidirmi, il pensare che lei conoscesse di lui
persino un
dettaglio che io non avrei voluto condividere con nessun altro,
figuriamoci con
lei.
Era
svilente.
Io,
lui, lei, Naozumi.
Tutta
la mia vita e il mio non sentire, non percepire, non
capire o comunque farlo fino a un certo punto, con poca chiarezza, poca
consistenza.
Vivevo
una cazzo di vita svilente in cui mi arrivavano
pensieri svilenti random.
Per
un istante mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto
qualche sera prima, la terra mi si era squarciata tra le gambe e io ero
scivolata giù, cercavo appigli ma tutto sembrava franarmi
tra le mani, e a quel
punto Akito era comparso e mi aveva detto “Se non lo sai,
cadrai.”
Mi
chiesi se quel suo parlare avesse a che fare con il modo
in cui mi arrivavano quei pensieri, ci scivolavo dentro senza sapere
né capire.
Mi franava tutto tra le mani perché quella terra, quei
pensieri sparsi, non
avevano né appigli né consistenza.
«Beh
comunque piuttosto che usare la roba di quello là mi
asciugo col tappeto del cesso!»
«Non
ce l’ho un tappeto…»
«Bene…»
Sussurrò. «Vorrà dire che mi darai il
tuo.»
«Il
mio cosa?»
«Secondo
te?»
«Non
ti darò il mio accappatoio, Hayama.»
«Non
userò la roba di quello là.»
A
quel punto mi chiesi cosa ne avrebbe pensato Naozumi se
avesse saputo che colui che a suo parere ormai non sarebbe
più stato in grado
di smuovermi niente, era proprio nel mio appartamento a rifiutare
indignato la
sua roba.
Mi
sembrò una specie di realtà capovolta quella in
cui il
mio ragazzo non mostrava il benché minimo interesse per il
mio ex e il mio ex
riteneva uno scherzo la presenza del mio ragazzo nella mia vita.
«Allora
vuoi farla a casa tua la doccia.» Constatai.
Lui
non mi rispose, allungò una mano a mezzaria e mi
mantenne addosso il suo sguardo inarcato.
Non
riuscii a sentirmelo addosso a lungo, complici forse
tutti quei pensieri che avevo nella testa.
Avrei
solo voluto rimanere in silenzio, soprattutto in
solitudine.
I
suoi occhi però non davano scampo, parlavano troppo,
facevano rumore.
Mi
arresi all’evidenza e capii che se non avessi fatto quel
che mi chiedeva non mi avrebbe dato scampo.
«Voltati.»
«Vuoi
togliermi la parte migliore, Kurata?»
«Hayama?
Vuoi il dannato accappatoio sì o no?»
Feci
come gli avevo detto e lo sentii sbuffare, ma per
fortuna non durò a lungo.
Presi
dall’armadio una felpa bianca e dei jeans attillati e
dal mio comodino delle mutande.
M’infilai
prima quelle e poi i jeans, a quel punto mi feci
scivolare di dosso l’accappatoio e infilai la felpa. Non
persi neanche tempo a
cercare un reggiseno, volevo solo che Hayama sparisse dalla mia stanza
e mi
lasciasse in pace, anche solo per un po’.
Poi,
di punto in bianco, senza neanche aspettare un mio
cenno, si voltò.
Gli
riconobbi sulla faccia un risolino sfrontato. «Sei
crudele…» Mi disse prima di raccattare dal
pavimento il mio accappatoio.
Non
capì il senso di quelle parole, poi però si
avviò verso
il bagno e il mio riflesso fece capolino nello specchio
sull’anta aperta dell’armadio.
Aveva
visto tutto.
*****
Avvolgere.
O
forse riavvolgere.
Come
il nastro di una vecchia MC, con la matita infilata
dentro.
Mi
chiesi se ficcandomene una nelle orecchie avrei potuto
ruotarla e riavvolgere il nastro per riportare tutto indietro.
Poi
però mi domandai fino a che punto avrei voluto
riavvolgere quel nastro, sarebbe stato sufficiente un mese o avrei
dovuto
girare la matita e riavvolgere il nastro sbiadito fino a quindici anni
prima?
Che
strana cosa che era il tempo o forse strano era il modo
che avevo io di percepirlo nella testa.
