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Autore: ifearthereaper    20/12/2023    0 recensioni
Il testo che state per leggere è la trascrizione di una registrazione digitale… Ma io non sono Rick Riordan. E infatti non vi sto parlando dalle pagine di un tomo voluminoso pubblicato da una prestigiosa casa editrice, ma da un sito di fanfiction. Già, sono sorpresa quanto voi, ma quando mi sono ritrovata sulla porta un pacco con un mangianastri non immaginavo certo che fosse da parte dei fratelli Kane. In effetti, il mio primo pensiero è stato qualcosa tipo "Hannah Baker, io ti denuncio".
Genere: Avventura, Commedia, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Bast, Carter Kane, Julius Kane, Sadie Kane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CARTER

Notte da sballo al Monastero Rosso
con il signore delle tempeste


 

Qui Carter. Nonostante le continue interruzioni dovute a Miss-devo-pomiciare-con-i-miei-due-ragazzi-in-un-solo-corpo [Stavo scherzando, Sadie, metti giù quel pinguino!], è arrivato il momento di parlarti delle mie avventure.

So che in queste registrazioni ho sempre sottolineato quanto fossimo sempre in viaggio e che vita strana vivessimo io e papà anche prima di ospitare degli dèi egizi nella nostra testa, ma la verità è che la maggior parte delle difficoltà che abbiamo avuto sono sempre state molto ordinarie. Documenti mancanti, corse per l’aereo, rapine in vicoli bui, uno o due allarmi bomba… Okay, forse non così ordinarie, ma di sicuro niente di soprannaturale.

Papà è sempre stato piuttosto bravo a proteggermi da quello che aveva a che fare con il mondo dei maghi e delle divinità, almeno finché non ha fatto esplodere il British Museum – o forse io ho sempre evitato di farmi troppe domande su che cosa facesse davvero.

Però qualche volta in cui il mondo dei maghi è riuscito a penetrare persino la corazza protettiva del professor Julius Kane c’è stata. Magari potreste pensare che si sia trattato di qualcosa di innocuo e divertente, come uno shabti a passeggio per il Cairo o un ippopotamo che ingoia un amuleto del Formaggio… Ma ehi, ormai ci conoscete, giusto? Naturalmente fu un incubo.

Il viaggio era partito abbastanza bene, in realtà. Certo, papà e io eravamo a bordo di una Jeep nella quale scoprivo ogni cinque minuti nuovi mucchietti di sabbia, c’erano la bellezza di quarantatré gradi all’ombra ed ero abbastanza sicuro che il cibo mangiato a pranzo ad uno dei bar di Sohag stesse tentando di farmi sprofondare in un coma profondo, ma avevamo viaggiato in condizioni peggiori.

L’autista era persino cordiale e disponibile e continuava ad indicarci entusiasta ogni singolo campo a cui passavamo di fianco. Papà annuiva e replicava con qualche frase in arabo inframezzata ogni tanto da un oui oui charmant (o qualcosa del genere: non so una parola di francese). Mi sistemai il cappello dei Lakers e cercai di concentrarmi di nuovo sul libro che avevo tra le mani, ma tra il rumore dell’auto e le chiacchiere della nostra guida riuscii solo a leggere qualche frase prima di riporlo nel mio borsello. [Sì, papà mi faceva portare dietro un borsello, va bene? Non c’è bisogno di scompisciarsi così.]

Eravamo reduci da un viaggio in aereo di quasi quarantott’ore, scalo più scalo meno, delle quali solo cinque passate a sonnecchiare tra un aeroporto e l’altro, quindi già essere sveglio e conscio dell’ambiente intorno a me era un gran traguardo. Eravamo partiti in tutta fretta, con pochi bagagli e papà che fremeva per l’“occasione d’oro” che ci era capitata.

— Tutto bene, Carter? — Papà mi fissava da dietro gli occhiali da lettura con un sorriso un po’ stanco. — So che tre aerei di fila non sono divertenti per nessuno, ma siamo quasi arrivati al monastero.

Annuii e raddrizzai subito la schiena per non sembrare troppo assonnato. Non volevo dare a papà l’idea di essere stanco prima ancora di aver cominciato il nostro giro.

— Quindi davvero potrai intervistare i monaci della chiesa? — buttai lì per fare un po’ di conversazione. Sapevo che papà non vedeva l’ora di esaminare il Monastero Rosso e fare qualche domanda ai monaci copti che ci vivevano, ma non avevo idea di che cosa sperasse di trovarci dentro o del perché fosse così ansioso di arrivare.

A papà si illuminarono gli occhi. — Ma certo! Vivono in una struttura tremendamente misteriosa: gran parte della sua storia è sconosciuta a chiunque. L’unica cosa che davvero…

Mi sforzai di tenere gli occhi aperti e annuire ogni tanto, ma la voce di papà divenne presto un ronzio indistinto che si confondeva con le ruote della macchina. Sentivo ogni singola gocciolina di sudore che mi scivolava sulla fronte, visto che il sole non accennava a smettere di picchiare sulle nostre teste già accaldate, e mi calai la visiera fin sulla faccia per non scottarmi la punta del naso.

— … quando è stato fondato nel quarto secolo dopo Cristo…

Drizzai le orecchie. — Quindi non è una struttura che risale all’antico Egitto? — Mi resi conto di aver fatto un passo falso quando papà mi guardò con aria incredula.

— Non mi hai sentito prima? Si tratta di un monastero cristiano, non ha nulla a che vedere con i faraoni — Papà ridacchiò e si tirò gli occhiali su per il naso. — Non hai visto le foto? Non c’entra nulla con l’architettura della civiltà egizia!

Arrossii nonostante la stanchezza. Non avevo visto una singola immagine del Monastero Rosso né letto nulla sull’argomento, nonostante papà ci tenesse che io arrivassi preparato sui siti dove lavorava. Però…

— Come mai ti interessa tanto, allora? La tua specialità è proprio l’antico Egitto — Era raro che papà accettasse progetti che non c’entravano nulla con l’Egittologia, anche se qualche volta ci toccava: le spese per i viaggi erano tante e gli studiosi universitari non erano pagati granché.

— Si tratta di una bella occasione — Papà tamburellò le dita sul finestrino della Jeep, un po’ a disagio. — L’Università del Michigan mi sta pagando tutte le spese del viaggio, a patto che io collabori con altri professori per scrivere un libro sulla storia dei due Monasteri. Si tratta solo di fare qualche intervista, scattare delle foto e recuperare più fonti possibile in loco.

Scrollò le spalle e mi sorrise. — Non dovrebbe interferire con gli altri scavi a cui potremo partecipare nei prossimi tempi, comunque: è solo una toccata e fuga.

