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Autore: Frances    06/10/2009    1 recensioni
~ The tale of a man who lost his name and got bitter lies and silent suffering instead
[Tseng x Aerith]
Prima Classificata allo Tserith Contest indetto da Valychan
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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One; • Watching the evening pass by [ μ ] - εуλ 1994 (xxx)

The day he found the little girl on the swing

---

Era una mattina nuvolosa di metà inverno quando i vetri delle finestre si ricoprirono di brina e la neve iniziò a cadere.

Stringendo tra le dita una cartella rigida su cui erano appuntati alcuni fogli, Tseng sollevò appena lo sguardo verso Rude.

« Di cosa si tratta?»

L’uomo che si ergeva davanti a lui, superandolo in altezza di un paio di spanne, aveva la pelle scura e indossava degli eleganti occhiali da sole: non parlava mai molto, ma sapeva essere molto efficiente in qualsiasi incarico gli affidassero. Tseng lo apprezzava perché sembrava affrontare il lavoro con il suo stesso spirito: non faceva mai domande scomode, né tendeva ad impicciarsi nei fatti altrui – una virtù che si era rivelata molto rara tra gli impiegati della ShinRa. Anche i silenzi che spesso cadevano tra loro due quando si ritrovavano a condividere un incarico non si rivelavano essere né pesanti né fastidiosi: Tseng li interpretava come una sorta di pacato e reciproco rispetto, un disinteresse discreto che poteva trasformarsi in un etere benefico nei momenti di maggior difficoltà.

« Un lavoro per conto della Sezione Scientifica.» Rude diede le necessarie spiegazioni mantenendo il suo solito cipiglio severo « Ci lasciano autonomia organizzativa, ma vogliono che sia portato a termine entro la fine del mese.»

Tseng annuì dopo un attimo, incrinando un lugubre silenzio carico di significato:

« Capisco.» quando gli altri organismi operativi della ShinRa cercavano in tutti i modi di liberarsi di qualsiasi responsabilità poteva significare due sole cose: o si trattava di operazioni ben oltre la soglia del top secret, o si trattava di un assassinio. E nell’ultimo caso, per gli esecutivi non esistevano mercenari più affidabili dei Turks.

Iniziò ad esaminare il caso sotto gli occhi del collega, senza farsi distrarre dal ronzio del neon in sottofondo, o dai passi lontani delle impiegate che avanzavano lungo i corridoi con i tacchi alti. Sfogliò le pagine dandovi rapide occhiate, registrando le informazioni fondamentali. Aveva sempre avuto delle doti mnemoniche molto sviluppate: la chiamavano memoria fotografica – il suo cervello immagazzinava ogni piccola informazione, impressionandola nella sua memoria come un’ istantanea a colori. Una capacità che poteva rivelarsi estremamente utile in certi frangenti, ma che a volte lo aveva costretto a sporcarsi ulteriormente le mani.

Cetra --- Flusso Vitale --- Ifalna --- Tseng lesse il mandato di quella nuova missione focalizzando l’attenzione sulle parole chiave, individuando un nome, Aerith Gainsborough. E infine voltò l’ultima pagina, fissando a lungo la piccola foto quadrata che immortalava il volto inespressivo e rotondo dell’obbiettivo.

Una bambina.

Raggelò, mentre le dita si serravano sul bordo della cartella con tanta forza che un minimo movimento avrebbe potuto spaccarla. Alzò ancora la testa, cercando lo sguardo del suo collega, come alla ricerca di qualche conferma: l’uomo gli restituì l’occhiata, corrugando profondamente le sopracciglia.

« Non è come pensi.» Rude scosse il capo « Dobbiamo trovarla e consegnarla al laboratorio.»

La presa di Tseng sulla cartella si allentò:

« Capisco.» non tirò alcun respiro di sollievo, ma sentì il petto rilassarsi gradualmente. Percepì il peso di quell’incarico piombargli sulle spalle, come sempre succedeva quando arrivavano nuovi ordini – si chiese brevemente quale fosse la differenza tra uccidere una persona e consegnarla al laboratorio e dopo qualche istante, socchiudendo tristemente le palpebre, concluse che, a lungo andare, le due cose avrebbero probabilmente coinciso.

