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Autore: Mannu    30/09/2009    0 recensioni
Miki è costretta su una stazione spaziale clandestina, La Tana, da un debito che non può pagare. Ilah è obbligata ad abbandonare il suo rifugio su La Tana a causa di un debito che non può pagare. Si può pensare a un accordo?
Nota: Il personaggio di Ilah non è completamente mio ma è stato realizzato in stretta collaborazione con Cassiana. Molte parti di questo racconto sono il frutto del suo lavoro. A Cassiana vanno tutti i miei più sentiti ringraziamenti per le idee, la pazienza e il lavoro fatto. A Cassiana va anche la metà dei complimenti (e delle critiche) che questa storiella dovesse ricevere.
Addendum: il titolo era "Miki & Ilah" ed è stato modificato successivamente in "Ogni debito... è un debito". Di nuovo... grazie a Cassiana! Un altro debito!
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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Ogni debito... è un debito - 1
1.

Ripeté l'operazione da capo, con attenzione. Le orecchie le scottavano e la cute le prudeva da impazzire per l'imbarazzo. Mosse la penna ottica da un menù all'altro, con cautela. Ma il risultato fu il medesimo. L'unica banca, o istituzione più somigliante lì su La Tana, si rifiutava di considerare valido il suo conto aperto presso GeoCredit. In sostanza non riusciva ad accedere al suo ormai magro gruzzolo: le carte di debito di GeoCredit non erano riconosciute, non poteva usare i codici di bonifico, il sistema le rifiutava perfino le richieste più semplici come l'estratto conto. Era rimasta senza il becco d'un quattrino in un posto dove per un debito anche piccolo si rischiava di venire gambizzati per strada.
Si sentì scagliare indietro nel tempo, quando i motori a spinta di fusione del suo Coyote giacevano smontati per tutto il pontile del molo 15 di Apollo in attesa che lei trovasse i soldi per farli rimettere insieme dalle squadre di manutenzione. Gli sembrava che fossero passati anni da quei momenti di nera disperazione, invece era trascorso solo un mese e mezzo. Quarantacinque giorni per ricominciare da capo, si disse guardando sconsolata lo schermo principale del piccolo ponte di comando della sua corvetta, ormeggiata in quella specie di baia dei pirati che era La Tana. Non poteva permettersi di pagare ancora acqua per rimanere ormeggiata: la sua recente disavventura l'aveva impossibilitata a rifornirsi e la sua scorta di preziosa acqua si era assottigliata al punto di far accendere l'indicazione rossa “No Go” nella lista dei controlli pre-volo. Non era grave: c'era solo lei a bordo. Avrebbe razionato l'acqua per qualche giorno e l'allarme sulla riserva d'acqua sarebbe tornato a un rassicurante “Go” in verde brillante.
Le autorità di La Tana le impedivano di lasciare gli ormeggi e andarsene. Nonostante avesse pagato l'approdo con l'acqua richiesta, proprio al momento di partire erano saltate fuori delle tasse portuali non pagate. La faccenda puzzava di truffa e ricatto e probabilmente era davvero così. Non c'era molta differenza tra uno strozzino, un mafioso e un poliziotto lì a La Tana: ciascuno dei tre si comportava esattamente nello stesso modo. Il poliziotto era quello con la divisa.
Così le avevano fatto capire che aveva tempo fino alla scadenza dell'affitto dell'approdo per pagare. Quell'affitto, pagato in acqua, era valido per otto ore ancora. Poi, immaginò grattandosi la radice dei neri capelli crespi e ribelli, sarebbe successo qualcosa di spiacevole per lei. Non le avevano detto cosa, ovviamente. Per sicurezza pressurizzava tutte le volte che usciva e, pur sentendosi parecchio ridicola, indossava la sua goffa e spessa tuta bianca portandosi a tracolla una bombola di aria con erogatore a maschera. Non sapeva se ciò sarebbe bastato a difendersi dal vuoto qualora le avessero staccato il cordone ombelicale che faceva da passerella tra il Coyote e La Tana. Ma la tuta EVA era improponibile: le avrebbe impedito di muoversi in condizioni ambientali del tutto simili a quelle di Apollo. Posso sempre fingere una insufficienza respiratoria, si disse mettendosi la bombola a tracolla.