Annuii e guardai fuori dal finestrino. Papà era sembrato molto più entusiasta fino ad un attimo fa, ma decisi di non insistere: a Julius Kane non piaceva affatto che qualcuno gli facesse troppe domande sui perché del suo lavoro – in ogni caso, mi sentivo ancora in colpa per non essermi preparato meglio durante il volo.

I campi continuavano a scorrermi davanti agli occhi e percepii un nuovo principio di abbiocco. Socchiusi gli occhi e posai la testa sul finestrino, lottando contro uno sbadiglio.

Nous sommes arrivé!

Mi sentii scuotere per le spalle. Aprii gli occhi di scatto e lanciai un’occhiata fuori: eravamo in un parcheggio al limitare di una serie di tendoni e insegne colorate, che sembrava avviluppare tutta la zona circostante.

— Forza, qualche minuto a piedi e saremo arrivati — mi incoraggiò papà mentre apriva la portiera. Mi passai una mano sulla faccia per assumere un aspetto appena più consono, slacciai la cintura e scesi giù dall’auto.

Mentre papà contava le sterline per l’autista, che nel frattempo lo inondava di commenti entusiasti accompagnati da vigorosi gesti delle braccia, diedi un’occhiata oltre il parcheggio, verso il viavai di gente per la strada. Tutti sembravano avere una fretta tremenda, e tra il passo frenetico e il vociare che proveniva dalla strada mi sentii girare la testa: non ero un grande fan dei posti affollati – quando si vive per una parte significativa dell’anno a bordo di cuccette, auto e aerei si impara a non dare per scontato lo spazio personale.

Papà mi fece segno di seguirlo. Agitai la mano verso il nostro autista, che rispose con due pollici alzati e un sorriso a trentadue denti, e mi infilai tra la folla.

Citrons! Citrons! Citrons frais!

— … et puis je lui ai dit que…

Mi sentivo come una sardina strizzata nella sua scatoletta, ma scivolai a destra e a sinistra tra le persone che mi venivano incontro dall’altra parte della strada senza troppa difficoltà. La fedora nera di papà era inconfondibile tra la folla piena di turbanti e cappelli da baseball, quindi feci in modo di avvicinarmi il più possibile.

Kun hadhiran!

Sgusciai via con un mezzo inchino di scusa dal piccolo signore con una valigia alta il doppio di lui contro cui mi ero schiantato e mi accostai a papà. — Il monastero non è lontano, vero?

Papà alzò un braccio dritto davanti a sé. — Eccolo là!

Mi fermai sul ciglio della via, che si allargava verso una struttura compatta, composta solo di mattoni rossicci. Non appena ci avvicinammo mi resi conto che si trattava delle mura del monastero, ancora in ottime condizioni: avevo sentito papà citare un qualche incendio che aveva distrutto altre zone del Monastero durante il viaggio in macchina, ma non ero riuscito a sentire molto altro tra un colpo di sonno e l’altro.

Ci approcciammo all’entrata delle mura. Davanti a noi c’era l’entrata della chiesa, squadrata e pesante, fiancheggiata da due colonne e due porticine più piccole. Quella a sinistra si aprì e ne uscì un anziano incappucciato, che ci scrutò da dietro gli occhiali e proseguì nella direzione opposta alla nostra: uno dei monaci della chiesa, evidentemente.

Papà si diresse a grandi falcate verso l’entrata, mentre la mia attenzione venne catturata da un piccolo leggio pieno di dépliant appena di fianco.

— Aspettami pure fuori: ci vorrà giusto una mezz’oretta, il tempo di farti un giro qua intorno e fare un po’ di conversazione.

Annuii: papà adorava spingermi a “fare conversazione”, anche quando gli unici interlocutori possibili erano monaci centenari che non parlavano una parola di inglese. Mi avvicinai allo stand di brochure, ne sfilai una e la aprii completamente: UN PELLEGRINAGGIO PER VERI DEVOTI, recitava la scritta rosa fluo su sfondo beige, di fianco a qualche foto dell’interno del monastero. Di sicuro chiunque avesse elaborato la brochure non aveva passato più di qualche minuto su Photoshop in tutta la sua vita.

Fissai ancora qualche attimo le foto. L’idea del pellegrinaggio mi lasciava sempre un po’ a disagio: non ero cresciuto con un’educazione religiosa e papà non parlava mai di questioni spirituali – ogni tanto mi raccontava qualche mito egizio per farmi addormentare, ed erano gli unici momenti in cui gli occhi sembravano brillargli di fede autentica.

— Che ci fai qui, ragazzino?

Il dépliant mi venne strappato via dalle mani. Alzai gli occhi e mi ritrovai faccia a faccia con un paio di occhiali da sole verde bottiglia e una smorfia dietro cui brillava (almeno) un dente d’oro.

— Allora, che vuoi? Non ho da perdere tutta la giornata — fece Occhiali da Sole in un inglese cadenzato. Aveva la pelle color caffelatte, almeno una dozzina di anelli alle mani e una camicia aperta sul petto, sul quale brillava un ciondolo dalla forma strana. Ruminò un paio di volte la cicca tra i denti e mi squadrò come se avessi addosso una maglietta con su scritto SONO QUA PER CAUSARE PROBLEMI ENORMI, SÌ, PROPRIO A TE.

— I-io… Sono con Julius Kane — balbettai prima di fare un passo indietro. Questo tizio sembrava tutto tranne che un pacifico monaco intento a salire la scala del suo percorso spirituale.

Occhiali da Sole fece schioccare la lingua. — Ah, ma sei il figlio del dottore! Sicuro, ti ha menzionato quando ci siamo sentiti al telefono. — Mi prese la mano destra e mi infilò la brochure tra pollice e indice. — Ehi, bello, fatti un giro, qua è roba forte.

Mi tirò una pacca sulla schiena che mi fece barcollare, e con un sorriso da squalo mi passò di fronte verso la direzione opposta all’entrata della chiesa. Mi sfregai la giuntura dolorante e lo fissai ancora per qualche attimo: nonostante avessi visto un mucchio di gente inquietante nei miei viaggi, ero sicuro che Occhiali da Sole fosse schizzato ai primi posti della classifica delle persone con cui non volevo trovarmi da solo per più di cinque minuti.

Infilai il dépliant nella tasca posteriore dei miei khaki ed entrai in tutta fretta all’interno della chiesa principale.

L’interno era poco spazioso, una pianta quadrata piccola con al centro un altare abbastanza basso, ma le pareti e le colonne erano cariche di decorazioni di ogni genere. Spirali, rampicanti, forme geometriche… Ciascun motivo si avviluppava su quello vicino, creando un intrico di colori che mi costrinse a distogliere lo sguardo dalle pareti.

