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Autore: wanderingheath    12/08/2023    0 recensioni
Gli incubi di Luca, barista notturno in un pub, si ripresentano, vanificando gli anni trascorsi in cura nelle migliori cliniche svizzere. E qualche volta si avverano.
Emilia invece, che non sogna mai, gli incubi degli altri li vive, volente o nolente: nella sua anonimità quotidiana viene risucchiata in un attimo negli errori ed orrori altrui.
I due sembrerebbero non avere nulla in comune, se non il ricordo della classe di cui un tempo hanno fatto parte, ma dopo anni di silenzio una notte le loro vite si incrociano nuovamente e mentre vengono circondati da strani eventi, le fantasie di Emilia cominciano ad assumere una consistenza sinistramente reale. Ad unirli c'è un segreto, sepolto nelle loro memorie, che saranno chiamati a svelare.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 2. – Parte II
 
I Trattati di Versace



 
L’appartamento dei Versace si trovava nel cuore del quartiere della Vittoria.
Al penultimo piano di una palazzina da poco riverniciata di bianco e posizionata in un punto nevralgico per la movida, circondato da ristoranti, bar e pub.
Trovare parcheggio in quelle zone era stata un’impresa, avevano dovuto fare numerosi giri intorno al palazzo, per poi rassegnarsi a lasciare l’auto più lontana e a farsi venti minuti di camminata.
Fortunatamente, l’aria ottobrina era smorzata da un vento caldo e insolito, che rastrellava le foglie dal marciapiede, creando dei mulinelli che incantavano i passanti.
La prima cosa che aveva colpito Emilia, una volta che Giulietta aveva citofonato, era stata l’incredibile estensione dei balconi: alcuni occupavano tutta una facciata, altri correvano tutt’intorno al perimetro dell’edificio. Di così ampi non ne aveva mai visti. Dalle sue parti le abitazioni monofamiliari avevano qualche balconcino, un affaccio sulla strada o sul giardino, ma null’altro. Quando lo aveva fatto notare a Giulietta, lei non era riuscita a trattenere una risata.
«Ciccia, un balcone di quelle dimensioni, in questa zona, è il minimo.»
C’era anche un attico, ma del tutto differente da quello del palazzo di Elena Costa. Dalla strada si scorgevano file di luminarie attaccate al muro a mo’ di festone, ma, a parte quello, nient’altro.
Rampicanti si aggrappavano ai tralicci in ferro, eretti quasi a toccare la notte, e si curvano in parte sul capo dei proprietari, nascondendo la terrazza al resto del mondo. Quanto le sarebbe piaciuto avere un angolo di paradiso come quello, in casa propria; un’oasi che proiettasse fuori dal tempo e dagli occhi indiscreti dei vicini. Emilia aveva riflettuto su come l’avrebbe sfruttato, magari attrezzandolo con una sdraio e un tavolino, per potervisi piantare in estate a leggere, a scarabocchiare, a godere solo del cinguettio degli uccelli e dell’illusione di trovarsi ai Tropici.
Poi, aveva abbassato lo sguardo sul quarto piano e individuato il balcone dei Versace.
Dal bordo traboccavano fiori e ancora piante rampicanti impreziosite da gelsomini. Poteva sentirne l’odore dolciastro fin lì.
Quello era stato l’oggetto del suo interesse dal momento in cui aveva messo piede in casa Versace, nonché il suo attuale alibi, per rifugiarsi fuori dal caos dell’appartamento.
Il salotto, benché enorme, le era sembrato un luogo ostile e affollato, così come tutti gli altri ambienti, compreso il gabinetto: sulla soglia si erano piazzati due o tre ragazzi che scoppiavano in risate fragorose come fuochi d’artificio, rischiando di rovesciare sul parquet le birre.
La birra, quella dannata birra. Che cos’aveva poi di tanto speciale da dover essere onnipresente?
Gliel’avevano offerta almeno una venticinquina di volte da quando lei e Giulietta avevano fatto il loro ingresso, ma se l’amica veniva lasciata in pace perché notoriamente astemia, di Emilia non sembravano fidarsi e, preoccupati nel vederla senza un drink in mano, le riproponevano una bottiglia di Corona.
