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Autore: lilly81    30/10/2009    18 recensioni
Brevi ed intensi racconti, capsule da mandare giù tutte d’un fiato, per narrare momenti qualunque della convivenza tra Bulma ed il principe dei saiyan. NUOVI AGGIORNAMENTI!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule

 

EPISODIO XII

 

 

Quanto dolce e quanto gustoso era sentire il sapore del sangue mescolarsi alla saliva!

Lo deglutì come una caramella balsamica, se lo buttò giù per la gola come un whisky corroborante in una serata d’inverno.

Vegeta restò a fissare quella punta di legno sporca di sangue che gli aveva trapassato la carne, tornò a leccarla senza vergogna mentre lo sguardo vagava ramingo nell’aria, si posava alla pari di una tremula farfalla prima sul tavolo di fronte, poi sul tappeto che aveva sotto i piedi scalzi, infine sulla finestra oscura, alla ricerca quasi di una via d’uscita che le membra ormai svigorite non gli avrebbero potuto offrire.

Il petto, che si sollevava con un moto lento, ebbe un fremito nel momento in cui il braccio si appesantì oltre il bracciolo del divano, quasi fosse stato un arto a sé stante, come una coda tranciata che ancora si contorce così il pugno chiuso ebbe ancora un palpito di vita e poi si sciolse.

Proprio lì sull’impiantito incominciò a raccogliersi una chiazza scura, la quale produsse un lugubre ticchettio, e alla pari di una serpe sbucata da un cespuglio scivolò piano nella penombra realizzata dalla lampada ed agguantò il margine del tappeto.

Non era mai arrivato a tal punto di disgusto per se stesso, ad una considerazione tanto infima della sua esistenza, aveva sempre pensato che i saiyan fossero nati soltanto per combattere e che combattendo avrebbero trovato la fine più degna, con la faccia nella polvere, gli occhi sbarrati, le budella da fuori: i saiyan  non morivano tra quattro mura domestiche, non si mettevano comodi su un divano come un vecchio decrepito.

Ora, il principe dei saiyan era simile a una balena arenata sulla spiaggia la quale non immagina quanto stretto possa diventare un oceano, quanta fallace sia la sua maestosità a confronto degli altri miseri pesci quando nuota e fa schiumare le acque.

Le balene muoiono negli abissi più profondi, il tonfo delle loro carcasse richiama gli altri pesci che accorrono veloci, allo stesso modo i saiyan si spengono sul campo di battaglia e la loro morte genera un’eco fino ai confini dell’universo, ma non sempre la natura segue schemi prefissi, a volte è come una donna volubile che prima ama un uomo e poi lo tradisce.

Vegeta avrebbe voluto morire alla maniera che più gli confaceva, ma ora non c’erano nemici, c’erano solo lui, il divano, quella chiazza scura che si allargava sul pavimento e la pioggia che scrosciava fuori senza sosta.

Eppure quanto piacevole era quel tepore che pervadeva le membra, quell’incoscienza che a poco a poco annebbiava il cervello e non gli faceva pensare alla sua miseria!

Voleva morire e sguazzava in quel desiderio come un bambino a piedi nudi che gioca in un putrido stagno, a tratti voleva risollevarsi ma era come se il fango si fosse già cementificato intorno alle ginocchia.

Il battito di ciglia sembrò definitivamente fermarsi quando un colpo assestato ai vetri della finestra lo fece tornare all’erta.

La sagoma apparsa gettò un’occhiata all’interno della stanza col naso schiacciato contro il vetro, poi tornò a bussare concitatamente prima contro la finestra, poi contro la porta in un disperato andirivieni:

“Apri! Ma che cosa stai facendo?” urlò Bulma che reggeva in braccio il piccolo Trunks “ti supplico, apri!” il pannello elettronico che apriva la porta automaticamente al riconoscimento dell’impronta digitale non rispose ai comandi, così la donna rovesciò tutto il contenuto della sua borsetta alla ricerca delle chiavi, mentre il bambino scalciava felice e osservava gli spiccioli e altre cianfrusaglie varie tintinnare sui gradini.

“Apri, ti ho detto! Mi senti sì o no?! Ma sei impazzito?!” la schiena era ricurva, il volto stravolto. Poco mancò che pure il bambino finisse a terra.