Uscì nel condotto flessibile pressurizzato e a gravità zero. Lo attraversò tutto col cuore in gola, passando davanti alla solita toppa che sibilava leggermente lasciandosi sfuggire preziosa atmosfera dal primo giorno che si era ormeggiata lì. Raggiunse la prima piattaforma e si lasciò catturare gradualmente dalla gravità artificiale. Passò attraverso i diaframmi di plastica sporca e consumata che tanto avevano divertito Morgan per la loro somiglianza con una vagina e finalmente fu di nuovo sulla lunga banchina di La Tana. Ignorò il difettoso ologramma della poliziotta che appariva ogni volta che lei usciva dal tubo ombelicale e che la minacciava ogni volta con le stesse parole. Si incamminò verso l'uscita del pontile, sotto le incomplete strutture a livelli sovrapposti che si affacciavano nel vuoto dello spazio.
Era scesa dal Coyote ma non sapeva esattamente per quale motivo. Non aveva più soldi, solo pochi spiccioli. Non poteva comprare da mangiare, ma quello non era un problema: la cambusa della sua nave era strapiena. Senza denaro non poteva fare molte cose, su quell'insolito approdo spaziale che aveva imparato ad apprezzare nonostante tutto. Fino a quando aveva avuto del contante in tasca. Ora le sembrava molto meno apprezzabile.
Percorse corridoi e passerelle, strade grandi e affollate di gente che gironzolava sfaccendata tra gli improvvisati negozi e le bancarelle fino a quando non raggiunse quella che le avevano indicato come la sede dell'unica banca di La Tana, così sicura della sua clientela che non aveva bisogno di farsi pubblicità né di mettere chiare indicazioni per essere raggiunta. La sede stessa era a stento riconoscibile come quella di una banca: uno stretto ingresso senza insegna, aperto, dava su pochi scalini ripidi che cadevano dentro un lungo ambiente poco illuminato e dall'odore preoccupante. Sulla parete di sinistra, imbrattata da graffiti fatti con vernice a spruzzo, poche sedie diverse e malconce lasciate lì disordinatamente. Anche queste erano state fatte bersaglio dei graffiti e mostravano sulla seduta e sulla spalliera i tag, la firma degli autori. La medesima parete era interrotta da alcune finestre poste così in alto da essere irraggiungibili e che davano sulla strada al livello del pavimento, protette da una pesante griglia metallica contro cui si accumulavano sporcizia e rifiuti. Attraverso quelle finestre strette e lunghe, dai pannelli di crilex resi gialli dalla prolungata assenza di manutenzione, poteva vedere le gambe della gente sforbiciare incessantemente.
Dalla parte opposta invece una spessa e robusta griglia metallica formava una gabbia di un paio di metri di lato intorno all'unica porta che si apriva nella lunga parete imbrattata. La gabbia partiva dal pavimento e arrivava fino al soffitto, ininterrotta a eccezione di un'apertura cui si poteva accedere solo dall'interno. Sotto l'apertura a feritoia era stato spinto un tavolo da ufficio senza uno dei quattro piedi d'appoggio, sostituito da un barattolo di plastica che aveva avuto la ventura di essere alto tanto quanto il pezzo perduto. Il tavolo, sporco e vecchio, era curiosamente sgombro. Dietro quello una logora sedia imbottita. Dietro di essa la porta, aperta. Un rettangolo buio al di là del quale non si riusciva a distinguere nulla. Non c'era nessuno in vista, né nulla che lasciasse intuire che quella, pur priva di un nome e di una insegna, fosse una banca.
Certo, si disse lei, i clienti sono del tutto particolari. Normale che lo sia anche la banca. Non aveva mai visto tante facce poco raccomandabili in una volta e quello che era successo a lei e a Morgan ne era stata la migliore dimostrazione. Ultimamente aveva passato molto del loro tempo a fuggire da chi voleva a tutti i costi appendere la sua pelle a una parete.
Deglutì a forza e si costrinse a parlare.
- C'è nessuno? - ma la voce le si spezzò in gola quasi subito e le uscì un semplice bisbiglio.
Si fece coraggio e si avvicinò alla gabbia, cercando di convincersi che i suoi timori erano del tutto infondati. Si pentì d'aver passato tanto tempo a leggere la sanguinosa cronaca nera di La Tana sul terminale di servizio della sua nave. La feritoia era chiusa, ma dato che la porta era spalancata era logico supporre che la banca, o qualsiasi cosa fosse quel luogo in cui era capitata, fosse aperta. Quindi ripeté di nuovo le medesime parole, questa volta cercando di mantenere la voce ferma.
- C'è nessuno?
Meglio, si disse ascoltando la propria voce e fingendo di non aver sentito la sottile crepa che l'aveva incrinata.