Così, adesso se ne stava sul balcone, appoggiata al parapetto in muratura, sentendosi una cretina con in mano un bicchiere di Coca-Cola, che ancora non aveva toccato.
Giulietta aveva provato a trascinarla dentro, dieci minuti prima, ma con scarso successo. La scena si ripeteva identica: lei che si incollava allo stipite, Giulietta che la tirava verso il centro della stanza, il commento non richiesto di qualche sconosciuto sull’abbigliamento della sua amica – definita “provocante, ma non volgare” – e, di conseguenza, sul suo maglioncino senape, che spiccava molto.
La carnagione chiara e bla bla bla, tutte quelle cose su Biancaneve e i Sette Nani, la battuta sui nani e Biancaneve, lo volevano un pezzo di pizza? E una birra?
Poi, Diana o qualche altro conoscente si accaparrava la piena attenzione di Giulietta e lei coglieva la palla al balzo per la propria ritirata. Scivolava dietro il divano, strusciava contro la porta, indietreggiava fino alla camera degli ospiti, sfiorava un oggettino o due per fingersi interessata e poi approdava in salvo sul balcone.
Emilia si rigirò la Coca-Cola tra le mani e si decise a sorbirne un po’, lasciandone a sufficienza nel bicchiere per la sua copertura.
L’intento di staccare la spina le aveva solo causato più angustia, per lo studio e per il suo pessimo rendimento sociale. Prima di uscire di casa, sua nonna l’aveva incoraggiata a conoscere gente, a stringere qualche nuova amicizia – certo, non era una cosa che capitava da un giorno all’altro, aveva specificato, ma da una chiacchiera si passava all’altra e magari si scoprivano più interessi in comune di quanto ci si aspettasse. Sua nonna credeva di vivere negli anni Cinquanta, mentre qui, ora, una cosa del genere non poteva funzionare. Non per una come lei, almeno.
Nell’appartamento i suoi coetanei-farfalle svolazzavano da una parte all’altra senza limitazioni.
Lei, invece, era una mantide.
Appostata sul suo quadratino di universo, le braccia protese come a pregare, ma le mani ben salde attorno al proprio salvagente, osservava lentamente il corso degli eventi. Lo scorrere dei minuti non le era mai parso così vivido e lento. Quando sentiva che quello presente stava per morire e finalmente scavallare nel successivo, dava un’occhiata all’orologio da polso e constatava che si trovava ancora a vivere nel precedente. La logorava.
Un acuto la fece voltare verso l’interno, verso l’angolo del salotto occupato da un tavolino basso in noce, ospitante uno stereo di vecchia generazione; nonostante ciò, funzionava in modo egregio e in particolare le casse dovevano essere nuove di zecca.
A gridare era stata Giulietta, ora piegata in due dalle risate e circondata da un gruppo di amici – tra cui anche l’ospite – che la scuotevano e contraddicevano vistosamente. Con ampi gesti Versace le segnalava che non era d’accordo con la decisione presa. Qualche istante dopo, Emilia ne comprese il motivo.
L’amica aveva collegato il cellulare allo stereo e riprodotto la canzone con cui i The Giornalisti si erano fatti conoscere un paio di anni prima. D’estate era stata bombardata con Completamente e, tra l’insistenza di Giulietta e quella dello stabilimento in cui aveva vissuto le giornate arroventate dal sole, aveva finito per ingoiare il rospo e farsi andare a genio il ritornello. Ne aveva persino memorizzato alcuni versi.
Emilia continuò a guardare la scena, mordicchiando il bordo del bicchiere di plastica.
Un ragazzo aveva catturato Giulietta da dietro e, bloccandole le braccia, la teneva ferma, mentre un altro ragazzo sui ventiquattr’anni cambiava canzone. Lei protestava, ma ridendo, soccombendo all’attacco di solletico di un altro suo amico.
