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Autore: ThatXX    25/04/2024    2 recensioni
– Cosa dovrei fare adesso? – chiese lei con un filo di voce. Assurdo. Aveva appena domandato a un folle assassino, all’uomo la cui spada aveva trafitto il ragazzo col quale aveva fatto l’amore, a colui che l’aveva salvata sparandole un colpo in testa, ‘dio che razza di follia, che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in avanti. Si chiese se non potesse andare peggio di così.
– Cambia cognome, allontanati da qui e non ti avvicinare mai più all’Istituto né a quei ragazzi. Se ho fatto credere loro di averti uccisa è stato solo perché tuo padre desiderava questo –.
[Continuo di Crisantemo]
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Guardava una riga di orizzonte con il mare che s’infrangeva nel vetro dei suoi occhiali: un mare d’inchiostro per il nero impenetrabile di quelle lenti rotonde. Il sole ci si rifletteva come un cerchio cromato, sfumato ai contorni. Le onde si avvicendavano srotolandosi pacificamente a riva e l’aria era piatta. Se ne avvertiva ogni tanto un alito appena e spirava cocente sulla pelle delle spalle. Era settembre.
 
Per quel finesettimana a Okinawa era stato quasi tentato di spegnere il cellulare, ma nell’ultimo periodo piovevano tante di quelle brutte notizie, improvvise come temporali estivi, per cui ritagliarsi qualche ora di assoluto isolamento dalle responsabilità era professionalmente inopportuno.
 
Yuji Itadori, uno dei suoi nuovi studenti del primo anno, era morto per qualche ora. Erano apparse maledizioni di livello speciale non registrate, una delle quali aveva il potere di trasfigurare esseri umani. Un ragazzo di nome Junpei Yoshino era stato coinvolto e aveva perso la vita assieme alla madre. Era stato preso di mira il magazzino segreto dell’Istituto durante l’incontro di scambio tra la scuola di Tokyo e quella di Kyoto e da lì erano state sottratte le sei dita di Sukuna tenute sotto custodia dall’Istituto e tre uteri maledetti. In quella sola giornata erano morti decine di stregoni. E ora qualcuno all’interno della scuola era sospettato di tradimento.
 
- Satoru! Satoru! –.
 
La piccola sagoma di Hanae si specchiò negli occhiali di Satoru deformandosi mentre si avvicinava correndo dal bagnasciuga. Lui si sollevò gli occhiali sulla testa con un gesto meccanico e reagì alla forte luce del sole strizzando un istante gli occhi. Hanae gli mostrò la conchiglia che stringeva nel pugno.
 
- L’hai trovata tu? -.
 
- Sì! – esclamò fieramente, poi ripartì come un razzo e ridiscese verso la riva dove Ayame prendeva una boccata d’aria con i piedi a mollo.
 
Ayame e Satoru vivevano insieme da sei mesi e per chiunque lo chiedesse rispondevano di essere compagni. Nelle sue conversazioni intime con l’amica, Mito li definiva “fidanzati” ma, nella prospettiva forse un po’ d’altri tempi di Ayame, il termine implicava una proposta di matrimonio che non c’era ancora stata e che in merito Ayame non aveva saputo esprimersi quando Mito le aveva avanzato la fatidica domanda. Per certi versi, avrebbe potuto rispondere che un matrimonio era troppo prematuro o stupirsi che un pensiero simile fosse partito proprio dalla bocca di Mito e invece, banalmente, aveva ammesso di non averci mai riflettuto. Per una ragazza come Ayame, e che a Mito ricordava molto uno dei personaggi della brillante autrice Ai Yazawa, Yukari Hayasaka, tanto per fattezze quanto per alcuni aspetti della personalità, quella di Mito avrebbe dovuto essere una domanda scontata, tutt’al più inattesa, ma alla fine si era rivelata una domanda senza risposta. La totale assenza di una qualsiasi reazione di Ayame le aveva fatto nascere il sospetto che, per amore di Satoru, era pronta a sacrificare anche la sua più grande aspirazione.
 
