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Autore: Saeka    29/12/2020    2 recensioni
INTERATTIVA | Iscrizioni chiuse
Il mondo magico ha una storia oscura alle spalle. La nuova generazione di Auror sarà pronta ad affrontarla?
Proprio quando Hamilcar Wodnes, Auror ormai disilluso, pensa di godersi la tanto meritata tranquillità, una nuova minaccia incombe sulla società dei maghi, che iniziano a sparire nel nulla: bambini, guaritori, membri del Ministero della Magia. Il mistero non sembra avere spiegazione. Hamilcar e le sue nuove reclute dovranno calarsi nella mente del loro nemico per poterlo stanare e scoprire una verità che farà accapponare loro la pelle. Perché quello che succede nell'oscurità della mente umana valica ogni confine etico della storia.
E questa è una storia così orrenda che verrà sepolta insieme ai suoi protagonisti nei meandri del Ministero.
Nessuno lo deve sapere.
Genere: Dark, Horror, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 3
A sectarian and quite suspicious pub
Agnes Poppy Dixon


 
 
 
Quella fredda mattina di lunedì, nel pieno del suo entusiasmante primo giorno di lavoro, Agnes fu contenta di aver optato per un abbigliamento casual. La pioggia cadeva fitta sulle strade di Londra, senza pietà. Si strinse nel suo cappotto scuro mentre l’odore della pioggia si mescolava con quello dell’asfalto, e l’acqua scivolava in rivoli sul marciapiede fino a grondare nelle fogne. Agnes non lo sapeva ancora, ma da lì a poco sarebbe uscito un libro dell’orrore che avrebbe popolato gli incubi dei babbani. Per sua fortuna non era una babbana, non era una bambina, e non usciva a rincorrere barchette di carta sotto la pioggia.
Si era svegliata con un’ora di anticipo sulla tabella di marcia. Il profumo di pancetta fritta e uova riempiva tutto il monolocale. Quando Agnes aveva aperto gli occhi, il suo primo pensiero era corso alle colazioni che le preparava sua madre quand’era piccola. Per placare la fame aveva nascosto la testa sotto il cuscino premendo per bene il naso contro le lenzuola del materasso. Dimenticava sempre di chiudere la finestra prima di andare a dormire, così al mattino si ritrovava il cibo dei vicini dentro i polmoni invece che dentro lo stomaco. Alla fine, a malincuore, si era tirata a sedere, poi aveva portato la sua carcassa in bagno e infine al piano cottura della cucina, e aveva cominciato a cucinare. Si era accorta troppo tardi di non aver comprato le uova, di aver finito il bacon e di non avere a disposizione abbastanza avena per il porridge. Si era arrangiata come aveva potuto.
A posteriori, era contenta di aver investito una ricca mezz’ora del suo tempo per la colazione. Tutte le calorie che aveva immagazzinato la facevano sentire carica quanto una stufa. Qualunque tipo di sforzo le sarebbe stato richiesto di sopportare Agnes l’avrebbe sopportato perché aveva tutte le energie per farlo. Non conosceva ancora i turni di lavoro; non sapeva se avesse diritto alla pausa pranzo. Forse non c’erano veri e propri turni.
Nel corso delle ultime settimane si era spesso spesa in interminabili sogni ad occhi aperti nel tentativo di fantasticare sul suo primo giorno di lavoro al Ministero. Aveva pensato a enormi battaglie con lampi verdi, stridi e fuoco incantato, come nella battaglia dei sacchi d’oro a Colmar in Francia nel Medioevo. Fu uno dei conflitti più aspri per la cooperazione tra maghi e goblin, come amava ripetere il professor Ruf a Hogwarts. Agnes ne aveva letto più approfonditamente in un manuale di storia della magia medioevale francese e poi su un altro saggio sulla storia delle monete magiche europee ‒ ma in questo secondo caso era citato solo come episodio fondamentale per la storia dell’economia magica nei mercati e nelle finanze del nord Europa.
Tuttavia era poco probabile ritrovarsi nel mezzo di uno scontro magico durante il suo primo giorno da matricola. Così le sue fantasie si erano ridimensionate. Pensava ad avvincenti interrogatori sotto la luce soffusa di una stanza del Ministero: la cera bollente che colava sulle candele, l’odore legnoso della sedia del prigioniero e il fumo dei sigari che si aggrovigliava ai corpi degli Auror (quest’ultimo dettaglio proveniva dal suo passato di avida lettrice di gialli babbani). Ma alla fine aveva deciso di dare un taglio alle stramberie. Aveva iniziato a fantasticare coi piedi per terra immaginandosi a una scrivania nel Quartier Generale degli Auror – figata – mentre compilava fascicoli processuali. Avrebbe comunque imparato qualcosa, pensava. Invece, con sua grande sorpresa, il suo gruppo aveva lasciato la pomposità del Ministero per una spedizione. La sua prima missione! Ovviamente non stava nella pelle. Seguiva il suo nuovo Auror referente per le strade di Londra con così grande entusiasmo che la pioggerella autunnale non le dava neanche fastidio. Sentiva di passeggiare del tutto asciutta tra una goccia e l’altra. In realtà il mantello verde muschio che l’aveva accompagnata per tutti gli anni dell’Accademia si stava infradiciando e così i capelli, ma decise di non farci troppo caso. Non poteva lasciarsi abbattere dal clima uggioso dell’Inghilterra.