Tornò con gli occhi alla piccola foto, fissandola brevemente prima di consegnare il fascicolo nuovamente tra le mani di Rude. La sua memoria fotografica lo accecava con rapidi lampi di luce e frammenti di vetro colorato, componendo un mosaico pieno di sfaccettature e brevi sprazzi di passato. Aveva la certezza matematica ed inspiegabile di aver già incontrato quella bambina.

L’uomo con gli occhiali sfilò la foto dalla cartella, studiandola:

« Saresti in grado di riconoscerla?»

Tseng gli rivolse un’occhiata bieca, mentre spostava appena la manica della giacca per scoprire l’orologio:

« Con chi pensi di avere a che fare?»

Rude grugnì con tono grave in risposta.

« Bene.»

Le dieci e quarantuno. Le lancette nere ed appuntite si erano appena spostate sul quadrante dorato nel cogliere lo scoccare dell’ennesimo minuto della giornata; Tseng seguì con poco interesse i primi due scatti che scandivano l’inizio di un nuovo giro. Nascondendo il polso sotto la stoffa della camicia, esaminò mentalmente le informazioni che aveva appena raccolto: lesse di un quartiere diroccato nel Settore 5, poco lontano dalle mura di confine che lo dividevano da Wall Market. Avrebbe facilmente portato a termine i preparativi per scendere nei bassifondi nel giro di tre quarti d’ora – e con un po’ di fortuna, avrebbe concluso la missione con largo anticipo.

« Mi occuperò io di prelevarla, tu limitati a stendere il rapporto.» concluse, sistemando svogliatamente i gemelli nelle maniche « Puoi informare Heidegger che mi recherò nei bassifondi del Settore 5 questa sera stessa.»

Rude annuì:

« Hai bisogno di una scorta?»

Tseng scosse il capo, voltandogli le spalle:

« Non credo sia opportuno, ma due unità basteranno.» sospirò silenziosamente nel fermarsi davanti alle porte chiuse dell’ascensore. D’altronde con chi aveva a che fare? Si trattava solo di una bambina.

« Riferirò.» Rude annuì ancora e si allontanò lungo i corridoi senza aggiungere altro. Non sprecava fiato, non faceva domande, non diceva mai niente che non fosse necessario.

Era tutto ciò di cui Tseng avesse bisogno.

Dentro l’ascensore, poggiò le dita sul vetro freddo ed incrostato di ghiaccio, la neve che cadeva lentamente, irraggiungibile e leggera, davanti ai suoi occhi.

 

Il panorama che lo accolse nei bassifondi era lo stesso di sempre: una città triste e in decadenza che continuava a trascinarsi nella povertà e a sopravvivere come meglio poteva, arrancando tra i rifiuti e le rovine, all’ombra di un cielo opprimente foriero solo di cattivi auspici. Ogni volta che metteva piede in quella cupa prigione di lamiera e pietra – osservando l’elicottero che atterrava sollevando turbinii di polvere e detriti – Tseng si sentiva sempre in qualche modo afferrare dall’ansia. L’aria era densa, una melma maleodorante che gli si insinuava nei polmoni ad ogni respiro. Ma probabilmente l’inquinamento era solo uno dei motivi del suo disagio.

Quando un Turk appariva nei bassifondi, l’atmosfera nelle baraccopoli subiva un mutamento repentino ed inquietante. Le strade diventavano di colpo deserte, ogni rumore si annullava in un silenzio innaturale e assoluto, come in una sorta di terrorizzata attesa. Lì nei bassifondi la divisa blu sapeva solo preannunciare disgrazie.

Tseng avanzò, sentendo gli sguardi invisibili della gente trafiggerlo da ogni parte, spiandolo da nascondigli che non era interessato a scovare. Il freddo invernale dei bassifondi era umido e odorava di muffa, ma in quella situazione riuscì ad insinuarsi dentro di lui fino in fondo alle ossa – si strinse maggiormente nel soprabito di pelle, sentendo il colletto di pelliccia bianca che gli sfiorava il collo. La maggior parte degli omicidi che aveva compiuto per lavoro si erano consumati in quelle strade sterrate, in silenzio, nei vicoli ciechi, nell’unico luogo in cui la morte di un uomo si sarebbe semplicemente aggiunta alle tante che l’avevano preceduta, senza sconvolgere nessuno.

