One; • Watching the evening pass by [ μ
] - εуλ
1994 (xxx)
The day he found
the little girl on the swing
---
Era una mattina
nuvolosa di metà inverno quando i
vetri delle finestre si ricoprirono di brina e la neve
iniziò a cadere.
Stringendo
tra le dita una cartella rigida su cui erano appuntati alcuni fogli,
Tseng
sollevò appena lo sguardo verso Rude.
«
Di cosa si
tratta?»
L’uomo
che
si ergeva davanti a lui, superandolo in altezza di un paio di spanne,
aveva la
pelle scura e indossava degli eleganti occhiali da sole: non parlava
mai molto,
ma sapeva essere molto efficiente in qualsiasi incarico gli
affidassero. Tseng
lo apprezzava perché sembrava affrontare il lavoro con il
suo stesso spirito:
non faceva mai domande scomode, né tendeva ad impicciarsi
nei fatti altrui –
una virtù che si era rivelata molto rara tra gli impiegati
della ShinRa. Anche
i silenzi che spesso cadevano tra loro due quando si ritrovavano a
condividere
un incarico non si rivelavano essere né pesanti
né fastidiosi: Tseng li
interpretava come una sorta di pacato e reciproco rispetto, un
disinteresse
discreto che poteva trasformarsi in un etere benefico nei momenti di
maggior
difficoltà.
«
Un lavoro per
conto della Sezione Scientifica.» Rude diede le necessarie
spiegazioni
mantenendo il suo solito cipiglio severo « Ci lasciano
autonomia organizzativa,
ma vogliono che sia portato a termine entro la fine del mese.»
Tseng
annuì
dopo un attimo, incrinando un lugubre silenzio carico di significato:
«
Capisco.»
quando gli altri organismi operativi della ShinRa cercavano in tutti i
modi di
liberarsi di qualsiasi responsabilità poteva significare due
sole cose: o si
trattava di operazioni ben oltre la soglia del top
secret, o si trattava di un assassinio. E
nell’ultimo caso, per
gli esecutivi non esistevano mercenari più affidabili dei
Turks.
Iniziò
ad
esaminare il caso sotto gli occhi del collega, senza farsi distrarre
dal ronzio
del neon in sottofondo, o dai passi lontani delle impiegate che
avanzavano
lungo i corridoi con i tacchi alti. Sfogliò le pagine
dandovi rapide occhiate,
registrando le informazioni fondamentali. Aveva sempre avuto delle doti
mnemoniche molto sviluppate: la chiamavano memoria
fotografica – il suo cervello immagazzinava ogni
piccola informazione,
impressionandola nella sua memoria come un’ istantanea a
colori. Una capacità
che poteva rivelarsi estremamente utile in certi frangenti, ma che a
volte lo
aveva costretto a sporcarsi ulteriormente le mani.
Cetra --- Flusso Vitale --- Ifalna ---
Tseng
lesse
il mandato di quella nuova missione focalizzando l’attenzione
sulle parole
chiave, individuando un nome, Aerith
Gainsborough. E infine voltò l’ultima
pagina, fissando a lungo la piccola
foto quadrata che immortalava il volto inespressivo e rotondo
dell’obbiettivo.
Una bambina.
Raggelò,
mentre
le dita si serravano sul bordo della cartella con tanta forza che un
minimo
movimento avrebbe potuto spaccarla. Alzò ancora la testa,
cercando lo sguardo
del suo collega, come alla ricerca di qualche conferma:
l’uomo gli restituì
l’occhiata, corrugando profondamente le sopracciglia.
«
Non è come
pensi.» Rude scosse il capo « Dobbiamo trovarla e
consegnarla al laboratorio.»
La presa
di
Tseng sulla cartella si allentò:
«
Capisco.»
non tirò alcun respiro di sollievo, ma sentì il
petto rilassarsi gradualmente. Percepì
il peso di quell’incarico piombargli sulle spalle, come
sempre succedeva quando
arrivavano nuovi ordini – si chiese brevemente quale fosse la
differenza tra
uccidere una persona e consegnarla al laboratorio e dopo qualche
istante,
socchiudendo tristemente le palpebre, concluse che, a lungo andare, le
due cose
avrebbero probabilmente coinciso.