Vegeta restò immobile quasi fosse stato un elemento decorativo del divano, un altro inutile cuscino gettato lì sopra da scuotere ogni mattino al momento delle pulizie.

Quando Bulma riuscì a entrare da una porta secondaria collocata nel retro della villa e raggiunse la stanza, Vegeta si rigirò tra le dita lo stuzzicadenti e con la punta della lingua rimosse il grumo di sangue che era rimasto tra gli incisivi.

La donna e il piccolo Trunks erano fradici fino alle ossa, se il bambino sembrava divertito da quella situazione e scalciava con il pannolino inzuppato di pipì e di acqua, la donna gli avrebbe volentieri gettato contro la prima cosa capitata a tiro se fosse servita almeno a gonfiargli un occhio:

“Si può sapere perché non sei venuto ad aprirmi?” si avventarono addosso le sue domande senza scomporlo come uno sciame di vespe su un apicoltore “non mi dire che stavi dormendo, ho visto benissimo che avevi gli occhi aperti!”.

Bulma registrò la chiazza scura sul pavimento, notò anche la bottiglia con l’etichetta rossa riversa a terra:

“Sarai mica ubriaco?” lo squadrò con disappunto.

Allora Vegeta si sporse in avanti, raccolse la bottiglia di rum rimasta intatta al momento della caduta, la poggiò sul tavolino e ci mise sopra anche i suoi piedi:

“Mai stato più lucido”.

La donna allargò le braccia e altra acqua si raccolse ai suoi piedi, la mascella tremò per il freddo e le spalle tornarono a ingobbirsi: se non fosse stato per lo sguardo furioso, avrebbe fatto quasi pena poiché solo quello le era rimasto di riconoscibile e dignitoso.

“Non esistono più le mezze stagioni!” cambiò discorso “faceva caldo fino a poche settimane fa e ora guarda che tempo!” un nucleo di aria fredda spirava dai monti Paoz dalla notte precedente scacciando di prepotenza la stagione estiva.

Si avvicinò al camino e spinse un interruttore: come per incanto la legna al suo interno prese ad ardere con un’unica vampa.

Gli occhi vispi di Trunks danzarono insieme alle fiamme, le manine si allungarono quasi a volere afferrare quel prodigio mai visto e restò deluso quando si ritrovò nel buio soffocante della maglietta mentre la mamma gliela sfilava di fretta.

Alla fine restò nudo sul tappeto mentre Bulma usciva di corsa dal bagno più vicino con in mano l’asciugamano che l’avrebbe ancora una volta distolto dalla nuova attrazione:

“Cosa ti costava aprire la porta?” riprese la predica intanto che asciugava le carni paffute del bambino “se non per me, avresti potuto farlo almeno per tuo figlio!” i brividi di freddo non le fecero dare la giusta intonazione e alla fine sembrò solo un piagnucolio senza replica come un vecchio disco che s’inceppa e nessuno aggiusta.

Con una risposta assai eloquente il saiyan accese il televisore che aveva di fronte, ovvero l’elettrodomestico che egli reputava più inutile e fastidioso.

La donna si rialzò con un sospiro esasperato, gettò le scarpe in un angolo e sfilò i pantaloni infradiciati.

Le sue dita esitarono un istante sui bottoni della camicetta, si voltò in direzione dell’uomo che ascoltava le previsioni meteorologiche con la stessa attenzione con cui avrebbe ascoltato la sig.ra Brief parlare dei suoi fiori e dei probabili innesti, poi fece cadere a terra anche l’ultimo indumento.

Né malizia, né audacia accompagnarono quel gesto e neppure la forza dell’abitudine o la confidenza di due amanti, giacché niente di tutto questo era rimasto tra loro, piuttosto ci mise dentro una robusta dose di dignità e fermezza.

Solo quando Vegeta intuì che ella aveva finito, le lanciò un’occhiata e vide allora che aveva gettato sulle spalle la coperta di lana che suo padre aveva lasciato su una sedia dopo la pennichella pomeridiana consumata sul divano e che sedeva a terra insieme al bambino ad osservare il fuoco e a trarne altro beneficio.

Il fuoco cullava come una dolce nenia, più della mano materna che non smetteva di accarezzargli i capelli: lo aveva divertito col suo bagliore, con la sua danza irrequieta e lo scoppiettio a sorpresa, aveva lentamente bruciato la sua curiosità allo stesso ritmo di quel ciocco di legno massiccio che stava sotto gli altri e gli aveva appesantito le palpebre.

