Thursday
Parte 1
Abrahel
Human I want
to be
Era stato così semplice… quasi
come respirare.
Le anime degli umani, sia
quelle bianche che quelle nere, erano così fragili che bastava anche solo la
buona volontà per estirparle dal corpo come le erbacce da un campo.
Il regolamento degli Shinigami parlava chiaro, però. Un infinito controsenso di
regole che mirava a rendere più grosso un libro per cui
sarebbe bastata una sola pagina.
Anzi, una sola frase: non stravolgere l’ordinamento delle cose.
Quello era l’importante, il
fulcro, il succo della cosa. Tutte le altre regole, come quella di non
“strappare con le mani” l’anima di un umano a causa dell’immenso dolore che
esso proverebbe, erano solo un contorno inutile.
In altre parole: potevano
essere infrante, raggirate e scartate senza riguardi.
Ma lui, quella notte, era andato oltre.
Avrebbe potuto evitarlo.
Poteva semplicemente stordirlo, o fargli perdere conoscenza. Poteva mandarlo a
sbattere: aveva la forza per farlo - figurarsi - e l’altro non si sarebbe comunque ricordato cosa lo aveva incassato di venti
centimetri in un muro.
Invece no. Lui aveva
deliberatamente ignorato l’unica regola fondamentale che uno Shinigami non deve mai ignorare: quella dell’ordinamento
naturale.
Aveva ucciso un uomo che non
doveva morire.
E stava cominciando… a pagarne le conseguenze.
Non sapeva nemmeno come ci era arrivato a casa, dopo aver letteralmente divorato
l’anima oscura di quel ragazzo. Per tutto il cammino si era sentito come
febbricitante e la testa non smetteva un attimo di girare, facendogli perdere
molte volte il senso dell’orientamento.
Aveva aperto il portone nel
quadruplo del tempo necessario a causa del suo cuore, che prima batteva
freneticamente e successivamente rallentava sempre
più, fino a quasi fermarsi.
Una volta dentro, si era
lasciato cadere a terra. Faticava ad alzarsi e, anzi, non ce la fece. Dovette
gattonare, strisciare quasi, per arrivare almeno alla vetrata oltre il divano,
sedendosi con la schiena appoggiata al vetro e lo sguardo alla porta.
Aveva la sensazione di avere i
sudori freddi, ma la sua pelle era perfettamente liscia e asciutta. Si sentiva
come se delle tenaglie gli stessero premendo la cassa toracica, ma non era
vero.
Ansimava inutilmente come se
avesse corso per chilometri quando aveva fatto si e no
quattrocento metri, camminando lentamente e appoggiandosi ad ogni muro
disponibile.
Sentiva fitte allo stomaco che
diventavano sempre più pungenti e violente.
Erano sensazioni umane…
quelle?
« Schifosi esseri… umani… »
ansimò, tenendosi lo stomaco e piegando le ginocchia al petto più che poté.
Moltissime altre volte si era
nutrito di anime oscure - alcune ancora più nere di
quella del porco che aveva ucciso quella sera! - ma
nessuna gli aveva mai causato questi sintomi.
Solitamente, la cosa si risolveva
in un semplice e diffuso malumore che durava si e no
qualche giorno.
Ma c’era da precisare… che di solito non si nutriva di
tutta l’anima. Solo dell’energia vitale, dato che lo spirito vero e proprio lo
accompagnava nell’aldilà.
Invece
questa volta aveva ingoiato tutto.
Aveva fatto sparire tutto.
E provava una certa soddisfazione.
« Nh! Cazzo! » si lasciò sfuggire ad una fitta più forte delle altre,
che gli fece mancare il battito cardiaco per qualche istante. Socchiuse gli
occhi e, con sua sgradita sorpresa, gli cadde lo sguardo sulle mani e i polsi:
la pelle si stava riempiendo di macchie nere e sentiva le dita tremendamente
intirizzite, come se il sangue non arrivasse più fin lì.
Era quello il limite dei corpi
umani, dunque? Era quello il dolore che si provava quando si stava male, per
malattie o ferite?
Erano veramente così deboli,
vulnerabili? Come facevano ad affrontare una natura così spietata con un corpo
che sembrava fatto di vetro, da quanto era fragile?
Non riusciva nemmeno a
sopportare un’anima nera… o forse non era per quello?
Magari era proprio perché
aveva rotto l’ordinamento naturale delle cose…
…non gli importava. Per quanto
poteva sforzarsi di far credere a se stesso di aver agito per se stesso, in realtà non era vero.
Se avesse agito per se stesso, avrebbe sterminato
l’intera razza umana. Se avesse agito per se stesso,
avrebbe lasciato perdere e sarebbe tornato all’interno della sua cappa di
silenziosa e solitaria oscurità.
Aveva agito per Eric. Aveva
fatto tutto per salvare Eric. Per salvare la persona che avrebbe dovuto uccidere.
Mai, nella sua esistenza, si
era lasciato prendere dalle emozioni umane. Mai ne aveva
provate di così forti.
Era stata… rabbia? Gelosia? Possessività?
Forse tutte, o forse
sbagliava.
Non lo sapeva.
Di suo, sapeva solo che faceva
tremendamente male. Tutto faceva
male.
Sia le emozioni che quel
dolore sgradito che gli intorpidiva i muscoli e
incrinava le ossa. Come se ci fosse una mano attorno all’ulna e stesse
stringendo e attorcigliando l’avambraccio per rompergliela nel peggior modo
possibile.
E aumentava, saliva di intensità senza fermarsi.
Strinse i denti ma non urlò.
Peccava d’orgoglio, forse, ora che lo aveva scoperto.
« Stupidi… maledetti… esseri umani! »
« Non sono loro, purtroppo, il maggiore esempio di stupidità
in questo mondo » esordì una voce da una parte indistinta
dell’appartamento, come se fosse l’aria stessa a parlare: « in questa stanza ce n’è uno di gran
lunga più grande, e giuro che non sono io »
completò, ironico nonostante la voce risuonasse per lo più piatta.
La riconobbe solo quando,
osservando di fronte a se, vide gli strascichi di un kimono nero punteggiato di
gigli ragno* scarlatti come sangue.