Quante vittime della ShinRa sono seppellite tra questi rifiuti? Era la domanda che lo tormentava ogni volta che era costretto a percorrere quei sentieri polverosi, il volto inespressivo che tentava in tutti i modi di ostentare sicurezza. Sembrava quasi che i bassifondi raccogliessero gli scarti della ShinRa come una discarica, un cimitero in cui ogni cosa veniva seppellita e cessava semplicemente di esistere.

Gli uomini della sua sparuta scorta lo seguivano in silenzio, del tutto ignari, quasi godendo del timore che la loro presenza sembrava incutere negli abitanti. I fanti erano sempre ignoranti pieni di boria – avevano sempre l’ingenua convinzione che ogni loro gesto fosse giustificato, che potessero contravvenire alle leggi senza doverne pagare le conseguenze.

Era semplice, per chi doveva semplicemente assistere mentre erano gli altri a sporcarsi le mani e a caricarsi delle responsabilità.

Tseng li ignorò, continuando ad avanzare come se non esistessero.

Quando raggiunse la casa, la riconobbe all’istante: gli era stata mostrata una foto durante il breve viaggio in elicottero. Era una delle poche abitazioni sopravvissute alla demolizione totale che la ShinRa aveva imposto prima di iniziare il progetto di costruzione del sistema sopraelevato a piastre. Era di legno, il tetto a punta di tegole, sorgeva nel mezzo di uno spiazzo sterrato e vuoto nel quale crescevano incolti ciuffi di gramigna. Tseng rimase qualche istante a fissarla prima di avvicinarsi all’ingresso e bussare. Osservando le finestre ancora trasparenti e senza crepe, gli infissi senza sbrecciature e il tappetino consunto che nella polvere ancora annunciava ostinatamente “benvenuti” all’entrata, pareva quasi di assistere ad un miracolo; sembrava un’oasi, un ritaglio di serenità nel caos di una città in disfacimento, una terra di nessuno che passava inosservata e che non era ancora stata inghiottita da quel cimitero di macchine e uomini.

E quando prese in mano il batacchio e lo premette tre volte contro il portone, ad intervalli brevi e regolari, gli parve quasi di violare un santuario.

Sei mai riuscito a toccare qualcosa senza rovinarla?

Le mani di Tseng non erano mai state in grado di fare altro.

Sapevano solo profanare tesori inestimabili.

Non degnò di un’occhiata i fanti bisbiglianti alle proprie spalle, mentre attendeva compostamente che la porta si aprisse. Aveva già raccomandato loro di tenersi a debita distanza.

La donna che apparve oltre la porta dischiusa aveva i capelli castani e gli angoli degli occhi segnati da lievi rughe d’espressione. Lo studiò con discrete occhiate perplesse, sistemandosi uno scialle sfrangiato di lana intrecciata sulle spalle con movimenti lenti. Tseng attese qualche istante prima di aprire bocca: il modo in cui lo sguardo gentile della donna si era illuminato di sospetto gli aveva in qualche modo fatto sentire più freddo.

« Buonasera.» esordì alla fine, mostrandole il proprio badge « Sono Tseng, della Sezione Investigazioni.» nascose la tessera sotto il soprabito, in una tasca della giacca – non era mai molto fiero di mostrarla, ma era necessario per fare in modo che la gente lo ascoltasse « Spero che la mia presenza qui non le arrechi disagio.» che osservazione stupida. Come se esistesse un luogo in cui uno come lui potesse essere benaccetto. Si sentì ridicolo, ma non c’era altro modo.

La donna si accostò lentamente allo stipite della porta, indietreggiando piano. Come previsto, il tesserino di riconoscimento faceva il suo effetto.

« Siete della ShinRa?» chiese infine, la mano che tremava appena sulla maniglia, anche se il volto ostentava un contegno signorile.

« Corretto.» Tseng le rivolse un breve cenno del capo, senza distogliere gli occhi per un solo istante; aveva imparato che spesso volgere lo sguardo altrove poteva essere interpretato come un segno di incertezza, e l’esitazione era ciò che rendeva un Turk debole. « Lei è la signora Elmyra?»