Satoru era l’amore della vita di Ayame: di questo Mito ne era più che convinta anche se non necessariamente entusiasta, non all’inizio a ogni modo. Lo era sempre stato, benché avesse indubbiamente provato puri sentimenti d’amore anche per Suguru. Mito se n’era accorta fin dal giorno del loro incontro all’Istituto, lo stesso in cui lei e Ayame avevano litigato nel tardo pomeriggio. Lo aveva definito “stronzo attraente”; lo aveva insultato per quasi un’ora intera con le guance rubizze per l’infatuazione e l’imbarazzo; lo aveva adorato in sordina mentre si lamentava dei suoi modi irriverenti, dei suoi piedoni da dinosauro, dei suoi fottuti occhi di cristallo, della sua camminata indolente, del tono da bastardo rubacuori. E sarebbe andata avanti così per ore se Mito non avesse interrotto quella sequela di improperi per dirle la verità.
 
Era stato il Signor Ishikawa a presentarle. A quel tempo, Ayame aveva sedici anni e Mito diciannove. Mito Kuroi era stata incaricata dalla sua famiglia di proteggere il Ventre di Tengen: un compito che andava avanti da generazioni. Il patto tra la famiglia Kuroi, l’Istituto di Arti Occulte e la famiglia Ishikawa obbligava la custode a non farne parola con Ayame almeno finché l’Istituto non l’avesse informata della fusione. E quando le era toccato rivelarle la sua identità, come darle torto, Ayame era andata su tutte le furie. Aveva rifiutato le sue telefonate per un paio di giorni ma poi aveva compreso che Mito non aveva avuto alternative. In cambio del perdono, Ayame le aveva fatto giurare di non dire niente a Satoru della sua natura di Ventre.
 
Nel corso di quei nove anni, Mito e Satoru avevano paradossalmente stretto una sorta di legame fondato sul reciproco affetto per Ayame. L’aspettativa di Mito era che Satoru si dimenticasse di lei nel giro di un mese o due e per una serie di ovvi motivi: perché di belle ragazze ne poteva avere a iosa; perché la sua frequentazione con Ayame era stata piuttosto breve; perché per un ottuso come lui era più facile dimenticare che riconoscere di provare certi di sentimenti. Ma tutto quel tempo passato a pensarla, a ricordarla e ad amarla in segreto l’aveva totalmente spiazzata. A quel punto aveva capito, benché a posteriori, che anche Ayame era l’amore della vita di Satoru. Ecco perché aveva chiesto proprio a lei di prendersene cura.
 
- Se dovessi sparire, proteggila dai piani alti. Nascondetevi nel mio appartamento. Pochi sanno dove vivo, perciò ti conviene memorizzare l’indirizzo – le aveva detto una sera prendendola da parte mentre Ayame rimboccava le coperte ad Hanae.
 
Mito lo aveva guardato con un solco tra le sopracciglia, pensosa. – Sparire? -.
 
- Ho un brutto presentimento – aveva detto alla fine, appena in tempo per il ritorno di Ayame in salotto.
 
Satoru covava quel presentimento da allora con crescente convincimento che quel giorno avanzasse con una rapidità imprevedibile e correva di pari passo alla vaghezza del suo futuro con Ayame. Ma poteva anche sbagliarsi.
 
Dopo qualche momento, riemergendo dai paludosi fondali di quelle riflessioni paranoiche, lui che di paranoia non aveva mai sofferto fino al suo incontro con Ayame, Satoru si alzò dalla sdraio e raggiunse la compagna sulla battigia. L’acqua fresca sembrò tagliargli di netto le caviglie e gli provocò un brivido. Lo sguardo si posò velocemente su Hanae seduta sul bagnasciuga a giocare a raccogliere l’acqua con la sua conchiglia quando l’onda passava: aveva le guance bianchicce di crema solare e indossava un cappello da pescatore giallo limone. Il mese prossimo avrebbe compiuto due anni.
 
- A che ora abbiamo il volo per Tokyo stasera? –.
 
- Alle sette, perché? – domandò lei e gli occhi si alzarono verso l’azzurro brillante del cielo dove il viso di Satoru sembrava dipinto: unica nuvola su quella tela dal colore uniforme. Lo guardò schermandosi gli occhi dal sole.
 