Tornò
con
gli occhi alla piccola foto, fissandola brevemente prima di consegnare
il
fascicolo nuovamente tra le mani di Rude. La sua memoria fotografica lo
accecava con rapidi lampi di luce e frammenti di vetro colorato,
componendo un
mosaico pieno di sfaccettature e brevi sprazzi di passato. Aveva la
certezza
matematica ed inspiegabile di aver già incontrato quella
bambina.
L’uomo
con
gli occhiali sfilò la foto dalla cartella, studiandola:
«
Saresti in
grado di riconoscerla?»
Tseng gli
rivolse un’occhiata bieca, mentre spostava appena la manica
della giacca per
scoprire l’orologio:
«
Con chi
pensi di avere a che fare?»
Rude
grugnì
con tono grave in risposta.
«
Bene.»
Le dieci e quarantuno. Le lancette
nere ed appuntite si erano appena spostate sul quadrante dorato nel
cogliere lo
scoccare dell’ennesimo minuto della giornata; Tseng
seguì con poco interesse i
primi due scatti che scandivano l’inizio di un nuovo giro.
Nascondendo il polso
sotto la stoffa della camicia, esaminò mentalmente le
informazioni che aveva
appena raccolto: lesse di un quartiere diroccato nel Settore 5, poco
lontano
dalle mura di confine che lo dividevano da Wall Market. Avrebbe
facilmente
portato a termine i preparativi per scendere nei bassifondi nel giro di
tre
quarti d’ora – e con un po’ di fortuna,
avrebbe concluso la missione con largo
anticipo.
«
Mi
occuperò io di prelevarla, tu limitati a stendere il
rapporto.» concluse,
sistemando svogliatamente i gemelli nelle maniche « Puoi
informare Heidegger
che mi recherò nei bassifondi del Settore 5 questa sera
stessa.»
Rude
annuì:
«
Hai
bisogno di una scorta?»
Tseng
scosse
il capo, voltandogli le spalle:
«
Non credo
sia opportuno, ma due unità basteranno.»
sospirò silenziosamente nel fermarsi
davanti alle porte chiuse dell’ascensore.
D’altronde con chi aveva a che fare?
Si trattava solo di una bambina.
«
Riferirò.»
Rude annuì ancora e si allontanò lungo i corridoi
senza aggiungere altro. Non
sprecava fiato, non faceva domande, non diceva mai niente che non fosse
necessario.
Era tutto
ciò di cui Tseng avesse bisogno.
Dentro
l’ascensore, poggiò le dita sul vetro
freddo ed incrostato di ghiaccio, la neve che cadeva lentamente,
irraggiungibile e leggera, davanti ai suoi occhi.
Il
panorama
che lo accolse nei bassifondi era lo stesso di sempre: una
città triste e in
decadenza che continuava a trascinarsi nella povertà e a
sopravvivere come
meglio poteva, arrancando tra i rifiuti e le rovine,
all’ombra di un cielo
opprimente foriero solo di cattivi auspici. Ogni volta che metteva
piede in
quella cupa prigione di lamiera e pietra – osservando
l’elicottero che
atterrava sollevando turbinii di polvere e detriti – Tseng si
sentiva sempre in
qualche modo afferrare dall’ansia. L’aria era
densa, una melma maleodorante che
gli si insinuava nei polmoni ad ogni respiro. Ma probabilmente
l’inquinamento era
solo uno dei motivi del suo disagio.
Quando un
Turk appariva nei bassifondi, l’atmosfera nelle baraccopoli
subiva un mutamento
repentino ed inquietante. Le strade diventavano di colpo deserte, ogni
rumore
si annullava in un silenzio innaturale e assoluto, come in una sorta di
terrorizzata attesa. Lì nei bassifondi la divisa blu sapeva
solo preannunciare
disgrazie.
Tseng
avanzò, sentendo gli sguardi invisibili della gente
trafiggerlo da ogni parte,
spiandolo da nascondigli che non era interessato a scovare. Il freddo
invernale
dei bassifondi era umido e odorava di muffa, ma in quella situazione
riuscì ad
insinuarsi dentro di lui fino in fondo alle ossa – si strinse
maggiormente nel
soprabito di pelle, sentendo il colletto di pelliccia bianca che gli
sfiorava
il collo. La maggior parte degli omicidi che aveva compiuto per lavoro
si erano
consumati in quelle strade sterrate, in silenzio, nei vicoli ciechi,
nell’unico
luogo in cui la morte di un uomo si sarebbe semplicemente aggiunta alle
tante
che l’avevano preceduta, senza sconvolgere nessuno.