« Sono io.» lei annuì, intrecciando le mani sul ventre « Cosa posso fare per voi?»

« Abbiamo avuto notizia che lei si sta prendendo cura di una bambina di nome Aerith.» le mostrò uno sguardo perentorio « Vorremmo che ce la riconsegnaste.»     

La donna batté le palpebre con aria confusa:

« Temo di non capire.» ammise, le dita che correvano alla fronte corrugata, là dove una ciocca di capelli mossi era sfuggita dalla crocchia castana « Cosa c’entra Aerith con la ShinRa

« Se avrà la pazienza di ascoltarmi, le spiegherò tutto.» distolse appena lo sguardo, osservando gli scorci dell’interno della casa oltre le spalle curve di Elmyra – intravide il corrimano di ciliegio di una corta scalinata, il profilo smussato di un tavolo ed i ricami di un tovaglia azzurra che pendeva mollemente dai bordi. Passato qualche istante, dopo essersi soffermato su di un vaso panciuto che conteneva dei rari boccioli di orchidee bianche, chiese ancora « Dov’è la bambina?»

La donna scosse il capo:

« E’ uscita dopo pranzo dicendo che sarebbe andata a giocare nel Settore 6 insieme ad altri bambini.» la linea della sua bocca divenne di colpo tesa « Vorrei prima capire il motivo per cui la cercate.» si fece da parte, muovendo qualche passo verso l’interno della casa « Posso offrirle un thè?»

Tseng si limitò ad osservare in silenzio la mano aperta di Elmyra che gli indicava cortesemente l’interno della casa, come ad invitarlo ad entrare. Si chiese quale accoglienza gli sarebbe stata riservata se la donna avesse saputo esattamente quali fossero le intenzioni della ShinRa riguardo la bambina. Annuendo piano, non riuscì a declinare: probabilmente era un gesto di gentilezza incondizionata o di semplice ingenuità, ma era certo che non avrebbe mai più ricevuto una proposta simile. Come se lui fosse un uomo di cui ci si poteva fidare.

« La ringrazio molto.» oltrepassò la soglia, sfilandosi poco dopo il cappotto che gocciolava di condensa. 

 

Quando decise di andare nel Settore 6 a cercare la bambina, Tseng si volse brevemente alla propria scorta, fulminando i due uomini con fredde occhiate bieche.

« Aspettatemi qui.» ordinò, sistemandosi il colletto del soprabito; mosse un passo nella polvere, voltando loro le spalle. Gli parve di sentire qualche loro commento sommesso, poi una domanda dubbiosa e stizzita riguardo le sue intenzioni, ma finse di non sentirle, lasciandoseli alle spalle. Era stata una decisione improvvisa e non voleva che nessuno interferisse – si sentiva mosso da una strana ed inspiegabile impazienza. Aveva preventivato di concludere la missione entro la fine della serata e sapeva che un fallimento o un ritardo avrebbe deluso i suoi superiori, ma mentre avanzava gli parve che il desiderio di trovare Aerith non fosse del tutto legato al suo spiccato senso del dovere. Controllò l’orologio, riconoscendo in un attimo la posizione delle lancette. Era abbondantemente in ritardo sulla tabella di marcia. E subito dopo, abbassando lo sguardo sui propri passi che avanzavano nel pulviscolo, si chiese  Chi sei, Aerith Gainsborough?

Affondò le mani nelle tasche del giaccone, ricostruendo mentalmente il volto della bambina della foto. La memoria continuava a bisbigliargli parole inquiete e confuse, mostrandogli brevi flash di una scena che lui stesso aveva vissuto ma che trovava difficile inquadrare. La cosa lo metteva estremamente a disagio – era abituato ad avere sempre pieno controllo dei propri ricordi, erano sempre così particolareggiati e vividi che gli bastava ripensarci per cogliere tutto ciò di cui aveva bisogno. Perché il bagliore verde degli occhi di quella bambina lo confondeva?