Chissà cosa si provava ad essere tanto apprezzati: era un’immersione nelle braccia della Gloria oppure un pericolante trampolino da cui lanciarsi? Più osservava il modo in cui Giulietta sorrideva, scuoteva i capelli a ritmo di musica, premeva il proprio corpo contro quello del suo finto aguzzino, sottostando alla tortura con un certo piacere, più si convinceva che il contatto sociale le era estraneo. Lei, probabilmente, avrebbe pestato un piede a qualcuno oppure avrebbe assestato una gomitata o un morso di troppo, gelando i presenti. Poteva vedere i loro volti sbiancati, agghiacciati dall’orrore di un gioco divenuto troppo reale.
Fu un cigolio della portafinestra a costringerla a distogliere lo sguardo e a dare le spalle al resto dell’abitazione. Ci mancava solo che le cucissero addosso l’immagine di guardona, oltreché di asociale. Qualcuno l’aveva raggiunta sul balconcino, ma non aveva il coraggio di voltarsi.
Il nuovo arrivato richiuse la porta con delicatezza, poi si avvicinò alla balaustra con passo felpato ma sciolto.
Emilia si forzò a tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte, sperando di apparire persa in chissà quale riflessione filosofica, ma sentiva il battito accelerare. Cercò un dettaglio su un albero, sulla facciata del palazzo di fronte, su cui focalizzarsi, nel caso le avessero rivolto la parola; eppure non poté resistere alla tentazione di cogliere, con la coda dell’occhio, qualche elemento della figura in avvicinamento.
Portava dei jeans scuri, a vita bassa, e una camicia di un bianco brillante, per metà sbottonata. Dal polsino emergeva un Rolex argentato, riflettente la luce dei lampioni. Il polso era magro, esile ed Emilia avvertì una fitta di dolore: un’ossatura così sottile, un fisico che aveva desiderato per sé a lungo e mai potuto ottenere.
«Ciao», fu tutto ciò che il ragazzo proferì.
Emilia rimase a lungo in silenzio, consapevole del disagio che avrebbe arrecato, ma indifferente alla questione. Avrebbe preferito chiunque altro, qualunque sconosciuto dal volto ancora abbronzato e dal sorriso americano; invece, si era ritrovata Lorenzo De Cesare.
«Come stai?»
Dal momento che l’altra aggrottò la fronte, a sottolineare l’assurdità di una simile domanda, anzi dell’intera situazione, Lorenzo si affrettò a specificare: «Voglio dire, dopo... Dopo l’incidente in metro, ecco. Ti sei ripresa?»
Si dondolava un po’ sul posto, ma senza nervosismo. Quella specie di molleggio faceva parte dell’irrequietezza che aveva rappresentato un incubo per gli insegnanti delle medie.
La professoressa Calandrone ancora si trascinava dietro le imprecazioni che gli aveva scagliato contro, gli incubi che lo vedevano protagonista, impegnato a saltare dalla superficie di un banco all’altra. Quando le ricapitavano delle laringiti, le tornava in mente la settimana di afasia a cui l’aveva costretta quel demonio di De Cesare.
La perplessità sul viso di Emilia si ampliò ulteriormente. Con una scrollatina di spalle, rispose che sì, stava meglio e si era abbastanza ripresa; che poi fosse una menzogna e che l’immagine del cranio di quell’uomo, maciullato dalle rotaie, la tormentasse nella veglia e nel sonno, non importava.
«Ah, bene. Pensavo che ti avesse lasciata un po’... Scossa, diciamo. Non capita tutti i giorni di assistere ad un suicidio.»
«Sì, grazie per il promemoria.»
Lorenzo tentennò, capo basso, mani affondate nelle tasche dei jeans, con la punta del piede calciava un’invisibile pallina davanti a sé. Poi, accennando con il pollice alla stanza alle loro spalle: «Ti stai divertendo?»
Emilia sentì il coltello rigirato nella piaga.
«Senti, tagliamo corto con le smancerie. Cos’è che vuoi?»
«Perché dici così?»
«Per favore, Lorenzo, in dieci anni tu non mi hai mai chiesto come mi sentissi», replicò lei, calcando sul “mai”. «Stento a credere che, all’improvviso, ti interessi qualcosa di me. Ad una festa, poi, dove hai un bagno di gente adorante con cui passare una bellissima serata.»