Era insieme a una ragazza altissima. Zavannah, l’aveva chiamata Wodnes. Era poco vestita per una giornata di pioggia come quella, ma nonostante questo non sembrava soffrire particolarmente il freddo. Ogni singola goccia che cadendo dal cielo si infrangeva sul suo corpo veniva accolta con un sorriso, come fosse stata un dono e non un qualcosa di cui lamentarsi.
E poi c’era Orpheus. Il modo in cui era finito nel loro gruppo la diceva lunga su di lui. Agnes si era sempre preoccupata di non finire nei guai già al suo primo giorno di lavoro, ma non si era mai curata che ci finisse qualcun altro.
D’un tratto si rese conto di avere accanto due persone esuberanti almeno quanto lei.
Girarono l’angolo in fondo alla strada principale per imboccare una via meno turistica. I babbani che incontravano per la strada erano ammantati nei loro cappotti grigi, tutti stretti sotto l’ombrello. Parevano tanti funghetti sul marciapiede, e il bosco era una distesa di palazzi in laterizio e calcestruzzo.  Camminavano goffamente per non scivolare riservando loro sguardi spocchiosi, borghesi. Squadravano i loro vestiti eccentrici dall’alto in basso, come fossero stati parte di un circo. Agnes continuò a camminare seguendo i suoi compagni. Si trattava di babbani, non c’era motivo per cui prendersela. Lei stessa si fermava a osservare gli altri maghi, soprattutto se vestivano in modo molto tradizionale ‒come i vecchietti che ogni tanto spuntavano fuori per le vie di Diagon Alley. Era ancora molto confusa riguardo alla moda magica; le sembrava sospesa tra il passato di stregoneria boschiva e il presente. Incontrava spesso ragazzi con abiti pregiati, con ricami fatti a mano e lunghe decorazioni floreali, oppure uomini del ministero con panciotti e soprabiti tra il vittoriano e il gotico. I gioielli erano d’oro o d’argento, oppure si usava portare talismani intagliati nel legno o pietre lavorate dagli sciamani. C’era così tanto da imparare sulla comunità magica. Sembrava vivere in ogni cosa, persino nei vestiti.
L’Auror che faceva loro da apri-fila, ad esempio, portava vistosi pantaloni in pelle di drago tra il magenta e il lampone, lunghi fin sotto il ginocchio e chiusi con uno strano bottone in osso. Sopra di esso c’era un simbolo aritmantico che purtroppo Agnes non ricordava. Ai piedi aveva un paio di mocassini del tutto anonimi, di manifattura babbana. E poi una maglia con la faccia del frontman dei Culture Club. Ascoltava quella band? Oppure era entrato in un negozio babbano per curiosità e se l’era comprata e basta? Ora che si addentravano per i cunicoli di Londra Atlas Wellnot era del tutto coperto dal mantello. Agnes non riusciva neanche a vedere l’amuleto che portava al collo. L’aveva colpita subito per la runa che vi era incisa: una F con le stanghette oblique ‒ o una freccia rotta se si aveva abbastanza fantasia. Agnes  si maledì per non aver studiato di più. Chissà che cosa significava.
Quando girarono di nuovo si ritrovarono nella penombra di un vicolo cieco. La pioggia cadeva sulle pozzanghere e sui cassonetti della spazzatura. In un certo senso faceva atmosfera. Camminarono pochi metri e poi si fermarono accanto al muro di mattoni rossi. Alle loro spalle stava l’entrata sul retro di un ristorante indiano che Agnes conosceva molto bene avendolo frequentato spesso durante gli anni da studentessa squattrinata. Servivano buon cibo a prezzi convenienti e per questo Agnes aveva sviluppato una dipendenza per le foglie di palma farcite e gli involtini di kebab con l’agnello. Forse avrebbe potuto tornarci nel weekend per festeggiare la sua prima settimana di lavoro.
Atlas Wellnot batté con la punta della bacchetta sui mattoni. Doveva averlo fatto molte volte nella sua vita perché i movimenti della sua mano apparivano fluidi, quasi coreografici. 
«Dove andiamo?» chiese Agnes. Era troppo impaziente per aspettare che il muro si spostasse per rivelare loro la strada. 
Atlas Wellnot si girò appena per sorriderle. Indicò il varco con un gesto sinuoso del braccio invitandoli a entrare.
Non era la prima volta che Agnes si infilava nell’apertura di un muro; i passaggi magici erano comuni in Inghilterra. Eppure ogni volta che accadeva ripensava a una serie di romanzi pubblicati una manciata di anni prima della sua nascita. Erano stati un successo esagerato tra i bambini. Chiunque fosse cresciuto in un ambiente babbano li conosceva. Quando era piccola Agnes si imbucava spesso nell’armadio, ma invece di trovare la neve la sua testa sbatteva puntualmente contro lo schienale. Nonostante le batoste, i bernoccoli e le grida di sua madre per i vestiti rovesciati a terra, Agnes non smise mai di cercare la magia. Mai, finché un gufo non gliela portò dritta a casa.
