3 – LA COPPA DEL MONDO DI
QUIDDITCH
Decisamente, le Passaporte non
sarebbero entrate nella
classifica delle cose che mi piacevano di più nel mondo
magico. Dieci minuti
dopo lo sgradevole viaggio attaccato ad una vecchia caffettiera, quando
io,
Seamus e sua madre, una donna dall’aria simpatica con gli
stessi capelli rossi
del figlio, avevamo ormai ricevuto l’ubicazione della nostra
piazzola dal
proprietario Babbano del campeggio appena fuori dalla foresta dove era
stato
eretto lo stadio per la finale della Coppa, avevo ancora lo stomaco in
subbuglio, e camminavo attraverso la distesa di tende coperte di
trifoglio dei
tifosi irlandesi barcollando leggermente.
La maggior parte della gente sarebbe
arrivata soltanto il
giorno successivo, compresi, lo sapevamo, diversi dei nostri compagni
di
scuola, ma c’erano già moltissime persone, tra le
quali alcune nostre vecchie
conoscenze. Tra queste, una che avrei fatto a meno volentieri di
rivedere prima
di esserci obbligato dall’inizio dell’anno
scolastico: fuori dall’area dei
tifosi più sfegatati, di fronte ad una tenda particolarmente
lussuosa davanti
dalla quale era stata eretta quella che sembrava una cucina da campo
completamente attrezzata, vidi Theodore Nott in piedi con in mano una
tazza, a
fianco di un uomo magro dai capelli completamente grigi che immaginai
essere
suo padre. Il ragazzo mi lanciò uno sguardo fiammeggiante, e
si chinò a
sussurrare qualcosa al padre, che si voltò verso di me
guardandomi con blando
interesse. Chissà perché, dubitavo fortemente che
qualsiasi cosa il mio poco
amato compagno di scuola avesse detto fosse un complimento. Sostenni lo
sguardo
di Nott Senior, e dopo un paio di secondi lui si voltò e
sussurrò qualche
parola al figlio, il quale, dopo un secondo lancio di coltelli oculari,
tornò a
concentrarsi sulla bevanda che aveva in mano. Chiaramente, la cocente
sconfitta
subita davanti al lago gli bruciava ancora tremendamente, ma per lo
meno sembrava
avere abbastanza buon senso da non tentare mosse azzardate.
Altri incontri furono decisamente
più piacevoli: eravamo ad
un paio di file dalla nostra piazzola quando un piccolo uragano biondo
si fece largo
tra le tende e mi saltò letteralmente in braccio,
trascinandomi nel più
caloroso degli abbracci e stampandomi un gioioso bacio sulla guancia.
Mary
Sutton, probabilmente la più cara amica che avessi a
Hogwarts, mi accolse come se
non mi avesse visto né sentito per un paio d’anni,
anche se avevo risposto alla
sua ultima lettera appena tre giorni prima. Poche frasi, e compresi che
l’evidente cotta che la dolce ragazzina aveva dimostrato di
avere per me, lungi
dallo smorzarsi nei cinquanta giorni di separazione, era più
viva che mai, e
dal piccolo rivolgimento che avvertii all’altezza dello
stomaco mi resi conto
che una parte del mio corpo e della mia mente, difficile dire per il
momento
quanto importante, non sembrava esserne affatto dispiaciuta. Mary
avrebbe
voluto portare me e Seamus (anche se avevo la sensazione che avesse
esteso
l’invito al ragazzo irlandese più per educazione
che per altro) alla sua tenda
per farci conoscere i suoi genitori, ma visto che noi dovevamo ancora
montare
la nostra accettò di differire il tutto ad una cioccolata
dopo cena.
Mentre raggiungevamo sua madre alla
piazzola, Seamus mi
prese in giro in maniera spietata sull’atteggiamento di Mary
nei miei confronti:
“E fu così che il nostro Joshua Carter
diventò il primo del nostro anno a
trovarsi la ragazza!” sghignazzò.