Sentivo
l’acqua scorrere dalla doccia, la mia mente la
immaginò infrangersi sui vetri, scivolare piano sulla pelle
di Hayama,
lambirlo, accarezzarlo… Sentirlo.
Come
desiderosa di non pensarci mi voltai verso la finestra,
il panorama era candido ma freddo.
Una
nuvola bianca che copriva la città anestetizzandola e
gelandola. Avrei voluto essere neve, avrei voluto sentire anche io quel
bianco
nella testa, quel gelo tra i pensieri.
Ma
Hayama era così caldo…
Quasi
come per darmi un impegno scostai le coperte e le
lenzuola dal mio letto, le avvolsi tutte in un’unica palla
variopinta e le
lanciai in un angolo sul pavimento.
C’erano
dentro troppi odori, troppe considerazioni che era
arrivato il momento di accantonare.
Mi
sfilai l’asciugamani dai capelli e ci lanciai dentro
anche quella.
Fu
a quel punto che lui arrivò, entrò nella stanza
col mio
accappatoio azzurro avvolto in vita e i suoi vestiti in una mano.
Mi
chiesi perché non si fosse rivestito lì, comunque
lasciai
perdere tutte le motivazioni che si celavano dietro i suoi modi di fare
e mi
avviai verso la porta, pronta a lasciarlo solo, ma feci appena in tempo
a fare
qualche passo che si sfilò l’accappatoio dalla
vita.
«Ma
cazzo, Hayama! Non puoi neanche aspettare che esco?»
Urlai voltandomi di spalle.
Lui
di tutta risposta s’infilò i jeans, sentii
pericolosamente il fruscio del tessuto sfregargli sulla pelle, il suono
dei bottoni
che sbattevano tra loro.
A
quel punto lasciò andare un risolino.
«T’imbarazza
Kurata?»
«No,
è semplicemente che sei fuori luogo!»
Ancora
di spalle sentii i suoi passi sul pavimento, poi il
suo respiro tra i capelli ancora umidi e le sue braccia avvolgermi i
fianchi.
«Sciogliti,
Kurata… Sei troppo ingessata.» Me lo sussurro
sulla pelle, lentamente, scandendo ogni singola lettera come una
carezza
leggera, tanto che non capii se mi stesse sfiorando la pelle con le
labbra o
col respiro che scandiva quelle parole.
Non
mi mossi, ero
bloccata, come sotto un incantesimo,
socchiusi gli occhi quando percepii le sue labbra muoversi tra il lobo
e
l’orecchio, la sua bocca schiudersi, la sua lingua
confondersi tra la forma
delle sue labbra che scivolavano lente ad accarezzarmi il collo.
Sussultai
buttando fuori un ansimo, come un contraccolpo che
cercava l’aria, mentre dentro mi sentii chiaramente ancora
quell’intermittenza.
Come
la sera precedente sembrò attraversarmi per intero, ma
a differenza di quella notte, non durò un solo istante, anzi.
Senza
neanche rendermene conto chinai la testa su un fianco
offrendo un campo d’azione più ampio alla sua
bocca, la sua mano, a quel punto,
volò sul mio viso, mi bloccò, quasi come se
avesse voluto fermare un mio
repentino dietrofront.
Sentii
le sue dita premermi le labbra, la mia lingua
accarezzarle senza fretta.
Neanche
mi chiesi cosa mi stesse guidando, né cosa diamine
accadesse al mio stupido corpo quando se lo sentiva addosso.
Lasciai
scorrere tutto e assecondai solo quello.
Per
una volta, pensai, dovevo smetterla di sperare in
emozioni e sensazioni che non sarebbero arrivate, perché mi
sembrò solo di provare
un frenetico bisogno di sentirmelo addosso, un bisogno così
intenso che stava
per esplodermi dentro.
C’era
solo il desiderio, lo avvertii fin dentro le ossa, e
sentii di volermi affidare a quello.
Mentre
il suo petto nudo mi premeva dietro alla schiena, avvertii
dentro le mani l’esigenza di toccarlo, volevo voltarmi,
leccargli le labbra,
toccargli il petto, ma lui fu più abile di me, una sua mano
si mosse lentamente
dal mio fianco alla pancia.
Ansimai
stringendogli le dita tra i denti quando la sua mano
mi scivolò verso il basso, tra le gambe.