Il varco era incredibilmente stretto, irregolare e sbilenco, con grossi spuntoni di pietra nera che ostacolavano il passaggio. Agnes lo trovava affascinante. Fece attenzione a dove metteva i piedi per non rovinare a terra. Dietro di lei Orpheus la seguiva ticchettando le pietre con la bacchetta. L’aveva spronata ad andare prima di lui sostenendo che sarebbe stato inaccettabile per un gentil mago del suo rango precedere una bella donzella nel passo. Era un po’ melodrammatico.
Quando finalmente raggiunsero l’uscita sbucarono fuori in un vicolo affollato che straripava di stregoni. Tutta quella gente la sorprese. Non aveva mai visto così tante persone stipate nella stessa strada, nemmeno a Diagon Alley. Pensò subito che l’aria avesse un colore strano, indefinito. Tutti quei maghi incappucciati formavano un pattern insolito, con stoffe scolorite e mantelli grigi che li facevano somigliare l’uno all’altro. In mezzo a tutto quel grigiume spiccavano bandane accese verdi e rosse e gialle e scarpe di cuoio vecchio e orecchini di piume di fenice. C’erano così tanti stimoli visivi attorno a lei che Agnes non sapeva dove guardare ‒ o dove mettersi visto che non c’era spazio per nessuno. Si sentiva quasi un’estranea, e probabilmente lo era. Tutta quella gente riempiva la strada in un modo così caotico che il suo stare ferma immobile la faceva stonare orribilmente.
Atlas Wellnot li raggiunse alla fine del varco. Anche lui sembrava teso. Agnes poté udire il muro richiudersi alle sue spalle come nulla fosse, imprigionandoli.
Qualche minuto prima erano quattro figure bizzarre in mezzo a migliaia di babbani, mentre ora stavano in piedi, bacchette all’aria, nell’ombra magica di Londra. Un’intera comunità viveva in segreto le sue giornate dietro un muro di mattoni rossi, accanto ai cassonetti della spazzatura: la meraviglia della magia a pochi passi dallo squallore. 
«Questa è Ruber Alley» disse Atlas Wellnot levandosi il cappuccio. Laggiù non pioveva. «Qualcuno di voi c’è già stato? È un posto particolare.» 
Agnes non l’aveva mai vista. Non ne aveva neanche mai sentito parlare, anche se la cosa non la colpì più di tanto. C’erano una dozzina di vicoli magici o poco più, sparsi per tutta Londra; Agnes ne aveva frequentati forse quattro in tutto.
Però quel posto aveva qualcosa di sbagliato, se lo sentiva. Non riusciva nemmeno a vedere i negozi dietro il marasma di persone che le camminavano accanto. La maggior parte di loro non la notò nemmeno; scivolavano sulla strada senza far rumore con lo sguardo fisso a terra. Provava pena per quei corpi ammantati di grigio, per quelle ombre di fumo che si stagliavano davanti al suo sguardo per qualche secondo e poi sparivano. Celavano il volto per non farsi riconoscere.
«Andiamo» disse Wellnot. «C’è una locanda poco più avanti. Possiamo fermarci a parlare lì.»
Arrivarci non  fu così facile. Ad ogni passo Agnes si sentiva respingere indietro. Tutte quelle persone la soffocavano. Per la prima volta nella sua vita si sentì affogare. Lottò con tutte le sue forze contro la folla, ma ogni spintone la destabilizzava. Inciampò più di una volta e finì addosso a un’anziana. Non arrivò nemmeno a chiederle scusa che questa sparì nel nulla sostituita da un ragazzo, un mucchietto d’ossa e nulla più. I lineamenti del cranio disegnavano solchi profondi intorno ai suoi occhi. Agnes si scansò da lui con un balzo, ma se ne pentì subito. Quel ragazzo brutto e malaticcio non meritava il suo disgusto.
Ebbe un attimo di panico quando pensò di essersi persa tra le onde grigie. Non riusciva più a vedere i suoi compagni. Cominciò a girarsi intorno, forse in modo troppo agitato, ma ovunque guardasse c’erano solo quei mantelli e quei volti spenti. Nessuno la guardava in faccia, solo piccole spinte che la facevano barcollare. Alla fine perse l’orientamento; non ricordava più da che parte fosse venuta. Si era persa in mezzo a persone che non parevano neanche persone. Tutte loro si muovevano ovunque senza logica in un moto anarchico privo di alcuna razionalità. La sua testa vorticava con loro, instabile. Le voci erano troppe e si sovrapponevano nel gran casino della strada.
Riconobbe la figura di una bambina nell’ombra che le passò accanto. Nella testa sentiva solo il battere delle suole sui ciottoli.
Quando pensò di non avere più possibilità, di star impazzendo, qualcuno la prese per un braccio e la trascinò verso di sé con delicatezza. Tutto quel grigio sfumò via e davanti a sé si ritrovò il volto di Wellnot che la guardava con compassione.
Si sentì immensamente idiota, ma Wellnot non sembrava arrabbiato. 
«Succede sempre» la rassicurò. Intanto la accompagnava verso la locanda, che Agnes scoprì non essere poi così lontana dal punto in cui era rimasta bloccata. «Non preoccuparti, non dirò niente agli altri.»
«Che cos’ha questo posto?» chiese invece Agnes. Le sue labbra tremavano quando disse: «È maledetto?»