Aerith ha un cuore gentile, le parole di Elmyra lo avevano colpito tanto che non era riuscito a pensare ad altro sin da quando la donna lo aveva congedato pregandolo di non tornare mai più; la prego, lasciatela stare. E’ giusto che possa vivere spensieratamente la sua vita, con tutta sé stessa. La fronte della donna si era corrugata profondamente, mentre con la mano si accingeva a chiudergli la porta in faccia, So che tornare nelle vostre prigioni non è ciò che lei vorrebbe, e sono sicura che la cosa porterebbe giovamento solo a voi. La vita nei bassifondi è dura per i bambini. Tseng era rimasto fermo davanti al portone serrato per alcuni istanti, fissando il vuoto, le suole che affondavano sul tappetino di benvenuto. L’oasi di pace nel Settore 5 lo aveva bandito.

Superò il quartiere senza che gli sguardi terrorizzati della gente lo turbassero, concentrandosi sul suo obbiettivo e nient’altro.

Quando si ritrovò davanti allo squarcio che deturpava le mura di confine tra i due Settori e li metteva abusivamente in comunicazione, esitò qualche istante. Un enorme graffito di vernice rossa incombeva su di lui come una inquietante provocazione scritta con il sangue. Attraversò il passaggio, tentando di non pensarci.

Il parco giochi era piccolo e squallido, circondato da un basso recinto di metallo. Contava cinque o sei sgangherate ed usurate strutture di plastica impolverata o di metallo deformato: alcune di esse sembravano curiose sculture d’arte moderna, basse e strette gabbie di ferro arrugginito e ossidato. Tseng si guardò intorno, immagazzinando informazioni nell’eventualità si fosse rivelato necessario tornare in quel posto: nelle vicinanze dell’unico basso scivolo sbilenco, vide una stretta aiuola nella quale i bambini avevano ovviato alla mancanza dei fiori assemblandovi con delle grosse pietre rotonde una figura che ricordava vagamente un pupazzo di neve.

Trovò la bambina poco dopo, avanzando a passi lenti verso il centro del piazzale. Si dondolava piano sull’altalena, provocando un basso e continuo cigolare. E fu in quello stesso istante che la mente di Tseng riuscì a mettere ogni frammento al proprio posto, ricostruendo istantaneamente quel ricordo confuso che fino ad allora gli era sfuggito. Ogni pezzo trovò la giusta collocazione, mille schegge di uno specchio infranto che si accostavano e lo ricomponevano con precisione infinitesimale. La piccola Aerith se ne stava lì, si stringeva in una spessa sciarpa rosa che le copriva il naso e la bocca. Seguiva con intensità l’oscillare dei  propri piedi sospesi, apparentemente senza curarsi dell’altra altalena vuota immobile vicino a lei, o del silenzio che gravava sull’ambiente circostante.

E Tseng la riconobbe, rivide i suoi occhi verdi e grandi che lo fissavano, il bianco abbagliante del camicie da laboratorio che le copriva appena le ginocchia, sentì in sottofondo la sua voce squillante da bambina che pronunciava quella frase misteriosa – Non essere triste.

Le uniche parole di consolazione che gli fossero mai state rivolte da quando era diventato un Turk.

Sembrava essere passata un’eternità.

Impossibile. Se lo disse a bassa voce, sgranando appena gli occhi mentre si fermava a pochi passi da lei. Di colpo, il bisogno di parlarle divenne impellente, una necessità tanto forte che somigliava quasi alla sete. Si accostò all’impalcatura dell’altalena, studiando i suoi movimenti lenti e pensierosi, e quando aprì bocca per attirare la sua attenzione, la voce fuoriuscì leggermente roca:

« Aerith? »

Lei si voltò di scatto nella sua direzione, gli occhi spalancati che esprimevano una sorpresa curiosa più che la paura che Tseng aveva immaginato. Interruppe il moto dell’altalena immobilizzando le gambe, le punte impolverate delle sue scarpette nere che sfioravano il terreno senza riuscire a toccarlo. Lo guardò battendo le palpebre un paio di volte, inclinando la testa di lato mentre si soffermava interessata sulla pelliccia bianca del suo soprabito e sulla sua fronte alta e scoperta.

« Ciao.» rispose dopo un po’, le sopracciglia che si aggrottavano lievemente; non ebbe la minima esitazione quando poi gli chiese, l’espressione che si incupiva appena « Sei della ShinRa, vero?»