Feci un paio di passi in avanti e mi ritrovai sotto lo sguardo severo di una serie di vecchietti che spuntavano dalle pareti, incorniciati dai motivi che ricoprivano il resto della chiesa. Il tempo aveva lasciato i suoi segni, considerando che qualcuno di quei signori sembrava essersi appena svegliato dopo un pranzo all’all-you-can-eat a nove dollari (bevande incluse: non volete davvero sapere che cosa c’è dentro quella roba) più che assorto in una qualche contemplazione mistica.

Un’eco di passi risuonò al di là della porta più a sinistra di fronte a me. Mi avvicinai cercando di fare meno rumore possibile – sembrava innaturale disturbare chiunque fosse all’interno della chiesa con suoni non necessari.

— Sono solo felice di poterla incontrare, mi creda.

Sembrava proprio la voce di papà. Probabilmente aveva iniziato ad intervistare qualche monaco volonteroso sulla sua vita all’interno del monastero. Un monaco che sapeva l’inglese doveva essere piuttosto raro, però: tesi l’orecchio per sentire il resto della conversazione.

— Un viaggio tranquillo, sì, nulla di eccezionale — La voce stentorea di papà superò senza difficoltà il legno della porta, ma mi arrivò solo un borbottio da parte del suo interlocutore.

— Confido che si tratti di un incontro davvero privato.

Alzai entrambe le sopracciglia. Perché mai papà avrebbe dovuto richiedere un incontro privato con un monaco del monastero per un’intervista? Forse non potevano essere visti da troppe persone, o avevano degli orari da rispettare per il pubblico.

O forse mio padre era invischiato in un altro dei suoi strani progetti. Progetti sui quali non avevo nessun diritto di fare domande, figuriamoci immischiarmi attivamente…

Appoggiai entrambe le mani alla superficie della porta e avvicinai l’orecchio al legno. [Andiamo, Sadie, è inutile che fai quella faccia scandalizzata, come se tu non avessi mai origliato da una porta.]

— … Dedicato a San Pfui, dico bene?

Okay, non credo che mio padre avesse appena detto San Pfui, ma tra la porta chiusa e il tono di voce sempre più basso capii a malapena il resto della frase. Arrivato in albergo avrei dato un’occhiata ai santi coinvolti nella costruzione del monastero, ma in quel momento non mi sembrava una questione così pressante.

— Sono sicuro che possiamo arrivare ad un accordo, ma la cifra che mi propone è semplicemente ridicola — Papà abbassò ancora la voce e dovetti premere l’orecchio contro la porta. — Si tratta di un semplice prestito, nulla di più.

Un prestito? Era capitato che ci tenessimo degli artefatti per qualche mese o che ci regalassero pezzi non abbastanza interessanti per occupare spazio nei musei, ma che papà si dimostrasse così interessato ad averne uno era un evento più unico che raro.

— Credo che anche per voi sia un affare conveniente, tutto qui.

Papà ormai stava sussurrando, ma persino così riconoscevo che voce stava usando. Era la stessa voce che usava quando chiamava i nonni Kane al telefono per chiedere quando Sadie avrebbe avuto un giorno libero sotto Natale e se per favore potevano richiamarlo per fargli sapere; la voce di quando devi stringere i denti e fare buon viso a cattivo gioco perché non hai alternative.

Allontanai l’orecchio dalla porta e il resto della conversazione divenne un mormorio indistinto. Non avevo idea di che cosa papà volesse da quest’uomo né per quale motivo ne avesse così tanto bisogno da sbatterci su un aereo in tutta fretta per arrivare ad un monastero cristiano abitato da qualche monaco scostante, ma non ero più così sicuro di volerlo sapere.

Niente domande, fai buona impressione, non guardare nella borsa: avevo solo tre regole ed ero appena riuscito ad infrangerne un paio nell’arco di dieci minuti. Feci un passo indietro e mi sentii le guance bruciare. Avevo origliato un paio di volte in tutti i miei dieci anni e mezzo di vita, e mai conversazioni in cui partecipava anche papà. [Va bene, va bene, sono un bravo ragazzo fino al midollo. Contenta adesso?]

Mi avvicinai al piccolo altare al centro della stanza e tamburellai le dita sul legno per ignorare il mio stomaco aggrovigliato. Dalla porta mi arrivavano ancora stralci di conversazione, ma mi misi a canticchiare un motivetto stupido per non sentire. Dum-dum-DUM, dum-du-du-DUM, dum-du-dum-du-du-du-DUM…

Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma il motivetto si era trasformato in una versione sincopata di YMCA quando il cigolio della porta mi fece voltare di scatto; urtai con il gomito contro una delle candele appoggiate sull’altare. La afferrai appena prima che scivolasse giù dal bordo, ma il portacandele colpì il pavimento con un suono che rimbombò per tutta la chiesa.

— Carter! — Papà mi lanciò uno sguardo severo. — Ti avevo detto che potevi aspettarmi fuori, ci avrei messo un attimo.

Mi sentii arrossire di nuovo e raccolsi il portacandele in tutta fretta. — Ehm, ero curioso di vedere l’interno della chiesa. Ci sono dei bellissimi affreschi, uh, qui intorno.

Agitai la mano destra verso la parete più vicina e abbozzai un’espressione innocente, ma papà sembrava più stanco che irritato. Di fianco a lui una figura incappucciata gli porse la mano e mi fece un cenno, a cui risposi allo stesso modo. Era molto anziano, curvo e appoggiato ad un bastone, ma non assomigliava affatto a quei simpatici vecchietti che ti fanno giocare con il loro cane al parco e ti danno la mancia per il gelato. In effetti, non somigliava nemmeno a un monaco.

Papà gli strinse la mano con un sorrisetto tirato, ma aveva l’aria di voler uscire in tutta fretta.

— È stato un piacere, ci ha fornito davvero tante informazioni utili — disse mentre si congedava. — Contiamo di tornare anche da semplici turisti, una volta o l’altra.

Papà allungò il braccio, mi afferrò la mano sinistra e iniziò a tirarmi verso l’uscita in tutta fretta. Allungai il passo per stargli dietro, ma tenni gli occhi bassi per tutta la camminata fino alla macchina e risposi a monosillabi ai tentativi di fare conversazione mentre tornavamo verso Sohag. Non vedevo l’ora di buttarmi sul letto dell’hotel Osiris, dormire otto ore filate e di dimenticarmi di quello che avevo sentito al Monastero.

E figuriamoci se qualche dio ha mai ascoltato un mio desiderio…

 
***
 

— Carter… Carter!

Alzai il viso dal labrador che stavo accarezzando e mi guardai intorno. L’erba si estendeva a perdita d’occhio, fino alle colline da cui soffiava una brezza lieve e piacevole che mi scompigliava i capelli, e non c’era anima viva che potesse disturbarmi.