Non dovette alzare oltre lo
sguardo per riconoscere Enma.
Rise. Con tutta la macabra
ironia che poté inserire nella sua risata.
« Quale onore, il capo… degli Shinigami
in carne e… ossa » ansimò, sciogliendo la posizione a
allungando le gambe sul pavimento. Anche la piccola porzione di caviglia che si intravedeva dai pantaloni sembrava livida, e non faticava
a credere che tutti i suoi arti si stessero riempiendo di macchie nere.
Sembrava…
« Più in spirito che altro » lo corresse Enma,
scostandosi dal volto pallido una lunga ciocca di capelli corvini: « ti stai decomponendo, hai
notato? » osservò con semplicità, posando di malagrazia il piede
sulla caviglia destra di Abrahel.
Sentì una scossa di dolore
attraversargli il corpo come aghi, ma non gli sfuggì dalle labbra altro che un
piccolo gemito. Ridacchiò nuovamente, ignorando il sapore ferroso in bocca del
sangue proveniente dal labbro che si era appena morso: « ho visto… » rispose con
tranquillità, ostentando un controllo che faticava a mantenere.
Enma sbuffò, tremendamente annoiato. « A volte mi chiedo cosa dovrei farci con te, Abrahel » cominciò, premendo
volontariamente più forte il piede sulla caviglia dell’altro.
Lo Shinigami
resistette stoicamente.
« Scommetto che stai cominciando a chiederti per quale
motivo riesci a provare sensazioni umane » continuò Enma: « sai, è normale. Tu fai sempre come ti pare, e io
per non giocarmi i tuoi servigi molte volte lascio correre... non è mica facile
trovare qualcuno che raccolga le anime impure al
giorno d’oggi » divagò, perso in un filo logico che sembrava conoscere solo
lui.
« Si può sapere cosa c’entra?
» domandò bruscamente Abrahel, ma fu obbligato molto
presto a pentirsi del suo tono: il piede di Enma si fece più pesante sulla sua caviglia, provocandogli
altro dolore.
« Non usare quel tono con me »
lo riprese quasi bonariamente, esprimendo con la voce tutto
l’opposto di ciò che mostrava a gesti. « Te lo spiego subito cosa c’entra. Mentre tu giochi a fare il disperato dall’esistenza, passando
secoli in quel tuo buco nero e solitario, gli altri Shinigami
lavorano; e sono sicuro che il verbo “lavorare” non ti suona nuovo nonostante
la tua incostanza professionale » spiegò, a metà fra l’accusatorio e l’ironico:
« il fatto sta tutto qui: quando io ti mando sul mondo degli umani per un
incarico, tu non segui mai le regole. Non passi con la persona designata
la settimana prevista, come fanno tutti gli altri, così che ti capita di rimanere
influenzato dagli umani quando ci passi troppo tempo insieme. E’ come se tu
fossi l’unico ad esserti beccato il raffreddore perché i tuoi colleghi hanno
gli anticorpi! » spiegò, la voce contenta di chi non vedeva l’ora di svelare
quel piccolo mistero.
Abrahel non ribatté nulla.
Ora capiva l’utilità di tutte
quelle regole senza senso che gli dei della morte si erano auto-imposti. Capiva
cosa si nascondeva dietro la settimana di tempo, la necessità di conoscere le
proprie vittime, il bisogno di stare sul Mediano più tempo del necessario.
Serviva per
essere neutrali.
Dopo anni in cui si
accompagnano anime di persone conosciute nell’aldilà
si comincia a capire che è inutile, affezionarsi. Si comincia a perdere
interesse nelle proprie vittime.
Si guadagna indifferenza e,
con essa, la neutralità perfetta.
Lui non era preparato. Si era sempre rifiutato di seguire quelle regole reputate inutili più
d’una volta, non aveva mai lasciato trascorrere una settimana. Aveva
disprezzato talmente tanto gli esseri umani da non voler nemmeno prendere in
considerazione di passare con uno di loro più del tempo necessario e,
appoggiato dal silenzioso assenso di Enma, non aveva mai prestato attenzione alla verità che si
celava dietro quelle leggi di convivenza fra Shinigami
e umani.
E, come risultato di tutto
ciò, per capriccio – per rabbia – era
arrivato ad infrangere le leggi di natura, uccidendo qualcuno che non doveva
morire per salvare colui che avrebbe comunque dovuto
uccidere.
Si sentiva uno sciocco di
dimensioni bibliche.
Non guardò Enma
in volto, ma fu sicuro che un sorrisetto beffardo giacesse su quel viso dai
lineamenti perfetti, mentre lo osservava dall’alto in basso.
« Il tuo silenzio è una
risposta soddisfacente » osservò, alzando la mano sinistra per puntarla in sua
direzione: « e ora, se permetti, devo riprendermi un’anima ».
Non fu totalmente sicuro di
ciò che sentì, ma un brivido gelido gli immobilizzò il corpo all’improvviso. Enma stava usando i suoi poteri – poteva sentire sulla
pelle quell’aura potente e temibile – e seguendo i movimenti della sua mano la
sua energia spirituale prendeva forma, seppur invisibile, chiudendosi intorno
al suo collo come un cappio.
Gli mancò presto il respiro,
quando la stretta si fece più violenta, e pian piano si sentì sollevare per il
collo fino a che non si ritrovò prima in piedi, poi sollevato da terra.
Non poteva di certo morire, ma
la sensazione di soffocamento era fastidiosa. Così come non poteva perire sotto
le fitte di dolore che gli scivolavano su tutto il corpo, ma percepiva quel
male fisico fin troppo bene.
Era quella la sensazione più
fastidiosa degli esseri umani? Era quello ciò che
sentivano quando si ferivano, o venivano feriti?
Pensavano di morire, sotto
l’effetto di quel dolore?
Gli sfuggì una
smorfia che poteva essere interpretata come un sorrisetto sarcastico.
Per lui, pensare alla morte
era l’apoteosi del paradosso.
« Cosa
c’è di così divertente? » domandò Enma, trattenendolo
sollevato in aria senza apparente difficoltà.