Tseng non poté fare a meno di annuire; l’urgenza di portare a termine l’incarico tornò con tale violenza da mozzargli il respiro, riportandolo con irruenza con i piedi per terra. Come al solito era caduto nella trappola che tendeva a sé stesso in ogni occasione: si era per un istante illuso che quella bambina che una volta gli aveva teso inspiegabilmente un mano d’aiuto, potesse trattarlo diversamente. Ma dopotutto lui era l’uomo crudele che l’avrebbe riportata alla ShinRa.

« Mi chiamo Tseng.» disse infine, la voce nuovamente decisa e limpida « La ShinRa ti ha cercata a lungo, Aerith, sin da quando hai lasciato i laboratori con tua madre.» le porse una mano aperta, un invito perentorio « Vorrei che mi seguissi.»

Aerith scosse forte il capo, senza neanche permettergli di finire la frase:

« Non voglio tornare alla ShinRa.» distolse gli occhi dalla mano di Tseng, tornando a fissare i propri piedi « Cosa vogliono ancora da me? Sono solo una bambina come le altre.»

« Sai che non è così.» le parole di Tseng le fecero premere le labbra le une contro le altre « Hai ereditato il sangue di tua madre e con esso la conoscenza dei Cetra.»

« E con questo?» la bocca di Aerith assunse una piega ostinata « Non è niente di speciale!»

Tseng ritirò lentamente la mano. Non riusciva a capire se la bambina fosse convinta di ciò che diceva o se fosse solo un tentativo per sviarlo; ad ogni modo, non sarebbe mai riuscita a fargli dubitare della sua memoria. Congiunse compostamente le mani dietro la schiena:

« L’unica cosa che ti è richiesta è la tua cooperazione. Niente di più.»

Da lei giunse l’ennesimo deciso rifiuto:

« Non ci credo. » annunciò, categorica « Non vi aiuterò e basta. Ciò che la ShinRa intende con “cooperazione” si trasforma sempre in un brutale sfruttamento incondizionato!»

Spiazzato da quella proprietà di linguaggio così insolita nei bambini della sua età, Tseng riuscì solo a rifugiarsi in un convenzionale:

« Non vogliamo farti del male.» una bugia come le altre, a volte l’unica che riuscisse davvero a tranquillizzare le vittime della ShinRa. Ma Aerith non era una bimba ingenua.

« E’ a causa della ShinRa che i miei genitori sono tornati al Pianeta. Hanno ucciso mio padre e hanno lasciato che mamma morisse senza fare nulla.» la semplicità con cui pronunciò quelle parole fu quasi disarmante « So che mi faranno del male.» scosse il capo « Non tornerò mai in quel posto.»

Probabilmente un altro uomo avrebbe reagito a quella resistenza con ferocia: l’avrebbe afferrata per le braccia, l’avrebbe zittita in qualche modo, non facendosi alcuno scrupolo nel maltrattare una bambina finché si fosse trattato di portare a termine un incarico e guadagnarsi lo stipendio. Tseng non ne fu in grado. Forse si sentiva in qualche modo in debito con lei, forse era solo stanchezza, forse non voleva sporcarsi le mani inutilmente.

Attese qualche istante, osservando il capo chino di Aerith che sembrava in qualche modo imporgli di andare via e lasciarla in pace; la sorpassò facendo scivolare la suola consumata sulla sabbia, raggiungendo poco dopo l’altalena vuota che pendeva dall’impalcatura cigolando appena. Ci si sedette provocando uno scricchiolio inquietante, curvandosi in avanti, le mani intrecciate ed i gomiti sulle ginocchia.

« La morte di tua madre è stata una perdita immensa.» le parole vennero fuori da sole, attingendo informazioni da vecchi rapporti della Sezione Scientifica « La ShinRa non voleva che accadesse. Se non foste scappate, l’avrebbero aiutata e probabilmente sarebbe ancora viva.» sembravano premure vuote, ma era il massimo che riuscisse a fare.

« La mamma voleva scappare perché odiava stare in quel posto. Sapeva che le intenzioni della ShinRa non erano benevole come volevano farci credere.» Aerith rispose dopo qualche istante, senza guardarlo, facendo dondolare un piede nel vuoto « Sono sicura che ora lei stia meglio, anche se non è più qui con me.»