“Oh, sta zitto, Pel di
Carota!” risposi con uno sbuffo
imbarazzato.
“Che problema hai, Gringo?
– chiese, sempre ridendo – Al
posto tuo non mi porrei neanche il problema! Mary è
fantastica, e dire che è
carina mi sembra riduttivo! Vedi di darti una svegliata prima che se ne
accorda
anche qualcuno meno gentile e corretto di me!”.
Feci il gesto di allungare un calcio
a Seamus, che lo scansò
con una sghignazzata supplementare, prima che sua madre ci richiamasse
all’ordine affinché l’aiutassimo a
montare la tenda. Per mia fortuna, godevo,
una volta tanto, di un doppio vantaggio: Matteo Simoncini aveva sempre
amato il
campeggio, aveva passato almeno cinque vacanze estive in tenda, e Grant
Carter,
a quanto emergeva dai miei ricordi, era un grande appassionato delle
tecniche
Babbane per la vita all’aria aperta, e negli anni precedenti
al catastrofico
divorzio aveva condotto diverse volte il figlio a bivaccare in alcune
delle
zone più selvagge degli Stati Uniti, inclusi il parco di
Yellowstone, le
Everglades e il deserto di Sonora, dove il piccolo Joshua aveva
seriamente
rischiato la sua giovane pelle a causa della puntura di uno scorpione.
Questa
combinazione di esperienze si rivelò provvidenziale,
perché Seamus non aveva la
minima idea di come rizzare una tenda o accendere un fuoco da campo, e
sua
madre sembrava soltanto leggermente più esperta di lui.
Dando fondo ai miei
ricordi, comunque, riuscimmo a tirare su una tenda a quattro posti, che
si
rivelò poi, all’interno, magicamente ingrandita al
punto di diventare la
replica di un piccolo appartamento con due camere e un bagno, e per
l’ora di
cena il fuoco produceva calore sufficiente per arrostire delle
invitanti
salsicce. Mentre Seamus continuava a prendermi in giro sulla questione
Mary,
con la madre che in parte lo redarguiva e in parte mi metteva in
imbarazzo
chiedendomi informazioni sulla ragazza in questione, dovetti ammettere
che
erano anni che non mi sentivo tanto in pace con me stesso.
Benché tornare a
vivere certi problemi, inclusi quelli di cuore, avesse i suoi piccoli
svantaggi, nel complesso, forse anche grazie all’abitudine,
avevo cambiato idea
rispetto all’anno precedente: era bello essere di nuovo un
adolescente!
Il giorno successivo fu senza dubbio
uno dei più divertenti
della mia vita, soprattutto da quando iniziarono ad arrivare molti
altri
ragazzi di Hogwarts: da Oliver Baston, l’ormai ex capitano
della squadra di
Quidditch di Grifondoro, a Ernie Macmillan, un ragazzo un po’
pomposo ma simpatico
di Tassorosso. Dal giorno dopo, per di più, al nutrito
gruppo dei nostri
compagni di scuola si aggiunsero Harry, Hermione e Ron, che era giunto
con
tutta la sua famiglia, ad eccezione della madre: fu un vero piacere
conoscere
Bill e Charlie, i suoi fratelli maggiori che avevano già
finito Hogwarts, e
ancora di più rivedere Ginny, che mi era cara quasi quanto
Mary. L’incontro con
Hermione, invece, fu leggermente più carico
d’imbarazzo, una conseguenza
inevitabile del fatto che la geniale ragazza, subito prima della fine
dell’anno
scolastico, fosse andata estremamente vicina a scoprire il mio segreto.
La
ragazza si era rivelata abbastanza intelligente da comprendere le mie
ragioni,
ed aveva deciso di non indagare ulteriormente quando le avevo chiesto
di accettare,
per il momento, che non potessi spiegarle tutto, ma dalle continue
occhiate che
mi lanciava era fin troppo chiaro che aveva deciso di tenermi sotto
stretta,
per quanto garbata, sorveglianza.
