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Autore: Yoko Hogawa    27/09/2009    5 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Thursday

Thursday

Parte 1

 

Abrahel

Human I want to be

 

 

 

Era stato così semplice… quasi come respirare.

Le anime degli umani, sia quelle bianche che quelle nere, erano così fragili che bastava anche solo la buona volontà per estirparle dal corpo come le erbacce da un campo.

Il regolamento degli Shinigami parlava chiaro, però. Un infinito controsenso di regole che mirava a rendere più grosso un libro per cui sarebbe bastata una sola pagina.

Anzi, una sola frase: non stravolgere l’ordinamento delle cose.

Quello era l’importante, il fulcro, il succo della cosa. Tutte le altre regole, come quella di non “strappare con le mani” l’anima di un umano a causa dell’immenso dolore che esso proverebbe, erano solo un contorno inutile.

In altre parole: potevano essere infrante, raggirate e scartate senza riguardi.

Ma lui, quella notte, era andato oltre.

Avrebbe potuto evitarlo. Poteva semplicemente stordirlo, o fargli perdere conoscenza. Poteva mandarlo a sbattere: aveva la forza per farlo - figurarsi - e l’altro non si sarebbe comunque ricordato cosa lo aveva incassato di venti centimetri in un muro.

Invece no. Lui aveva deliberatamente ignorato l’unica regola fondamentale che uno Shinigami non deve mai ignorare: quella dell’ordinamento naturale.

Aveva ucciso un uomo che non doveva morire.

E stava cominciando… a pagarne le conseguenze.

Non sapeva nemmeno come ci era arrivato a casa, dopo aver letteralmente divorato l’anima oscura di quel ragazzo. Per tutto il cammino si era sentito come febbricitante e la testa non smetteva un attimo di girare, facendogli perdere molte volte il senso dell’orientamento.

Aveva aperto il portone nel quadruplo del tempo necessario a causa del suo cuore, che prima batteva freneticamente e successivamente rallentava sempre più, fino a quasi fermarsi.

Una volta dentro, si era lasciato cadere a terra. Faticava ad alzarsi e, anzi, non ce la fece. Dovette gattonare, strisciare quasi, per arrivare almeno alla vetrata oltre il divano, sedendosi con la schiena appoggiata al vetro e lo sguardo alla porta.

Aveva la sensazione di avere i sudori freddi, ma la sua pelle era perfettamente liscia e asciutta. Si sentiva come se delle tenaglie gli stessero premendo la cassa toracica, ma non era vero.

Ansimava inutilmente come se avesse corso per chilometri quando aveva fatto si e no quattrocento metri, camminando lentamente e appoggiandosi ad ogni muro disponibile.

Sentiva fitte allo stomaco che diventavano sempre più pungenti e violente.

Erano sensazioni umane… quelle?

« Schifosi esseri… umani… » ansimò, tenendosi lo stomaco e piegando le ginocchia al petto più che poté.

Moltissime altre volte si era nutrito di anime oscure - alcune ancora più nere di quella del porco che aveva ucciso quella sera! - ma nessuna gli aveva mai causato questi sintomi.

Solitamente, la cosa si risolveva in un semplice e diffuso malumore che durava si e no qualche giorno.

Ma c’era da precisare… che di solito non si nutriva di tutta l’anima. Solo dell’energia vitale, dato che lo spirito vero e proprio lo accompagnava nell’aldilà.

Invece questa volta aveva ingoiato tutto. Aveva fatto sparire tutto.

E provava una certa soddisfazione.

« Nh! Cazzo! » si lasciò sfuggire ad una fitta più forte delle altre, che gli fece mancare il battito cardiaco per qualche istante. Socchiuse gli occhi e, con sua sgradita sorpresa, gli cadde lo sguardo sulle mani e i polsi: la pelle si stava riempiendo di macchie nere e sentiva le dita tremendamente intirizzite, come se il sangue non arrivasse più fin lì.

Era quello il limite dei corpi umani, dunque? Era quello il dolore che si provava quando si stava male, per malattie o ferite?

Erano veramente così deboli, vulnerabili? Come facevano ad affrontare una natura così spietata con un corpo che sembrava fatto di vetro, da quanto era fragile?

Non riusciva nemmeno a sopportare un’anima nera… o forse non era per quello?

Magari era proprio perché aveva rotto l’ordinamento naturale delle cose…

…non gli importava. Per quanto poteva sforzarsi di far credere a se stesso di aver agito per se stesso, in realtà non era vero.

Se avesse agito per se stesso, avrebbe sterminato l’intera razza umana. Se avesse agito per se stesso, avrebbe lasciato perdere e sarebbe tornato all’interno della sua cappa di silenziosa e solitaria oscurità.

Aveva agito per Eric. Aveva fatto tutto per salvare Eric. Per salvare la persona che avrebbe dovuto uccidere.

Mai, nella sua esistenza, si era lasciato prendere dalle emozioni umane. Mai ne aveva provate di così forti.

Era stata… rabbia? Gelosia? Possessività?

Forse tutte, o forse sbagliava.

Non lo sapeva.

Di suo, sapeva solo che faceva tremendamente male. Tutto faceva male.

Sia le emozioni che quel dolore sgradito che gli intorpidiva i muscoli e incrinava le ossa. Come se ci fosse una mano attorno all’ulna e stesse stringendo e attorcigliando l’avambraccio per rompergliela nel peggior modo possibile.

E aumentava, saliva di intensità senza fermarsi.

Strinse i denti ma non urlò. Peccava d’orgoglio, forse, ora che lo aveva scoperto.

« Stupidi… maledetti… esseri umani! »

« Non sono loro, purtroppo, il maggiore esempio di stupidità in questo mondo » esordì una voce da una parte indistinta dell’appartamento, come se fosse l’aria stessa a parlare: « in questa stanza ce n’è uno di gran lunga più grande, e giuro che non sono io » completò, ironico nonostante la voce risuonasse per lo più piatta.