— Su, in piedi — La voce era concitata, ma sembrava provenire da un lungo tubo ovattato. — È ora di andare!

Socchiusi gli occhi per cercare di concentrarmi sul venticello che mi solleticava la faccia. Il pelo del labrador scorreva soffice sotto le mie dita e il suo ronfare ritmico mi conciliava il sonno. Calma e pace, calma e pace, calma e–

— Carter! — Mi sentii cadere all’indietro, e il labrador ora aveva il muso di uno sciacallo, le zampe premute sul mio torace e gli occhi gialli e furenti. Aprì le fauci e mi strillò in faccia:

— Svegliati, accidenti!

Spalancai gli occhi nel buio più totale, una mano che mi scrollava una spalla. Una figura alta e squadrata si chinò su di me: papà, con le labbra strette e le sopracciglia aggrottate.

— Che– che c’è? Dove… — Mi sfregai gli occhi con la mano non avviluppata nelle coperte e lanciai uno sguardo alla sveglia sul comodino di fianco a me: i led segnavano le due e cinquantasette del mattino. — Dov’è il mio cane?

Papà scivolò giù dal fianco del letto e fece qualche passo verso la porta. — Vestiti, dobbiamo andare.

Mi passai una mano sulla faccia: avevo la bocca impastata, gli occhi gonfi di sonno e mi sentivo come se mi fosse passato sopra uno schiacciasassi. — Andare? Andare dove?

— Dobbiamo lasciare l’albergo. Prendi zaino e cellulare, ma fai in fretta, dobbiamo essere giù nella hall tra cinque minuti.

Trattenni uno sbadiglio e mi sedetti sul letto; cercai di riordinare i pensieri che mi si stavano accavallando nel cervello. — Ma– ma che succede?

Liberai la gamba sinistra dal groviglio di lenzuola che si era formato durante la notte. — Dove dobbiamo andare? Sono le due di notte e io–

Incontrai lo sguardo di papà e mi bloccai. La sua giacca, di solito impeccabile, era stropicciata e piena di pieghe, aveva la camicia allacciata per metà e gli occhiali infilati di traverso sul naso. Non riuscivo a distinguere bene che espressione avesse nella penombra, ma quando appoggiò una mano sulla maniglia sembrava che tremasse.

Deglutii e mi alzai in piedi tirandomi su per la vita i pantaloni del pigiama. Era già successo che dovessimo lasciare alberghi in tutta fretta ad orari improbabili, ma papà era sempre rimasto tranquillo, come se fosse tutto programmato, una gita di mezzanotte per fare un po’ di moto; in quel momento era teso come una corda di violino, le spalle rigide e il respiro affannato.

Papà sostenne il mio sguardo ancora per un momento e poi aprì la porta, mi fece un cenno col capo e la richiuse dietro di sé. Barcollai verso l’armadio prima di ritrovare l’equilibrio, spalancai le ante e sfilai l’unica giacca che mi ero portato per il viaggio dal suo appendino. Me la buttai sulle spalle e mi chinai per prendere lo zaino abbandonato in un angolo, il borsello che sporgeva da una tasca, e issarmelo sulla schiena.

Non perdere tempo a vestirti, ricordati lo zaino, niente luci, niente rumore: in testa mi martellavano tutte le regole per le emergenze notturne. Afferrai le scarpe da ginnastica (ancora allacciate, maledizione) ai piedi del letto e me le infilai ai piedi; per poco non mi schiantai di faccia sul parquet della stanza, ma dopo trenta secondi buoni di lotta contro le stringhe mi ritrovai in piedi davanti alla porta.

Lanciai un’ultima occhiata al letto sfatto e alla sveglia – due e cinquantanove, dovevo sbrigarmi – e mi passai una mano sul collo, cercando con le dita il metallo della collana. Sfiorai il ciondolo infilato sotto la maglietta del pigiama: era ancora lì, non mi si era sfilato durante la notte.

Porta l’occhio di Horus sempre con te.

Aprii la porta e uscii nel corridoio dell’albergo. Tastai il muro più vicino per cercare un interruttore, ma senza successo (no, no, niente luci), e iniziai a camminare a grandi falcate verso le scale. Con la coda nell’occhio mi sembrò di vedere delle linee strane sulla porta, come a formare un simbolo familiare, ma quando mi voltai per controllare erano già state inghiottite dal buio.

Feci gli ultimi metri praticamente correndo e mi slanciai giù per le scale a tutta velocità. Per poco non rotolai giù dalla prima rampa, ma ero troppo concentrato sul rumore che faceva il mio cuore sbattendo contro la cassa toracica per preoccuparmi di dove stavo andando. Tum-tum-tum, tum-tum-tum.

L’ultima serie di scale dava sulla hall ben illuminata. Papà era già lì, ventiquattrore in mano, la borsa a tracolla e il cappello ben calato sulla fronte: sotto le luci al neon della sala aveva un aspetto persino peggiore di quando mi aveva svegliato, con un paio di occhiaie nere che gli appesantivano gli occhi e rughe di preoccupazione sulla fronte.

Non appena mi vide mi fece cenno di sbrigarmi. — Hai la collana con te?

La presi tra pollice e indice e la inclinai per mostrargliela alla luce. Papà fece un “hmm” di approvazione e si diresse verso le porte scorrevoli. L’unica altra persona nella hall era il portiere mezzo assopito vicino al registro dell’albergo, che non ci salutò nemmeno quando le porte si richiusero dietro di noi.

Una goccia d’acqua mi colpì la punta del naso. Alzai lo sguardo e vidi un’enorme nuvola nera giganteggiare proprio sopra di noi, carica di pioggia. Un temporale-lampo, in questo periodo dell’anno? Quando un’altra goccia mi centrò in pieno il sopracciglio sinistro mi decisi a correre verso papà, che stava gesticolando chinato sul finestrino di un taxi.

— … plutôt urgent… deux passagers… — La voce di papà venne affogata dal rumore della pioggia sempre più insistente. Infilai le braccia nelle maniche della giacca, sentendomi sempre più ridicolo nel mio pigiama a pois in mezzo alla strada – per non parlare del fatto che mi stavo iniziando a bagnare sul serio. Non vedevo nemmeno un passante per strada, ma avevo comunque la sensazione di essere osservato.

— Salta dentro, ci può dare un passaggio — urlò papà per sovrastare il rumore del temporale, un piede già all’interno del taxi. — Pochi minuti e saremo a destinazione!

Corsi fino all’auto, le mani sopra la testa per evitare che i capelli si inzuppassero completamente, e mi lasciai cadere sul sedile posteriore con un sospiro. Avevo una spalla dolorante a causa del letto duro dell’hotel, le scarpe piene d’acqua e cinque ore di sonno in totale negli ultimi due giorni, ma nessuna voglia di dormire.