La compagnia più costante,
comunque, fu quella di Mary:
senza essere invadente, la ragazzina sembrava ben decisa a passare
quanto più
tempo possibile insieme a me, che si trattasse di cucinare i
marshmallow (che
io avevo trovato allo spaccio del campeggio e che per lei e per gli
altri
giovani maghi si erano rivelati una scoperta entusiasmante) sul fuoco,
di
giocare a Spara Schiocco, a scacchi oppure con un mazzo di carte
Babbane (la
ragazzina si era dimostrata un talento naturale nel poker, al punto da
spillare
un totale di sedici Galeoni a me, Seamus e Baston) seduti
sull’erba, oppure
semplicemente passeggiare tra le tende, osservando le
particolarità delle
migliaia di maghi stranieri che erano giunti a Dartmoor.
Benché sembrasse
impegnarsi nel tentativo di comportarsi come un’amica, i suoi
sentimenti
dovevano essere fin troppo chiari, considerando che, a metà
del pomeriggio del
giorno della partita, Hermione approfittò della scusa di
farsi accompagnare a
prendere l’acqua alla fontanella per affrontare con me il
discorso. Furono
minuti quasi peggiori di quelli nei quali, due mesi prima, aveva
demolito le
difese costruite intorno alla mia vera identità.
“Senti, Joshua…
- iniziò mentre ci avviavamo con i secchi, e
nella mia mente già iniziò a suonare
l’allarme – Devo chiederti una cosa”.
Vedendo il mio volto preoccupato, si
affrettò a precisare:
“Non intendo parlare… beh, di quello che sai!
– si fermò e mi fissò negli occhi
con serietà – In realtà vorrei sapere
che cosa hai intenzione di fare con
Mary”.
Era una domanda totalmente
inaspettata: “Che cosa intendi,
Hermione?” chiesi, improvvisamente imbarazzato.
La ragazza mi fissò con
sguardo furbo: “Josh, sei veramente
pessimo quando tenti di fare l’indifferente! Sai benissimo
cosa voglio dire!”.
Eccome se lo sapevo, fin troppo bene
in effetti, ma questo
non mi aiutava per niente. Sospirai: “Mi crederesti se ti
dicessi che non ne ho
idea?”.
Era la pura e semplice
verità: la dignitosa esperienza
accumulata dal mio alter ego sembrava essersi completamente estinta nel
passaggio a Joshua, e non avevo la minima idea di come comportarmi. Il
ritorno
all’adolescenza, per le questioni sentimentali, si
prospettava perfino peggiore
rispetto al primo giro di giostra, perché questa volta,
oltre ai problemi
tipici dell’età, dovevo sopportare anche il peso
della situazione assurda nella
quale mi trovavo. Era, per di più, una situazione che non
potevo ignorare,
visto che ormai avevo capito che Mary non mi era affatto indifferente:
era molto
carina, incredibilmente simpatica, dolcissima, divertente. Una
ragazzina
straordinaria, insomma, e se fossi stato un normale quattordicenne non
avrei
avuto il minimo dubbio sul modo di comportarmi. O meglio, avrei avuto i
tipici
dubbi di un ragazzo di quell’età che si approccia
per la prima volta al sesso
opposto, quindi sarei stato, probabilmente, ridotto ad un patetico
rottame, ma
sarebbe stato, appunto, il normale corso dell’eventi.