Wellnot apparve amareggiato. Per un attimo anche il suo volto si fece grigio, senza forma o identità. «La sua maledizione si chiama povertà.» 
Mentre raggiungevano l’ingresso Agnes notò un’orrenda testa mozzata appesa accanto all’insegna che diceva: IL CALDERONE. All’inizio pensò che non avessero molta fantasia, ma poi ricordò le vecchie leggende sulle zampe di rospo, sulle interiora dei ratti, sui funghi tossici, e le  sue budella si contorsero. Aveva come la sensazione che qualunque cosa avesse ordinato sarebbe stata putrida. Come se non bastasse, la testa mozzata era affissa a una picca: biancastra e tumefatta, ma incantata perché non si decomponesse troppo. Notando il suo sgomento Wellnot le disse che era appartenuta a un mago poco sobrio che aveva avuto la peggio in una rissa qualche secolo prima. Era una cosa triste e orrenda esibire la testa di un poveretto come fosse un oggetto di scena. Ma era anche una cosa incredibilmente affascinante, se si pensava al fatto che chiunque fosse entrato là dentro o semplicemente passato per Ruber Alley avrebbe ricordato la vita di quel giovane mago. Questo lo rendeva a conti fatti un immortale. 
«È lì per ricordare a tutti di non fare baccano» mormorò Wellnot. «A meno che non vogliano finire su una picca.» 
Zavannah e Orpheus avevano già preso posto a sedere a un tavolo in legno spesso e rossiccio. La locanda era piuttosto buia, sommersa di tavoli e banchi lunghi con vecchi sgabelli lavorati a mano. Qua e là salivano ampie colonne di pietra ricoperte di muschio che dal pavimento si tuffavano a infrangersi contro il soffitto. Un odore oleoso le punse il naso. Accanto a lei partiva una scia di fiaccole accese che bruciavano nell’oscurità. Il resto della luce era opera del gioco di specchi e vetri di ampolle e fiale esposte sulle mensole dietro i banconi. La maggior parte esibivano liquidi traslucidi, quasi evanescenti e per nulla invitanti. Seguiva una serie di camini verdi dall’aspetto grottesco, oblunghi e fieri, e grosse botti di whiskey incendiario che si arrampicavano in ogni antro. La cosa più normale erano le zucche intagliate che smascellavano le bocche aguzze intonando cori in falsetto. 
«Che luogo incantevole» disse Orpheus ammirando la sala. Apparentemente, il pensiero di trovarsi in una locanda squallida con un’alta probabilità di morire avvelenato lo divertiva.
«Dovete dargli una chance» li rimbrottò Wellnot, ma in modo bonario. «O anche più di una. Ci vuole un po’ per sentirsi a casa.» 
Il menù le fece storcere il naso, cosa che certo non passò inosservata agli altri. Si considerava una persona piuttosto espressiva.
Vendevano il brodo di ossa di thestral. Non aveva mai visto nessuno morire perciò fu tentata di ordinarlo solo per cercare le ossa invisibili dentro il piatto. In un vecchio libro di ricette della biblioteca di Londra aveva letto del brodo di ossa di maiale, molto in voga presso i babbani, ma non aveva mai sentito di varianti magiche fino a quel momento. C’era anche un piatto a base di rospi in salsa di mandragola. Nauseata, decise di passare alle bevande e girò la carta ingiallita ritrovandosi davanti una fila di nomi sconosciuti: Incantabacca, Sciroppo d’Algamara, Stellabolla, Succo di pignamenta, e mille altri. Ovviamente c’era la burrobirra. E anche le bevande alcoliche più comuni che Agnes, essendo in servizio, non avrebbe certo potuto ordinare. Visto che il coro stridulo che aveva accanto sembrava piuttosto maturo decise di farsi forza e optò per un semplice succo di zucca. Orpheus invece volle provare lo Stellabolla.
Il cameriere era un elfo domestico giovane ma con le movenze di un centenario. La faccia era tutta bitorzoluta, brufolosa, il naso lungo e gocciolante, le palle degli occhi smorte e inespressive. Non sorrise nemmeno una volta e non pronunciò una parola. Si avvicinò al tavolo, prese le ordinazioni e andò via. Qualche minuto dopo tutte e quattro le loro bevande comparvero davanti a loro con uno schiocco sonoro.
Il suo bicchiere era stato intagliato nel legno, cosa che trovò immensamente carina finché non notò le incisioni sul lato che ritraevano uno strano mostriciattolo deforme tutto peloso. La inquietò così tanto che girò il bicchiere per non vederlo. Dentro, il succo di zucca si agitava brontolando ‒ forse tentava di intonare la canzone con le altre zucche appese.
Intanto dalla bocca di Orpheus si levavano piccole bolle di luce arancione, come lucciole, che vibravano nell’aria, si gonfiavano e poi scoppiavano in una miriade di brillantini. La locanda si fece molto più luminosa, abbastanza perché Agnes intravedesse di nuovo l’amuleto di Wellnot. I suoi occhi si riaccesero di curiosità. 
«Che cosa significa quella runa?»
Atlas Wellnot abbassò lo sguardo sulle sue vesti e prese il medaglione tra le mani. Quando tornò a guardare Agnes aveva uno sguardo appassionato. 