La riconobbe solo quando, osservando di fronte a se, vide gli strascichi di un kimono nero punteggiato di gigli ragno* scarlatti come sangue.

Non dovette alzare oltre lo sguardo per riconoscere Enma.

Rise. Con tutta la macabra ironia che poté inserire nella sua risata.

« Quale onore, il capo… degli Shinigami in carne e… ossa » ansimò, sciogliendo la posizione a allungando le gambe sul pavimento. Anche la piccola porzione di caviglia che si intravedeva dai pantaloni sembrava livida, e non faticava a credere che tutti i suoi arti si stessero riempiendo di macchie nere.

Sembrava…

« Più in spirito che altro » lo corresse Enma, scostandosi dal volto pallido una lunga ciocca di capelli corvini: « ti stai decomponendo, hai notato? » osservò con semplicità, posando di malagrazia il piede sulla caviglia destra di Abrahel.

Sentì una scossa di dolore attraversargli il corpo come aghi, ma non gli sfuggì dalle labbra altro che un piccolo gemito. Ridacchiò nuovamente, ignorando il sapore ferroso in bocca del sangue proveniente dal labbro che si era appena morso: « ho visto… » rispose con tranquillità, ostentando un controllo che faticava a mantenere.

Enma sbuffò, tremendamente annoiato. « A volte mi chiedo cosa dovrei farci con te, Abrahel » cominciò, premendo volontariamente più forte il piede sulla caviglia dell’altro.

Lo Shinigami resistette stoicamente.

« Scommetto che stai cominciando a chiederti per quale motivo riesci a provare sensazioni umane » continuò Enma: « sai, è normale. Tu fai sempre come ti pare, e io per non giocarmi i tuoi servigi molte volte lascio correre... non è mica facile trovare qualcuno che raccolga le anime impure al giorno d’oggi » divagò, perso in un filo logico che sembrava conoscere solo lui.

« Si può sapere cosa c’entra? » domandò bruscamente Abrahel, ma fu obbligato molto presto a pentirsi del suo tono: il piede di Enma si fece più pesante sulla sua caviglia, provocandogli altro dolore.

« Non usare quel tono con me » lo riprese quasi bonariamente, esprimendo con la voce tutto l’opposto di ciò che mostrava a gesti. « Te lo spiego subito cosa c’entra. Mentre tu giochi a fare il disperato dall’esistenza, passando secoli in quel tuo buco nero e solitario, gli altri Shinigami lavorano; e sono sicuro che il verbo “lavorare” non ti suona nuovo nonostante la tua incostanza professionale » spiegò, a metà fra l’accusatorio e l’ironico: « il fatto sta tutto qui: quando io ti mando sul mondo degli umani per un incarico, tu non segui mai le regole. Non passi con la persona designata la settimana prevista, come fanno tutti gli altri, così che ti capita di rimanere influenzato dagli umani quando ci passi troppo tempo insieme. E’ come se tu fossi l’unico ad esserti beccato il raffreddore perché i tuoi colleghi hanno gli anticorpi! » spiegò, la voce contenta di chi non vedeva l’ora di svelare quel piccolo mistero.

Abrahel non ribatté nulla.

Ora capiva l’utilità di tutte quelle regole senza senso che gli dei della morte si erano auto-imposti. Capiva cosa si nascondeva dietro la settimana di tempo, la necessità di conoscere le proprie vittime, il bisogno di stare sul Mediano più tempo del necessario.

Serviva per essere neutrali.

Dopo anni in cui si accompagnano anime di persone conosciute nell’aldilà si comincia a capire che è inutile, affezionarsi. Si comincia a perdere interesse nelle proprie vittime.

Si guadagna indifferenza e, con essa, la neutralità perfetta.

Lui non era preparato. Si era sempre rifiutato di seguire quelle regole reputate inutili più d’una volta, non aveva mai lasciato trascorrere una settimana. Aveva disprezzato talmente tanto gli esseri umani da non voler nemmeno prendere in considerazione di passare con uno di loro più del tempo necessario e, appoggiato dal silenzioso assenso di Enma, non aveva mai prestato attenzione alla verità che si celava dietro quelle leggi di convivenza fra Shinigami e umani.

E, come risultato di tutto ciò, per capriccio – per rabbia – era arrivato ad infrangere le leggi di natura, uccidendo qualcuno che non doveva morire per salvare colui che avrebbe comunque dovuto uccidere.

Si sentiva uno sciocco di dimensioni bibliche.

Non guardò Enma in volto, ma fu sicuro che un sorrisetto beffardo giacesse su quel viso dai lineamenti perfetti, mentre lo osservava dall’alto in basso.

« Il tuo silenzio è una risposta soddisfacente » osservò, alzando la mano sinistra per puntarla in sua direzione: « e ora, se permetti, devo riprendermi un’anima ».

Non fu totalmente sicuro di ciò che sentì, ma un brivido gelido gli immobilizzò il corpo all’improvviso. Enma stava usando i suoi poteri – poteva sentire sulla pelle quell’aura potente e temibile – e seguendo i movimenti della sua mano la sua energia spirituale prendeva forma, seppur invisibile, chiudendosi intorno al suo collo come un cappio.

Gli mancò presto il respiro, quando la stretta si fece più violenta, e pian piano si sentì sollevare per il collo fino a che non si ritrovò prima in piedi, poi sollevato da terra.

Non poteva di certo morire, ma la sensazione di soffocamento era fastidiosa. Così come non poteva perire sotto le fitte di dolore che gli scivolavano su tutto il corpo, ma percepiva quel male fisico fin troppo bene.

Era quella la sensazione più fastidiosa degli esseri umani? Era quello ciò che sentivano quando si ferivano, o venivano feriti?

Pensavano di morire, sotto l’effetto di quel dolore?

Gli sfuggì una smorfia che poteva essere interpretata come un sorrisetto sarcastico.

Per lui, pensare alla morte era l’apoteosi del paradosso.

« Cosa c’è di così divertente? » domandò Enma, trattenendolo sollevato in aria senza apparente difficoltà.