Tseng abbassò lo sguardo sulle proprie mani unite, osservando l’ordine casuale con cui le dita si incrociavano. Pensò a quella bambina che aveva assistito alla morte di suo padre, aveva dovuto subire chissà quali esperimenti, e infine si era sottoposta ad una fuga disperata durante la quale anche sua madre aveva finito per abbandonarla. Dubitava che esternarle il proprio cordoglio potesse servirle a qualcosa.

Mi dispiace. Rimase in silenzio per qualche istante, mentre anche Aerith faceva lo stesso. Sentiva il soffiare innaturale di un vento freddo che veniva da ogni parte. E sopra di loro continuava a nevicare, senza che i bassifondi potessero vedere di che colore fosse la neve.

« Perché non hai lasciato Midgar?» domandò dopo un po’, la voce che ancora una volta perdeva decisione – quel genere di debolezza non gli era concessa perché poteva rendere poco credibile la sua immagine di Turk imbattibile, ma non riuscì in alcun modo a controllarsi « Era ovviamente il primo posto in cui la ShinRa ti avrebbe cercata…se ti fossi allontanata da qui probabilmente non ti avrebbero mai più ritrovata.»

Aerith scosse brevemente il capo:

« Mamma voleva tornare a casa, tra le montagne. Sapeva che scendendo sotto la piastra sarebbe stato più semplice far perdere le proprie tracce.» fece una pausa breve prima di aggiungere, alzando gli occhi per guardarlo « Però poi lei è morta e mamma Elmyra si è presa cura di me. Io le voglio bene, non posso chiederle di venire con me e abbandonare casa sua.» scosse il capo « Sono ancora troppo piccola per viaggiare da sola, mi ha detto. Non voglio farla preoccupare.»

Tseng annuì piano, il mento e le guance lambite dal morbido pellicciotto bianco:

« Capisco.» si sentiva stupido. Perché semplicemente non chiamava i due incapaci della scorta e lasciava che fossero loro a portarla via? Perché perdeva tempo con lei, tentando di mettere in piedi una conversazione che potesse in qualche modo farla sentire a proprio agio?

Aerith si diede una debole spinta con i piedi, ricominciando lentamente a dondolare; la guardò in silenzio, chiedendosi ancora il motivo per cui stesse lì vicino a lei, arrampicandosi sugli specchi ogni volta che doveva aprire bocca e dirle qualcosa, le parole che venivano fuori con difficoltà. Qualsiasi cosa gli venisse in mente gli sembrava inadatta, fuori luogo, inutile e preferiva tenerla per sé. Aveva avuto a che fare solo con uomini per i quali le parole erano un mezzo agile per guadagnare quantità immense di denaro, per trovare accordi, per comandare, per implorare pietà. Bastavano poche frasi concise e impersonali, era sempre stato facile come ripetere le battute di una sceneggiatura immutabile, tentando di recitare la propria parte nel migliore dei modi. Ma la semplice presenza di Aerith gli impediva in qualche modo di attenersi a quel copione, lasciandolo in preda delle onde, alla deriva, in silenzio.

« A me piacerebbe davvero tornare a casa.» ammise lei in un sibilo sommesso, qualche istante dopo, gli occhi di Tseng che volavano nuovamente nella sua direzione « Mamma mi raccontava che d’inverno la neve ricopriva tutto come un manto bianco luminoso e sembrava che tutto brillasse nel raggio di mille miglia.» fece un gesto ampio con le piccole braccia, abbracciando un paesaggio immaginario « Io ero troppo piccola per ricordamene, ma quando mamma me ne parlava pensavo sempre che mi sarebbe piaciuto vederlo un giorno o l’altro.» poco dopo, la bocca della bimba assunse una piega intristita mentre le sue mani tornavano a stringere le funi metalliche dell’altalena « Aspetto l’inverno sempre con ansia nella speranza che nevichi anche qui a Midgar. Ma ogni volta l’inverno nei bassifondi è solamente più freddo dell’autunno e più triste dell’inverno precedente.»