La schiettezza era una qualità che Lorenzo apprezzava, se impiegata da lui e non contro di lui, ma di fronte ad un simile atteggiamento rimase spiazzato, soprattutto perché a respingere la sua offerta era proprio l’ultima persona che potesse permetterselo.
Alla fine si tolse la maschera e tornò il solito.
«Okay, basta preliminari. Ho un favore da chiederti. Anzi, no, un patto da proporti.»
Lei gli fece cenno di proseguire, sebbene titubante.
Il ragazzo abbassò la voce, gettando uno sguardo attorno con circospezione. Un suo conoscente comparve nella camera da letto, per raccogliere una felpa, e gli indirizzò un saluto. Lorenzo contraccambiò. Attese che l’altro uscisse dal loro campo visivo, dopodiché si avvicinò alla portafinestra e la accostò ancora di più, lasciando solo uno spiraglio fra le due ante.
Emilia rimase ad osservare quella messinscena come pietrificata. Le era capitato un milione di volte di essere ignorata, sbeffeggiata, criticata, ma la mortificazione maggiore rimaneva la richiesta di segretezza. Elena Costa si comportava in maniera analoga, quasi fosse un’onta essere vista in sua compagnia. La ragione lei la ignorava, ma gli effetti, quelli erano impossibili da ignorare.
Un dolore minuscolo eppure bruciante, uno spillo conficcato all’altezza del fianco, che stentava a spegnersi.
«Cosa c’è? Stai progettando un colpo di Stato?» domandò appena incrociò il suo sguardo.
Lorenzo fece una smorfia. Appoggiò la schiena alla balaustra ed estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. «No, nessun colpo di Stato.»
«Ah, meno male, perché la Bastiglia è stata presa tanti anni fa. Temevo rimanessi deluso.»
Dopo una pausa, aggiunse: «1789, per la cronaca».
«Hai finito? Non frega a nessuno.» Lorenzo si sistemò una sigaretta fra le labbra sottili. «E il 1789 se lo ricordano tutti, è la data più scema del mondo. Per la cronaca.»
«Sono impressionata.»
Lui portò una mano avanti, come a volerla calmare, ma evitando qualunque contatto: «Senti, se parti con questo atteggiamento, non andremo da nessuna parte».
Emilia inarcò in modo teatrale le sopracciglia: «E dove dovremmo andare, di preciso?»
Il ragazzo sospirò, recuperando anche l’accendino dalla tasca. «Ti assicuro che sei l’ultima persona a cui avrei chiesto un favore di questo tipo, ma Giulietta mi ha detto che dai ripetizioni a buon prezzo e con l’inglese te la cavi piuttosto bene.»
L’altra si strinse nelle spalle. «Quindi? Io impartisco ripetizioni di latino e greco.»
«Scommetto che un’eccezione la puoi fare.»
«Per chi? Per te?» Emilia scoppiò a ridere con amarezza. Man mano che la risata si attenuava e si rendeva conto della serietà del suo interlocutore, l’aggressività si smorzò e la spavalderia iniziò a vacillare. «Dici davvero? Tu vuoi ripetizioni da me
Dirlo, anche solo pensarlo, suonava ridicolo.
«Ma non facevi Scienze Politiche?»
«Comunicazione. Scienze della Comunicazione, ma non c’entra niente.»
Emilia allacciò le braccia al petto. «Bene, perché io non me ne intendo di comunicazione.»
«Me ne sono accorto.»
Lorenzo appoggiò i gomiti sul parapetto e si sporse dal balconcino, per vedere meglio la strada sotto di loro. Era incredibile, pensò Emilia, come con tutto quello splendore lì in alto, proprio sopra le loro teste, lui dedicasse attenzione all’asfalto. La notte era limpida, fresca e frizzante, ricolma di stelle, per quante se ne potessero avvistare dal cuore della città, ma in fondo a nessuno dei due interessava. Lei l’aveva usata come puntello, lui come fondale per scene più avvincenti.