Quante vittime della ShinRa sono
seppellite tra
questi rifiuti?
Era la domanda che lo tormentava ogni volta che era
costretto a percorrere quei sentieri polverosi, il volto inespressivo
che
tentava in tutti i modi di ostentare sicurezza. Sembrava quasi che i
bassifondi
raccogliessero gli scarti della ShinRa come una discarica, un cimitero
in cui
ogni cosa veniva seppellita e cessava semplicemente di esistere.
Gli
uomini
della sua sparuta scorta lo seguivano in silenzio, del tutto ignari,
quasi
godendo del timore che la loro presenza sembrava incutere negli
abitanti. I
fanti erano sempre ignoranti pieni di boria – avevano sempre
l’ingenua
convinzione che ogni loro gesto fosse giustificato, che potessero
contravvenire
alle leggi senza doverne pagare le conseguenze.
Era
semplice, per chi doveva semplicemente assistere mentre erano gli altri
a
sporcarsi le mani e a caricarsi delle responsabilità.
Tseng li
ignorò, continuando ad avanzare come se non esistessero.
Quando
raggiunse la casa, la riconobbe all’istante: gli era stata
mostrata una foto
durante il breve viaggio in elicottero. Era una delle poche abitazioni
sopravvissute
alla demolizione totale che
E quando
prese in mano il batacchio e lo premette tre volte contro il portone,
ad
intervalli brevi e regolari, gli parve quasi di violare un santuario.
Sei mai riuscito a toccare qualcosa
senza
rovinarla?
Le mani
di Tseng non erano mai state in
grado di
fare altro.
Sapevano
solo profanare tesori inestimabili.
Non
degnò di
un’occhiata i fanti bisbiglianti alle proprie spalle, mentre
attendeva
compostamente che la porta si aprisse. Aveva già
raccomandato loro di tenersi a
debita distanza.
La donna
che
apparve oltre la porta dischiusa aveva i capelli castani e gli angoli
degli
occhi segnati da lievi rughe d’espressione. Lo
studiò con discrete occhiate
perplesse, sistemandosi uno scialle sfrangiato di lana intrecciata
sulle spalle
con movimenti lenti. Tseng attese qualche istante prima di aprire
bocca: il
modo in cui lo sguardo gentile della donna si era illuminato di
sospetto gli
aveva in qualche modo fatto sentire più freddo.
«
Buonasera.»
esordì alla fine, mostrandole il proprio badge «
Sono Tseng, della Sezione
Investigazioni.» nascose la tessera sotto il soprabito, in
una tasca della
giacca – non era mai molto fiero di mostrarla, ma era
necessario per fare in
modo che la gente lo ascoltasse « Spero che la mia presenza
qui non le arrechi
disagio.» che osservazione stupida. Come se esistesse un
luogo in cui uno come
lui potesse essere benaccetto. Si sentì ridicolo, ma non
c’era altro modo.
La donna
si
accostò lentamente allo stipite della porta, indietreggiando
piano. Come
previsto, il tesserino di riconoscimento faceva il suo effetto.
«
Siete della
ShinRa?» chiese infine, la mano che tremava appena sulla
maniglia, anche se il
volto ostentava un contegno signorile.
«
Corretto.»
Tseng le rivolse un breve cenno del capo, senza distogliere gli occhi
per un
solo istante; aveva imparato che spesso volgere lo sguardo altrove
poteva
essere interpretato come un segno di incertezza, e
l’esitazione era ciò che
rendeva un Turk debole. « Lei è la signora
Elmyra?»
«
Sono io.»
lei annuì, intrecciando le mani sul ventre « Cosa
posso fare per voi?»
« Abbiamo
avuto notizia
che lei si sta prendendo cura di una bambina di nome Aerith.»
le mostrò uno
sguardo perentorio « Vorremmo che ce la
riconsegnaste.»