Era
eccitante il modo che aveva di toccarmi, c’era una
oscura sicurezza nelle sue mani, ma volevo sentire di più.
Volevo
qualcosa di più intenso con cui stordirmi, intenso
come la sua bocca sulla mia, il suo sapore nel mio.
Senza
rendermene realmente conto, mentre lo pensavo, mi voltai
verso di lui, incrociai la sua espressione in bilico tra
l’eccitato e
l’insoddisfatto e mi fiondai sulla sua bocca.
Avvertii
un profondo senso di eccitazione quando mi accorsi
che le labbra di Hayama sembravano anche più affamate delle
mie, le dita gli s’incollarono
ai lati del mio viso mantenendomi ferma su di lui in un bacio che
mozzava il
fiato e che sapeva di fame e urgenza.
La
sua lingua lambiva la mia, le sue labbra me la succhiavano
in un gioco erotico e seducente che afferrava e rincorreva e che sentii
non
avrebbe mai voluto fermare.
Eppure
anche io mi sentivo così.
Ero
come inarrestabile, fuori controllo.
Le
mie mani volarono sul suo petto, le dita ne tastarono avide
la consistenza per poi percorrere frenetiche una scia che sembravano
conoscere
bene e che portava verso il basso.
Ma
fu proprio a quel punto che le mie mani persero il
contatto con il centro esatto del loro desiderio e la sua bocca si
allontanò
pericolosamente dalla mia, lasciandomi ansimante e insoddisfatta.
«Cazzo,
Kurata…» Sbuffò tirandomi a
sé.
Sentii
un bruciore irradiarsi dal suo tocco, e fu così che
mi accorsi che con una mano mi reggeva il polso.
«Credimi… Non farei altro che
mangiarti così… Ma…»
Mangiarti.
Mi
aveva detto proprio così, mentre lo guardavo passarsi
freneticamente una mano tra il viso e i capelli pensai che non avrebbe
potuto
scegliere verbo migliore.
Mi
sembrò volesse staccarsi via la faccia con le mani.
«Ho
fatto qualcosa di sbagliato?»
«No…
Anzi… Era tutto così…»
Mi
sembrò avesse difficoltà a trovare le parole, io,
da
canto mio avevo difficoltà a trovarmi dentro dei pensieri da
elaborare, delle
ipotesi da vagliare.
Mi
chiesi solo perché si fosse fermato tutto così,
senza
alcuna motivazione apparente.
Sbuffò
sonoramente e s’infilò la maglietta raccattandola
dal
pavimento.
Poi
continuò a guardarmi come se avesse voluto dilatare il
tempo senza ammettersi che non sapeva cosa dire, perché quel
suo sbuffare e
muoversi senza riuscire a contenersi mi suggerì che ancora
non riuscisse ad
articolare pensieri in accordo con le parole.
Il
suo corpo però mi parve stesse parlando in maniera ben
più chiara e leggibile. Era agitato, teso, un fascio di
nervi che si esprimeva con
movimenti irruenti e scattosi.
Pensai
che fosse molto diverso da quel corpo caldo e sicuro
che neanche pochi minuti prima avevo sentito sotto le mani.
«Cazzo,
Kurata! Dannazione!»
Akito
in piedi davanti a me sembrava dannarsi l’anima, senza
trovare parole diverse dalle imprecazioni da buttar fuori, io allora,
sempre
più confusa, mi voltai a guardare fuori dalla finestra.
«Sta
nevicando, hai visto?»
Forse
furono le mie parole, o magari il tono asettico che
avevo usato, fatto sta che a quel punto Akito mi guardò
lasciando andare un
sospiro e mi tirò accanto al bordo del letto.
Mi
spinse a sedermi e poi si chinò davanti a me, prendendomi
le mani nelle sue.
«Scusa
per prima… Io… Non so che mi è
preso…»
Gli
avrei voluto rispondere che non lo sapevo neanche io, ma
mi piaceva.
«A
quale prima ti riferisci?»
Lui
a quel punto mi sorrise, ma era un sorriso strano,
sapeva di qualcosa simile alla malinconia.
Mi
passò una mano tra i capelli e me ne portò una
ciocca
dietro all’orecchio, mi accorsi chiaramente che i suoi occhi
avevano inseguito
i movimenti lenti della sua mano per tutto il tempo.