Un gruppetto di ventenni ondeggiava da un portone all’altro, le risate si perdevano nel vento. Stavano tutti stretti, abbarbicati gli uni agli altri, brucianti di un affetto che le mancava con lo stesso ardore che da bambina la teneva alzata le mattine di Natale, sperando di trovare Babbo Natale incastrato nel camino. Era intenso quanto lo spasmo che aveva provato di fronte al silenzioso rifiuto di poco prima, ma non la spingeva a ripiegarsi in se stessa stavolta, bensì ad espandersi verso il resto del mondo, a chiedere altro.
Lorenzo riprese a parlare, masticando la sigaretta ancora spenta.
«Devo sostenere un’idoneità di inglese. È obbligatoria, non me la scampa nessuno. Mi hanno già rassicurato quelli del terzo anno che è una stronzata, ma quest’anno è cambiato prof e in giro si dice che il nuovo sia uno stronzo.»
Le dita picchiettavano sul parapetto, inseguendo chissà quale melodia. «Tutti i miei colleghi si lamentano di essere scrausi, anche se un po’ d’inglese lo masticano. Li ho sentiti. Io, invece, faccio schifo per davvero e non voglio essere l’unico cojone a non passare.»
«Tutto qui?»
A Emilia era sfuggito involontariamente. L’aveva pensato, certo, ma tornando indietro, non l’avrebbe mai detto. Lorenzo tornò a guardarla con un’espressione seriosa sul volto, che poco si addiceva al suo personaggio. «Devi insegnarmi l’inglese, in meno di un mese.»
L’altra sbuffò, scuotendo il capo: «Impossibile».
«Che significa impossibile? Sei brava, sì o no?»
«Certo che lo sono,» replicò piccata, «ma non posso infonderti il sapere per via telepatica.»
Dal momento che il ragazzo apparve frustrato dalla risposta, forse convinto che il suo rifiuto fosse in realtà un capriccio, Emilia chiarificò: «Un mese intero non basta, figurati con ancora meno tempo a disposizione. Ci vuole impegno, se si vuol raggiungere un obiettivo. Impegno, dedizione e costanza.»
«Almeno», terminò dopo una pausa, «io lavoro così. Prendere o lasciare.»
Il vento serpeggiò fra loro, portando con sé le voci dell’ultimo piano, dove qualcuno aveva acceso le luminarie. Doveva esserci qualche raduno in corso, a giudicare dall’odore di barbecue, ma nessun fumo confermava l’ipotesi.
«Un mese e mezzo», offrì Lorenzo.
«Tre mesi.»
«Tre mesi
Emilia scrollò le spalle. «Il minimo sindacale per raggiungere un livello base. Dipende da te quanto vuoi andare lontano.»
«Significa bruciarsi l’esonero di dicembre.»
«Non lo passeresti comunque. Puoi tentare intorno a gennaio, febbraio.»
Si guardarono per alcuni minuti in silenzio, lui ruminando, lei cercando di trovare il meccanismo, l’ingranaggio, nel cervello di Lorenzo che lo portasse a comportarsi in quel modo irritante.
Doveva esserci qualche dettaglio che più degli altri la infastidiva, o forse era solo un insieme di elementi indistricabili.
«D’accordo», disse infine il ragazzo. «Due mesi e mezzo. Ti do tempo fino ad inizio gennaio, per portarmi ad un livello decente ed evitare una completa figura di merda.»
Emilia si lasciò sfuggire una domanda: «T’importa così tanto dell’opinione altrui?»
Di fronte alla faccia allibita dell’altro, si affrettò a specificare: «Intendo, ti preoccupi così tanto dell’impressione che farai sui tuoi colleghi, da volerti imbarcare in questa impresa?»
«È strano», commentò lui con acidità. «È strano che sia proprio tu a farmelo notare. Proprio tu che vuoi sempre eccellere, risultando pure irritante.»
Emilia avrebbe voluto dirgli che se si fosse preoccupata dell’impressione che faceva sugli altri, avrebbe perso il senno; che non prendeva voti alti per far colpo su chi aveva intorno – anche perché intorno a sé aveva solo il deserto – e che ormai erano abbastanza cresciuti per competere su chi fosse più apprezzato in società.
Alla fine, invece, disse solo: «Credo che dovresti farlo per te. Acquisterebbe più valore».