Il tassista imboccò la strada principale, ma quando papà gli toccò la spalla sterzò di colpo in una via secondaria. Papà appoggiò la schiena al sedile e tamburellò le dita sul finestrino rigato dalle gocce di pioggia; si morse il labbro e si passò una mano sul volto con un sospiro.

— Papà — Tenni la testa bassa per non incrociare il suo sguardo, ma il mio tono lamentoso doveva essere arrivato chiaramente alle sue orecchie. — Dove stiamo andando?

Sentii una mano che mi si appoggiava sulla spalla, solida e rassicurante. Ma quando alzai gli occhi papà aveva ancora uno sguardo assente e le rughe sulla fronte erano più profonde che mai. — Mi dispiace, Carter… È un’altra di quelle volte. Dobbiamo solo attraversare il fiume e poi potremo trovare un altro albergo per passare la notte.

Mi rannicchiai sul sedile, appoggiando le suole sporche sulla tappezzeria, ma papà non disse nulla; appoggiò una mano sulla borsa che portava a tracolla, come a tastarne il contenuto, e mi passò l’altra tra i capelli umidi. Tirai su col naso – altra cosa vietata – e fissai fuori dal finestrino. Le gocce sparse si erano trasformate in una pioggia insistente che rendeva difficile vedere la strada, e qualche tuono in lontananza sembrava presagire un temporale coi fiocchi.

Era già la seconda volta negli ultimi tre mesi che lasciavamo un albergo nel cuore della notte, e nemmeno quella volta papà aveva voluto dare spiegazioni. Si era limitato a dire che non era una “bella zona” e che c’erano stati dei “problemi con i locali”, ma erano scuse talmente stupide che nemmeno lui si aspettava che ci credessi.

Sapevo che dovevo fidarmi di lui, e sapevo che lo stava facendo per il mio bene, ma non sapere nemmeno se eravamo davvero in pericolo mi terrorizzava molto di più che scoprire da che cosa stessimo scappando davvero. Avevo una lista infinita di regole e un mucchio di libri su Ra, Horus e Iside, ma nemmeno un ricordo di un pomeriggio al cinema o di un viaggio in cui non ci fossimo infilati in una tomba o che non si fosse concluso con una rapida ritirata su un aereo. Ero stanco di fuggire.

Uno stridio di gomme sull’asfalto mi fece voltare di scatto. Dal finestrino posteriore c’era troppo buio per distinguere alcunché, ma in lontananza mi sembrò di scorgere un luccichio, come luce riflessa su un parabrezza.

Strinsi gli occhi e mi attaccai al finestrino laterale per vedere meglio. Passammo di fianco ad un lampione, e non appena ci allontanammo dalla luce per un momento illuminò un’automobile color pece, con i fari spenti e il parabrezza oscurato. Ci stavano seguendo.

Mi voltai verso papà, che sembrava immerso in una trance, una mano sul viso e l’altra premuta contro la sua borsa mentre borbottava qualcosa. Non dava segno di essersi accorto di nulla, così come il nostro autista, che aveva iniziato a fischiettare un motivetto allegro.

Gli tirai la manica della giacca, ma non ottenni nessuna reazione. — Papà!

Papà sbatté le palpebre un paio di volte e mugugnò qualcosa di incomprensibile. Si girò verso di me con aria interrogativa mentre si risistemava gli occhiali sul naso.

— Ci stanno seguendo — sussurrai con una mano davanti alla bocca.

Papà lanciò un’occhiata alla strada buia dal suo finestrino. — Non preoccuparti. Siamo al sicuro qui.

Aprii la bocca per ribattere, ma poi mi sporsi verso il retro della macchina: dell’automobile nera non vedevo più nemmeno il riflesso del parabrezza. La strada dietro di noi sembrava essere precipitata nell’oscurità più totale, e dei pochi lampioni che avevamo passato non c’era più traccia. Mi girai nella direzione in cui stavamo procedendo, ma non sembrava esserci nulla di diverso: i lampioni davanti a noi, anche se radi, illuminavano la strada quanto bastava per permettere al tassista di non farci schiantare contro qualcosa.

Mi accoccolai di nuovo sul sedile, lanciando ogni tanto qualche rapido sguardo all’indietro, ma era come se la strada dietro di noi sparisse man mano che la percorrevamo. Rabbrividii e mi strinsi le ginocchia al petto: nonostante mi fossi quasi del tutto asciugato, avevo un freddo terribile che sentivo penetrare fin nelle ossa.

Non ero sicuro di quanto tempo fossimo rimasti nel taxi, ma ad un certo punto l’autista frenò di colpo. — Et voilà, nous sommes à la rivière.

Merci beaucoup, je suis très obligé — Papà sfilò dal portafoglio una manciata di banconote e gliele porse. — Scendiamo qua.

Scesi dal taxi e mi tirai la giacca fin sopra la testa. Pioveva a dirotto e le mie scarpe da ginnastica avevano già ricominciato ad inondarsi, per non parlare dei poveri pantaloni del pigiama. Con la coda dell’occhio notai papà trafficare con qualcosa che non riuscii a vedere, e quando feci il giro dell’auto per raggiungerlo mi porse un ombrello (quando l’aveva preso? Non mi ricordavo proprio).

Iniziammo ad avanzare a passo spedito verso il Nilo. La superficie dell’acqua era agitata e aveva iniziato a soffiare un vento deciso, che mi ingarbugliava i capelli e mi spruzzava gocce di pioggia dritte in faccia, ma non potevo fermarmi per sistemarmi: papà era così veloce che a tratti correva e anche mano nella mano faticavo a stargli dietro.

Ci fermammo appena sotto ad una tettoia di tela e papà mi fece cenno di rimanere lì prima di allontanarsi di qualche metro e bussare ad una delle porte delle case vicine. Uno spioncino si aprì proprio nel mezzo e sentii un suono di riconoscimento prima che il chiavistello iniziasse a girare. La porta cigolò e si aprì una fessura da cui spuntò fuori una faccia barbuta. — Julius Kane, eh?

Papà si premette un dito sulle labbra e si chinò verso di lui. Parlavano in inglese, ma tra la pioggia e il vento sempre più forte riuscivo a malapena a vederli, figuriamoci capire che cosa stessero dicendo. La faccia barbuta sembrava sempre più esasperata, ma papà non mollava, anche se la sua solita espressione imperturbabile era indurita in una maschera di preoccupazione.

— Pensi che ti lasceranno andare così… quello che hai acquistato… una mossa sconsiderata… — Aguzzai le orecchie per sentire qualcosa di più, ma la pioggia prese a scrosciare ancora più forte, come se l’avesse presa sul personale, e non capii più nulla.