« Proprio niente... » rispose Abrahel con un filo di voce, sprecando in quelle due parole il poco fiato che aveva trattenuto. Nuove ondate di dolore proruppero dai suoi muscoli, tirati come se si dovessero spezzare da un momento all’altro.

« Bene, appunto » sorrise il demone: « perché io ho da fare. Non posso lasciare che tu assimili un’anima non destinata alla morte, anche se penso che ormai quel poveretto non potrà più essere riportato alla vita... sarebbe di certo strano, anche se ilare, se si sollevasse dal tavolino dell’obitorio sul quale i suoi genitori stanno piangendo » gongolò, per poi aggiungere: « se la vedranno nell’aldilà con la sua anima. Ma dato che tu te la sei ingoiata con tanto affetto, e hai fatto confusione come un fenomeno da baraccone... ho deciso di farti provare quello che ha sentito quel ragazzo alcuni istanti prima della sua morte! » esclamò.

Joshua non ebbe nemmeno il tempo di decifrare tutto il suo discorso, che si trovò la mano di Enma completamente inserita nel petto. Rimase qualche istante a guardarla prima che sentisse la reazione del suo corpo: un dolore sordo che con le fitte sentite fino a quel momento non aveva niente a che fare. Sembravano carezze, anzi.

Non urlò, però. Non si concesse la vergogna di reagire come un comune umano.

Lui era un dio della morte. E se quella era la punizione per avere infranto l’ordine naturale, l’avrebbe affrontata a testa alta.

Enma sogghignò. « Testardo come sempre... » sussurrò divertito.

Abrahel sostenne lo sguardo, ma dovette mordersi le labbra per non gridare quando la mano all’interno del suo petto cominciò a muoversi, alla ricerca dell’anima oscura di quel ragazzo biondo.

E lo faceva apposta, Enma, a non estrarla subito. Lo faceva apposta e si vedeva dagli occhi.

« Ah! Trovata! » gongolò dopo qualche istante, in cui il dolore per Joshua era diventato così forte da fargli fischiare le orecchie.

La estrasse con un colpo secco, ma quando essa abbandonò il suo corpo gli sembrò che non il cuore, ma qualcosa di più profondo gli fosse stato strappato via. Come se Enma avesse attraversato le vertebre della spina dorsale, afferrato i fasci di nervi nel midollo spinale e tirato con forza fino a strapparli, facendoli passare dalla cassa toracica.

Questa volta dovette urlare. Ed Enma non poté esserne più che soddisfatto.

« Male, eh? » sfotté: « e pensa che non è nemmeno la tua anima... ovviamente, dato che quelli come noi non ne sono provvisti. Se fosse stata tua sarebbe stato anche peggio » spiegò, rimirando il cristallo corvino mezzo rotto che si era ritrovato in mano.

Lo lasciò andare e lui cadde a terra, rimanendo riverso sulla moquette. Riprese a respirare, ansimando, senza però trovare la forza di alzarsi, o di mettersi anche solo seduto.

« Ti riprenderai in un paio d’ore. Ma tu guarda com’è messa quest’anima, porca miseria... » disse.

Si immaginava il suo sguardo ilare che lo fissava dall’alto della sua potenza, compiaciuto della vista di lui a terra, inerme.

Non che comunque avrebbe avuto molte possibilità, contro Enma.

« Voglio che finisci il lavoro, capito? » riprese dopo qualche istante di silenzio: « porta quell’anima nell’aldilà e vedremo di chiudere un occhio sul tuo errore di questa notte. Tanto passerai come minimo altri due secoli a compiangerti cercando di cancellarti, dunque non credo che ti tocchi molto da vicino questa faccenda » disse, incamminandosi a piccoli passi verso un punto imprecisato della stanza.

Non lo seguì con lo sguardo, ma parlò.

« Non voglio più avere niente a che fare con Eric Everald » pronunciò, deciso nonostante il dolore al petto non fosse ancora passato, anzi.

Enma si fermò. I tonfi sordi dei suoi passi sulla moquette cessarono di colpo.

« A quanto pare non hai sentito quello che ti ho detto ».

« Ho sentito » confermò però Abrahel: « e io ti rispondo che non voglio più avere niente a che farci. Manda un altro Shinigami, io ho chiuso » decise.

Era meglio così. Se per quell’essere umano era arrivato persino ad uccidere qualcuno il cui tempo non era ancora scaduto, era meglio così.

Per lui Eric non era nessuno! Nessuno di così essenziale da andare contro ogni legge e sputare in faccia al destino. Se nel fato era scritto che dovesse venire stuprato, allora sarebbe dovuto accadere. Lui – loro, gli Shinigami – erano al di fuori degli schemi del destino, per quello amministravano la morte!

Non avrebbe dovuto salvarlo. Non avrebbe dovuto uccidere nessuno per lui.

Eric Everald non era niente, per lui.

Ma suonava tanto come un’auto-convincimento bello e buono.

Il demone fece qualche passo indietro, piegandosi sulle gambe per essere più vicino al suo volto, ancora attaccato al pavimento.

« Parlerò chiaramente, Abrahel » premise, il tono tranquillo e rilassato di chi parla del tempo, o di una nuova notizia sul giornale: « non me ne frega niente se provi qualcosa per quell’essere umano, sai? Anzi, sono convinto che un altro po’ di tuo tormento interiore mi ripagherà per il casino che hai combinato nei piani del Destino con la tua improvvisa bravata. Nessuno prima di te si era approfittato così tanto della sua astensione dalle leggi del Fato, e ancora spero vivamente che questo non comporti guai in merito. Premesso ciò... » una piccola pausa, un sospiro non troppo rassegnato: « stai incollato a quell’anima fino a venerdì notte, portala nell’aldilà e non provare nemmeno a disobbedire al mio ordine, chiaro? Altrimenti giuro che troverò il modo di consumare la tua inutile eternità in uno degli ultimi gironi dell’Inferno » concluse.

Si alzò di nuovo per poi sparire nel silenzio.

Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi.

 

 

Le ore non furono due, ma quattro. Erano ormai le cinque del mattino quando riuscì a sentire le gambe come nuovamente parte del suo corpo; il sole all’esterno stava per sorgere e un lieve chiarore dorato illuminava fievolmente la stanza.

A fatica si sollevò da terra, aiutandosi con le braccia per mettersi nuovamente in piedi. I dolori erano spariti del tutto, così come i lividi su braccia e gambe, ma di essi rimaneva il ricordo.

Aveva scoperto non potersi nutrire di anime intere. Probabilmente, l’anima di un essere umano in un corpo sprovvisto di essa ma completamente diverso da quello di partenza non era compatibile.

Come un parassita, l’anima estranea divorava la forza vitale del corpo che la ospitava. E nonostante lui fosse uno Shinigami, la cosa non faceva differenza.

Non si fidò di se stesso nel muovere un passo verso il tavolo, ma il corpo resse perfettamente; era finalmente tornato tutto alla normalità.

Si sedette, non sapendo cos’altro fare. In realtà avrebbe dovuto uscire e cercare Eric... ma disse a se stesso di non muovere un solo passo se in mente aveva quell’obiettivo.

Sì, avrebbe concluso il suo lavoro. Ma questo non voleva dire che dovesse ancora seguire i movimenti di Everald passo dopo passo.

Si sarebbe limitato a stargli lontano, presentandosi da lui a tempo debito. Mancavano ancora due giorni, se si prendeva in considerazione che il giovedì era cominciato da appena cinque ore, dunque non avrebbe dovuto sopportare per molto quel maledettissimo soggiorno sul Mediano.

Ne aveva abbastanza dei sentimenti.

Fu però in quel momento che, spezzando il silenzio del primo mattino, due colpi secchi alla porta lo bloccarono completamente.

Osservò l’ingresso senza rispondere, poiché non era difficile passare in rassegna chi fosse alla porta.

Non conosceva nessun altro che sarebbe venuto a bussare a quell’ora del mattino. Anzi, si poteva dire che non conoscesse nessun altro e basta.

« Joshua? » sentì, e il suo nome pronunciato da quella voce fu sufficiente.

Si alzò, raggiungendo la porta in pochi passi; afferrò la maniglia con decisione, aprendo quel tanto che bastava a poter vedere chi vi fosse dall’altra parte.

Occhi e capelli castani, viso pulito, espressione di chi ha passato l’ennesima notte in bianco. Eric Everald, ovviamente.

La realizzazione dell’unica eventualità che sembrava così assurda da non poter essere presa nemmeno in considerazione.

« Quale stupido correrebbe dritto per dritto nella tana del lupo, se non tu? » considerò ad alta voce, lasciando la porta aperta e tornando sui suoi passi. Gli sembrava totalmente inutile, ora, essere ospitale e cortese; così come non aveva senso correre a mettersi le lenti a contatto per coprire le iridi bianche.

Sentì Eric entrare e poi chiudersi la porta alle spalle. Tuttavia, mentre Joshua si risiedeva sulla sedia precedentemente occupata, l’altro non si sostò dalla soglia.

Lo guardava fisso, aggrottando le sopracciglia come se stesse trattenendo il respiro dal momento in cui aveva messo piede dentro quella casa.

E Joshua cominciava veramente a spazientirsi. « Cosa sei venuto a fare? » domandò rude, puntandogli addosso gli occhi candidi senza nemmeno provare a trattenere la seccatura che sentiva.

Quarantotto ore e sarebbe tutto finito. Doveva solo resistere e non concludere il lavoro prima.

Sempre che ci fosse riuscito, ovviamente.

Scosse appena il capo, come per cancellare quel pensiero sfuggito al suo precario controllo. « Allora? » incalzò.

Eric deglutì, cercando forse il coraggio di spiccicare finalmente parola.

Aveva una guancia molto arrossata, osservò.

« Quello che hai fatto... » cominciò poi l’altro, rimanendo di schiena alla porta ma trovando la forza di guardarlo fisso negli occhi: « ...tu l’hai... cioè, lui è... »

« Morto » concluse lui con naturalezza: « Sì, lo è » precisò.

Lo vide sobbalzare appena, ma la sua decisione sembrò non vacillare di molto. Probabilmente si era preparato bene, prima di presentarsi da lui. « E quello che hai preso... era... »

« L’anima » concluse lui ancora una volta, pacatamente.

Gli sembrava inutile fingere, ormai. Sia per una questione di tempo sia per credibilità.

Lo aveva visto fare quello che aveva fatto, e lo stesso Eric doveva aver considerato di non esserselo immaginato, altrimenti non si sarebbe presentato da lui con il dubbio di fare la figura del deficiente.

Eric credeva in se stesso... dunque perché non poteva crederci anche lui?

Il castano deglutì, scostando lo sguardo sul pavimento. « Tu cosa... sei? » chiese poi.

« Dovresti esserci arrivato da solo » intervenne però Abrahel: « coraggio, prova ad ipotizzare » lo sfidò, in bocca il sapore dell’ilarità.

Eric era evidentemente in difficoltà, ma si vedeva che aveva capito qualcosa. Però non scappava, non fuggiva lontano da quella casa.

Perché?

« Sei una specie di dio... della morte » rispose il castano con voce incerta, ma tuttavia decisa.

Joshua spense il suo sorriso in una smorfia, annuendo con il capo. « In oriente ci chiamano Shinigami » rivelò, osservandolo attentamente per tutto il seguito della rivelazione: « fra noi usiamo spesso questo appellativo » concluse brevemente, senza distogliere gli occhi dal volto basso di Eric.

Non sapeva cosa si celava al di là del suo sguardo, puntato testardamente verso il basso a fissare il pavimento. Sperava paura, in cuor suo, ma qualcosa gli diceva che Eric non era quel tipo di persona che si lasciava spaventare due volte dalla stessa cosa.