Lorenzo liquidò il consiglio con un: «Sì, d’accordo. Posso farlo anche per mia mamma, se ti fa sentire meglio, ma il succo del discorso non cambia. Mi aiuterai con delle lezioni o no?»
«Non rifiuto mai un’offerta di lavoro.»
«Bene.» Lui annuì con vigore. «In cambio,» proseguì, «ti devo un favore. Tutto quello che vuoi.»
«Un regolare pagamento sarà sufficiente.»
«Certo. Ma», Lorenzo tornò a sussurrare, «non devi farne parola con nessuno. Proprio nessuno. Chiaro?»
Emilia alzò gli occhi al cielo, in una risatina amara.
«Che bello, ho sempre voluto tenere un segreto.»
La voce del ragazzo si innalzò di un paio di toni, stridula quanto un triangolo a percussione.
«Sì! E adesso ci scambiamo i bracciali dell’amicizia e facciamo un pigiama party.»
Pizzicò la sigaretta tra indice e medio, mentre scuoteva la testa. Emilia non poté fare a meno di osservare che da ragazzino era stato solito criticare i fumatori.  
«Ma che? Questa?» Lorenzo le offrì la Marlboro. «Manco l’ho accesa. Se la vuoi, è tutta tua.»
Non attese neppure il rifiuto, praticamente scontato da parte della Scafi, per gettarla dal balcone.
«Mi serviva un alibi.»
Tornato d’improvviso serio, le tese la mano libera, a suggellare l’accordo.
«Allora? Affare fatto?»
Lei gliela strinse senza pensarci troppo, in un automatismo da marionetta. Voleva levarselo di torno il prima possibile e richiudersi nel suo guscio di serenità.
L’immagine di una pioggia scrosciante, una rete di gocce, confusa con una rete da calcio, la investì.  
Il terreno scivoloso, un colpo alla gamba sinistra. La sbucciatura al ginocchio e poi un’altra sbucciatura, in pieno giorno. Un signore anziano che camminava vicino.
Emilia ritornò in sé con un sussulto.
Sottrasse la mano, quasi scottata, grattandone il dorso e controllandone l’integrità.
«Tutto bene? Ti ho persa per qualche secondo.»
«Sì», scattò, «sì. Perché?»
«Sei come... Scivolata via.»
Si voltò verso la portafinestra, allontanandosi a passo spedito dal ragazzo e dalla sensazione di umidità che le permeava le ossa. Lorenzo le urlò dietro: «Iniziamo dopo Halloween!»
 
 

A Luca lo Smokey Corner piacque dalla prima volta che lo trovò.
Lo trovò come si poteva trovare una monetina per strada, lì incollata al marciapiede, quasi in attesa di essere scoperta dal primo passante dall’aria sveglia. Riluccicava nell’ombra, nell’incastro di due edifici dall’intonaco aranciato, sbiadito, l’unico negozio nei paraggi che vantasse un nome straniero.
Un po’ più in là, sul muretto che chiudeva un lato della via, si srotolava un grappolo di edera, rinsecchito e ingiallito dalla stagione.
Lo Smokey Corner sarebbe potuto passare inosservato – l’anonimo portone nero in acciaio, le finestre verde bottiglia dei piani superiori, avrebbero fatto pensare ad un’abitazione come tante altre – ma quando Luca vi mise piede per la prima volta, scoprì che il locale era molto frequentato, anzi quasi stracolmo. Per lo più ci andavano giovani, non oltre la quarantina, e nel giorno della prova come barman ad affollarlo erano in prevalenza turisti stranieri. Un americano, un ragazzotto alto e con le spalle larghe uscito da qualche telefilm, gli aveva spiegato che era uno dei locali più consigliati da chi visitava Roma.
Luca fu assunto subito, perché il vecchio barman aveva dato forfait una settimana prima, senza preavviso, e si trovavano a corto di personale. Negli interni del pub era tutto un tafferuglio, nella piccola cucina si giostravano in sei – di cui due neoassunti come lui – ma lo spazio dietro il bancone era un’isola di libertà in cui sostavano lui e Rocco, il cameriere con cui aveva fatto affiancamento.