La donna
batté le
palpebre con aria confusa:
« Temo di
non capire.»
ammise, le dita che correvano alla fronte corrugata, là dove
una ciocca di
capelli mossi era sfuggita dalla crocchia castana « Cosa
c’entra Aerith con
« Se
avrà la pazienza di
ascoltarmi, le spiegherò tutto.» distolse appena
lo sguardo, osservando gli
scorci dell’interno della casa oltre le spalle curve di
Elmyra – intravide il
corrimano di ciliegio di una corta scalinata, il profilo smussato di un
tavolo
ed i ricami di un tovaglia azzurra che pendeva mollemente dai bordi.
Passato qualche
istante, dopo essersi soffermato su di un vaso panciuto che conteneva
dei rari
boccioli di orchidee bianche, chiese ancora «
Dov’è la bambina?»
La donna scosse il
capo:
«
E’ uscita dopo pranzo
dicendo che sarebbe andata a giocare nel Settore 6 insieme ad altri
bambini.»
la linea della sua bocca divenne di colpo tesa « Vorrei prima
capire il motivo
per cui la cercate.» si fece da parte, muovendo qualche passo
verso l’interno
della casa « Posso offrirle un thè?»
Tseng si
limitò ad osservare
in silenzio la mano aperta di Elmyra che gli indicava cortesemente
l’interno
della casa, come ad invitarlo ad entrare. Si chiese quale accoglienza
gli
sarebbe stata riservata se la donna avesse saputo esattamente quali
fossero le
intenzioni della ShinRa riguardo la bambina. Annuendo piano, non
riuscì a
declinare: probabilmente era un gesto di gentilezza incondizionata o di
semplice ingenuità, ma era certo che non avrebbe mai
più ricevuto una proposta
simile. Come se lui fosse un uomo di cui ci si poteva fidare.
« La
ringrazio molto.»
oltrepassò la soglia, sfilandosi poco dopo il cappotto che
gocciolava di
condensa.
Quando decise di
andare
nel Settore
«
Aspettatemi qui.»
ordinò, sistemandosi il colletto del soprabito; mosse un
passo nella polvere,
voltando loro le spalle. Gli parve di sentire qualche loro commento
sommesso,
poi una domanda dubbiosa e stizzita riguardo le sue intenzioni, ma
finse di non
sentirle, lasciandoseli alle spalle. Era stata una decisione improvvisa
e non
voleva che nessuno interferisse – si sentiva mosso da una
strana ed
inspiegabile impazienza. Aveva preventivato di concludere la missione
entro la
fine della serata e sapeva che un fallimento o un ritardo avrebbe
deluso i suoi
superiori, ma mentre avanzava gli parve che il desiderio di trovare
Aerith non
fosse del tutto legato al suo spiccato senso del dovere.
Controllò l’orologio,
riconoscendo in un attimo la posizione delle lancette. Era
abbondantemente in
ritardo sulla tabella di marcia. E subito dopo, abbassando lo sguardo
sui
propri passi che avanzavano nel pulviscolo, si chiese Chi sei,
Aerith Gainsborough?
Affondò le
mani nelle
tasche del giaccone, ricostruendo mentalmente il volto della bambina
della
foto. La memoria continuava a bisbigliargli parole inquiete e confuse,
mostrandogli brevi flash di una scena che lui stesso aveva vissuto ma
che
trovava difficile inquadrare. La cosa lo metteva estremamente a disagio
– era
abituato ad avere sempre pieno controllo dei propri ricordi, erano
sempre così
particolareggiati e vividi che gli bastava ripensarci per cogliere
tutto ciò di
cui aveva bisogno. Perché il bagliore verde degli occhi di
quella bambina lo
confondeva?
Aerith
ha un cuore gentile,
le parole di Elmyra lo avevano colpito tanto che
non era riuscito a pensare ad altro sin da quando la donna lo aveva
congedato
pregandolo di non tornare mai più; la
prego, lasciatela stare. E’ giusto che possa vivere
spensieratamente la sua
vita, con tutta sé stessa. La fronte della donna
si era corrugata
profondamente, mentre con la mano si accingeva a chiudergli la porta in
faccia,
So che tornare nelle vostre prigioni non
è ciò che lei vorrebbe, e sono sicura che la cosa
porterebbe giovamento solo a
voi. La vita nei bassifondi è dura per i bambini. Tseng
era rimasto fermo
davanti al portone serrato per alcuni istanti, fissando il vuoto, le
suole che
affondavano sul tappetino di benvenuto. L’oasi di pace nel
Settore 5 lo aveva
bandito.