« Proprio niente... » rispose Abrahel con un filo di voce, sprecando in quelle due parole
il poco fiato che aveva trattenuto. Nuove ondate di dolore proruppero dai suoi
muscoli, tirati come se si dovessero spezzare da un momento all’altro.
« Bene,
appunto » sorrise il demone: « perché io ho da fare. Non posso lasciare che tu assimili un’anima non
destinata alla morte, anche se penso che ormai quel poveretto non potrà più
essere riportato alla vita... sarebbe di certo strano,
anche se ilare, se si sollevasse dal tavolino dell’obitorio sul quale i suoi
genitori stanno piangendo » gongolò, per poi aggiungere: « se la vedranno
nell’aldilà con la sua anima. Ma dato che tu te la sei ingoiata con tanto
affetto, e hai fatto confusione come un fenomeno da baraccone... ho deciso di farti provare quello che ha sentito quel
ragazzo alcuni istanti prima della sua morte! » esclamò.
Joshua non ebbe nemmeno il tempo di decifrare tutto il suo
discorso, che si trovò la mano di Enma
completamente inserita nel petto. Rimase qualche istante a guardarla prima che
sentisse la reazione del suo corpo: un dolore sordo che con le fitte sentite
fino a quel momento non aveva niente a che fare. Sembravano carezze, anzi.
Non urlò, però. Non si
concesse la vergogna di reagire come un comune umano.
Lui era un dio della morte. E
se quella era la punizione per avere infranto l’ordine
naturale, l’avrebbe affrontata a testa alta.
Enma sogghignò. « Testardo come sempre... » sussurrò
divertito.
Abrahel sostenne lo sguardo, ma dovette mordersi le labbra per
non gridare quando la mano all’interno del suo petto cominciò a muoversi, alla
ricerca dell’anima oscura di quel ragazzo biondo.
E lo faceva apposta, Enma, a
non estrarla subito. Lo faceva apposta e si
vedeva dagli occhi.
« Ah! Trovata! » gongolò dopo
qualche istante, in cui il dolore per Joshua era
diventato così forte da fargli fischiare le orecchie.
La estrasse con un colpo
secco, ma quando essa abbandonò il suo corpo gli sembrò che non il cuore, ma
qualcosa di più profondo gli fosse stato strappato via. Come se Enma avesse attraversato le vertebre della spina dorsale,
afferrato i fasci di nervi nel midollo spinale e tirato con forza fino a
strapparli, facendoli passare dalla cassa toracica.
Questa volta dovette urlare. Ed Enma non poté esserne più che
soddisfatto.
« Male, eh? » sfotté: « e
pensa che non è nemmeno la tua anima... ovviamente, dato che quelli come noi
non ne sono provvisti. Se
fosse stata tua sarebbe stato anche peggio » spiegò, rimirando il cristallo
corvino mezzo rotto che si era ritrovato in mano.
Lo lasciò andare e lui cadde a
terra, rimanendo riverso sulla moquette. Riprese a respirare,
ansimando, senza però trovare la forza di alzarsi, o di mettersi anche solo
seduto.
« Ti riprenderai in un paio
d’ore. Ma tu guarda com’è messa quest’anima, porca
miseria... » disse.
Si immaginava il suo sguardo ilare che lo fissava
dall’alto della sua potenza, compiaciuto della vista di lui a terra, inerme.
Non che comunque
avrebbe avuto molte possibilità, contro Enma.
« Voglio che finisci il
lavoro, capito? » riprese dopo qualche istante di silenzio: « porta quell’anima nell’aldilà e vedremo di chiudere un occhio sul
tuo errore di questa notte. Tanto passerai come minimo
altri due secoli a compiangerti cercando di cancellarti, dunque non credo che
ti tocchi molto da vicino questa faccenda » disse, incamminandosi a piccoli
passi verso un punto imprecisato della stanza.
Non lo seguì con lo sguardo,
ma parlò.
« Non voglio più avere niente
a che fare con Eric Everald » pronunciò, deciso
nonostante il dolore al petto non fosse ancora passato, anzi.
Enma si fermò. I tonfi sordi dei suoi passi sulla moquette
cessarono di colpo.
« A quanto
pare non hai sentito quello che ti ho detto ».
« Ho sentito » confermò però Abrahel: « e io ti rispondo che non voglio più avere niente
a che farci. Manda un altro Shinigami,
io ho chiuso » decise.
Era meglio così. Se per quell’essere umano era arrivato persino ad uccidere
qualcuno il cui tempo non era ancora scaduto, era meglio così.
Per lui Eric non era nessuno! Nessuno di così essenziale da andare contro ogni legge e sputare in
faccia al destino. Se nel fato era scritto che
dovesse venire stuprato, allora sarebbe dovuto accadere. Lui – loro, gli Shinigami
– erano al di fuori degli schemi del destino, per
quello amministravano la morte!
Non avrebbe dovuto salvarlo.
Non avrebbe dovuto uccidere nessuno per lui.
Eric Everald non era niente,
per lui.
Ma suonava tanto come un’auto-convincimento bello e buono.
Il demone fece qualche passo
indietro, piegandosi sulle gambe per essere più vicino al suo volto, ancora
attaccato al pavimento.
« Parlerò chiaramente, Abrahel » premise, il tono tranquillo e rilassato di chi
parla del tempo, o di una nuova notizia sul giornale: « non me ne frega niente
se provi qualcosa per quell’essere umano, sai? Anzi, sono convinto che un altro
po’ di tuo tormento interiore mi ripagherà per il casino che hai combinato nei
piani del Destino con la tua improvvisa bravata. Nessuno prima di te si era
approfittato così tanto della sua astensione dalle leggi del Fato, e ancora spero vivamente che questo non comporti guai in merito.
Premesso ciò... » una piccola pausa, un sospiro non troppo rassegnato: « stai
incollato a quell’anima fino a venerdì notte, portala nell’aldilà e non provare nemmeno a disobbedire al mio
ordine, chiaro? Altrimenti giuro che troverò il modo di
consumare la tua inutile eternità in uno degli ultimi gironi dell’Inferno »
concluse.
Si alzò di
nuovo per poi sparire nel silenzio.
Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi.