Non
avevo idea di ciò che gli stesse passando per la testa,
ma intuii che gli martellavano dentro delle cose che lo squarciavano in
due.
«Che
succede, Hayama?»
A
quelle parole, lui non mi guardò, la sua mano
però, mi
scivolò piano dall’orecchio alla nuca e mi
tirò a sé.
«Credo
che dovremmo parlare di questa notte…»
Il
buon senso.
Fu
così che mi ricordai di lui, mentre strizzavo lo sguardo
sul petto di Hayama e catturavo disperata il suo profumo.
Fece
capolino come un ospite che non avrei voluto ma che sapevo
di non poter mettere alla porta.
Scossi
un po’ la testa sul petto di Hayama e mi strinsi tra
le mani il suo maglione.
Perché
il buon senso illuminava così bene le cose sbagliate
da renderle affascinanti e desiderabili?
Quasi
necessarie.
«Io…
Penso che per il bene di entrambi sia meglio continuare
ognuno per conto proprio…» Sussurrai.
Il
buon senso si era posato sulla mia bocca.
Mi
rendevo perfettamente conto che c’era solo quello nelle
mie parole, così come mi rendevo perfettamente conto che per
il bene di
entrambi, avrei dovuto convincere anche il mio corpo ad allontanarsi da
lui e
da quella assurda volontà di sentirselo addosso.
Ma
la mia volontà aveva una sua ragione che mi opprimeva.
Perché
semplicemente non voleva vederlo andar via ancora una
volta dalla mia vita.
La
mia volontà, pensai, era debole, ma aveva delle ragioni
così
incaponite che se ne infischiavano del mio buon senso.
«Già…»
Sussurrò solo quelle pesanti parole prima di sollevarmi
il viso tra le mani.
Sicuramente
sperò che bastasse quello per costringermi a
guardarlo, invece gli occhi mi scivolarono giù, verso il
basso, sulle sue gambe
coperte dai jeans.
«Anche
se in realtà non è ciò che
voglio.» Aggiunse.
E
a quel punto, persino i miei occhi risalirono verso i
suoi.
Mi
chiesi se Hayama ci stesse cercando dentro un appiglio,
se stesse sperando anche lui che la volontà potesse avere la
meglio sul buon
senso.
“Nemmeno
io.”
Così
avrei voluto rispondergli, ma proprio in quel momento
una mia mano volò sulla sua, sentii sotto le dita i tagli
sulla sua pelle e forse
mi bastò solo quello, perché anziché
rispondergli come avrei voluto, gli
allontanai le mani dal mio viso e gli risposi come avrei dovuto.
*****
Forse
era passato troppo tempo da quando era andato via.
Distesa
sul mio letto mi riconobbi addosso una stanchezza
che non provavo da tempo.
Da
almeno un mese, pensai.
Fu
il vibrare eccessivo del mio cellulare a destarmi da quel
pesante e apatico torpore.
Lo
guardai vibrare e illuminarsi sul comodino a lungo prima
di strisciare sul letto e raccoglierlo.
«Pronto…»
«Ehilà!
Alla buon ora!» La voce di Naozumi m’investii i
timpani. «Buon Natale, dormigliona!»
«Ehi…
Buon Natale.»
Fu
strana la sensazione che m’investii sentendolo parlare di
tante cose messe insieme di cui non m’importava assolutamente
niente.
Era
come se la sua voce m’arrivasse da un'altra dimensione
più che da un altro continente, soprattutto, ebbi come la
sensazione che mi
arrivasse come ovattata, avvolta da quella speciale pellicola.
«Non
vedo l’ora di tornare, non sai quanto voglia fare
l’amore con te...» Me lo disse in un tono quasi
famelico, mentre io mi resi
conto di faticare persino a ricordare la sua faccia.
Era
come se davanti agli occhi avessi avuto solo Akito.
E
allora mi morsi le labbra sperando di riacciuffare un po’
del suo sapore e fu proprio quando lo avvertii che mi sentii la terra
mancare
sotto i piedi, l’aria lasciare le pareti di casa mia.
Era
giusto comportarmi così con Naozumi?
Avrei
dovuto dirgli che non era più il caso di rimanere
insieme, che era per il suo bene, ma le parole non mi vennero fuori.