«Questa è Ansuz.» Sfiorò la runa con un profondo rispetto. «Ci ricorda che anche nella realtà più caotica vige un ordine e che l’ordine ha natura divina. Il solo fatto che esista un ordine implica un disegno più grande. E noi facciamo parte di questo disegno, dobbiamo esserne consapevoli.»
«Un disegno? Tipo un grande, enorme piano dell’esistenza?» chiese Zavannah allargando le braccia per esprimere meglio il concetto. 
Agnes guardò i tre maghi in silenzio. Non aveva mai avuto l’occasione di approfondire la filosofia magica né di avvicinarsi ai culti antichi. I suoi compagni di Tassorosso si erano sempre dimostrati piuttosto riservati a riguardo, come se la religione fosse per loro un dono da custodire nel privato e contemplare personalmente. Così non ne facevano oggetto di discussione e Agnes non poteva certo costringerli. E poi aveva sempre frequentato persone giovani, della sua età. Aveva come l’impressione che la religione per i maghi fosse un percorso di sviluppo individuale che procedeva per gradi. Forse avrebbe avuto più fortuna a parlarne con maghi più anziani e con più esperienza alle spalle, ma il solo pensiero la metteva in suggestione. 
Mentre Agnes veniva distratta dai suoi pensieri, Orpheus annuì con solennità. «Il Signor Destino è potente.»
«Vi chiederete perché siamo qui» disse invece Wellnot. Aveva un modo di parlare molto suadente. Dava un senso di calma, di serenità.
«In effetti è un luogo discutibile» disse Orpheus. Ruttò un bolla di luce, per sbaglio, e si coprì la bocca subito dopo. «Oh, che screanzato!» 
Al suo fianco Zavannah rise così forte da riempire tutta la sala. Un attimo dopo le zucche le fecero il verso in un’eco macabra. Agnes si girò a guardarle male e il suo succo brontolò di nuovo. Non voleva essere volgare ma pregò che una volta digerita quella roba, la sua cacca non avrebbe tentato di intonare un motivetto nel fondo del gabinetto.
Atlas Wellnot prese un grosso sorso dalla sua bevanda aspettando che le zucche si dessero una calmata, poi tornò a guardarli. Stavolta era serio. 
«Ruber Alley è una via piuttosto trafficata. Ci vivono molti maghi, poveri per lo più. Tanti di loro sono anziani e religiosi. Per questo è il luogo preferito dalle sette.»
«Sette?» chiese Orpheus singhiozzando un’altra bolla luminosa. Tentò di coprirsi la bocca in un accenno di galateo, ma il tentativo fallì miseramente.
Wellnot non fece una piega. «Alcune persone non reggono bene le pressioni della realtà: si ossessionano con un’ideologia, spesso una semplificazione del mondo,  e si lasciano trasportare dagli istinti più bassi. E qualche volta queste persone si trovano tra loro, si associano e nascono le sette.»
«Sette magiche?» chiese Agnes, sbalordita. Era la domanda più natobabbana della storia.
«Ce ne sono almeno tredici in Gran Bretagna» disse Wellnot. Notando le espressioni stupefatte dei suoi ragazzi si affrettò subito a rettificare. «Oh, ma non sono tutte pericolose!»
«Certo che no» lo interruppe Orpheus. «Solo dodici di queste stanno pianificando di ucciderci tutti.»
Wellnot sogghignò da dietro il boccale di idromele. «Sono felice che riusciate a digerire questa notizia.» 
Agnes amava ridere. Amava sedersi a un tavolo a chiacchierare e godersi la gioia di essere vivi dopo anni di guerra. Tuttavia sapeva riconoscere una conversazione importante quando vi si trovava invischiata. 
«Che tipo di sette sono?» chiese.
«Sono molto diverse l’una dall’altra. La maggior parte di loro non hanno rapporti. Sono esclusive, spesso esoteriche per certi versi. Hanno i loro rituali di iniziazione, i loro principi di condotta. Sono realtà molto complesse e diversificate. Come ho detto, non tutte costituiscono un pericolo per la comunità. Alcune sono solo molto riservate, un mistero per chiunque non ne faccia parte. C’è l’Ordine di Nefeli, ad esempio. E la Compagnia di Thelema. I figli di Lir sono molto pacifici, mentre gli Incappuciati sono più ambivalenti.»
«Ambivalenti?» chiese Zavannah. «Sia buoni che cattivi?»
Atlas Wellnot annuì con la testa.
«Sono una congrega di maghi celtici che venerano gli spiriti incappucciati. Non so quanto conosciate la cultura dei Celti, ma gli spiriti incappucciati sono una triade di difficile rappresentazione. Vengono intagliati nel legno o raffigurati in maniera quasi astratta, con forme poco umane e molto simboliche.»
«Portano dei doni da quello che so,» disse Orpheus, «tipo uova.»
«Esatto.»Wellnot sembrava felice di avere qualcuno di preparato nel gruppo. «Uova come simbolo di vita e di rinascita, come ci ricorda la festa di Ostara a primavera. Celebrare il mondo che si riveste di germogli, che torna alla vita dopo l’inverno, è comune presso molti popoli. Ma gli spiriti incappucciati non portano solo uova. Possono portare anche spade e pugnali, così simboleggiano l’arrivo della violenza e della guerra.»