Quell’aggettivo, purtroppo,
si poteva applicare a me
soltanto con una ‘a’ posta davanti,
perciò i problemi, con Mary, erano anche
troppi. Prima di tutto, benché ormai da dieci mesi abitassi
il corpo di un adolescente,
non avevo ancora dimenticato la vita dalla quale provenivo, e una parte
di me
continuava a sentirsi decisamente troppo vecchia per dare corda alle
pulsioni
sentimentali di una tredicenne. Era come se nel mio cervello ci fosse,
costantemente, un conflitto in atto tra il ragazzo e l’uomo,
e nessuno dei due
sembrava riuscire ad ottenere una vittoria definitiva. E poi,
c’era Sabrina. Il
fatto che le probabilità di poterla mai rivedere, almeno
considerando ciò che
sapevo, fossero letteralmente ridotte al lumicino, non voleva dire che
avessi
dimenticato. Non si scordano così facilmente tre anni di
relazione, con i sogni
ed i progetti ad essa correlati. Era assurdo, considerato
ciò che stavo vivendo,
ma ogni volta che Joshua pensava alla possibilità che
potesse nascere qualcosa
con Mary, Matteo sentiva di stare in qualche modo tradendo Sabrina.
Altro che
conflitto di coscienza, avevo voglia di prendere la rincorsa e dare una
testata
contro il più vicino muro!
Ovviamente, però, non
potevo raccontare nulla di tutto
questo a Hermione, la quale, però, sembrò
intuirne almeno il senso: “A dire la
verità, sì. Ti credo – mi
fissò dritto negli occhi – Ti conosco abbastanza
bene, ormai, Joshua Carter. Non sei bravo a nascondere quello che provi
– la
mia amica sorrise – Mary è una ragazza fantastica,
ma non ho certo bisogno di
dirtelo, ti si legge in faccia che lo sai benissimo. Eppure,
c’è qualcosa che
ti blocca. E’… è legato a
ciò che non mi hai raccontato?”.
Avvertii un’ombra calarmi
sul volto. Abbassai lo sguardo a
terra ed annuii. Subito sentii una mano delicata stringermi la spalla,
e quando
risollevai la testa vidi Hermione davanti a me, con atteggiamento
comprensivo:
“Capisco. Prenditi il tempo che ti serve, Josh…
solo… non farla soffrire, va
bene? Perché quello che ti ho detto alla fine della scuola
è ancora vero: Mary
tiene moltissimo a te, anzi, sempre di più direi!”.
Toccò a me sorridere:
“Non lo farò, Hermione. Hai ragione, anche
io tengo molto a lei, e l’ultima cosa che voglio è
rischiare di farle del male.
Solo… devo capire cosa fare – le presi la mano e
la strinsi tra le mie –
Grazie, davvero. E’ bello sapere che c’è
qualcuno che si preoccupa tanto per me
e per gli altri. Sei davvero una persona fantastica,
Hermione”.
Mentre la mia amica si voltava
sorridendo per tornare a
dirigersi verso la fontanella, vidi che il suo volto aveva assunto una
sfumatura di colore molto simile ai capelli di Ginny.
Solo pochi mesi prima avevo pensato
che la finale del
campionato scolastico fosse stata un’esperienza
entusiasmante, adrenalinica.
Avevo pensato che niente potesse scatenare emozioni più
forti. Evidentemente,
non sapevo di cosa stessi parlando. Lo compresi mentre, da una delle
tribune
d’oro dell’enorme stadio realizzato per ospitare la
finale della Coppa del
Mondo di Quidditch, un cappello verde coperto di trifogli in testa e un
paio di
omniocoli in mano, assistevo, insieme ad altre centomila persone, alla
grande
sfida tra Irlanda e Bulgaria. Avevo ancora il sangue in subbuglio dopo
lo
spettacolo delle mascotte, in particolare delle Veela della Bulgaria:
in fondo,
rimanevo pur sempre un adolescente in piena tempesta ormonale, e vedere
un paio
di dozzine di donne bellissime (o almeno, avevano l’aspetto
di donne bellissime)
che ballavano in abiti di lustrini davanti ai miei occhi era
più che abbastanza
per mandarmi fuori giri. Fortunatamente, benché non
faticassi affatto a
trovarle bellissime e seducenti, per lo meno compresi che il loro
particolare
fascino non esercitava su di me un effetto devastante come sulla
maggior parte
degli altri maschi: per lo meno, non ero nello stato di Seamus, che
mandava in
fuori il petto quanto più possibile, nel tentativo di
mostrarsi forte e
possente, mentre il risultato era invece piuttosto ridicolo. La mia
capacità di
resistere al potere delle Veela mi fece guadagnare qualche punto con la
madre
del mio amico, che fissava il figlio con sguardo esasperato:
“E’ bello vedere
che ci sono maschi che non si riducono a larve di fronte ad un paio di
gambe
nude!”.