— Fa’ come ti pare, ma non sono responsabile di quello che ti succede — tuonò alla fine Barba Ispida sopra il vento ululante. — Prenditi la barca, ma sbrigati, ti sono alle calcagna.
Un tintinnio di chiavi risuonò per un attimo per la via deserta, e poi la porta sbatté con violenza. Papà si infilò le chiavi in tasca e tornò verso di me.

Non riuscii a trattenermi. — Chi era quello?

— Solo un collega che può darci una mano — Papà sorrise e mi diede la mano. — Devo averlo svegliato in una giornata no… Forza, siamo quasi arrivati.

Facemmo pochi metri girando attorno alla casa e ci ritrovammo sulla riva del fiume – le mie scarpe ormai imbarcavano acqua peggio del Titanic e il pigiama era uno straccetto bagnato che mi si arrotolava attorno alle gambe, ma mi sforzai di stare dietro a papà. C’erano un mucchio di barche ormeggiate sulla riva, ma papà si diresse a colpo sicuro verso una in particolare; non appena capii di quale si trattasse spalancai gli occhi.

Era una barca nel senso di “lunga struttura che si guida con dei remi”, d’accordo – ma non assomigliava a nessun’altra imbarcazione lì intorno. Sembrava proprio una di quelle barche egizie che avevo visto tante volte sui libri di papà, ma era decisamente più piccola e costruita con altri materiali, e quando mi avvicinai di più per stare dietro a papà notai che era ricoperta su tutta la superficie da simboli dorati che brillavano sulla superficie. Geroglifici: ne riconobbi alcuni, ma la maggior parte mi erano sconosciuti.

— Noi egittologi siamo un po’ matti, vero? — ridacchiò papà mentre apriva il lucchetto della catena arrotolata attorno alla prua della barca. — Decorare un’intera barca con dei geroglifici non l’avrei fatto nemmeno io.

Diede una pacca sul lato destro dell’imbarcazione. — Tutti a bordo!

Lo fissai dritto negli occhi. Il cappello gli penzolava floscio sulle orecchie, gli occhiali appannati gli cascavano giù per il naso e la bocca era incurvata in un sorriso stentato.

— Papà, dove stiamo andando? — Feci un respiro profondo e tirai di nuovo su col naso. — Pensavo che stessimo andando in albergo… Perché dobbiamo salire su una barca? Che cosa succede?

Papà si passò una mano sulla fronte e abbassò la testa. — Carter, lo so che è una situazione… Difficile. Non possiamo più andare in un altro albergo, ma ti prometto che una volta saliti andrà tutto bene. Dobbiamo solo seguire la corrente per un po’ e poi andrà tutto bene.

— Ma… Ma perché? — Strinsi i pugni e abbassai il capo. — Perché non vuoi dirmi che cosa succede?

Avrei voluto urlare, pestare i piedi e sedermi in mezzo alla pioggia ad aspettare delle risposte. Avrei voluto rifiutarmi di fare un passo in più finché qualcuno non mi avesse detto che cosa ci facevamo alle tre del mattino sulla riva del Nilo a cercare una barca che nessuno dei due avrebbe saputo governare. Ma poi alzai la testa e vidi la disperazione negli occhi di papà.

Non era irritazione, non era stanchezza, non era preoccupazione: papà era terrorizzato. Dovevamo salire su quella dannata barca e dovevamo farlo ora, o sarebbe successo qualcosa di terribile.

Corsi verso l’imbarcazione e ci saltai dentro con tutta la forza che mi rimaneva. Mi rannicchiai con le ginocchia vicine al mento, la superficie ruvida del legno che mi sfregava la mano aggrappata al lato sinistro dell’imbarcazione, mentre papà la spingeva verso l’acqua. La barca scivolò nel Nilo come se fosse imbevuta di olio e papà ci si buttò dentro appena prima che si staccasse completamente dalla riva.

Mi sentii sballottare a destra e a sinistra, ma l’imbarcazione non sembrava intenzionata a ribaltarsi. Starnutii e strinsi più forte il manico dell’ombrello, che stava diventando ogni secondo più inutile: il vento era talmente forte che le gocce mi arrivavano dritte in faccia in ogni caso. Papà aveva la schiena rivolta verso di me, le spalle chinate e una mano premuta contro l’interno della barca.

Un lampo squarciò il cielo, seguito pochi secondi dopo da un tuono che mi fece portare le mani alle orecchie. Strinsi gli occhi e cercai di fermare i denti che battevano per il freddo senza successo: ero inzuppato da capo a piedi, un gelo che mi avvolgeva come una coperta ghiacciata. Avrei voluto accoccolarmi all’interno della barca e chiudere gli occhi, ma…

Una luce si fece strada all’interno della coltre di pioggia; era flebile e si vedeva appena, ma ad ogni secondo appariva più brillante. Andavamo sempre più veloci, ma la luce non accennava ad allontanarsi: anzi, sembrava avvicinarsi sempre di più. Appena dietro di lei si delineavano i contorni di un’imbarcazione, più grossa della nostra e probabilmente molto più veloce.

Papà alzò la testa di scatto e capii che anche lui l’aveva vista. Strinse con la mano libera la sua borsa degli attrezzi e girò la testa verso di me. — Non preoccuparti. Tra poco saremo al sicuro.

Al sicuro… Anche intontito dal freddo e dalla pioggia battente ero abbastanza sicuro che essere sul Nilo durante una tempesta inseguiti da una barca non fosse definibile da nessuno una situazione “sicura”, ma come cercai di urlarglielo sopra il vento mi sentii stranamente calmo.

La pioggia si riversava ancora nel fiume come prima, il vento ululava con altrettanta forza, ma tutto sembrava più ovattato, come se stessi vedendo il mondo attraverso un pannello di plexiglass. Aprii la bocca per borbottare qualcosa e faticai a schiudere le labbra: muovere i muscoli sembrava un’impresa titanica, anche solo ricordarmi come avevo fatto a saltare fin sulla barca sembrava assurdo. Era molto meglio chiudere gli occhi, sì, abbassare le palpebre e farsi un bel sonnellino.

Oh, dio, sto andando in ipotermia, ipotizzò la parte meno addormentata del mio cervello. Ma era assurdo, eravamo in Egitto, mica in Antartide: anche nel bel mezzo di un temporale non poteva fare così freddo.

Sentivo un canto ritmico provenire da lontano, una litania che mi conciliava il sonno. Lottai per tenere gli occhi aperti: davanti a me baluginava confusamente la luce di prima, sempre più grossa e brillante, appoggiata sulla prua di una barca. Ma i contorni delle cose sfumavano sempre di più, l’acqua del fiume si rimescolava con il cielo buio sopra di noi e la melodia era sempre più forte, come se qualcuno me la stesse sussurrando all’orecchio.