Alla fine Trunks, raccolto in uno scialle di lana, fu messo a riposare in una culletta che stava nell’angolo, lei invece con addosso la coperta a frange andò a sedersi accanto a Vegeta ed inchiodò il suo sguardo diritto alla televisione: mister Satan, ospite di un talk show nella fascia preserale del primo canale, raccontava per l’ennesima volta della battaglia contro Cell, metteva in scena insieme ai suoi discepoli le tecniche di lotta che avevano decretato la sua vittoria, ballava e cantava goffamente insieme a ragazze discinte in un tripudio di luci e di colori, acclamato come un dio sceso in terra, ridicolo quanto un vitello d’oro.

“Quattro settimane fa ho riparato la stanza gravitazionale come avevi chiesto (vedi Episodio IV n.d.a.), ora qual è il problema?” senza neanche guardarlo riusciva ad arrivare subito al dunque, lo sapeva trovare con l’abilità con cui un idraulico trova una falla nei condotti e col fastidio con cui un sondino scopre un nodulo alla gola.

Nella stanza si sentì solo il sospiro al rum di Vegeta quando il volume del televisore fu abbassato di colpo, eppure entrambi continuarono a tenere gli occhi piantati in quella direzione neanche avessero potuto trovare la risposta nei titoli di coda che scorrevano in sovrimpressione.

In verità, era tornato ad allenarsi non appena la camera era stata riparata, ci restava dentro tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio.

Ora, la questione non era tanto che l’allenamento non avesse più il ritmo frenetico di un tempo, che il nemico tanto odiato fosse morto, che gli ardori di prima si fossero spenti, che avesse acquisito una maggiore consapevolezza dei propri limiti, quello che non andava, e che lui non sapeva spiegare, era quella sensazione indefinita che lo assaliva quando smetteva di allenarsi e si chiudeva alle spalle lo sportello del trainer.

Che cosa era? Noia, apatia, depressione, insofferenza?

Avrebbe potuto smaltire questa frustrazione prolungando fino a notte fonda gli allenamenti, del resto era ciò che aveva fatto in attesa dell’arrivo dei cyborg, ma ora sapeva che non ne valeva la pena per tutte le ragioni suddette e francamente neanche aveva voglia di stramazzare al suolo per la fatica ogni sera.

Aveva ripreso ad allenarsi dopo un lungo periodo di sofferenza interiore, ma lo stava facendo nella giusta dose e sentiva che questo faceva bene al suo organismo, eppure non bastava a farlo stare meglio.

La verità era che non stava soffrendo il saiyan, era l’uomo che c’era in lui che si era risvegliato e guaiva allo stesso modo di un sopravvissuto sotto le macerie che scava invano con le unghie e mangia solo polvere.

Non riusciva a vedere lo spiraglio di luce e seppure lo avesse trovato sarebbe stato troppo debole per sollevarsi con le proprie forze.

Era come le radici non ancora consolidate di un arbusto appena piantato, era come il cemento non ancora impastato e solidificato: l’essenza esisteva ma qualcos’altro doveva plasmarlo.

“Su questo pianeta non c’è niente da fare” commentò piatto.

 “Se ti riferisci alla possibilità di distruggerlo, conquistarlo e vendere la popolazione… direi di no… non c’è molto da fare” avrebbe voluto essere ironica ma quella dichiarazione rimbombò come le campane di un funerale.

“Lo so” sibilò senza espressione.

Allora Bulma esaminò meglio la postura delle braccia che non erano intersecate come era sua abitudine ogni volta che stava fermo ma cadevano in grembo con pesantezza, pure lo sguardo, sempre assorto e profondo quando non era irrequieto, adesso era perso nel vuoto.

Bastò quella posa anomala per farle dedurre l’origine del suo problema, poi fece schioccare la lingua sotto il palato quasi a trovare la frase giusta:

“Non è che su questo pianeta non c’è niente da fare, anche noi terrestri ci annoiamo e ci deprimiamo, talvolta basta molto poco, sono stati d’animo normali, più o meno passeggeri o pensavi forse di esserne immune?” dal silenzio del suo interlocutore pareva essersi levato un responso affermativo.