Le ore non furono due, ma
quattro. Erano ormai le cinque del mattino quando riuscì a sentire le gambe
come nuovamente parte del suo corpo; il sole all’esterno stava per sorgere e un
lieve chiarore dorato illuminava fievolmente la stanza.
A fatica si sollevò da terra,
aiutandosi con le braccia per mettersi nuovamente in piedi. I dolori erano
spariti del tutto, così come i lividi su braccia e gambe, ma di essi rimaneva il ricordo.
Aveva scoperto non potersi
nutrire di anime intere. Probabilmente, l’anima di un
essere umano in un corpo sprovvisto di essa ma
completamente diverso da quello di partenza non era compatibile.
Come un parassita, l’anima
estranea divorava la forza vitale del corpo che la ospitava. E
nonostante lui fosse uno Shinigami, la cosa non
faceva differenza.
Non si fidò di se stesso nel
muovere un passo verso il tavolo, ma il corpo resse perfettamente; era
finalmente tornato tutto alla normalità.
Si sedette, non sapendo
cos’altro fare. In realtà avrebbe dovuto uscire e
cercare Eric... ma disse a se stesso di non muovere un solo passo se in mente
aveva quell’obiettivo.
Sì, avrebbe concluso
il suo lavoro. Ma questo non voleva dire che dovesse ancora seguire i movimenti
di Everald passo dopo passo.
Si sarebbe limitato a stargli
lontano, presentandosi da lui a tempo debito. Mancavano ancora due giorni, se
si prendeva in considerazione che il giovedì era cominciato da appena cinque
ore, dunque non avrebbe dovuto sopportare per molto quel maledettissimo
soggiorno sul Mediano.
Ne aveva abbastanza dei sentimenti.
Fu però in quel momento che,
spezzando il silenzio del primo mattino, due colpi secchi alla porta lo
bloccarono completamente.
Osservò l’ingresso senza
rispondere, poiché non era difficile passare in rassegna chi fosse alla porta.
Non conosceva nessun altro che
sarebbe venuto a bussare a quell’ora del mattino. Anzi, si poteva dire che non
conoscesse nessun altro e basta.
« Joshua?
» sentì, e il suo nome pronunciato da quella voce fu sufficiente.
Si alzò, raggiungendo la porta
in pochi passi; afferrò la maniglia con decisione, aprendo quel tanto che
bastava a poter vedere chi vi fosse dall’altra parte.
Occhi e capelli castani, viso
pulito, espressione di chi ha passato l’ennesima notte
in bianco. Eric Everald, ovviamente.
La realizzazione
dell’unica eventualità che sembrava così assurda da non poter essere presa
nemmeno in considerazione.
« Quale stupido correrebbe
dritto per dritto nella tana del lupo, se non tu? » considerò ad alta voce,
lasciando la porta aperta e tornando sui suoi passi. Gli sembrava totalmente
inutile, ora, essere ospitale e cortese; così come non aveva senso correre a
mettersi le lenti a contatto per coprire le iridi bianche.
Sentì Eric entrare e poi
chiudersi la porta alle spalle. Tuttavia, mentre Joshua
si risiedeva sulla sedia precedentemente occupata,
l’altro non si sostò dalla soglia.
Lo guardava fisso, aggrottando
le sopracciglia come se stesse trattenendo il respiro dal momento in cui aveva
messo piede dentro quella casa.
E Joshua cominciava veramente
a spazientirsi. « Cosa sei venuto a fare? » domandò
rude, puntandogli addosso gli occhi candidi senza
nemmeno provare a trattenere la seccatura che sentiva.
Quarantotto ore e sarebbe
tutto finito. Doveva solo resistere e non concludere
il lavoro prima.
Sempre che ci fosse riuscito, ovviamente.
Scosse appena il capo, come
per cancellare quel pensiero sfuggito al suo precario controllo. « Allora? »
incalzò.
Eric deglutì, cercando forse
il coraggio di spiccicare finalmente parola.
Aveva una guancia molto
arrossata, osservò.
« Quello che hai fatto... »
cominciò poi l’altro, rimanendo di schiena alla porta ma trovando la forza di
guardarlo fisso negli occhi: « ...tu l’hai... cioè,
lui è... »
« Morto » concluse
lui con naturalezza: « Sì, lo è » precisò.
Lo vide sobbalzare appena, ma
la sua decisione sembrò non vacillare di molto. Probabilmente si era preparato
bene, prima di presentarsi da lui. « E quello che hai preso... era... »
« L’anima » concluse
lui ancora una volta, pacatamente.
Gli sembrava inutile fingere,
ormai. Sia per una questione di tempo sia per credibilità.
Lo aveva visto fare quello che
aveva fatto, e lo stesso Eric doveva aver considerato di non esserselo
immaginato, altrimenti non si sarebbe presentato da
lui con il dubbio di fare la figura del deficiente.
Eric credeva in se stesso...
dunque perché non poteva crederci anche lui?
Il castano deglutì, scostando
lo sguardo sul pavimento. « Tu cosa... sei? » chiese poi.
« Dovresti esserci arrivato da
solo » intervenne però Abrahel: « coraggio, prova ad
ipotizzare » lo sfidò, in bocca il sapore dell’ilarità.
Eric era evidentemente in
difficoltà, ma si vedeva che aveva capito qualcosa. Però
non scappava, non fuggiva lontano da quella casa.
Perché?
« Sei una specie di dio...
della morte » rispose il castano con voce incerta, ma tuttavia decisa.
Joshua spense il suo sorriso in una smorfia, annuendo con il
capo. « In oriente ci chiamano Shinigami » rivelò,
osservandolo attentamente per tutto il seguito della rivelazione: « fra noi
usiamo spesso questo appellativo » concluse brevemente,
senza distogliere gli occhi dal volto basso di Eric.
Non sapeva cosa si celava al di là del suo sguardo, puntato testardamente verso il
basso a fissare il pavimento. Sperava paura, in cuor suo, ma qualcosa gli
diceva che Eric non era quel tipo di persona che si lasciava spaventare due
volte dalla stessa cosa.