Balzò all'indietro, spaventata a morte. Non riuscì nemmeno a gridare. Un viso era apparso all'improvviso all'interno del buio specchio della porta. Era saltato fuori da dietro lo spigolo dello stipite. Un viso inquietante, con un sorriso nero che sembrava andare da un orecchio all'altro. Con uno scatto l'uomo apparve a figura intera, incorniciato dalla porta, il ritratto di un folle su fondo nero.
Aveva i capelli unti e scarmigliati come se avesse dormito fino a un secondo prima sonni agitati. Indossava un completo elegante, giacca e pantaloni grigi, una cravatta scura allentata che sembrava stare intorno al collo per una coincidenza, una camicia bianca abbottonata male e col colletto stropicciato. Non calzava scarpe. Alto e magro, l'uomo si muoveva tanto dinoccolato da sembrare quasi l'effetto speciale di qualche olofilm. Non le toglieva gli occhi di dosso, lucidi di chissà che febbre o droga, e lei ebbe l'irragionevole timore che quell'essere fosse in grado di passare attraverso la stretta feritoia e raggiungerla. Le sorrise in un modo così orribile, stendendo le labbra dipinte di scuro così tanto che lei temette gli si stesse per dividere la faccia in due. La pelle rugosa di quel viso senza età pareva pronta a qualsiasi acrobazia.
- Saaalve! - disse esagerando il tono allegro e cordiale fino a farlo sembrare minaccioso. La sua voce era stridula, una parodia della voce umana.
- In cosa posso servirla signorina?
Si chinò in avanti appoggiandosi al tavolo zoppo con entrambe le mani. Lei indietreggiò ancora: quella caricatura di uomo emanava un puzzo di sudore insopportabile.
Estrasse la sua carta di credito che la GeoCredit le aveva dato a speciali condizioni visto che versava regolarmente discrete somme sul suo conto corrente: i proventi delle sirene telasiane. C'era moltissima gente che andava a vedere e a sentire cantare quelle creature aliene e lei aveva una piccola percentuale sugli incassi.
- Questa è una carta di credito valida... - iniziò lei. Non era più certa di quello che stava per fare.
- Sssììì? - rispose quello trascinando quella sillaba in salita lungo tutta un'ottava con la sua voce acuta.
- ...della GeoCredit di Apollo e funziona perfettamente – mentì lei cercando di darsi importanza. Non l'aveva mai usata.
- Sssììì? - disse quello senza mutare la sua espressione da folle, le labbra nere stirate in un ghigno triangolare che sembrava un tentativo di mostrare tutti i denti insieme più che un sorriso.
- Ma non riesco a caricare nessuna scheda al portatore, né a prelevarne di nuove.
- Nooo? - inclinò la testa di scatto di lato ma non aggiunse altro. Un pazzo, pensò. Sono finita a parlare con un pazzo fulminato. Senza sapere perché insistette e formulò la sua richiesta.
- Potrebbe anticiparmi del contante usando questa carta di credito come garanzia?
- Nooo! - scattò all'indietro raddrizzandosi di colpo e cominciò a ridere in modo sguaiato e folle, agitando le braccia come se accogliesse gli applausi di un pubblico inesistente. Quando cominciò a dimenarsi troppo lei si decise ad andarsene. Non avrebbe ottenuto nulla da quel tizio: doveva essersi bevuto il cervello già da tempo.
Si voltò verso l'uscita, decisa a salire quei ripidi gradini e a uscire da quel posto buio per tornare nella relativa normalità di La Tana. Trasalì una seconda volta e si bloccò lì dove si trovava. Qualcosa si frapponeva tra lei e la porta e per un soffio non era andata a sbatterci contro in pieno.
Un secondo per mettere a fuoco, per realizzare di cosa si trattava. La prima cosa che la colpì fu l'altezza. La ragazzina la sovrastava e, a giudicare dal fisico esile, doveva essere una spaziale. Poi si sentì trapassare da due occhi di un azzurro innaturale, chiari e freddi come il ghiaccio. Non c'era abbastanza luce per capire se si trattava di un doppio impianto o no. Ne aveva visti di carini di quel colore, ma in quel viso leggermente olivastro, giovane e un po' affilato diventavano inquietanti.
- Michaela Patris?