Satoru scosse la testa come per un ripensamento e le passò un braccio attorno alle spalle. Per un po’ condivisero l’orizzonte, poi si immersero in acqua per un ultimo bagno insieme prima di tornare in albergo. Hanae era stata opportunamente piazzata nella sua ciambella a forma di unicorno e sguazzava attorno a sua madre e a Satoru che la seguivano con occhio vigile e i riflessi pronti nel caso si fosse sporta. Rimasero a mollo per un buon quarto d’ora.
 
Rientrarono in camera verso le tre del pomeriggio e a turno si fecero una doccia. Ayame si lavò per ultima e si prese del tempo per dedicarsi a sé stessa mentre Satoru teneva impegnata la bambina. Aveva preso il suo libro illustrato preferito, “I racconti di Nim”, e aveva chiesto a Satoru di leggerlo insieme.
Sedevano sulla poltrona del salottino, Hanae adorava sedere sulle gambe di Satoru, quando la piccola indicò la figura di un uomo che abbracciava una bambina.
 
- Papà Nim – articolò.
 
- Giusto. Questo è il papà di Nim – rispose Satoru, quindi si vide puntare contro il dito paffuto di Hanae.
 
- Papà Satoru -.
 
E improvvisamente gli mancò il respiro, come se fosse stato colpito in pieno petto con un punteruolo da ghiaccio. Per un momento sentì il sangue gelarsi e rabbrividì. Lei gli sorrise inconsapevole, del tutto ignara dell’effetto devastante di quelle parole. Non aveva ancora l’età giusta per codificare l’espressione di marmo con cui Satoru la fissava.
 
Poi, in qualche modo che non seppe spiegarsi, le parole uscirono. – Perché dici che sono il tuo papà? -. Emise una voce tenue, non di dolcezza ma di contemplazione, ancora lì a riordinare i pensieri, sganciato mentalmente dalla realtà.
 
Hanae rispose come se quella di Satoru fosse stata la domanda più scontata del mondo. Tornò indietro di un paio di pagine e gli mostrò il disegno del papà di Nim che baciava la guancia di sua figlia. – Satoru bacio – disse. Alla pagina successiva, dove il papà di Nim giocava con la bambina, Hanae esordì con: - Satoru gioca – e concluse con un - Satoru coccole – quando puntò l’indice sul papà di Nim che stringeva sua figlia tra le braccia.
 
I bambini non assorbono soltanto per imitazione: costruiscono costantemente il loro linguaggio e i loro significati attraverso l’associazione di elementi e l’apprendimento intuitivo. E se Satoru faceva con Hanae le stesse cose che il papà di Nim faceva con Nim, allora, per la logica di una bambina di due anni, Satoru era il papà di Hanae.
 
La lettura riprese non senza difficoltà per lo stregone e si concluse quando il sonno di Hanae si approfondì. La depose sul letto e si prese un momento per guardarla. Non era solito riflettere su certe cose, ma in quell’attimo di sospensione mentale, in una di quelle rarissime volte in cui Satoru Gojo smetteva di essere Satoru Gojo, pensava che quella ragazzina avrebbe potuto essere sua figlia. Pensava che sarebbe bastato riuscire a uccidere Toji Fushiguro alla prima occasione perché fosse legittimo che Hanae lo chiamasse “papà”. Ma Hanae era la figlia di Suguru, quel titolo spettava a lui. Eppure…
 
- Satoru, c’è qualcosa che non va? -.
 
Il suo petto emise un debole sussulto e per un istante il fiato rimase imbottigliato nella gola. Se ne liberò schiarendosi la voce. – Sì -.
 