Indipendentemente dall’orario del turno, Rocco accoglieva i clienti con un sorriso intrigante, si divertiva a proporre loro nuove formule di drink o a mettere in difficoltà il cuoco con degli stuzzichini fuori programma;  incoraggiava i colleghi con vigorose pacche sulla schiena, chiamando tutti “bello” o “bella”. Luca, però, sapeva di essere diventato il suo preferito. Gli dava sempre il via libera su iniziative con il suo pollice alzato, lo controllava ma con lo sguardo bonario di un fratello maggiore e lo trattava alla pari, nonostante gli anni d’esperienza.
Quella sera fu l’unico a notare che qualcosa stonava.
«Ehi, bello, che hai stasera?»
Luca trasecolò, ritrovandosi nel cuore del pub surriscaldato dal fumo e dai corpi sudati degli avventori. Si sorreggeva al bancone, il viso un po’ smunto, gli occhi incavati in un paio di occhiaie.
Avrebbe potuto rifilargli qualunque scusa, ma preferì dire la verità.
«Dormo male ultimamente.»
«Ah sì? Com’è?»
Luca scrollò le spalle. «Mah, saranno i miei che fanno casino.»
«Non è che non reggi i turni nostri, eh?»
Si raddrizzò all’istante, stropicciandosi gli occhi nel tentativo di schiarirsi la mente. «No, Rocco, figurati. È stato un attimo. Guarda, sto già meglio.»
L’altro mugugnò un poco convinto “mh”, prima di spingerlo verso i prossimi clienti. «Daje, allora datte ‘na mossa. Questi stanno a fa’ la muffa.»
La musica era talmente alta che i clienti successivi dovettero ripetergli l’ordine ben tre volte, prima che riuscisse a registrarli. Come previsto, la riapertura della pista da ballo, separata attraverso una vetrata dalla sala per la consumazione al tavolo, aveva incrementato gli incassi. Rocco gli aveva anticipato che era in programma una serie di serate di musica dal vivo, magari con qualche ospite più noto, per attirare altri ragazzi della sua età.
Sbaragliare la competizione di tutti gli altri localini sparsi per Trastevere non era impresa facile. Luca dubitava fortemente che una serata latina potesse aiutare.
«Ecco a te. Questo è il Blue Moon, lo facciamo solo qui», spiegò al ragazzo che stava servendo. «Ricetta segreta.»
Per raggiungere le due sale principali ospitanti lo Smokey Corner, era necessario scendere una scalinata in ferro: sedici gradini piuttosto alti, un unico, traballante corrimano a cui appoggiarsi e la luminosità messa a disposizione all’ingresso, spesso insufficiente. Quando toccava a lui scenderle o salirle, temeva sempre di rovinare a terra, ragione per cui rimase a bocca aperta nel constatare che la ragazza davanti a lui torreggiava su un tacco dodici. Lo indossava con la stessa naturalezza con cui si portava una ciocca di capelli dietro l’orecchio o con la spontaneità di chi chieda un bicchiere d’acqua. Si avvicinò al bancone e lo ammaliò con un singolo sorriso. Un sorriso che stonava con lo sguardo, misterioso, insistente, di chi sta risolvendo un enigma o deve eseguire un calcolo complicatissimo.
Eppure, non furono gli occhi glaciali a colpirlo, né la minigonna che la fasciava, esaltando un paio di lunghe gambe modellate come colonne; non furono i lineamenti squadrati, duri, che le davano un’aria poco affabile e neppure la chioma di un nero corvino, che le cingeva le spalle.
Fu la collana, un minuscolo ciondolo con una stella ad otto punte incastrata in un cerchio. Doveva essere oro e rifletteva, in un unico punto luce centrale, i fasci blu delle psichedeliche.
Luca si ricompose e indicò con un cenno del mento la collanina.
«È una rosa del vento?»
La risposta della ragazza venne sopraffatta dalla musica e dalla confusione circostante.
Dovette avvicinarsi di più al bancone e alzare la voce, altrimenti lieve e carezzevole come quella di un canarino, per farsi sentire. Luca riuscì a capire che lo stava correggendo. «Rosa dei venti.»
«Ah, sì, scusami. Rosa dei venti.»
«Sì, sono otto, come le punte. Vedi?»