« Magari un giorno,» le parole giunsero in risposta senza che Tseng facesse in tempo a valutarle « quando sarai più grande, potrai andare ad Icicle e vederla con i tuoi occhi.» fece una pausa « Non vale la pena salire sulla piastra per vedere le nevicate rare e grigie di Midgar.»

Aerith gli rivolse un’occhiata incerta, smettendo di dondolarsi: lo studiò attentamente, quasi senza sbattere le palpebre, i suoi occhi grandissimi e ingenui che brillavano come se avessero appena scoperto un tesoro nascosto. Tseng si limitò a ricambiare il suo sguardo, l’espressione che non tradiva alcun turbamento.

E poi Aerith Gainsborough, quella bambina che avrebbe dovuto odiarlo, gli mostrò un sorriso luminoso:

« Un giorno.» confermò, stringendosi nelle spalle in una movenza vezzosa ed infantile « Un giorno ci tornerò di sicuro.»

Il Turk dischiuse le labbra:

« Perché non scappi?» le chiese, mentre lei continuava a ricambiare il suo sguardo senza distoglierlo un solo istante, come se il fatto di averlo al suo fianco non la intimorisse affatto « Perché continui a stare qui con me sapendo che sono venuto solo per riportarti alla ShinRa?»

La risposta della bambina arrivò subito, fulminante, senza esitazione:

« Non credo che tu voglia farmi del male.»

C’era una risata di puro sarcasmo che lottava per risalirgli la gola, ma Tseng riuscì a combatterla; gli sfuggì un sorriso effimero, una piega delle labbra che sapeva di tristezza e di un divertimento malinconico.

« Come puoi esserne così certa?»

« Se i tuoi ordini erano di portarmi alla ShinRa, allora perché non lo fai e basta? Che motivo avevi di fermarti qui a parlarmi?» le parole risolute di Aerith fecero sparire il sorriso dalle labbra del Turk, facendole tornare immote, tese « Non mi sembra che tu muoia dalla voglia di portare a termine il tuo incarico, signore.»

Tseng rimase immobile, gli occhi neri leggermente sgranati, senza trovare il modo di rispondere. Con poche occhiate Aerith lo aveva spogliato di ogni sua copertura, gli aveva sfilato il suo involucro di sicurezza, aveva visto oltre la sua maschera impassibile. Rimase fermo, sentendosi di colpo insicuro, nudo, vulnerabile come nessun Turk avrebbe mai dovuto essere.  

Non è possibile.

Passarono alcuni istanti prima che Tseng riuscisse a fare leva sulle gambe per alzarsi, facendo ondeggiare l’altalena in mille scricchiolii. Mosse il primo passo nella sabbia sentendosi osservato come capitava sempre nei bassifondi, ma il peso di quello sguardo era completamente diverso da quelli a cui era abituato: era sereno, incuriosito e tentava inspiegabilmente di capirlo.

« Dove vai?» Aerith balzò a sua volta giù dall’altalena, muovendo rapidi passi alle sue spalle per seguirlo. Ma Tseng le volse un rapido sguardo di sottecchi e la cosa bastò a fermarla.

« Non seguirmi.» fu l’ultima cosa che le disse prima di allontanarsi dal Settore 6, i lembi dell’impermeabile nero che ondeggiavano nella brezza fredda.

La lasciò lì, da sola nel parco giochi deserto, le scarpette nere che si impolveravano, le frange della sciarpa rosa che danzavano al vento assieme alle pieghe spesse della sua gonna a quadretti.

Quando raggiunse i due fanti che lo avevano pigramente atteso davanti alla casa di Elmyra, li trovò seduti in pose indecorose sui resti usurati di due sedili d’auto. Li fece balzare sull’attenti con la sola forza di un’occhiata.

« Torniamo al Quartier Generale.» annunciò, tirando fuori il PHS, dimenticandosi immediatamente della loro esistenza. E mentre attendeva di ricevere risposta, il telefono nero e sottile premuto contro l’orecchio, si rese conto di aver fallito la prima missione della sua vita.

Nella casa del Settore 5 non c’era traccia della bambina, si disse, il rimbombare ritmico e senza tono della chiamata in attesa che gli riempiva le orecchie. Nessuno avrebbe potuto ribattere al riguardo.

(xxx)

   
 
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