Quella voce gentile e morbida stonava un bel po' col resto: la ragazzina aveva una borchia ossea, una punta conica di almeno un centimetro che le sporgeva dalla fronte sopra il sopracciglio sinistro, più vicina all'attaccatura dei dread viola che le scendevano lunghi e curati dal cranio. Sopra una leggera maglietta nera indossava una giacca di finta pelle anch'essa nera e sopra di essa una casacca militare verde oliva con le maniche tagliate. Sotto l'ombelico scoperto cominciavano un paio di pantaloncini neri aderenti, in grado di celare appena l'elastico delle mutande, visibile in rilievo. Calze a rete gialle rotte in più punti e stivali anfibi tinti maldestramente di rosso e con la punta rinforzata da metallo nudo e graffiato ne completavano la figura. Un'altra pazza, pensò. Ma stavolta non c'era nessuna gabbia in mezzo.
- Non so chi sia – le rispose aggirandola ostentando decisione. Si aspettava che quella si muovesse per sbarrarle il passo, che l'aggredisse. Ma non accadde nulla. Lei, pronta a scattare confidando nella sua maggiore robustezza e forza fisica, si diresse verso le scale, verso l'uscita.
- Chissà perché ti immaginavo più magra, Miki.
Strinse i denti. Se voleva farla incazzare era sulla strada giusta. Quella tuta imbottita non giovava affatto alla sua figura, tutt'altro che snella. Lo sapeva bene e odiava infilarcisi dentro. Si era osservata brevemente prima di lasciare il Coyote: vestita così sembrava avesse i fianchi larghi come una portaerei e un culo grande come una piattaforma d'attracco.
Fu tentata di mandarla bruscamente al diavolo, ma si trattenne. Salendo i gradini si spaventò al pensiero che poteva esserci in agguato un complice o magari tutta una banda. Avrebbero osato aggredirla in mezzo alla gente? Temeva di sì. Ma uscì senza incidenti, con la sconosciuta che la tallonava da vicino. Le gettò uno sguardo rapidamente. Camminava con le mani in tasca e i segni scuri intorno agli occhi non erano le ombre dovute alla scarsa illuminazione del tetro locale appena abbandonato. La ragazzina si divertiva a truccarsi di scuro: occhi e labbra erano carichi di cosmetici cupi. Il rossetto, applicato con negligenza, aveva bisogno di una ripassata. Si consolò constatando che sotto la luce un po' più intensa di quel livello di La Tana il viso della ragazza, armato di quegli occhi azzurri taglienti, sembrava ancor più giovane e molto meno aggressivo.
- Dove andiamo di bello?
Miki si fermò e si voltò verso la ragazza, alzando lo sguardo per raggiungere gli occhi. Spinse dietro la schiena la bombola dell'aria che le stava dando veramente noia. La mascherina trasparente cadeva in continuazione e quindi l'aveva legata intorno alla valvola della bombola usando il piccolo tubo flessibile che le univa. Con quel gesto brusco cercò di arginare l'ira: era possibile che quella spilungona fosse una provocatrice e non intendeva cadere nel suo tranello.
- Dove vado io a te non interessa – e le fece un inequivocabile gesto con la mano, per invitarla a procedere per la sua strada. Lontano da lei, ovviamente. Non aspettò la risposta: le diede le spalle e scelta una direzione a caso, si incamminò a passo spedito.
- Non credo che ti convenga andare troppo a spasso, Miki – la sentì dire con supponenza alle sue spalle – hai sei ore e cinquantadue minuti per trovare milleduecento crediti. Soldi che non hai.
Miki si piantò su due piedi lì dove si trovava e si voltò verso la ragazza. Si sentiva avvampare in viso, ma non era collera. Era paura. Forse che quella sciacquetta dai capelli viola e la faccia da schiaffi era stata mandata dai mafiosi che le stavano chiedendo il pizzo giù al porto? Poteva essere. Era chiaro che si sarebbero fatti vivi di persona, prima o poi. Sentì le ginocchia diventare molli: forse la ragazzina era armata. Aveva ancora le mani nelle tasche della casacca militare, grandi abbastanza da occultare una piccola pistola automatica. Aveva visto spesso negli olofilm come fosse possibile tagliare la fodera di una tasca per renderla comunicante con un'altra sottostante. La prima sembrava vuota, ma infilandoci dentro una mano si poteva accedere al contenuto dell'altra. Nel caso degli olofilm una piccola pistola automatica, appunto. La tipa, che la stava guardando sorridendo all'effetto avuto dalle sue parole su di lei, indossava due giacche una sopra l'altra. Miki concluse che doveva essere armata davvero.
Che fare? Resistere? Fuggire? Stare al gioco fino alla fine della recita? Non sarebbe stato sensato ucciderla, non avrebbero avuto i soldi. Ma il pensiero che si trattasse solo di intimidazione non la rincuorò affatto. Ci stavano riuscendo bene.