Con l’indice seguì le varie sporgenze della figura, in senso orario. «Tramontana, Grecale, Levante, Scirocco, Mezzogiorno, Libeccio, Ponente e Maestrale.»
«Ecco,» Luca annuì, «io conosco solo il Maestrale. Come diamine te li ricordi tutti?»
Lei ridacchiò, un tintinnio fragile di cristallo, socchiudendo gli occhi. Era una risatina per metà bloccata in gola, ma lo trafisse come un pezzo di ghiaccio in mezzo al petto. Poi, come intonando una filastrocca, recitò: «Tra Grecia e Lepanto Scivola Mesto, Livido, Potente il Mare».
Luca la guardò interdetto. Cosa diamine aveva appena detto?
Dal momento che gli fece cenno di lasciar stare, lui assunse la solita aria da amichevole ma professionale barman. «Cosa posso servirti?»
«Allora,» la ragazza ricapitolò ad alta voce, «un Blue Lagoon, un Margarita, due Mojito, e un Alexander.»
Luca non poté frenarsi dall’esclamare: «Wow, è tanto alcool per una persona sola».
La battutina idiota sortì l’effetto sperato. Una delle prime lezioni che Rocco gli aveva insegnato riguardava il mettere a proprio agio il pubblico, stabilendo un contatto, un’intesa, di qualunque tipo, purché rendesse il cliente soddisfatto e propenso ad acquistare. Con lo stretto indispensabile, ci si assicurava che l’altro comprasse un prodotto; mettendoci un pizzico di impegno, lo si spingeva ad aprirsi, a fare un altro giro e magari a fermarsi un po’ di più. Si capiva di aver fatto centro, quando ridevano alle battute, si accomodavano e finivano per farsi persino consigliare: allora sì, che ci si era conquistati il cliente.
La ragazza scosse appena il capo, facendo tintinnare gli orecchini a goccia che assecondavano ogni suo movimento, si sistemò la cintura di strass, a sottolineare la vita stretta, e si issò su uno degli sgabelli. Le sottili braccia, distese sul bancone, apparivano pallide, quasi lunari, sotto il fascio della luce a LED.
«Sono per le mie amiche. Io prendo l’Alexander.»
Luca, che intanto aveva iniziato a mescolare il ghiaccio nello shaker, frantumandone una piccolissima parte, le sorrise con un angolo della bocca. «Dolce», disse soltanto.
«Come dici?»
«L’Alexander. È molto dolce come cocktail».
Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Sai, il mio collega ha una teoria sui cocktails. Dice che rivelano molto del cliente».
«Fammi indovinare,» replicò lei, roteando gli occhi, «dal mio ordine deduci che sono una ragazza dolce, ma con un tocco speziato. Un classico che stupisce e altre scemenze simili.»
Luca aggrottò la fronte.
«Assolutamente no. Suppongo però che, essendo minorenne, non potresti ordinare alcol.»
Lei si sistemò meglio sullo sgabello, accavallando una gamba. Fece scattare l’apertura della pochette che portava a tracolla e ne estrasse un rettangolino plastificato. Lo appoggiò sulla superficie liscia del bancone e lo trascinò fin sotto lo sguardo del barman.
Alla luce della lampada era possibile distinguere una terribile fototessera, che ritraeva la ragazza in uno sguardo allucinato e con il flash ad enfatizzare la carnagione sempre più pallida.
Data di nascita: dieci gennaio 1994.
«Selena?»
Lei annuì, picchiettando l’unghia laccata su nome e cognome. «Esatto, c’è scritto qui.»
Luca lanciò un’occhiata prima alla ragazza che aveva di fronte, poi di nuovo alla fotografia. No, quella storia non lo convinceva affatto.
«Ho come la sensazione che sia una cavolata.»
Selena si strinse nelle spalle, rimettendo a posto la propria carta d’identità.
«Se non sei convinto di ciò che dico, dovrai provare a ricordarti di me.»
Detto ciò, si rimise in piedi e come una colomba sparì in un fruscio di frange e paillettes nella stanza accanto. Prima di lasciarlo lì impalato, aggiunse: «Tavolo 23».


 
   
 
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