«Quindi morte» concluse Agnes. «Ma perché?»
Wellnot non rispose subito. Valutò attentamente le parole, probabilmente consapevole di trovarsi di fronte dei ragazzini. «Questo, non lo sappiamo ancora. Gli spiriti, gli dei … qualunque forma esistenziale sovrumana è al di là delle nostre competenze. Dedichiamo tutta la nostra vita nel tentativo di cogliere il senso di tutto, ma la verità è che moriamo senza sapere niente. Perché questi spiriti portano morte e poi vengono a insegnarci a celebrare la vita? Non lo sappiamo. Perché ci invitano a gioire della rinascita se poi ci porteranno di nuovo disperazione?»
«È un ciclo di vita e di morte infinito» mormorò Zavannah. Sembrava piuttosto colpita da quel discorso. I suoi occhi erano distanti e pieni di pensieri. Agnes avrebbe voluto essere una ligilimens per poterle leggere dentro.
Atlas Wellnot proseguì: «L’infinito è un concetto molto presente nella cultura celtica. Basta pensare alla triskele.»
Non aveva mai imparato a disegnare la triskele celtica. L’avrebbe certamente riconosciuta se se la fosse trovata davanti, ma lì su due piedi non era in grado di raffigurarsela con l’occhio della mente. Le sembrava c’entrassero dei nodi, degli intrecci di qualche genere. 
«Ma quindi questo è un pub fazioso?» disse Orpheus colto da un’illuminazione. «Siamo stati serviti da un elfo malvagio.»
«È un pub particolarmente rinomato per le sue frequentazioni settarie, sì» annuì Wellnot. Sembrava perfettamente a suo agio al tavolo con loro. Parlava di sette, di fanatici, di possibili criminali che sedevano accanto a loro in quel momento, ma lo faceva in un modo così serafico che riuscì a frenare persino l’inquietudine di Agnes.
«E noi siamo qui per arrestare qualcuno?» chiese invece Zavannah. Ma Wellnot scosse la testa.
«Vi ho portati qui per parlare. Ho pensato che così sarebbe stato più efficace spiegarvi l’importanza delle sette all’interno della comunità magica; la loro influenza e il ruolo che svolgono nelle indagini di noi Auror. Consideratela una lezione teorica svolta sul campo.»
«Quale ruolo?» chiese Agnes. Pensava che le sette fossero organizzazioni criminali. «Ci sono sette che collaborano col Ministero?»
«Alcune lo fanno, sì» annuì. «Offrono una consulenza, ci fanno da informatori. A volte sono molto preziose per il nostro lavoro.»
Agnes corrugò la fronte. Aveva paura a fare quella domanda. «A quale prezzo?»
«Evitare Azkaban, suppongo» disse Orpheus. «Mi sembra una ragione valida per cantare.» 
Atlas Wellnot invece guardò Agnes con una certa attenzione. Ovviamente sapeva  bene cosa intendeva dire la ragazza, anche lui era stato giovane e innocente. Un po’ gli mancavano quegli anni. 
«A volte bisogna scendere a patti anche con le realtà che più ci repellono. E le informazioni si pagano.»
«Ma siamo Auror» disse Agnes. «Noi perseguiamo la giustizia. Abbiamo diritto a quelle informazioni. Loro devono fornircele.»
«Affatto, signorina» sorrise Wellnot, del tutto calmo. «Nessuno deve fare nulla. Il concetto di “dovere” è tipico dei tiranni. Non usate mai la vostra posizione, neanche quella lavorativa, per imporvi su qualcun altro; un’azione del genere non vi renderebbe dissimili da Voi-Sapete-Chi.»
«Non è amorale scendere a compromessi con organizzazioni criminali?» chiese allora Agnes.
«La moralità è piuttosto opinabile. Bene e Male sono semplificazioni che ci aiutano a comprendere meglio la realtà e a darvi un senso, ma non esistono. Ciò che tu ritieni eticamente giusto può non esserlo per qualcun altro. E io ti chiedo di essere sempre pronta a comprendere e a riconoscere il punto di vista di quel qualcuno.»
«E ad accettarlo?»
Wellnot scosse la testa prima di finire la sua bevanda. «Tu, io … non siamo nessuno per accettare qualcuno. Quel qualcuno non ha bisogno del nostro permesso per contemplare la realtà. Ti chiedo di comprendere il suo punto di vista, invece, e di ricordarti sempre che quel punto di vista esiste, come ne esistono migliaia di altri.»
«Migliaia di visioni della stessa realtà» mormorò Orpheus come in trance. Sembrava stesse guardando un enorme, infinito, puzzle di specchi invisibile davanti a sé.
«Esattamente» disse Wellnot. «Migliaia di visioni della stessa realtà, ognuna perfettamente valevole e meritevole di essere considerata. Questa consapevolezza sta alla base della comunità. Non c’è vivere comune che prescinda dalla convivenza di punti di vista differenti».