La sagoma di papà era proprio al centro del mio campo visivo: mi sforzai di allungare la mano destra verso di lui, ma i miei muscoli non rispondevano più ai comandi e il mio braccio ricadde inerte lungo il fianco. Sbattei le palpebre e sbadigliai – faceva sempre più caldo, il gelo dei vestiti bagnati appiccicati al corpo un lontano ricordo, poi sentii una mano che mi si posava sulla testa; distinsi il viso di papà vicino al mio, le labbra dischiuse per formare delle parole che sentii a malapena:

— Dormi, Carter — Sbadigliai ancora e premetti la testa sulle ginocchia. — Stiamo per arrivare…

La spalla sbatté sul lato della barca, catapultandomi a gambe all’aria. La musica che avevo nelle orecchie cessò di botto, e mi sentii ricadere addosso tutto il freddo e l’umidità dell’acqua che avevo preso fino a quel momento. Spalancai gli occhi e mi tirai su con entrambe le braccia, l’ombrello sparito chissà dove.

Papà era riverso davanti a me, una mano ancora appoggiata sulla sua borsa e la faccia premuta contro il fondo dell’imbarcazione. Davanti a me si stagliava un motoscafo, inclinato di traverso a toccare la prua della nostra barca, con un uomo sporto ad afferrarla, un piede già premuto contro un lato ricoperto di geroglifici. Mi fece un ghigno da squalo, e anche alla luce del faro i denti brillarono di un bagliore dorato: era Occhiali da Sole.

— Dammi la tavoletta, ragazzino — Occhiali da Sole si allungò ancora verso di me, una mano premuta contro il bordo a tirare indietro la barca con tutte le sue forze. — Dammi la tavola o qualcuno si farà molto male!

Alzò la mano ancora libera e vidi che impugnava un lungo bastone. Goccioline di sudore gli rigavano la fronte, ma non sembrava intenzionato a mollare la presa. Un angolino del mio cervello cercava insistentemente di ricordarmi che non sentivo più né la pioggia né il vento nonostante stesse diluviando a dirotto, ma i miei occhi erano fissi sul bastone che svettava minaccioso sopra la sua testa.

— Io– io non so di che cosa stai parlando — strillai, cercando di non far cadere il mio sguardo sulla borsa. — Lasciaci andare!

Ero sicuro che la tavola che cercava Occhiali da Sole fosse nella borsa di papà. L’aveva tenuta stretta tutto il viaggio, senza smettere di guardarla un secondo, e sapevo che era l’artefatto per cui aveva contrattato al Monastero; non potevo darglielo, non dopo tutto quello che papà aveva passato per farci scappare!

— Stupido… bambino… — Occhiali da Sole aveva il respiro sempre più affannato, i denti digrignati in una smorfia luccicante, ma si chinò su papà. — Dammela immediatamente e forse vi lascerò andare. Non vedi che non hai scelta?

Abbassai la testa verso papà, ma la sua sagoma rimase inerte sul fondo della barca. Ero da solo, in balia di un gangster psicopatico che sembrava intenzionato a buttarmi fuoribordo nel bel mezzo di una tempesta – a meno che non gli cedessi ciò per cui eravamo venuti qui. Avevo una sola opzione, e non mi piaceva nemmeno un po’.

— Conterò fino a tre, e poi tuo padre si ritroverà in una situazione alquanto sgradevole, capito?

Nemmeno…

— Due…

… un…

— Uno–

… pochino.

Alzai le braccia in segno di resa e feci un passo verso Occhiali da Sole. — D–devo aprire la borsa se vuoi riavere la tavola. Ma devi promettermi che– che ci lascerai andare, capito?

Non fu affatto difficile simulare il tremito nella mia voce mentre mi chinai verso papà. Spostai la mano ancora avvinghiata alla borsa, svolsi i lacci che la tenevano chiusa e… aprii la borsa. [Chiudi la bocca, Sadie, o entreranno le mosche. Okay, ho aperto una volta nella vita la borsa di papà, non c’è bisogno di sorprendersi tanto.]

Come infilai la mano all’interno sentii una superficie dura e liscia al tatto. Spalancai la borsa e afferrai una tavoletta, poco più grande del palmo della mia mano, ricoperta di geroglifici e disegni che brillavano di un bagliore rossastro. Al tatto era bollente, come se fosse stata immersa in un calderone fumante, e come la toccai sentii un tuono rimbombarmi dritto nelle orecchie; mi affrettai a richiudere la borsa e a rialzarmi in piedi.

— Sì, bravissimo — Occhiali da Sole allungò una mano ingioiellata verso di me. — Riporta Ba’aal ai suoi veri padroni!

Deglutii e feci un altro passo verso di lui. Gli occhi gli brillavano con un luccichio febbrile, le narici dilatate come ad annusare il profumo della sua preda: se gli avessi consegnato la tavola non avrei avuto alcuna possibilità di uscirne vivo. Appena dietro di lui, sul motoscafo, intravidi una sagoma curva ad osservare lo scambio.

Allungai il braccio, appena al di fuori della portata di Occhiali da Sole, che si piegò ancora in avanti per afferrare la tavola. Feci un respiro profondo, contai fino a tre, e poi gli lanciai la tavoletta dritta in faccia.

Sentii il crack degli occhiali che si spaccavano appena prima di vedere Occhiali da Sole lasciare la presa sulla barca e cadere dritto in acqua con un urlo feroce assieme alla tavola.

A quel punto successero un mucchio di cose tutte assieme. Primo, la strana figura sul motoscafo alzò le braccia e gridò qualcosa in una lingua incomprensibile. Secondo, vidi il braccio di papà muoversi appena, e improvvisamente mi sentii di nuovo accaldato. Terzo, la cantilena che mi aveva accompagnato fino a poco fa riprese ad invadermi le orecchie, sempre più forte e sempre più rapida.

Ah, e quarto: il paesaggio attorno a me assunse la consistenza di una Jell-O.

Socchiusi gli occhi e cercai di mettere a fuoco qualcosa, ma caddi in ginocchio, tutti i muscoli che si rifiutavano di obbedirmi. Il buio della notte era sempre meno reale, sostituito da una patina dorata e da un vento caldo che mi soffiava in faccia – in mezzo a quella foschia mi sembrò di distinguere una lunga strada fiancheggiata da palazzi, un edificio largo e squadrato con un simbolo rosso sulla porta, ma in quel momento il mio cervello decise che era il momento di chiudere i battenti, e persi i sensi.

 
***

 
Sbattei le palpebre e misi a fuoco un paio di occhiali rosa shocking. Gli occhioni neri dietro le lenti si spalancarono. — Signor Kane, si è svegliato!