- E tu che ne sai? - un istante dopo aver pronunciato quelle parole Miki si rese conto che esse consegnavano la vittoria tra le mani della sconosciuta. La guardò mentre la raggiungeva, camminando con le mani in tasca: la gente che transitava intorno a loro non la degnava di uno sguardo mentre invece si soffermavano sulla sua tuta bianca immacolata e probabilmente anche sulla bombola d'aria con la mascherina che penzolava.
- Abbastanza da poterti aiutare.
La squadrò bene in viso. Ecco qualcosa che non si aspettava. Pensò immediatamente a una truffa un poco più elaborata: impossibile dire se fosse sincera oppure no.
- Ma fammi il piacere... - Miki fece per allontanarsi.
- Dico sul serio – le rispose quell'altra, quasi lamentandosi.
- Sì, come no.
- Davvero! - esclamò raggiungendola con due falcate. Gli anfibi slacciati facevano rumore sul pavimento eterogeneo di quel tratto di strada. Sentendosi per la prima volta in vantaggio, Miki osò partire al contrattacco. Di nuovo si fermò e affrontò la giovane cercando di sembrare più risoluta che poteva.
- Senti, non so chi tu sia, perché ce l'hai con me, come mi hai spiata... ma se sai così tante cose su di me, sai anche che non ho un soldo. Quindi è perfettamente inutile che mi stai addosso. Non posso darti nulla. Nulla di nulla!
- Hey, ma sei sempre così acida o è qualcosa che hai mangiato? Ho detto che ti aiuto, ti fa così schifo?
- A un prezzo?
- Diciamo che è uno scambio – disse quella togliendo le mani di tasca per la prima volta. Miki notò immediatamente le unghie verniciate di nero, lunghe e molto affusolate.
- Ah, ecco... - la interruppe.
- Io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me.
- Qualcosa di illegale, suppongo.
- La legalità è un'opinione – ribatté la giovane sorridendo – ma ti assicuro che stavolta non pretendo nulla di particolare, davvero.
- Stavolta?
La giovane si morse le labbra volgendo intorno i suoi occhi chiarissimi. Aveva sbagliato una mossa, era evidente.
- Non è la prima volta che mi vengo a trovare in questa situazione... normalmente non fermo la gente per strada offrendo il mio aiuto – disse gesticolando con le mani.
- No, eh? - la incalzò Miki.
- Diciamo che siamo tutte e due nella merda, per motivi diversi ma... come dire... simili?
- Vai avanti...
La ragazza bilanciò meglio il proprio peso sulle gambe allargando i piedi chiusi negli anfibi rossi senza stringhe, come se si stesse mettendo comoda per fare un discorso lungo.
- Ecco, tu sei nei guai: sei senza soldi. Anche io sono senza soldi. Tu devi soltanto pagare e sei a posto. Io... ehm... io no. Tu hai un'astronave e a me farebbe molto comodo, ora.
- Ah, ecco. Beh, sì... tutto perfetto. A parte il fatto che messe insieme non abbiamo altro che spiccioli in tasca, giusto? - obiettò Miki – Il Coyote non è in vendita, carina – aggiunse seccamente, voltandosi per andarsene.
- Aspetta, non hai capito! - la rincorse quella.
- Ah, no? Io direi di sì – Miki aumentò l'andatura sperando che quella importuna ragazzina si stancasse di correrle dietro. Ora che sapeva di non essere più in pericolo immediato e che quella era una sbandata come tanti altri lì a La Tana, non c'era più motivo di starla a sentire.
- No invece! E fermati, cazzo! Vuoi fermarti un momento? Ti sto parlando!
- Io no!
- Uffa! Sei stizzosa come... come una contadina di Mu2 in astinenza! Se non ti diverti non è colpa mia, che cazzo!
Miki fece ancora un passo, incerta se ignorare la ragazzina oppure no. Ma doveva esserci del testosterone maschile da qualche parte nel suo sangue. Sentì che non poteva lasciarsi parlare così da una mocciosa che non aveva ancora finito di succhiare il latte dalle tette della mamma. Si fermò e l'affrontò per l'ennesima volta. Con le mani sui fianchi la squadrò per un lungo istante e poi sbottò.
- O.K., stronzetta: prima cresci un po' e poi vieni a parlarmi di uomini. E adesso vattene fuori dai coglioni!
- Ma certo! E quando verranno a toglierti la pelle perché non paghi io starò lì a guardare! - berciò l'altra con un ghigno cattivo mentre incrociava le braccia. Miki sbuffò rumorosamente, ma non ribatté.
   
 
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