Osservò Ayame intrecciarsi i capelli e guardarlo fissamente sul limitare della porta del bagno. Ancora una volta, la prima l’aveva avvertita durante il compleanno di Ayame, provò l’irragionevole istinto di dirle che l’amava. E gli tornò in mente lo scopo ultimo di quel fine settimana a Okinawa programmato con due settimane di anticipo: il tempo necessario per organizzare i pensieri e, nel caso, prepararsi a incassare un amaro rifiuto. La breve discussione con Ayame, la sera prima, lo aveva fatto desistere. Le aveva tenuto nascosto lo scontro avvenuto con Testa a Vulcano, una delle maledizioni di livello speciale non registrate, ma la menzione del fatto in una telefonata col Preside Yaga e il perfetto tempismo di Ayame di sbucargli alle spalle proprio in quel momento avevano fatto scoppiare il litigio. Niente di irreparabile, certo, ma abbastanza disastroso da convincere Satoru ad avere un ripensamento. Eppure, a guardarla ora in piedi sulla porta, con l’unica colpa di avergli fatto scoprire un sentimento scomodo come l’amore, e rammentando quel piacevole senso di panico scaturito dalle parole di Hanae, Satoru capì che quella, non altre ma quella, era l’occasione migliore per farlo.
 
- C’è una cosa che vorrei dirti – disse tutt’a un tratto.
 
- C’è qualche altro stronzo che vuole ucciderti di cui dovrei essere messa al corrente? – chiese lei un poco stizzita.
 
- Voglio adottare Hanae – replicò Satoru schiettamente, ancora prima che il turno della conversazione potesse considerarsi concluso per Ayame. – Sempre che tu sia d’accordo – aggiunse correggendo il tono inavvertitamente imperativo.
 
Le dita impegnate a raccogliere i capelli in una treccia si fermarono di colpo. – Che hai detto? -. La voce vibrò di uno scetticismo di autentica sorpresa.
 
- Significa che non sei d’accordo? -.
 
– No! – Ayame fece un passo avanti. – Cioè, sì! – rispose confusamente. – Voglio dire… è meraviglioso, Satoru, dico sul serio. Hanae ti adora e tu saresti un padre fantastico. Ma sai benissimo anche tu che per adottare Hanae, noi… -.
 
Satoru annuì veloce. – Lo so. Perché non lo facciamo? Sul serio, questa volta -. Aveva la serietà incastonata negli occhi e abbagliava a ogni battito di ciglia. - Vuoi sposarmi, Ayame? -. Aveva fatto così tanti torti all’orgoglio tenace di un tempo da dimenticare cosa si provasse a infrangerlo e innamorarsi era uno di questi.
 
Il viso di lei si contrasse in una smorfia che presagiva un pianto imminente. Con il pensiero di doversi fondere con Tengen aveva messo da parte il grande sogno di sposarsi. E poi ancora, una seconda volta, quando la vita le aveva concesso un’altra occasione ma al caro prezzo di vivere come un fantasma per il resto dei suoi giorni. E una terza, quando Suguru le aveva confessato che il mondo a cui aspirava veniva prima di qualsiasi altra cosa.
Nessuno le avrebbe restituito quel sogno adolescenziale, pensava; nessuno, tranne il principe della bugia di suo padre: Satoru.
 
- Sì -.




 
Vorrei scusarmi per il capitolo breve (e, penso, piuttosto insulso) ma ho pensato di tornare facendolo a piccoli passi. Non voglio dilungarmi e parlarvi di tutte le motivazioni che mi hanno tenuta lontana dal sito perché probabilmente non è ciò che conta in questo caso. Comunque, le ragioni non riguardano la scrittura o qualcosa legato ad essa o alla storia. 
Non posso ancora garantire un ritorno effettivo. Però ho notato che ci sono persone che si stanno ancora appassionando alla storia nonostante non venga aggiornata da diverso tempo e questo mi ha convinta a riaffacciarmi per dimostrarvi che vi sono grata. La storia sta ancora seguendo il progetto che ho in mente, pertanto non ci sono stati neppure dei grossi cambiamenti. La sola differenza è che avrei dovuto pubblicare un ultimo capitolo, più lungo, di Iris anzichè spezzarlo in due parti.
Mi ripeto, mi vergogno un po' per il capitolo breve e dai contenuti scarsi ma sto cercando di rimettermi al passo poco alla volta. Spero che questo non vi dispiaccia.
Detto questo, grazie a tutti coloro che ancora hanno a cuore questa storia. 
A presto.

 
   
 
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