Come se fosse qualcuno che si
scottava e si ricordava l’accaduto non per evitare la prossima ustione, ma per
evitare di urlare quando avrebbe risentito quel dolore.
Fu quando il castano sollevò
lo sguardo, guardandolo dritto negli occhi, che Joshua
si convinse di aver visto giusto.
« Non mi interessa
» pronunciò e, per qualche assurdo motivo, ad Abrahel
venne da ridere.
Sorrise, in
effetti, accomodandosi meglio sulla sedia nonostante fosse di per sé abbastanza
scomoda. « Non ti
interessa... » sussurrò a se stesso: « dovresti pensare più volte a ciò
che dici » intervenne, nascondendo l’irritazione in quel ghigno icredulo.
« Ci ho pensato bene »
intervenne subito Eric.
« Certo, certo... »
« Non darmi il contentino! »
sbottò poi, battendo rumorosamente un pugno contro la porta. Il gesto fece in
modo che Joshua tornasse a guardarlo, questa volta
però senza sorridere.
Lo squadrò letteralmente.
« Dici di aver capito, vediamo
allora se hai capito » lo sfidò, alzandosi in piedi senza però avvicinarsi: «
sono un dio della morte nel mondo degli umani; secondo te cosa ci sono venuto a
fare? » domandò, ancora sulle labbra quell’aria di sfida che non riusciva a
scrollarsi di dosso.
Odiava le persone che usavano
il verbo “capire” con troppa leggerezza. Nessuno capiva mai veramente. Mai.
Eric affrontò i suoi occhi per
qualche istante, ma poi fu costretto a rimirare di nuovo i listelli del
parquet. « Lo so... » aggiunse poi, sussurrando come se stesse rivelando un
segreto: « è per... me? » chiese poi, ma aveva tutto il sapore di una domanda
retorica.
Abrahel non ribatté subito. « Se
l’hai capito cosa ci fai qui? » domandò di nuovo, talmente incredulo da essere
quasi arrabbiato.
Non poteva essere veramente
così stupido da buttarsi nell’agguato del lupo di sua spontanea volontà.
Non poteva essere così...
disperato.
L’altro temporeggiò,
evitando una risposta per più tempo poté. Trovò la forza di rispondere
solamente dopo qualche istante di silenzio, in cui Abrahel
si era quasi deciso a chiudere il discorso e a chiedergli di uscire.
« Ho solo te » uscì dalle
labbra di Eric, e Joshua
sperò vivamente di aver sentito male.
« Prego? » se ne uscì,
sarcasticamente incredulo.
« Hai sentito! » esclamò
l’altro risentito: « smettila di trattarmi come se fossi un povero pazzo! »
« Tu sei pazzo Everald,
è quella la differenza! » sbottò lo shinigami
a sua volta, alzando la voce per la prima volta in non ricordava nemmeno quanti
secoli. O forse non l’aveva mai fatto, semplicemente.
« No invece! » si difese Eric,
a corto di argomenti con cui ribattere.
E Joshua lo notò. Non sapeva
nemmeno lui di preciso per quale motivo si era presentato a casa sua, lo si vedeva dagli occhi.
Sospirò. Maledetto Enma e i suoi incarichi con le anime pure!
Sentì i suoi nervi calmarsi, e
provò al contempo una poco famigliare sensazione di insoddisfazione.
Non fu lui però, questa volta, a riprendere parola.
« Senti... » cominciò Eric,
facendosi avanti di un passo. La luce del sole si era rafforzata, ed era abbastanza
potente da illuminare bene il suo volto.
Sembrava stravolto;
probabilmente lo era. E aveva visto bene in
precedenza, una guancia era arrossata.
« Io non so perché sono qui,
va bene? So solo che mio padre mi ritiene uno scarto della natura e non mi è
venuto in mente nessun altro posto dove poter andare. Sono ore che vago ad Heaven’s Park rimuginando su
ciò che ti ho visto fare, ma nonostante io sappia che dovrei dipingerti come un
mostro portatore di morte, io... non ci riesco » spiegò velocemente, la
decisione negli occhi che a tratti si trasformava in dubbio: « non so più...
dove sbattere la testa, ok? Dovrei scappare? Non vedo il perché. Se il tuo
obiettivo è uccidermi... – un tremito nella voce lo
tradì - ...lo farai comunque, no? Anche se fuggo. Io
non voglio andarmene, perché nonostante tutto non...
ti sento come un pericolo » terminò, calando il volume della voce man mano che
la frase andava finendo.
Abrahel non seppe come o cosa rispondere. Poteva affermare che
Eric Everald era di gran lunga
la creatura più strana che avesse mai incrociato lungo il proprio cammino, e
che qualcosa in quel ragazzo decisamente non funzionava a dovere: l’istinto gli
diceva “vai, diventagli amico” anche quando, svelata la sua natura e il suo
scopo, avrebbe dovuto urlargli “scappa il più lontano possibile e vedi di non
farti trovare nemmeno dalle formiche”.
Era sbalordito, stupito ma, in
percentuale minore, persino... sollevato.
Forse contento di quella
novità.
Si rese conto di non riuscire
a tollerare il pensiero di fargli del male nell’esatto momento in cui abbandonò
inconsciamente il suo sguardo burbero, avvicinandoglisi.
Inizialmente gli si fermò
semplicemente di fronte, come se dovesse avvicinare un animale impaurito.
Eric non si mosse, nonostante
non si perdesse nessun suo movimento.
Poi sollevò il braccio
sinistro, portando con una lentezza spropositata la mano a sfiorare la guancia
lesa del castano.
Sobbalzò appena al tocco, ma
ancora non si spostò.
Abrahel si lasciò sfuggire un lieve
sorriso. « E’ stato lui? » domandò poi, sfiorando la pelle con il dorso delle
dita.
Sentì Eric sospirare, per poi
appoggiarsi con il viso alla mano: « sì » disse solo, non avendo forse
nient’altro da aggiungere.
Fu il castano a fare la mossa
successiva. La tensione fra loro sembrava essere d’un
tratto sparita, ed Abrahel capì improvvisamente
quanto forte poteva essere il significato di un gesto a dispetto delle parole.