Superò il
quartiere senza
che gli sguardi terrorizzati della gente lo turbassero, concentrandosi
sul suo
obbiettivo e nient’altro.
Quando si
ritrovò davanti
allo squarcio che deturpava le mura di confine tra i due Settori e li
metteva abusivamente
in comunicazione, esitò qualche istante. Un enorme graffito
di vernice rossa
incombeva su di lui come una inquietante provocazione scritta con il
sangue.
Attraversò il passaggio, tentando di non pensarci.
Il parco giochi era
piccolo e squallido, circondato da un basso recinto di metallo. Contava
cinque
o sei sgangherate ed usurate strutture di plastica impolverata o di
metallo deformato:
alcune di esse sembravano curiose sculture d’arte moderna,
basse e strette
gabbie di ferro arrugginito e ossidato. Tseng si guardò
intorno, immagazzinando
informazioni nell’eventualità si fosse rivelato
necessario tornare in quel
posto: nelle vicinanze dell’unico basso scivolo sbilenco,
vide una stretta
aiuola nella quale i bambini avevano ovviato alla mancanza dei fiori
assemblandovi con delle grosse pietre rotonde una figura che ricordava
vagamente un pupazzo di neve.
Trovò la
bambina poco
dopo, avanzando a passi lenti verso il centro del piazzale. Si
dondolava piano
sull’altalena, provocando un basso e continuo cigolare. E fu
in quello stesso
istante che la mente di Tseng riuscì a mettere ogni
frammento al proprio posto,
ricostruendo istantaneamente quel ricordo confuso che fino ad allora
gli era
sfuggito. Ogni pezzo trovò la giusta collocazione, mille
schegge di uno
specchio infranto che si accostavano e lo ricomponevano con precisione
infinitesimale. La piccola Aerith se ne stava lì, si
stringeva in una spessa
sciarpa rosa che le copriva il naso e la bocca. Seguiva con
intensità l’oscillare
dei propri piedi
sospesi, apparentemente
senza curarsi dell’altra altalena vuota immobile vicino a
lei, o del silenzio
che gravava sull’ambiente circostante.
E Tseng la riconobbe,
rivide i suoi occhi verdi e grandi che lo fissavano, il bianco
abbagliante del
camicie da laboratorio che le copriva appena le ginocchia,
sentì in sottofondo la
sua voce squillante da bambina che pronunciava quella frase misteriosa
– Non essere triste.
Le uniche parole di
consolazione che gli fossero mai state rivolte da quando era diventato
un Turk.
Sembrava essere
passata
un’eternità.
Impossibile. Se lo disse a bassa voce, sgranando appena gli
occhi mentre si fermava a
pochi passi da lei. Di colpo, il bisogno di parlarle divenne
impellente, una
necessità tanto forte che somigliava quasi alla sete. Si
accostò
all’impalcatura dell’altalena, studiando i suoi
movimenti lenti e pensierosi, e
quando aprì bocca per attirare la sua attenzione, la voce
fuoriuscì leggermente
roca:
« Aerith?
»
Lei si
voltò di scatto
nella sua direzione, gli occhi spalancati che esprimevano una sorpresa
curiosa
più che la paura che Tseng aveva immaginato. Interruppe il
moto dell’altalena
immobilizzando le gambe, le punte impolverate delle sue scarpette nere
che
sfioravano il terreno senza riuscire a toccarlo. Lo guardò
battendo le palpebre
un paio di volte, inclinando la testa di lato mentre si soffermava
interessata
sulla pelliccia bianca del suo soprabito e sulla sua fronte alta e
scoperta.
«
Ciao.» rispose dopo un
po’, le sopracciglia che si aggrottavano lievemente; non ebbe
la minima
esitazione quando poi gli chiese, l’espressione che si
incupiva appena « Sei
della ShinRa, vero?»