Come se fosse qualcuno che si scottava e si ricordava l’accaduto non per evitare la prossima ustione, ma per evitare di urlare quando avrebbe risentito quel dolore.

Fu quando il castano sollevò lo sguardo, guardandolo dritto negli occhi, che Joshua si convinse di aver visto giusto.

« Non mi interessa » pronunciò e, per qualche assurdo motivo, ad Abrahel venne da ridere.

Sorrise, in effetti, accomodandosi meglio sulla sedia nonostante fosse di per sé abbastanza scomoda. « Non ti interessa... » sussurrò a se stesso: « dovresti pensare più volte a ciò che dici » intervenne, nascondendo l’irritazione in quel ghigno icredulo.

« Ci ho pensato bene » intervenne subito Eric.

« Certo, certo... »

« Non darmi il contentino! » sbottò poi, battendo rumorosamente un pugno contro la porta. Il gesto fece in modo che Joshua tornasse a guardarlo, questa volta però senza sorridere.

Lo squadrò letteralmente.

« Dici di aver capito, vediamo allora se hai capito » lo sfidò, alzandosi in piedi senza però avvicinarsi: « sono un dio della morte nel mondo degli umani; secondo te cosa ci sono venuto a fare? » domandò, ancora sulle labbra quell’aria di sfida che non riusciva a scrollarsi di dosso.

Odiava le persone che usavano il verbo “capire” con troppa leggerezza. Nessuno capiva mai veramente. Mai.

Eric affrontò i suoi occhi per qualche istante, ma poi fu costretto a rimirare di nuovo i listelli del parquet. « Lo so... » aggiunse poi, sussurrando come se stesse rivelando un segreto: « è per... me? » chiese poi, ma aveva tutto il sapore di una domanda retorica.

Abrahel non ribatté subito. « Se l’hai capito cosa ci fai qui? » domandò di nuovo, talmente incredulo da essere quasi arrabbiato.

Non poteva essere veramente così stupido da buttarsi nell’agguato del lupo di sua spontanea volontà.

Non poteva essere così... disperato.

L’altro temporeggiò, evitando una risposta per più tempo poté. Trovò la forza di rispondere solamente dopo qualche istante di silenzio, in cui Abrahel si era quasi deciso a chiudere il discorso e a chiedergli di uscire.

« Ho solo te » uscì dalle labbra di Eric, e Joshua sperò vivamente di aver sentito male.

« Prego? » se ne uscì, sarcasticamente incredulo.

« Hai sentito! » esclamò l’altro risentito: « smettila di trattarmi come se fossi un povero pazzo! »

« Tu sei pazzo Everald, è quella la differenza! » sbottò lo shinigami a sua volta, alzando la voce per la prima volta in non ricordava nemmeno quanti secoli. O forse non l’aveva mai fatto, semplicemente.

« No invece! » si difese Eric, a corto di argomenti con cui ribattere.

E Joshua lo notò. Non sapeva nemmeno lui di preciso per quale motivo si era presentato a casa sua, lo si vedeva dagli occhi.

Sospirò. Maledetto Enma e i suoi incarichi con le anime pure!

Sentì i suoi nervi calmarsi, e provò al contempo una poco famigliare sensazione di insoddisfazione. Non fu lui però, questa volta, a riprendere parola.

« Senti... » cominciò Eric, facendosi avanti di un passo. La luce del sole si era rafforzata, ed era abbastanza potente da illuminare bene il suo volto.

Sembrava stravolto; probabilmente lo era. E aveva visto bene in precedenza, una guancia era arrossata.

« Io non so perché sono qui, va bene? So solo che mio padre mi ritiene uno scarto della natura e non mi è venuto in mente nessun altro posto dove poter andare. Sono ore che vago ad Heaven’s Park rimuginando su ciò che ti ho visto fare, ma nonostante io sappia che dovrei dipingerti come un mostro portatore di morte, io... non ci riesco » spiegò velocemente, la decisione negli occhi che a tratti si trasformava in dubbio: « non so più... dove sbattere la testa, ok? Dovrei scappare? Non vedo il perché. Se il tuo obiettivo è uccidermi... – un tremito nella voce lo tradì - ...lo farai comunque, no? Anche se fuggo. Io non voglio andarmene, perché nonostante tutto non... ti sento come un pericolo » terminò, calando il volume della voce man mano che la frase andava finendo.

Abrahel non seppe come o cosa rispondere. Poteva affermare che Eric Everald era di gran lunga la creatura più strana che avesse mai incrociato lungo il proprio cammino, e che qualcosa in quel ragazzo decisamente non funzionava a dovere: l’istinto gli diceva “vai, diventagli amico” anche quando, svelata la sua natura e il suo scopo, avrebbe dovuto urlargli “scappa il più lontano possibile e vedi di non farti trovare nemmeno dalle formiche”.

Era sbalordito, stupito ma, in percentuale minore, persino... sollevato.

Forse contento di quella novità.

Si rese conto di non riuscire a tollerare il pensiero di fargli del male nell’esatto momento in cui abbandonò inconsciamente il suo sguardo burbero, avvicinandoglisi.

Inizialmente gli si fermò semplicemente di fronte, come se dovesse avvicinare un animale impaurito.

Eric non si mosse, nonostante non si perdesse nessun suo movimento.

Poi sollevò il braccio sinistro, portando con una lentezza spropositata la mano a sfiorare la guancia lesa del castano.

Sobbalzò appena al tocco, ma ancora non si spostò.

Abrahel si lasciò sfuggire un lieve sorriso. « E’ stato lui? » domandò poi, sfiorando la pelle con il dorso delle dita.

Sentì Eric sospirare, per poi appoggiarsi con il viso alla mano: « sì » disse solo, non avendo forse nient’altro da aggiungere.

Fu il castano a fare la mossa successiva. La tensione fra loro sembrava essere d’un tratto sparita, ed Abrahel capì improvvisamente quanto forte poteva essere il significato di un gesto a dispetto delle parole.

Eric coprì la distanza che li separava con un passo, appoggiando la fronte sulla sua spalla e le mani sulla sua schiena.