Eric coprì la distanza che li
separava con un passo, appoggiando la fronte sulla sua spalla e le mani sulla
sua schiena.
Un abbraccio che teoricamente
non aveva niente di particolare, ma che riuscì a lasciare perplesso Joshua per un po’; finché il suo corpo non rispose al posto
del suo cervello, per lo meno, ricambiando il gesto.
« Grazie » mormorò Eric: « mi
hai salvato la vita... anche se non so quanto mi è convenuto » ironizzò, o
cercò di farlo.
« Già » ribatté Abrahel: « forse avrei dovuto lasciar correre. Ma non
potevo, non ce l’ho fatta » spiegò a voce bassa,
limitandosi ad appoggiare la guancia sul capo di Eric, che di spostarsi non
aveva la minima intenzione.
Ci vollero alcuni
secondi prima che Eric esponesse la domanda successiva, quasi
sicuramente serviti per elaborarla e accettarla come reale: « quanto tempo mi
rimane? » domandò, e questa volta la voce non tremò.
« Una settimana dalla prima
volta che ci siamo incontrati » rispose automaticamente Joshua.
« Sabato... » sussurrò il
castano, aumentando di un poco la stretta.
« Venerdì a mezzanotte... »
corresse lui, sussurrando a sua volta, come se temesse quelle parole. Come se
fossero state lame acuminate puntate contro l’anima di Eric,
fatta di puro cristallo bianco. Come se avessero potuto scheggiarla, o
romperla, o scurirla.
Ancora attimi di silenzio,
ancora una domanda: « farà male? » domandò, e Joshua
considerò un bene che il castano non lo stesse guardando direttamente.
Aveva appena scoperto di avere
degli scrupoli, e non erano mai i compagni ideali di un dio della morte.
« No » disse infine: « a dire
il vero è abbastanza ironico, è come un bacio » disse, portando distrattamente
la mano destra a carezzare i capelli sulla nuca dell’altro.
« Il bacio della morte...
poetico » ci scherzò sopra Eric, cercando con tutto se stesso di sembrare
convincente... anche se non ci riuscì. Un leggero tremore delle spalle rivelò
la sua paura, normale e dovuta dato l’argomento
trattato.
Non rispose. Non si sentiva in
diritto di commentare o di aggiungere qualcosa; non desiderava cercare di
consolarlo se per sbaglio poteva ferirlo con parole scelte male.
Dopotutto non era umano, nonostante
cominciasse a sentirsi tale; ed era l’assassino, soprattutto.
Dovette però interrompere quel
silenzio, così come l’abbraccio; con delicatezza lo afferrò per le spalle,
spostandolo da sé il tanto necessario per poterlo guardare negli occhi. Fu irrimediabilmente
contento quando non mostrò insicurezze, alla vista dei suoi occhi anormali.
« Dovresti passare il tempo
che ti rimane con qualcun altro » disse poi: « magari tentare di tornare dalla
tua famiglia, di sistemare le cose... » ipotizzò, ma Eric scosse il capo.
« Non metterò piede in quella
casa se non sarà strettamente necessario » affermò con decisione.
« Senza offesa per la
franchezza, ma stai per morire, mi sembra che sia strettamente necessario » ribatté.
« Decido io se è o meno strettamente necessario » rispose l’altro: « è adesso
non lo è. La mia priorità è passare del tempo in un posto in cui posso stare
tranquillo e a mio agio, e che tu ci creda o meno, è
questo » aggiunse, osservandolo con occhi che non ammettevano repliche di
nessun genere.
Si trattenne dallo sorridere di nuovo, nonostante quelle sue affermazioni
gli facessero effettivamente piacere. Ancora si sorprendeva di come riuscisse a
considerarsi un pericolo e, al contempo, ad essere lusingato delle parole che
Eric gli rivolgeva.
Guardandolo, sfiorandolo...
pareva sentire, da qualche parte dentro di sé, l’affetto che aveva
disperatamente tentato di zittire. Per la prima volta si lasciò andare, dando
via libera ai sentimenti che sembravano averlo invaso, passati dal castano a
lui come i virus di una malattia infettiva.
E considerò che essere simili agli umani non era così...
malvagio. Che loro non erano quei mostri che per millenni aveva
dipinto nella propria mente e nei propri pensieri, esternati spesso con parole
tutto fuorché benevole.
Scostò con lentezza la mano
dalla spalla alla gota dell’altro, sfiorando la pelle del viso come se fosse la
prima volta, o come se stesse seguendo i lineamenti di una scultura di valore.
Passò con le dita sulla gota, poi sulle labbra, dove si soffermò per un attimo,
osservandole.
Eric sorrise lievemente. «
Vorresti baciarmi? » buttò lì con ironia, senza però scostarsi dal tocco di Joshua.
« Ti ucciderei,
non posso » rispose sinceramente, senza riflettere; era troppo
concentrato su quelle labbra per fare attenzione a ciò che diceva.
« Non hai detto che non vuoi,
però... » notò furbamente l’altro, sogghignando.
Finalmente, gli occhi bianchi
di Joshua tornarono su quelli castani di Eric. « Ciò che voglio e che posso fare di solito
difficilmente combacia » osservò seriamente; non sapeva con esattezza come gli
fosse arrivato così vicino da notare la lieve sfumatura azzurra che avevano le
sue iridi alla luce del sole, ormai quasi completamente sorto, ma al momento
sembrava non interessargli troppo.
Occhi che si socchiusero,
mentre il volto si allungava in direzione del suo, ormai fin troppo vicino: «
non ci sono solo le labbra a disposizione... » alluse Eric in un sussurro
smodatamente voglioso.
Un ghignò
si disegnò sulle labbra sottili di Joshua, rapito dal
castano come se al mondo non esistesse altro di più prezioso: « è come
assaggiare una torta senza poter mangiare la ciliegina » osservò, scherzoso e
malizioso al contempo.
Qualcosa, nel più profondo di
lui, si stava agitando. Sentiva il bisogno di baciare quelle labbra, nonostante
fosse consapevole di non poterlo fare, e di continuare assaggiando il sapore
della sua pelle e del suo corpo. Attrazione, forse desiderio;
di quelli malati che mettono la ragione al chiodo e denudano l’istinto.