Agnes trovava particolarmente difficile seguire quel discorso. Sentiva il bisogno di tramutare quelle parole astratte in esempi concreti per non perdersi in quel marasma di concetti. Si ritrovò a paragonare i punti di vista alle maschere, alla pozione polisucco, ai travestimenti e infine alla trasfigurazione. Trasfigurare un cannocchiale d’ottone in un flauto significava mutare la sua essenza, anche se non in modo permanente. Se la magia dava il potere di trasmutare la materia, forse l’intelletto dava il potere di trasmutare il pensiero.
Agnes non era sicura di riuscire a diventare un flauto ed era troppo giovane per accettare che l’etica, la base del suo concetto di civiltà, potesse rivelarsi instabile, addirittura illusoria. Aveva bisogno di tracciare una linea tra giusto e sbagliato, altrimenti come avrebbe riconosciuto le sue azioni? Come avrebbe giudicato la sua condotta?
Atlas Wellnot intuì chiaramente i suoi dubbi e cambiò discorso. 
«Avete tutta la vita per ragionarci sopra. Non dovete trovare una soluzione entro la fine del pomeriggio. Per vostra fortuna, la vita non ha scadenza, fatta eccezione per la morte.» Sollevò le spalle. «Torniamo a qualcosa di più immediato, vi va?» 
I tre ragazzi annuirono con vigore. Quel discorso era così complesso da lasciarli in alto mare, naufraghi su zattere senza rotta. Nessuno di loro voleva sentirsi stupido.
Un giorno si sarebbero svegliati più saggi e avrebbero compreso che diventare adulti non significa avere tutte le risposte. Un giorno avrebbero contemplato le loro domande come fossero perle da custodire negli abissi, e non mancanze di cui vergognarsi.
 
 
 
Quando rientrarono al Ministero Wellnot li accompagnò in un ufficio ricolmo di scaffali e se ne andò. L’odore era quello di una cantina. Dentro c’erano tre ragazzi che Agnes ricordava dalla mattina. Dei tre, solo uno sembrava davvero concentrato sui fascicoli che aveva in mano; aveva un’intera colonna di cartelle sulla scrivania e un foglio ingiallito su cui annotava le cose che reputava più interessanti. Un altro gironzolava per la stanza canticchiando vecchie ballate gallesi; era stonato e tra un verso e l’altro mangiucchiava un bastoncino di zucchero. Non sembrava particolarmente preso dal suo lavoro. Solo avvicinandosi Agnes notò il rivolo di sangue secco che gli fuoriusciva da una narice, ma non fece domande.
Li accolse un ragazzo ben piazzato, l’ultimo dei tre, che vide nel loro arrivo l’occasione giusta per liberarsi delle sue scartoffie. James, si presentò.
«Non sarete rimasti qui dentro per tutto il giorno!» esclamò Orpheus. La sua bocca era spalancata in un moto di orrore mentre accorreva verso il giovane scrivano e lo derubava del suo fascicolo.
«Ehi!» si oppose lui. «Lo stavo leggendo.»
«Ho notato» disse Orpheus. «Sei tu che non hai notato noi.»
L’altro ragazzo lo guardò seccato. «Non m’importa di voi.»
Prima che la situazione degenerasse James si frappose fra i due e spinse Orpheus a riconsegnargli il fascicolo. Poi tornò da Agnes.
«Non è un tipo socievole, ci abbiamo già provato.»
«Che cosa state facendo?»
Intorno a loro c’erano un centinaio di archivi, tutti catalogati sugli scaffali in legno. Sulla parete destra, appena sotto la finestra, stava un banchetto isolato con sopra una macchina da scrivere.
«Hymndor ci ha detto di fargli una lista di tutti i criminali minori che il Ministero ha schedato.»
«Tutti!!?»
«Beh, ha dato qualche direttiva, ma non ha ristretto molto il campo.» James sollevò le spalle. «Cercano ladri, scassinatori, smercianti … roba così. Devono essere ancora in vita e in libera circolazione, quindi niente Azkaban.»
«Non penso mandino ad Azkaban gli smercianti, come li chiami tu» disse Zavannah, alle sue spalle. E aveva ragione, nessun giudice avrebbe rinchiuso ad Azkaban un rivenditore di merce rubata o contraffatta.
«Ci date una mano o rimanete lì come stoccafissi?» disse il ragazzo scorbutico che stava ancora ripiegato sui suoi appunti. Più tardi, Agnes l’avrebbe conosciuto con il nome di Om.
«È quasi mezzogiorno» si lamentò piuttosto il ragazzo con il bastoncino di zucchero. «Dovremmo andare a pranzo, anche gli Auror mangiano.»
«Sei sporco qui» gli fece notare Orpheus indicandogli il naso. Anche lui aveva notato il sangue.
«Perché mi ha picchiato, quel demente» disse lui ripulendosi con la manica della maglia. La voce era lamentosa, quasi infantile. Puntò il dito dritto verso James, come una condanna.
Agnes si girò verso di lui. «È vero?»
«Solo una piccola spinta. E comunque ha fatto tutto da solo, è una testa calda.» Si avvicinò di più ad Agnes e abbassò la voce. «Credimi, tu non sei stata rinchiusa qui dentro per ore con questi due pazzi.»
Agnes pensò che non avesse tutti i torti. Ma la violenza … era proprio un mezzo da deboli.
«È stata legittima difesa» le assicurò. E per rafforzare le sue parole le sorrise. «Non sono un tipo violento. Di Lachlann invece non ne sarei così sicuro.»