Tseng non
poté fare a
meno di annuire; l’urgenza di portare a termine
l’incarico tornò con tale
violenza da mozzargli il respiro, riportandolo con irruenza con i piedi
per
terra. Come al solito era caduto nella trappola che tendeva a
sé stesso in ogni
occasione: si era per un istante illuso che quella bambina che una
volta gli
aveva teso inspiegabilmente un mano d’aiuto, potesse
trattarlo diversamente. Ma
dopotutto lui era
l’uomo crudele che l’avrebbe riportata alla ShinRa.
« Mi chiamo
Tseng.» disse
infine, la voce nuovamente decisa e limpida «
Aerith scosse forte il
capo, senza neanche permettergli di finire la frase:
« Non voglio
tornare alla
ShinRa.» distolse gli occhi dalla mano di Tseng, tornando a
fissare i propri
piedi « Cosa vogliono ancora da me? Sono solo una bambina
come le altre.»
« Sai che
non è così.» le
parole di Tseng le fecero premere le labbra le une contro le altre
« Hai
ereditato il sangue di tua madre e con esso la conoscenza dei
Cetra.»
« E con
questo?» la bocca
di Aerith assunse una piega ostinata « Non è
niente di speciale!»
Tseng
ritirò lentamente
la mano. Non riusciva a capire se la bambina fosse convinta di
ciò che diceva o
se fosse solo un tentativo per sviarlo; ad ogni modo, non sarebbe mai
riuscita
a fargli dubitare della sua memoria. Congiunse compostamente le mani
dietro la
schiena:
«
L’unica cosa che ti è
richiesta è la tua cooperazione. Niente di
più.»
Da lei giunse
l’ennesimo deciso
rifiuto:
« Non ci
credo. »
annunciò, categorica « Non vi aiuterò e
basta. Ciò che
Spiazzato da quella
proprietà di linguaggio così insolita nei bambini
della sua età, Tseng riuscì
solo a rifugiarsi in un convenzionale:
« Non
vogliamo farti del
male.» una bugia come le altre, a volte l’unica che
riuscisse davvero a
tranquillizzare le vittime della ShinRa. Ma Aerith non era una bimba
ingenua.
«
E’ a causa della ShinRa
che i miei genitori sono tornati al Pianeta. Hanno ucciso mio padre e
hanno
lasciato che mamma morisse senza fare nulla.» la
semplicità con cui pronunciò
quelle parole fu quasi disarmante « So che mi faranno del
male.» scosse il capo
« Non tornerò mai in quel posto.»
Probabilmente un altro
uomo avrebbe reagito a quella resistenza con ferocia:
l’avrebbe afferrata per
le braccia, l’avrebbe zittita in qualche modo, non facendosi
alcuno scrupolo
nel maltrattare una bambina finché si fosse trattato di
portare a termine un
incarico e guadagnarsi lo stipendio. Tseng non ne fu in grado. Forse si
sentiva
in qualche modo in debito con lei, forse era solo stanchezza, forse non
voleva
sporcarsi le mani inutilmente.
Attese qualche
istante,
osservando il capo chino di Aerith che sembrava in qualche modo
imporgli di
andare via e lasciarla in pace; la sorpassò facendo
scivolare la suola
consumata sulla sabbia, raggiungendo poco dopo l’altalena
vuota che pendeva
dall’impalcatura cigolando appena. Ci si sedette provocando
uno scricchiolio
inquietante, curvandosi in avanti, le mani intrecciate ed i gomiti
sulle
ginocchia.
« La morte
di tua madre è
stata una perdita immensa.» le parole vennero fuori da sole,
attingendo
informazioni da vecchi rapporti della Sezione Scientifica «
« La mamma
voleva
scappare perché odiava stare in quel posto. Sapeva che le
intenzioni della
ShinRa non erano benevole come volevano farci credere.»
Aerith rispose dopo qualche
istante, senza guardarlo, facendo dondolare un piede nel vuoto
« Sono sicura
che ora lei stia meglio, anche se non è più qui
con me.»