Un istinto troppo giovane il
lui, neonato si potrebbe dire, e dunque talmente imponente da lasciarlo
completamente in propria balia, escludendo la razionalità da ogni sua
conseguente azione.
Se si sarebbe o meno pentito, se fosse stato giusto o meno, se avrebbe o
no incontrato dei guai dopo... non sapeva dirlo, o considerarlo.
Tutto ciò che vedeva era Eric Everald.
« Potrei
prenderti in parola, fa attenzione » ironizzò, scostando con le dita i
capelli dal suo collo, accorgendosi improvvisamente di quanto sembrasse
delicato nonostante i tanti anni di sport.
« Secondo te perché sono
ancora qui? » domandò retorico il ragazzo, portando la propria mano a toccare
la guancia dello shinigami, che non si mosse.
« Perché sei
un masochista » fu la risposta schietta.
Eric ridacchiò,
sinceramente divertito: « forse » disse: « prendilo come l’ultimo desiderio, ad
un condannato si concede sempre » aggiunse poi.
« Hai desideri particolari,
per un condannato » mormorò Joshua, chinandosi a
baciargli il collo al di sotto della mandibola,
scendendo man mano che le mani risalivano sulla sua schiena, alla ricerca del
metodo più breve per liberarsi della leggera camicia bianca.
Eric si lascò toccare, inclinando di lato il collo senza impedire a
Joshua di poggiarci sopra le labbra.
« Non sono diversi da quelli
di tutti gli umani... » riuscì a pronunciare prima di chiudere gli occhi, e
lasciarsi andare.
Non ci volle molto perché
arrivassero in camera, più in penombra rispetto al salotto a causa delle
serrande ancora abbassate. Il letto era ancora sfatto dalla mattina precedente,
ma non fu un problema per Joshua spingere Eric ad adagiarvisi sopra; la camicia ormai completamente
sbottonata sotto di lui, disteso supino sulle lenzuola.
Rimase ad osservarlo per
qualche istante, passando al contempo le dita della mano destra lungo tutto il
torace e il ventre, fino alla cintura dei jeans ancora
allacciati.
Non sentiva il bisogno di
andare di fretta, così come il castano non pareva fargliene; lo guardava ad
occhi socchiusi, trattenendo il respiro quando le dita passavano in punti più
sensibili, lasciandogli fare ciò che preferiva.
Dal canto suo, lo shinigami era intento ad esplorare le reazioni dell’altro
ai suoi tocchi, alle sue carezze e ai suoi baci. Voleva scoprire quali punti
del suo corpo fossero più recettivi, così dedicava
interi minuti a baciare e mordicchiare, utilizzando al contempo le dita per
saggiare quelle zone in cui con le labbra non era ancora giunto.
Sembrava esasperante, ed Eric
glielo disse ripetutamente fra un sospiro e l’altro. Ma nonostante le lamentele
notò che il castano tratteneva sempre più spesso il
respiro, stringeva le mani sul lenzuolo e mugugnava, chiudendo gli occhi.
Sospinse il ventre verso le sue labbra quando ve le passò sopra, istintivamente
forse, ma Joshua non poteva essere più soddisfatto di
quelle reazioni silenziose.
Più volte Eric lo riprese a voce, dandogli del bastardo per il modo in cui
lo stava torturando. Le sue risposte erano fatte solo di sorrisetti
e risatine maliziose, che si spensero lentamente man mano che Joshua si concentrava solo sulla pelle di
Eric, e quest’ultimo sostituiva le parole con sospiri e mugugni
eccitati.
Sospiri che divennero gemiti,
quando anche i jeans furono abbassati e accantonati
insieme alla biancheria intima. Aumentavano regolarmente allo scorrere delle
sue mani sulle gambe nude del castano, facendole rientrare in carezze languide
ma decise e ferme, sensuali nella loro lentezza come poteva essere una danza
fatta di sguardi e sfiorar di labbra.
Labbra che
non persero tutto quel tempo impiegato ad esplorare la sua pelle, quando
arrivarono al centro stesso dell’eccitazione del castano. Ed Eric, d’altro canto, non
mancò di far sentire la sua voce e di inarcare appena la schiena, stringendo
più forte il lenzuolo ormai del tutto stropicciato.
Joshua muoveva la lingua, le labbra, le mani. Cercava ogni
dettaglio, ogni minimo accorgimento che potesse dare
piacere ad Eric; scovava ogni suo punto debole, mettendolo a nudo e
sfruttandolo infidamente, sentendosi soddisfatto di se stesso quando Eric
rispondeva con un gemito un po’ più alto o una parolaccia borbottata.
Lo portò fin sull’orlo
dell’eccitazione prima di abbandonarlo brevemente, con il solo proposito di
sollevarsi e guardarlo.
Il volto arrossato faceva da
strana cornice alle labbra socchiuse, ma di certo non era una visione negativa.
Ansimante, Eric sembrava il ritratto del godimento, e i pugni spasmodicamente
chiusi sul cotone delle lenzuola gli facevano capire che si stava trattenendo,
probabilmente dal lasciarsi andare completamente all’ondata d’eccitazione che
doveva attraversarlo in quel momento.
Eccitazione
che provava anche lui... ma non solo.
Soddisfazione,
emozione, malizia, gola, avarizia e uno smodato desiderio. Possessività,
al pensiero di farlo suo in modo che non potesse essere di nessun altro.
Arroganza ed egoismo associati a quello stesso pensiero.
Poteva trovare tanti termini
per descrivere le sensazioni che provava, nessuna delle quali provata nella sua
pienezza prima di quel momento.
Se era questo il significato,
l’essenza dell’essere umano, allora era quell’essere
umano che voleva essere.
Anche solo per una notte, anche solo per quel momento. Un’esistenza capace di provare emozioni come quelle, così forti e
travolgenti da annebbiare la ragione e la logica della sua vera natura.
Un’esistenza capace di...
amare.
Sorrise quando gli occhi
castani di Eric si posarono sui suoi, piegando le
labbra in un lieve quanto infinitamente dolce sorriso. Il suo primo vero.