Una testa scura entrò nel mio campo visivo. Sentivo la testa ronzare come se avessi un alveare pieno d’api annidato nel cranio e avevo gli occhi impastati, ma mi sforzai di tirarmi su e appoggiai la schiena contro il muro dietro di me.

Strizzai gli occhi mentre qualcuno mi passava una mano tra i capelli. Ero in un letto bianco, circondato da pareti di un verde pallido e un cavo che mi penzolava dal braccio – come lo seguii con lo sguardo mi resi conto che era attaccato ad una flebo. Mi trovavo in una stanza d’ospedale.

Papà era seduto su una sedia al mio fianco, la faccia tirata per la preoccupazione. Le occhiaie gli segnavano ancora lo sguardo, ma la stretta sulla mia spalla era forte e sicura.

— Finalmente sei sveglio.

— Che– cosa… Che cosa succede? — Il déjà-vu di papà chino su di me mi fece balzare alla mente l’ultima cosa che ricordavo. — Che fine ha fatto Occhiali da Sole?

— Gli occhiali da sole? Poverino, deve aver passato un febbrone da cavallo — commentò con un lieve accento la signora con gli occhiali rosa accanto a papà; indossava un camice e un cartellino con su scritto un nome che non riuscii a leggere. — Avete avuto davvero sfortuna a beccare un acquazzone in questa stagione… Nel bel mezzo di una battuta di pesca, per di più!

Aggrottò la fronte. — Dove ha detto che eravate, signor Kane?

— Credo che Carter abbia bisogno di riposare, adesso — Papà sfoderò un sorriso affascinante e strinse la presa sulla mia spalla. — Ha ancora qualche linea di febbre e penso che sarebbe meglio che dormisse ancora un po’.

— Certo, naturalmente. Più tardi vi manderò qualcuno per confermare le dimissioni, se il ragazzo rimane stabile.

L’infermiera si affrettò ad uscire dalla stanza, l’espressione curiosamente vacua e inebetita, come se non si ricordasse più perché era entrata.

Papà incrociò il mio sguardo interrogativo. — Siamo in ospedale al Cairo: hai avuto una febbre tremenda. Non mi sorprende, vista l’acqua che hai preso!

Ricordavo tutto: la fuga in taxi, noi due sulla barca, Occhiali da Sole che cadeva fuoribordo… — Ma eravamo sul Nilo! Ho sentito della musica, c’era della nebbia dorata e poi — Già, e poi? Aggrottai le sopracciglia e mi fermai.

Papà mi guardò con aria preoccupata. — Eravamo nel bel mezzo della tempesta quando hai perso i sensi – ho tirato la barca a riva e ho fatto l’autostop fino a qua. Hai avuto la febbre alta per ore, non facevi che rigirarti nel letto e borbottare… Non mi sorprende che tu sia un po’ confuso.

Mi guardò dritto negli occhi e abbassò la voce. — Dopo che hai buttato Rafi nel fiume la corrente ci ha trascinati via per un bel pezzo.

Aveva la voce tesa, come se avesse voluto dirmi qualcosa di più, ma in quel momento mi ricordai della cosa più importante. — La tavola! Dov’è la tavola?

— A quest’ora? Probabilmente sul fondo del Nilo — Papà aveva il viso chinato e una mano sulla fronte. — È caduta nel fiume assieme a Rafi.

Tutta l’aria che avevo nei polmoni uscì come se qualcuno mi avesse tirato un pugno. Avevo origliato le conversazioni di papà, guardato dentro la sua borsa e perso la cosa per cui avevamo rischiato di morire – avevo ignorato tutte le sue regole e non era servito a nulla. Mi si inondarono gli occhi di lacrime. — Papà, mi disp–

— Carter — Alzai la testa verso papà. Aveva gli occhi lucidi e il labbro tremante. — Mi dispiace così tanto.

Una lacrima gli scivolò giù per la guancia. — Ti ho costretto a correre per Sohag con dei predoni alle calcagna, ti ho scaricato su una barca nel bel mezzo di una tempesta, tutto per uno stupido pezzo di argilla… Sono davvero un idiota.

Sentii le sue braccia che mi stringevano in un abbraccio e posai la testa sulla sua spalla. — Non sei arrabbiato?

— Arrabbiato? — Papà azzardò una risata. — Tu dovresti essere arrabbiato! Sono io che ti ho trascinato in una corsa disperata senza dirti nulla per una notte intera. Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere la gente con cui sono costretto a trattare per avere dei reperti.

Papà scivolò via dall’abbraccio che era diventato più umido del previsto [Sì, sono anche un piagnone, come se non lo sapessi già.] quel tanto che bastava a fissarmi negli occhi.

— Mi dispiace di averti trascinato in questa storia. Ti prometto che non dovrai mai più fare una cosa del genere. Non finché ci sarò io.

Papà si raddrizzò e mi diede una pacca sulla spalla. — Carter, sei stato così coraggioso… Non posso credere che tu abbia davvero tirato la tavola di Ba’aal, signore delle tempeste, in faccia a quel criminale.

Ero sicuro che la mia faccia avesse il colore di un lampone bello maturo, perché mi sentivo le guance in fiamme (e no, non era per la febbre). Azzardai un sorriso e cercai di raddrizzare la schiena, ma ricaddi sul cuscino con uno sbuffo: avevo le giunture pesanti come il piombo e i muscoli doloranti.

— Non azzardarti a fare un altro passo fuori dal letto, capito? — Papà mosse l’indice con aria minacciosa e si alzò in piedi. — Passerai tutto il giorno qui a letto finché non starai meglio.

Sfilò dalla tasca il suo portafogli in pelle. — E credo proprio che tu ti sia guadagnato una scorta del tuo gelato preferito per un mese intero, che ne dici?

Mi accoccolai sotto le coperte mentre sentii la porta della stanza sbattere e chiusi gli occhi. Sapevo che non sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo trovati in situazioni pericolose, e sapevo che papà non mi avrebbe mai detto perché gli interessava quella tavola. E sì, sapevo anche che non mi sarebbe andato bene vivere così per sempre, tra un viaggio in aereo e un taxi all’una di notte per fuggire da chissà cosa.

Ma in quel momento volevo solo godermi un meritato sonnellino, un chilo di gelato al pistacchio e la sicurezza di aver fatto la cosa giusta.



 
NOTA IMPORTANTE: per cause di forza maggiore che non è il caso di rivelare, la trascrizione delle registrazioni è momentaneamente in pausa. Spero che queste due storie possano essere sufficienti affinché i maghi che si ritrovano a leggere colgano l'imbeccata, ma confido che prima o poi tutte e quattro saranno riscritte come quelle già leggibili.
   
 
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