Agnes tornò a fissare quel ragazzo che ora tergiversava con Orpheus nel tentativo di procrastinare il più possibile il suo lavoro. Doveva essere un piantagrane, questo Lachlann.
«Ha fatto così per tutto il tempo?» chiese invece a James.
«Tutto il tempo. Ha aperto un solo fascicolo e ne ha letto la metà … in un’ora, continuando a dondolarsi sulla sedia.»
«Wow» esclamò lei. Doveva essere l’opposto di Om, l’irascibile e iper-concentrato scribacchino. «Ha mollato dopo solo un’ora? Non è allora che ha cominciato a cantare, vero?»
«Oh sì.» James fece una faccia disperata. «Motivetti del Galles, principalmente. Ma anche qualcosa d’irlandese.»
«Conosce l’irlandese?» chiese Agnes. Il poliglottismo era un’abilità inusuale tra i lavativi.
«Certo che no.» James scosse le testa. «Ha inventato tutte le parole, solo la melodia era autentica.»
«Mi dispiace.»
«Dopo questo mi dovranno ricoverare al San Mungo per instabilità mentale. A voi come è andata?»
Prima che potesse rispondere una campana scandì tre rintocchi vibrando per tutta la stanza e facendo tremare i tavoli. Dalla porta comparve la testa rossa e riccioluta di Maeglywell che disse loro di prendersi una pausa per il pranzo. Il lavoro sarebbe ripreso alle due precise del pomeriggio.
Due secondi dopo Lachlann era già disperso per i corridoi del Ministero, ormai lontano dagli scaffali vecchi e polverosi che lo avevano circondato per ore. Orpheus lo seguì poco dopo, ma quantomeno si degnò di salutare i suoi compagni. Forse lo fece in modo troppo pomposo, visto l’inchino.
Per la prima volta in quella giornata uggiosa Agnes sentì i morsi della fame. Le energie della sua abbondante colazione dovevano essere esaurite. E il succo di zucca che aveva bevuto non era sufficiente a farle affrontare un pomeriggio d’ufficio.
Alla fine prese Zavannah sottobraccio chiedendole se conoscesse un ristorante carino nelle vicinanze.
«Vieni con noi?» chiese a James, che stava raccattando la sua giacca dallo schiena della sedia su cui l’aveva lasciata.
«Lusingato dell’invito, davvero. Ma devo andare a cercare mia sorella. È partita con Wodnes e non è ancora tornata. Quantomeno lei ha avuto una giornata eccitante.»
Prima di andare Agnes provò ad attirare l’attenzione di Om per salutarlo e eventualmente esortarlo ad andare a mangiare, ma il ragazzo tagliò corto in modo sbrigativo. Voleva finire di analizzare il fascicolo che aveva iniziato e solo dopo avrebbe preso il camino per tornare a casa.
Agnes rimase alquanto interdetta dalla sua maniacalità. Ma se voleva fare lo stacanovista già il suo primo giorno di lavoro, lei non poteva di certo ostacolarlo.
«Andiamo?» chiese Zavannah. «Ho un’enorme voglia di Fish&Chips.»
«Certo!»
Era contenta di mangiare babbano. Wellnot le aveva buttato addosso fin troppa magia al Calderone. Era stato gentile e comprensivo, aveva cambiato discorso non appena si era reso conto di quanto fosse difficile per loro, ma ciò non cambiava il peso che Agnes provava alla bocca dello stomaco.
Non riusciva a togliersi dalle mente le persone grigie. Si chiese se anche Zavannah e Orpheus avessero provato quel senso di sconforto a Ruber Alley. E se sì, come l’avevano superato?
 
 
 


 
Note:
Le sette presentate in questa storia sono una mia invenzione, sebbene queste si ispirino a culti esistenti.





 
È passato molto tempo, me ne rendo conto.
Ho riscritto questo capitolo quattro volte prima che mi risultasse carino e ancora adesso ho qualche dubbio. D’altronde è un capitolo di passaggio che sonda e prepara il terreno per quello che arriverà.
Spero di non aver fatto un totale disastro con Agnes, ma è probabilmente il personaggio con cui meno riesco a legare non trovandovi quasi nulla in comune. Ho trovato difficile, per esempio, rappresentare il suo inesauribile entusiasmo per la vita, avendo io il carisma di un becchino.
Spero che siate ancora presi da questa storia, perché io lo sono eccome. Ho tante idee da sviluppare e non vedo l’ora di mettermi al lavoro. La scrittura per me è sempre stata una passione, un hobby da coltivare nel tempo libero, un’evasione dalla realtà nonché un modo per riuscire a comunicare e a farmi capire. Ma adesso voglio farne qualcosa di più, un impegno da portare avanti quotidianamente, quasi un lavoro. Ed è con questo nuovo proposito che voglio cominciare il 2021. Porterò avanti questa storia in modo continuativo, evitando come la peste pause come questa.
Voglio ringraziare tutte quelle persone meravigliose che hanno recensito lo scorso capitolo. Le vostre erano parole stupende che mi sproneranno ad andare avanti. I’ll never let you down, guys!
Da ora si riparte in pompa magna!





 
   
 
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