Tseng
abbassò lo sguardo
sulle proprie mani unite, osservando l’ordine casuale con cui
le dita si
incrociavano. Pensò a quella bambina che aveva assistito
alla morte di suo
padre, aveva dovuto subire chissà quali esperimenti, e
infine si era sottoposta
ad una fuga disperata durante la quale anche sua madre aveva finito per
abbandonarla. Dubitava che esternarle il proprio cordoglio potesse
servirle a
qualcosa.
Mi
dispiace. Rimase in
silenzio per qualche istante, mentre anche Aerith faceva lo
stesso. Sentiva il soffiare innaturale di un vento freddo che veniva da
ogni
parte. E sopra di loro continuava a nevicare, senza che i bassifondi
potessero
vedere di che colore fosse la neve.
«
Perché non hai lasciato
Midgar?» domandò dopo un po’, la voce
che ancora una volta perdeva decisione –
quel genere di debolezza non gli era concessa perché poteva
rendere poco
credibile la sua immagine di Turk imbattibile, ma non riuscì
in alcun modo a
controllarsi « Era ovviamente il primo posto in cui
Aerith scosse
brevemente
il capo:
« Mamma
voleva tornare a
casa, tra le montagne. Sapeva che scendendo sotto la piastra sarebbe
stato più
semplice far perdere le proprie tracce.» fece una pausa breve
prima di
aggiungere, alzando gli occhi per guardarlo « Però
poi lei è morta e mamma
Elmyra si è presa cura di me. Io le voglio bene, non posso
chiederle di venire
con me e abbandonare casa sua.» scosse il capo «
Sono ancora troppo piccola per
viaggiare da sola, mi ha detto. Non voglio farla preoccupare.»
Tseng annuì
piano, il
mento e le guance lambite dal morbido pellicciotto bianco:
«
Capisco.» si sentiva
stupido. Perché semplicemente non chiamava i due incapaci
della scorta e
lasciava che fossero loro a portarla via? Perché perdeva
tempo con lei,
tentando di mettere in piedi una conversazione che potesse in qualche
modo
farla sentire a proprio agio?
Aerith si diede una
debole spinta con i piedi, ricominciando lentamente a dondolare; la
guardò in
silenzio, chiedendosi ancora il motivo per cui stesse lì
vicino a lei,
arrampicandosi sugli specchi ogni volta che doveva aprire bocca e dirle
qualcosa, le parole che venivano fuori con difficoltà.
Qualsiasi cosa gli
venisse in mente gli sembrava inadatta, fuori luogo, inutile e
preferiva
tenerla per sé. Aveva avuto a che fare solo con uomini per i
quali le parole
erano un mezzo agile per guadagnare quantità immense di
denaro, per trovare
accordi, per comandare, per implorare pietà. Bastavano poche
frasi concise e
impersonali, era sempre stato facile come ripetere le battute di una
sceneggiatura immutabile, tentando di recitare la propria parte nel
migliore
dei modi. Ma la semplice presenza di Aerith gli impediva in qualche
modo di
attenersi a quel copione, lasciandolo in preda delle onde, alla deriva,
in
silenzio.
« A me
piacerebbe davvero
tornare a casa.» ammise lei in un sibilo sommesso, qualche
istante dopo, gli
occhi di Tseng che volavano nuovamente nella sua direzione «
Mamma mi
raccontava che d’inverno la neve ricopriva tutto come un
manto bianco luminoso e
sembrava che tutto brillasse nel raggio di mille miglia.»
fece un gesto ampio
con le piccole braccia, abbracciando un paesaggio immaginario
« Io ero troppo
piccola per ricordamene, ma quando mamma me ne parlava pensavo sempre
che mi
sarebbe piaciuto vederlo un giorno o l’altro.» poco
dopo, la bocca della bimba
assunse una piega intristita mentre le sue mani tornavano a stringere
le funi
metalliche dell’altalena « Aspetto
l’inverno sempre con ansia nella speranza
che nevichi anche qui a Midgar. Ma ogni volta l’inverno nei
bassifondi è
solamente più freddo dell’autunno e più
triste dell’inverno precedente.»
« Magari un
giorno,» le
parole giunsero in risposta senza che Tseng facesse in tempo a
valutarle « quando
sarai più grande, potrai andare ad Icicle e vederla con i
tuoi occhi.» fece una
pausa « Non vale la pena salire sulla piastra per vedere le
nevicate rare e
grigie di Midgar.»