Poi la partita iniziò, e
in pochi secondi dimenticai le
Veela. Non era Quidditch, non come lo conoscevo io almeno: era qualcosa
di
superiore, perfino un dilettante come me lo capiva perfettamente. Avevo
davanti
dei veri campioni, ad un livello che non avrei mai immaginato. Il ritmo
della
partita era incalzante, l’ondata di adrenalina somigliava ad
una inondazione:
anche se, in teoria, non avevo nessuna ragione, tranne la gratitudine
verso
Seamus e sua madre, per sostenere una squadra in particolare, mi trovai
a
tifare per l’Irlanda con tutto il fiato che avevo in corpo,
straordinariamente
coinvolto dall’insieme della situazione.
Da Cacciatore, mi trovai a valutare
le prestazioni del trio
irlandese: Troy, Mullet e Moran non erano semplicemente abili,
erano… di più.
Sembravano una sola persona divisa in tre corpi, vista la
facilità con la quale
si trovavano. La Bulgaria era forte, ma non abbastanza, e si
trovò presto in
ampio svantaggio. La sola eccezione alla superiorità
dell’Irlanda era Viktor
Krum, il giovanissimo cercatore e chiaramente il miglior volatore trai
quattordici
in campo. Si stava, sostanzialmente, battendo da solo contro
l’intera squadra
avversaria: riuscì a mandare il cercatore irlandese a
schiantarsi a terra, e
poi, nonostante il naso rotto da un Bolide, si produsse in uno
spettacolare
tuffo verso il suolo, recuperando il boccino a pochi centimetri da
terra e
mandando l’irlandese Lynch ad abbracciare per la seconda
volta il terreno. Sorpreso
per la repentina conclusione del match, voltai la testa verso il
tabellone: nonostante
la presa del boccino, la Bulgaria aveva comunque perso di dieci punti.
“Perché ha fatto
una simile stupidaggine? – chiesi a Seamus,
che stava saltando come un pazzo – Stavano perdendo di
centosessanta punti, in
questo modo li ha condannati alla sconfitta!”.
“Beh, meglio per noi,
no?” sghignazzò il mio amico,
rischiando di volare giù dalla tribuna per
l’emozione.
“Non sarebbero mai riusciti
a recuperare – disse con un
sorriso la madre del mio amico – L’Irlanda ha
dimostrato di essere molto più forte.
Ha solo voluto chiudere la partita con un colpo di classe, dimostrando
di
essere il più abile”.
Probabilmente aveva ragione, ma
perfino lo stesso Krum non
sembrava soddisfatto di quanto aveva fatto, a giudicare
dall’espressione torva
che era dipinta sul suo viso.
Fendendo a fatica la folla, riuscimmo
ad attraversare il
bosco che separava lo stadio dal campeggio, ma ovviamente nessuno aveva
voglia
di dormire, eravamo tutti troppo eccitati da quanto avevamo visto.
Mentre gli
adulti si riunivano presso la tenda dei Weasley, io e gli altri ragazzi
ci
ammassammo di fronte a quella di Seamus: seduti in cerchio intorno al
fuoco,
sul quale cuocevamo delle fette di pane sulle quali spalmare
l’ottima
marmellata casereccia della madre di Baston, non facevamo che parlare
della
partita, ripercorrendola azione per azione, quasi secondo per secondo.