Si chinò su di lui, facendosi
più avanti con il bacino dopo aver sbottonato e tolto i pantaloni che ancora
indossava intoccati.
Non sentiva il bisogno di
chiedere consensi o ricevere assensi. I suoi occhi parlavano, dicevano tutto
quello che a Joshua serviva sapere, e non c’era
bisogno di inutili parole, ridondanti suoni in una
stanza che era già satura di gemiti e sospiri e respiri interrotti.
Avvicinandosi al suo volto,
portò la mano sinistra sopra quella dell’altro e la
destra ad insinuarsi – quasi casualmente – fra le natiche del castano.
Le loro labbra rimasero a
qualche centimetro di distanza per un tempo che parve fermo, per quanto poteva
sembrare lungo, finché un dito di Abrahel
non scivolò all’interno di Eric, che trattenne il fiato mordendosi il labbro
inferiore.
Per la prima volta, provò
l’insoddisfazione di non poterlo baciare. Di non poter intrecciare la lingua
con la sua, danzare con essa, sfidarla ad un duello
all’ultimo fiato.
Ma non poteva. L’avrebbe ucciso. Sentiva già l’odore
dolce e fresco della sua anima candida scivolare fra quelle labbra sottili e
arrossate, e lo stava letteralmente inebriando. E lui
provava troppe emozioni, troppe, per
sperare di potersi trattenere.
La prova che non era, e non
sarebbe stato mai, abbastanza umano. Il dio della morte, la fame che era in lui, fremeva ad ogni
respiro corto e veloce di Eric; così come faceva
l’uomo in lui, che lo desiderava totalmente.
Diviso a metà fra un puro
appagamento fisico, un bisogno spirituale rappresentato dal bacio che non
sarebbe riuscito ad avere, è la morbosa mania di quella parte di lui che
desiderava la sua anima.
Cancellò quei pensieri dalla
mente nel momento in cui la mano di Eric sotto la sua
si aprì, e sentì il castano intrecciare le proprie dita con le sue.
Lo guardò, ebano nel candido,
scrutando quasi i suoi pensieri con occhi lucidi e socchiusi.
« Probabilmente farà male... »
sussurrò lui, cercando di essere rassicurante
nonostante smaniasse di farlo suo.
Si era lasciato completamente
travolgere dalle emozioni.
« Fregatene » fu la risposta di Eric, sussurrata in un sospiro, poco prima che allacciasse
le gambe alla sua vita e premesse con il bacino contro le sue dita, facendole
entrare ancora di più.
Appoggiò le labbra al suo
collo, percependo con esse il battito accelerato del
cuore dell’altro, prima di sostituire se stesso alle dita, spingendosi finalmente
dentro di lui.
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*i gigli ragno sono fiori appartenenti al genere dei lilium, rossi con petali molto sottili (simili a zampe di ragno, per l’appunto). Vengono chiamati anche “fiori della morte” per l’usanza orientale di posarli accanto alle tombe nei cimiteri.
Capitolo in due parti. Mi sono resa conto che era un po’
lungo (e che mi servivano entrambi i punti di vista...) così ho deciso di
dividerlo.
Finalmente, nonostante la mia quasi totale incapacità di essere volgare quanto vorrei nello scriverle (XP), in
questo capitolo c’è il motivo per cui quel “yaoi” appare fra gli avvisi ad
inizio fanfic: presenza di lemon,
signore e signori, anche se a scriverle mi sento un’incapace.
Qualcuno dirà che era anche ora,
magari.
Ma bando alle ciance e passiamo alle risposte alle recensioni, che è meglio.
Gioielle: che bella la recensione papiro <3 è un piacere degli occhi e del cuore leggerle.
Oooooh, vedo che ti ho attaccato Looking Glass! Bene bene *annuisce* e di nuovo, scusa per l’orario indecente in cui hai letto (anche se, a quanto ho capito, è stato tutto a tua discrezione).
Per andare con ordine: come faccio a renderlo reale? …perché, lo è? O___o Io non lo so; mi impegno solo a fare una cosa credibile, punto. Sarà perché sto più attenta alla grammatica che al resto, oppure perché sulle cose che scrivo di mio pugno ci sento il pathos di un comodino… però se me lo dici tu mi fido XD dunque grazie, mi fa piacere.
Sì, non sei l’unica che mi ha detto che tende ad osservare molto i comportamenti di Joshua tramite Eric. Sarà forse perché è uno shinigami e ci si aspetta che faccia cose diverse dagli umani? In effetti ha un senso. Comunque sono sollevata nel sapere che Joshua/Abrahel piaccia, solitamente personaggi con incipit negativo fanno un brutto effetto.
Tralasciamo la parentesi Trent Everald. E’ un classico cliché degli scontri padre-figlio, ma sto cominciando a detestarlo io che l’ho creato, quindi figurati =____=
Per concludere, ti ringrazio molto della recensione <3 spero che questo capitolo *indica in alto* non sia stata una delusione ^^’’
angel15: Un capitolo drammatico? E pensa che andrà anche peggio! XD No dai, non tanto… solo un po’. Alex sì, vorrei picchiarlo anche io *annuisce* però verso la fine dovrebbe migliorare un po’ il loro rapporto, se non cambio (di nuovo) l’idea base.
Purtroppo, Trent è un cliché. Proprio perché nella realtà esistono certe situazioni mi spiace averla inserita, ma ormai non posso modificare il loro rapporto.
Anche a te grazie mille per la recensione, sono felice che la fic ti piaccia ^___^
dea73: Marcus ha una parte molto marginale, ma comparirà ancora una volta (forse, non lo so nemmeno io °___°). E Alex… sì, forse è da odiare, ma per quanto ci provo non ci riesco. Mi fa solo pena, è l’anima della persona stupida ma non è malvagio dentro. Grazie mille anche a te per la recensione e per la dedizione alla lettura XD spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto.
Lirith: noi due ci siamo dette il mondo per e-mail, ma mi sembrava giusto aggiungerti anche qui XD Grazie per tutte le mail e per avermi recensito la fic <3
Shichan: stessa
cosa, le nostre elucubrazioni in separata sede sono sufficienti U___u
finalmente la lemon, visto? XD