Aerith gli rivolse
un’occhiata incerta, smettendo di dondolarsi: lo
studiò attentamente, quasi
senza sbattere le palpebre, i suoi occhi grandissimi e ingenui che
brillavano
come se avessero appena scoperto un tesoro nascosto. Tseng si
limitò a
ricambiare il suo sguardo, l’espressione che non tradiva
alcun turbamento.
E poi Aerith
Gainsborough, quella bambina che avrebbe dovuto odiarlo, gli
mostrò un sorriso
luminoso:
« Un
giorno.» confermò,
stringendosi nelle spalle in una movenza vezzosa ed infantile
« Un giorno ci
tornerò di sicuro.»
Il Turk dischiuse le
labbra:
«
Perché non scappi?» le
chiese, mentre lei continuava a ricambiare il suo sguardo senza
distoglierlo un
solo istante, come se il fatto di averlo al suo fianco non la
intimorisse
affatto « Perché continui a stare qui con me
sapendo che sono venuto solo per
riportarti alla ShinRa?»
La risposta della
bambina
arrivò subito, fulminante, senza esitazione:
« Non credo
che tu voglia
farmi del male.»
C’era una
risata di puro
sarcasmo che lottava per risalirgli la gola, ma Tseng riuscì
a combatterla; gli
sfuggì un sorriso effimero, una piega delle labbra che
sapeva di tristezza e di
un divertimento malinconico.
« Come puoi
esserne così
certa?»
« Se i tuoi
ordini erano
di portarmi alla ShinRa, allora perché non lo fai e basta?
Che motivo avevi di
fermarti qui a parlarmi?» le parole risolute di Aerith fecero
sparire il
sorriso dalle labbra del Turk, facendole tornare immote, tese
« Non mi sembra
che tu muoia dalla voglia di portare a termine il tuo incarico,
signore.»
Tseng rimase immobile,
gli occhi neri leggermente sgranati, senza trovare il modo di
rispondere. Con
poche occhiate Aerith lo aveva spogliato di ogni sua copertura, gli
aveva
sfilato il suo involucro di sicurezza, aveva visto oltre la sua
maschera
impassibile. Rimase fermo, sentendosi di colpo insicuro, nudo,
vulnerabile come
nessun Turk avrebbe mai dovuto essere.
Non
è possibile.
Passarono alcuni
istanti
prima che Tseng riuscisse a fare leva sulle gambe per alzarsi, facendo
ondeggiare l’altalena in mille scricchiolii. Mosse il primo
passo nella sabbia
sentendosi osservato come capitava sempre nei bassifondi, ma il peso di
quello
sguardo era completamente diverso da quelli a cui era abituato: era
sereno,
incuriosito e tentava inspiegabilmente di capirlo.
«
Dove vai?» Aerith balzò a sua volta
giù dall’altalena, muovendo rapidi passi alle sue
spalle per seguirlo. Ma Tseng
le volse un rapido sguardo di sottecchi e la cosa bastò a
fermarla.
«
Non seguirmi.» fu l’ultima cosa che
le disse prima di allontanarsi dal Settore 6, i lembi
dell’impermeabile nero
che ondeggiavano nella brezza fredda.
La
lasciò lì, da sola nel parco giochi
deserto, le scarpette nere che si impolveravano, le frange della
sciarpa rosa
che danzavano al vento assieme alle pieghe spesse della sua gonna a
quadretti.
Quando
raggiunse i due fanti che lo
avevano pigramente atteso davanti alla casa di Elmyra, li
trovò seduti in pose
indecorose sui resti usurati di due sedili d’auto. Li fece
balzare sull’attenti
con la sola forza di un’occhiata.
«
Torniamo al Quartier Generale.»
annunciò, tirando fuori il PHS, dimenticandosi
immediatamente della loro
esistenza. E mentre attendeva di ricevere risposta, il telefono nero e
sottile
premuto contro l’orecchio, si rese conto di aver fallito la
prima missione
della sua vita.
Nella casa del Settore 5 non c’era traccia della bambina, si disse, il rimbombare ritmico e senza tono della chiamata in attesa che gli riempiva le orecchie. Nessuno avrebbe potuto ribattere al riguardo.
(xxx)