Mary,
prevedibilmente, si era seduta accanto a me, e dopo pochi minuti,
mostrando una
stanchezza forse non completamente reale, mi appoggiò la
testa sul petto, stringendomi
con il braccio sinistro. Un po’ sorpreso, impiegai qualche
secondo per reagire,
poi però le passai il braccio destro sulle spalle, anche se
le mie giunture
sembravano reagire con qualche difficoltà. La sentii
irrigidirsi, ma con la
coda dell’occhio la vidi sorridere. I ragazzi erano troppo
impegnati a
ripercorrere il match per rendersi conto della situazione, ma Hermione
e Ginny,
sedute di fronte a me dall’altra parte del fuoco,
ridacchiavano senza ritegno,
invitandomi chiaramente con lo sguardo a fare qualcosa. Le avrei
volentieri
strangolate.
Da parte mia, più
passavano i minuti più la mia mente sprofondava
nel caos; se una parte continuava a rammentarmi quanto fosse sbagliato
stare
abbracciato ad una ragazzina di tredici anni e quanto sarebbe stato un
gesto
vergognoso se avessi deciso di spingermi oltre, un’altra
aveva pensieri
diametralmente opposti, che potevano essere riassunti con una
semplicissima
frase: ‘Baciala, imbecille!’. Sembrava essere anche
il muto suggerimento delle
due iene ridens travestite da studentesse che avevo davanti.
Già, fosse stato
facile! Anche ammesso che fossi riuscito a superare le mie remore
morali, eravamo
comunque in mezzo ad un mucchio di ragazzi. Non avrei mai avuto il
coraggio di
compiere un gesto simile in pubblico! Per Mary si sarebbe con ogni
probabilità
trattato del primo bacio, e lo stesso valeva, tecnicamente, per Joshua!
Non
potevo veramente farlo, entrambi probabilmente saremmo sprofondati
sotto terra
per l’imbarazzo. Eppure non potevo nascondermi di essere
molto, forse troppo tentato.
Distrattamente, quasi senza accorgermene, iniziai a giocare con i
capelli di
Mary, e la sentii rilassarsi. Nel mio cervello sembrava essersi
scatenata una
guerra civile: Matteo Simoncini urlava che stavamo facendo qualcosa di
tremendamente sbagliato, mentre Joshua Carter, pur vergognandosi come
un ladro,
sottolineava che non poteva esserci nulla di più giusto.
L’inevitabile
conseguenza, ovviamente, fu che rimasi completamente bloccato, incapace
sia di
staccarmi da Mary, sia di fare qualcosa di più che passare
le dita nei suoi
capelli, finché, poco prima di mezzanotte, la madre di
Seamus tornò alla tenda
dichiarando che era ora di andare a dormire, visto che la mattina dopo
avremmo
dovuto svegliarci presto per smontare il campo e tornare a casa.
Mi sciolsi a malincuore
dall’abbraccio e aiutai Mary ad
alzarsi. A giudicare dagli occhi con i quali mi fissò mentre
mi augurava la
buonanotte, sembrava sperare in un gesto coraggioso da parte mia. Per
un
istante ebbi veramente la tentazione di baciarla, mandando al diavolo
le mie
riserve e senza neanche considerare che i suoi genitori potevano essere
a pochi
metri da noi. Quasi senza rendermene conto, le presi il viso tra le
mani. Mary
arrossì violentemente, e fu sufficiente per farmi uscire
dalla sorta di trance
che sembrava avermi colto. Cambiai bersaglio a metà del
gesto, e le stampai un
casto bacio sulla fronte. Dal suo sguardo, sembrò essere sia
delusa che
sollevata dalla mia decisione, ma riuscì comunque a
sorridere e a salutarmi con
un ultimo abbraccio prima di dirigersi verso la sua tenda. Prendendomi
mentalmente a calci per la mia irresolutezza, entrai in quella di
Seamus.