Un abbraccio che teoricamente non aveva niente di particolare, ma che riuscì a lasciare perplesso Joshua per un po’; finché il suo corpo non rispose al posto del suo cervello, per lo meno, ricambiando il gesto.

« Grazie » mormorò Eric: « mi hai salvato la vita... anche se non so quanto mi è convenuto » ironizzò, o cercò di farlo.

« Già » ribatté Abrahel: « forse avrei dovuto lasciar correre. Ma non potevo, non ce l’ho fatta » spiegò a voce bassa, limitandosi ad appoggiare la guancia sul capo di Eric, che di spostarsi non aveva la minima intenzione.

Ci vollero alcuni secondi prima che Eric esponesse la domanda successiva, quasi sicuramente serviti per elaborarla e accettarla come reale: « quanto tempo mi rimane? » domandò, e questa volta la voce non tremò.

« Una settimana dalla prima volta che ci siamo incontrati » rispose automaticamente Joshua.

« Sabato... » sussurrò il castano, aumentando di un poco la stretta.

« Venerdì a mezzanotte... » corresse lui, sussurrando a sua volta, come se temesse quelle parole. Come se fossero state lame acuminate puntate contro l’anima di Eric, fatta di puro cristallo bianco. Come se avessero potuto scheggiarla, o romperla, o scurirla.

Ancora attimi di silenzio, ancora una domanda: « farà male? » domandò, e Joshua considerò un bene che il castano non lo stesse guardando direttamente.

Aveva appena scoperto di avere degli scrupoli, e non erano mai i compagni ideali di un dio della morte.

« No » disse infine: « a dire il vero è abbastanza ironico, è come un bacio » disse, portando distrattamente la mano destra a carezzare i capelli sulla nuca dell’altro.

« Il bacio della morte... poetico » ci scherzò sopra Eric, cercando con tutto se stesso di sembrare convincente... anche se non ci riuscì. Un leggero tremore delle spalle rivelò la sua paura, normale e dovuta dato l’argomento trattato.

Non rispose. Non si sentiva in diritto di commentare o di aggiungere qualcosa; non desiderava cercare di consolarlo se per sbaglio poteva ferirlo con parole scelte male.

Dopotutto non era umano, nonostante cominciasse a sentirsi tale; ed era l’assassino, soprattutto.

Dovette però interrompere quel silenzio, così come l’abbraccio; con delicatezza lo afferrò per le spalle, spostandolo da sé il tanto necessario per poterlo guardare negli occhi. Fu irrimediabilmente contento quando non mostrò insicurezze, alla vista dei suoi occhi anormali.

« Dovresti passare il tempo che ti rimane con qualcun altro » disse poi: « magari tentare di tornare dalla tua famiglia, di sistemare le cose... » ipotizzò, ma Eric scosse il capo.

« Non metterò piede in quella casa se non sarà strettamente necessario » affermò con decisione.

« Senza offesa per la franchezza, ma stai per morire, mi sembra che sia strettamente necessario » ribatté.

« Decido io se è o meno strettamente necessario » rispose l’altro: « è adesso non lo è. La mia priorità è passare del tempo in un posto in cui posso stare tranquillo e a mio agio, e che tu ci creda o meno, è questo » aggiunse, osservandolo con occhi che non ammettevano repliche di nessun genere.

Si trattenne dallo sorridere di nuovo, nonostante quelle sue affermazioni gli facessero effettivamente piacere. Ancora si sorprendeva di come riuscisse a considerarsi un pericolo e, al contempo, ad essere lusingato delle parole che Eric gli rivolgeva.

Guardandolo, sfiorandolo... pareva sentire, da qualche parte dentro di sé, l’affetto che aveva disperatamente tentato di zittire. Per la prima volta si lasciò andare, dando via libera ai sentimenti che sembravano averlo invaso, passati dal castano a lui come i virus di una malattia infettiva.

E considerò che essere simili agli umani non era così... malvagio. Che loro non erano quei mostri che per millenni aveva dipinto nella propria mente e nei propri pensieri, esternati spesso con parole tutto fuorché benevole.

Scostò con lentezza la mano dalla spalla alla gota dell’altro, sfiorando la pelle del viso come se fosse la prima volta, o come se stesse seguendo i lineamenti di una scultura di valore. Passò con le dita sulla gota, poi sulle labbra, dove si soffermò per un attimo, osservandole.

Eric sorrise lievemente. « Vorresti baciarmi? » buttò lì con ironia, senza però scostarsi dal tocco di Joshua.

« Ti ucciderei, non posso » rispose sinceramente, senza riflettere; era troppo concentrato su quelle labbra per fare attenzione a ciò che diceva.

« Non hai detto che non vuoi, però... » notò furbamente l’altro, sogghignando.

Finalmente, gli occhi bianchi di Joshua tornarono su quelli castani di Eric. « Ciò che voglio e che posso fare di solito difficilmente combacia » osservò seriamente; non sapeva con esattezza come gli fosse arrivato così vicino da notare la lieve sfumatura azzurra che avevano le sue iridi alla luce del sole, ormai quasi completamente sorto, ma al momento sembrava non interessargli troppo.

Occhi che si socchiusero, mentre il volto si allungava in direzione del suo, ormai fin troppo vicino: « non ci sono solo le labbra a disposizione... » alluse Eric in un sussurro smodatamente voglioso.

Un ghignò si disegnò sulle labbra sottili di Joshua, rapito dal castano come se al mondo non esistesse altro di più prezioso: « è come assaggiare una torta senza poter mangiare la ciliegina » osservò, scherzoso e malizioso al contempo.

Qualcosa, nel più profondo di lui, si stava agitando. Sentiva il bisogno di baciare quelle labbra, nonostante fosse consapevole di non poterlo fare, e di continuare assaggiando il sapore della sua pelle e del suo corpo. Attrazione, forse desiderio; di quelli malati che mettono la ragione al chiodo e denudano l’istinto.