Mi
chiesi perché quel maledetto buon senso non mi facesse
capolino sulla bocca.
Perché
si metteva in moto solo con Hayama?
Tutto
mi sembrò simile a quel sogno, dopo lo squarcio le
pareti mi si stavano stringendo addosso e dovevo tirarmi fuori da
lì.
Naozumi
parlava di ciò che avrebbe voluto farmi al suo
ritorno mentre io vagavo agitata nel mio appartamento in cerca di aria,
di una
via di fuga.
«Senti,
Nao…» Ansimai. «Ci sono cose di cui
dobbiamo parlare...»
Gli dissi solo quello, neanche aspettai una sua risposta che gettai il
telefono
sul pavimento.
Mi
lanciai fuori dal mio appartamento considerando il fatto
che persino quella porta sfondata mi sembrò una
crudeltà che non riuscivo più a
tollerare.
Era
come se improvvisamente tutto mi si stesse stringendo
addosso, asfissiandomi e sollevandomi con una potenza dirompente.
Feci
gli scalini a due a due presa da una foga che non avevo
mai avvertito, mentre mi sembrava di correre fuori, verso la luce.
Riacciuffai
l’aria quando il vento gelido della città mi
tagliò la faccia.
Ero
salva.
Mi
chinai in avanti e inspirai profondamente, pensai di
esser riuscita a mettermi in salvo, martoriata ma viva.
Restavo.
Così
pensai, ma poi ci fu lo schianto.
Violento
e improvviso.
Perché
gli occhi mi si posarono in un punto e, nonostante
fossero passati quindici anni da quella volta, io quel pupazzo di neve
lo
riconobbi immediatamente.
E
allora mi rannicchiai al suolo senza neanche rendermene
conto e mi nascosi il viso tra le mani.
Ero
come sopraffatta.
Sopraffatta
da quelle lacrime che a quel punto mi vennero
fuori come una resa evidente.
«Sana?»
Sentii
delle mani afferrarmi i gomiti, sollevarmi piano dal
suolo.
«Che
succede?»
La
voce calma di Nobu mi arrivò quasi come un appiglio. Lo
guardai incapace di riuscire a buttar fuori una parola, neanche un
“Che ci fai tu
qui?”
«Dio…
Io… Stavo cercando proprio te, sai?»
«Me?»
«Si,
ho preso il tuo indirizzo a lavoro ma… Perché
stai
piangendo?»
Mi
guardava perplesso, forse si stava chiedendo che diamine
ci facevo il giorno di Natale in lacrime fuori dal mio palazzo a piedi
nudi
sull’asfalto.
Poverino,
pensai. Dovevo sembrargli una specie di fantasma.
«Ehi,
Sana? Che succede? Perché stai così?»
Cosa
avrei dovuto rispondergli?
Sarebbe
bastato un non lo so?
Anche
se a conti fatti era una bugia?
«Senti,
Nobu… La sapresti riparare tu una porta sfondata?»
Buttai
fuori solo quelle semplici parole e a quel punto
sentii le sue braccia avvolgermi, il mio respiro riaccendersi.
Salve a tutte!!!
Spero abbiate passato un bel Natale, nonostante il periodo terrificante che stiamo attraversando.
Mi spiace non esser riuscita ad aggiornare prima e lasciarvi gli auguri, ma purtroppo sono stati giorni frenetici.
Cosa dire di questo capitolo?
Mi rendo conto che sia realmente l’apoteosi della disperazione… (O della rinascita? Boh… Chi lo sa!)
Però a me è piaciuto un sacco scriverlo, -se sa che con i drammi ci vado a nozze, insomma. X.D- e spero possiate apprezzarlo anche voi, nonostante la tragicità della situazione.
A questo proposito, mi piacerebbe tantissimo sapere a che conclusioni siete giunte, anche perché tutto è volutamente costruito per declinarsi verso più interpretazioni, quindi sul serio, fatemi sapere perché so troppo curiosa!
Come sempre un bacio speciale va alle mie amichette preferite <3
E vi ringrazio tantissimo per aver letto questa storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3
Sperando in un 2021 un po’ più sereno, vi bacio tutte e vi faccio tanti tanti auguri di buon anno, ragazze mie <3
A presto
Lolimik