Il ragazzo, per quanto distratto
dall’argomento Quidditch,
sembrava aver notato più di quanto pensassi, visto che
continuò a prendermi in
giro finché non fummo pronti ad entrare nel letto a
castello. Gli risposi solo
distrattamente, e non soltanto perché avevo la mente
impegnata con quanto era
successo quella sera e con i miei dubbi sul giusto comportamento da
tenere: la
verità era che, da quando non ero più distratto
dalla presenza di Mary, una
sorta di strano ronzio sembrava avermi invaso la testa, troppo basso
per essere
realmente fastidioso, troppo costante per essere ignorato. Erano due
mesi che
il mio ‘Senso di Ragno’ mi lasciava in pace, ma non
era passato abbastanza
tempo perché non lo riconoscessi: era un avviso perfino
più generico del
solito, ma sentivo chiaramente che qualcosa non tornava, che stava per
accadere
qualcosa di inaspettato. Non avrei saputo in alcun modo dire cosa, ma
avvertivo
che non sarebbe stato niente di positivo. Quasi senza rendermene conto,
mi
fermai a metà del gesto di infilare la bacchetta magica
nello zaino, la fissai
per qualche secondo, poi la misi sotto il cuscino.
“Cos’è,
hai paura di essere attaccato nel sonno?”
sghignazzò
Seamus, che era già salito sulla cuccetta superiore.
“Non si sa mai –
risposi con un sorriso convincente mentre
spegnevo la lampada ad olio posata su un mobiletto vicino al letto
– I bulgari
potrebbero decidere di volere la rivincita!”.
“Ha! Devono solo provarci
– rispose il mio amico ridendo –
Tra l’euforia per la vittoria e la quantità di
alcool che hanno ingurgitato i
tifosi irlandesi, rischierebbero di tornare a casa dentro un
ditale!”.
Ridacchiai a mia volta e mi infilai
sotto le coperte,
tenendo però addosso i jeans per sicurezza: “Beh,
speriamo che siano abbastanza
furbi da evitare! Buonanotte, Seamus”.
“Buonanotte,
Josh”.
Nonostante fossi molto stanco, le
emozioni della giornata e
il vago allarme che continuava a rimbalzare nella mia testa mi
permisero
soltanto un sonno leggero, perciò impiegai meno di un
secondo a svegliarmi
quando iniziarono le urla e le esplosioni. Seamus era ancora
semi-addormentato,
e si stava chiedendo con voce assonnata cosa stesse succedendo, ma io
ero già
saltato in piedi con la bacchetta in mano quando sua madre
piombò nella nostra
stanza con sguardo preoccupato: “Veloci, ragazzi! Vestitevi e
venite fuori! Ci
sono guai!”.
Nel tempo che Seamus
impiegò a scendere dalla sua cuccetta,
io mi ero già infilato le scarpe da ginnastica e mi ero
buttato addosso un
giubbotto, quindi fui il primo a raggiungere la signora Finnegan
all’esterno.
Quello che trovai fece saltare un paio di battiti al mio cuore: alla
luce dei
pochi fuochi ancora accesi, vidi un gruppo di maghi incappucciati e,
apparentemente, con i volti coperti da inquietanti maschere bianche,
che
avanzava attraverso l’accampamento, facendo saltare in aria
le tende davanti a
se. Diverse erano già in fiamme. Sopra di loro, tenuti in
aria dalle bacchette
di diversi membri del gruppo, il proprietario del campeggio e la sua
famiglia rotolavano
come marionette.
“Mangiamorte”
sussurrò con un filo di voce la signora Finnegan,
e io, benché non riuscissi a ricordare il significato di
quella parola,
avvertii una scossa di paura scendermi lungo la schiena.