Un istinto troppo giovane il lui, neonato si potrebbe dire, e dunque talmente imponente da lasciarlo completamente in propria balia, escludendo la razionalità da ogni sua conseguente azione.

Se si sarebbe o meno pentito, se fosse stato giusto o meno, se avrebbe o no incontrato dei guai dopo... non sapeva dirlo, o considerarlo.

Tutto ciò che vedeva era Eric Everald.

« Potrei prenderti in parola, fa attenzione » ironizzò, scostando con le dita i capelli dal suo collo, accorgendosi improvvisamente di quanto sembrasse delicato nonostante i tanti anni di sport.

« Secondo te perché sono ancora qui? » domandò retorico il ragazzo, portando la propria mano a toccare la guancia dello shinigami, che non si mosse.

« Perché sei un masochista » fu la risposta schietta.

Eric ridacchiò, sinceramente divertito: « forse » disse: « prendilo come l’ultimo desiderio, ad un condannato si concede sempre » aggiunse poi.

« Hai desideri particolari, per un condannato » mormorò Joshua, chinandosi a baciargli il collo al di sotto della mandibola, scendendo man mano che le mani risalivano sulla sua schiena, alla ricerca del metodo più breve per liberarsi della leggera camicia bianca.

Eric si lascò toccare, inclinando di lato il collo senza impedire a Joshua di poggiarci sopra le labbra.

« Non sono diversi da quelli di tutti gli umani... » riuscì a pronunciare prima di chiudere gli occhi, e lasciarsi andare.

 

Non ci volle molto perché arrivassero in camera, più in penombra rispetto al salotto a causa delle serrande ancora abbassate. Il letto era ancora sfatto dalla mattina precedente, ma non fu un problema per Joshua spingere Eric ad adagiarvisi sopra; la camicia ormai completamente sbottonata sotto di lui, disteso supino sulle lenzuola.

Rimase ad osservarlo per qualche istante, passando al contempo le dita della mano destra lungo tutto il torace e il ventre, fino alla cintura dei jeans ancora allacciati.

Non sentiva il bisogno di andare di fretta, così come il castano non pareva fargliene; lo guardava ad occhi socchiusi, trattenendo il respiro quando le dita passavano in punti più sensibili, lasciandogli fare ciò che preferiva.

Dal canto suo, lo shinigami era intento ad esplorare le reazioni dell’altro ai suoi tocchi, alle sue carezze e ai suoi baci. Voleva scoprire quali punti del suo corpo fossero più recettivi, così dedicava interi minuti a baciare e mordicchiare, utilizzando al contempo le dita per saggiare quelle zone in cui con le labbra non era ancora giunto.

Sembrava esasperante, ed Eric glielo disse ripetutamente fra un sospiro e l’altro. Ma nonostante le lamentele notò che il castano tratteneva sempre più spesso il respiro, stringeva le mani sul lenzuolo e mugugnava, chiudendo gli occhi. Sospinse il ventre verso le sue labbra quando ve le passò sopra, istintivamente forse, ma Joshua non poteva essere più soddisfatto di quelle reazioni silenziose.

Più volte Eric lo riprese a voce, dandogli del bastardo per il modo in cui lo stava torturando. Le sue risposte erano fatte solo di sorrisetti e risatine maliziose, che si spensero lentamente man mano che Joshua si concentrava solo sulla pelle di Eric, e quest’ultimo sostituiva le parole con sospiri e mugugni eccitati.

Sospiri che divennero gemiti, quando anche i jeans furono abbassati e accantonati insieme alla biancheria intima. Aumentavano regolarmente allo scorrere delle sue mani sulle gambe nude del castano, facendole rientrare in carezze languide ma decise e ferme, sensuali nella loro lentezza come poteva essere una danza fatta di sguardi e sfiorar di labbra.

Labbra che non persero tutto quel tempo impiegato ad esplorare la sua pelle, quando arrivarono al centro stesso dell’eccitazione del castano. Ed Eric, d’altro canto, non mancò di far sentire la sua voce e di inarcare appena la schiena, stringendo più forte il lenzuolo ormai del tutto stropicciato.

Joshua muoveva la lingua, le labbra, le mani. Cercava ogni dettaglio, ogni minimo accorgimento che potesse dare piacere ad Eric; scovava ogni suo punto debole, mettendolo a nudo e sfruttandolo infidamente, sentendosi soddisfatto di se stesso quando Eric rispondeva con un gemito un po’ più alto o una parolaccia borbottata.

Lo portò fin sull’orlo dell’eccitazione prima di abbandonarlo brevemente, con il solo proposito di sollevarsi e guardarlo.

Il volto arrossato faceva da strana cornice alle labbra socchiuse, ma di certo non era una visione negativa. Ansimante, Eric sembrava il ritratto del godimento, e i pugni spasmodicamente chiusi sul cotone delle lenzuola gli facevano capire che si stava trattenendo, probabilmente dal lasciarsi andare completamente all’ondata d’eccitazione che doveva attraversarlo in quel momento.

Eccitazione che provava anche lui... ma non solo.

Soddisfazione, emozione, malizia, gola, avarizia e uno smodato desiderio. Possessività, al pensiero di farlo suo in modo che non potesse essere di nessun altro. Arroganza ed egoismo associati a quello stesso pensiero.

Poteva trovare tanti termini per descrivere le sensazioni che provava, nessuna delle quali provata nella sua pienezza prima di quel momento.

Se era questo il significato, l’essenza dell’essere umano, allora era quell’essere umano che voleva essere.

Anche solo per una notte, anche solo per quel momento. Un’esistenza capace di provare emozioni come quelle, così forti e travolgenti da annebbiare la ragione e la logica della sua vera natura.

Un’esistenza capace di... amare.

Sorrise quando gli occhi castani di Eric si posarono sui suoi, piegando le labbra in un lieve quanto infinitamente dolce sorriso. Il suo primo vero.

Si chinò su di lui, facendosi più avanti con il bacino dopo aver sbottonato e tolto i pantaloni che ancora indossava intoccati.

Non sentiva il bisogno di chiedere consensi o ricevere assensi. I suoi occhi parlavano, dicevano tutto quello che a Joshua serviva sapere, e non c’era bisogno di inutili parole, ridondanti suoni in una stanza che era già satura di gemiti e sospiri e respiri interrotti.

Avvicinandosi al suo volto, portò la mano sinistra sopra quella dell’altro e la destra ad insinuarsi – quasi casualmente – fra le natiche del castano.

Le loro labbra rimasero a qualche centimetro di distanza per un tempo che parve fermo, per quanto poteva sembrare lungo, finché un dito di Abrahel non scivolò all’interno di Eric, che trattenne il fiato mordendosi il labbro inferiore.

Per la prima volta, provò l’insoddisfazione di non poterlo baciare. Di non poter intrecciare la lingua con la sua, danzare con essa, sfidarla ad un duello all’ultimo fiato.

Ma non poteva. L’avrebbe ucciso. Sentiva già l’odore dolce e fresco della sua anima candida scivolare fra quelle labbra sottili e arrossate, e lo stava letteralmente inebriando. E lui provava troppe emozioni, troppe, per sperare di potersi trattenere.

La prova che non era, e non sarebbe stato mai, abbastanza umano. Il dio della morte, la fame che era in lui, fremeva ad ogni respiro corto e veloce di Eric; così come faceva l’uomo in lui, che lo desiderava totalmente.

Diviso a metà fra un puro appagamento fisico, un bisogno spirituale rappresentato dal bacio che non sarebbe riuscito ad avere, è la morbosa mania di quella parte di lui che desiderava la sua anima.

Cancellò quei pensieri dalla mente nel momento in cui la mano di Eric sotto la sua si aprì, e sentì il castano intrecciare le proprie dita con le sue.

Lo guardò, ebano nel candido, scrutando quasi i suoi pensieri con occhi lucidi e socchiusi.

« Probabilmente farà male... » sussurrò lui, cercando di essere rassicurante nonostante smaniasse di farlo suo.

Si era lasciato completamente travolgere dalle emozioni.

« Fregatene » fu la risposta di Eric, sussurrata in un sospiro, poco prima che allacciasse le gambe alla sua vita e premesse con il bacino contro le sue dita, facendole entrare ancora di più.

Appoggiò le labbra al suo collo, percependo con esse il battito accelerato del cuore dell’altro, prima di sostituire se stesso alle dita, spingendosi finalmente dentro di lui.

 

 

 

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*i gigli ragno sono fiori appartenenti al genere dei lilium, rossi con petali molto sottili (simili a zampe di ragno, per l’appunto). Vengono chiamati anche “fiori della morte” per l’usanza orientale di posarli accanto alle tombe nei cimiteri.

 

Capitolo in due parti. Mi sono resa conto che era un po’ lungo (e che mi servivano entrambi i punti di vista...) così ho deciso di dividerlo.

Finalmente, nonostante la mia quasi totale incapacità di essere volgare quanto vorrei nello scriverle (XP), in questo capitolo c’è il motivo per cui quel “yaoi” appare fra gli avvisi ad inizio fanfic: presenza di lemon, signore e signori, anche se a scriverle mi sento un’incapace.

Qualcuno dirà che era anche ora, magari.

Ma bando alle ciance e passiamo alle risposte alle recensioni, che è meglio.

 

Gioielle: che bella la recensione papiro <3 è un piacere degli occhi e del cuore leggerle.

Oooooh, vedo che ti ho attaccato Looking Glass! Bene bene *annuisce* e di nuovo, scusa per l’orario indecente in cui hai letto (anche se, a quanto ho capito, è stato tutto a tua discrezione).

Per andare con ordine: come faccio a renderlo reale? …perché, lo è? O___o Io non lo so; mi impegno solo a fare una cosa credibile, punto. Sarà perché sto più attenta alla grammatica che al resto, oppure perché sulle cose che scrivo di mio pugno ci sento il pathos di un comodino… però se me lo dici tu mi fido XD dunque grazie, mi fa piacere.

Sì, non sei l’unica che mi ha detto che tende ad osservare molto i comportamenti di Joshua tramite Eric. Sarà forse perché è uno shinigami e ci si aspetta che faccia cose diverse dagli umani? In effetti ha un senso. Comunque sono sollevata nel sapere che Joshua/Abrahel piaccia, solitamente personaggi con incipit negativo fanno un brutto effetto.

Tralasciamo la parentesi Trent Everald. E’ un classico cliché degli scontri padre-figlio, ma sto cominciando a detestarlo io che l’ho creato, quindi figurati =____=

Per concludere, ti ringrazio molto della recensione <3 spero che questo capitolo *indica in alto* non sia stata una delusione ^^’’

 

angel15: Un capitolo drammatico? E pensa che andrà anche peggio! XD No dai, non tanto… solo un po’. Alex sì, vorrei picchiarlo anche io *annuisce* però verso la fine dovrebbe migliorare un po’ il loro rapporto, se non cambio (di nuovo) l’idea base.

Purtroppo, Trent è un cliché. Proprio perché nella realtà esistono certe situazioni mi spiace averla inserita, ma ormai non posso modificare il loro rapporto.

Anche a te grazie mille per la recensione, sono felice che la fic ti piaccia ^___^

 

dea73: Marcus ha una parte molto marginale, ma comparirà ancora una volta (forse, non lo so nemmeno io °___°). E Alex… sì, forse è da odiare, ma per quanto ci provo non ci riesco. Mi fa solo pena, è l’anima della persona stupida ma non è malvagio dentro. Grazie mille anche a te per la recensione e per la dedizione alla lettura XD spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto.

 

Lirith: noi due ci siamo dette il mondo per e-mail, ma mi sembrava giusto aggiungerti anche qui XD Grazie per tutte le mail e per avermi recensito la fic <3

 

Shichan: stessa cosa, le nostre elucubrazioni in separata sede sono sufficienti U___u finalmente la lemon, visto? XD

   
 
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