“Anch’io vorrei avere il tempo di annoiarmi e invece non ne ho…” così prese a elencare tutto quello che aveva fatto dalla mattina, tra le pappe e i pannolini del bambino, il collaudo di un nuovo elettrodomestico da piazzare sul mercato, l’incontro con i pubblicitari, la conferenza abbozzata sul p.c. che avrebbe dovuto tenere fra solo due giorni, la spesa al supermercato all’angolo, l’acquisto dei biglietti per l’inaugurazione di un nuovo centro commerciale per suo padre e sua madre che si sarebbe tenuta quella sera stessa…

Piantala” la zittì senza tanti complimenti.

Lei si passò una mano tra i capelli ancora umidi:

“Forse potresti incominciare a trovarti un diversivo, un passatempo quando finisci di allenarti. I terrestri vanno in palestra quando finiscono di lavorare, ma questo non è il tuo caso visto che già trascorri così il tuo tempo. Il giardinaggio, i circoli ricreativi, la beneficenza non ti si addicono…” ed intanto il tono si alzava su un registro più nevrotico come il secondo tempo di una sinfonia “magari potresti darmi una mano in laboratorio, oppure potresti preoccuparti di tuo figlio tanto per dire” puntualizzò senza più alcuna ironia.

In risposta lo vide protendersi verso il tavolino e scolarsi quell’ultimo sorso di rum rimasto nella bottiglia.

Era così umano in quel comportamento che non riusciva a credere ai suoi occhi, sarebbe rimasta meno sbalordita se l’avesse visto raccogliere dei fiori in giardino, perché almeno in quel caso avrebbe potuto pensare che fosse impazzito.

“Credi che bere sia una soluzione?”

“E tu credi possa stordirmi questo?” gli fece da eco.

Bulma chiuse gli occhi quando sentì la bottiglia sfiorargli l’orecchio e infrangersi nel camino dove ravvivò la fiamma.

Pure il piccolo Trunks sbarrò gli occhi e poi tornò a chiuderli mettendosi un dito in bocca.

Bulma si strinse nella coperta poiché nella stanza calò il gelo, restò a fissare le dita dei piedi divenute violacee tanto erano fredde e comprese, mentre le sfregava, che rinfacciargli le sue mancanze non gli sarebbe stato d’aiuto.

Allora si diede una pacca sulle gambe e si alzò:

“Quando si è depressi, non c’è niente di meglio che mangiare un po’ di cioccolata, anzi bere una bella tazza di cioccolato caldo!” si avviò verso la cucina e i piedi tornarono a raffreddarsi a contatto con l’impiantito.

Con la coperta gettata sulle spalle sembrava da dietro una specie di supereroe imbranato che saltellava di qua e di là.

“Io non sono depresso!” ribadì Vegeta con ritrovata fermezza.

“Va bene” accondiscese per farlo contento mentre regolava la macchinetta “diciamo allora che fa bene a chi non ha il morale alle stelle”.

Fece ritorno con una ciotola da latte piena di cioccolato e con una tazzina da caffè, pose il vassoio sul tavolino e afferrò tra le dita la porzione più piccola.

L’aroma del cioccolato si mescolò con quello del rum esalato dalla chiazza rimasta ai piedi del divano.

Vegeta la osservò centellinare la bevanda, stringere la tazza per riscaldare l’estremità delle mani, vide anche che la coperta era caduta da un lato lasciando nuda una candida spalla.

“Bevi, altrimenti si raffredda” gli sorrise mostrando una fila di denti ormai nera.

Nessuno dei due fiatò e neanche si guardarono, ciascuno assorto nei propri pensieri dava l’impressione di vedere qualcosa di scritto nel fondo della tazza anche quando non ci rimase più nulla.

Vegeta alzò la testa solo nel momento in cui un fazzoletto di carta fu sventolato sotto il suo naso:

“I baffi non ti stanno bene” rise lei intanto che la coperta scendeva con innocenza anche dall’altra spalla “forse in futuro ma ora ti invecchiano”

“Guardati tu fece lui di rimando gettandola nel panico.

Bulma afferrò un altro fazzoletto di carta e lo strofinò vigorosamente sulle labbra senza trovare traccia:

“Ti stai prendendo gioco di me?”.

Con uno scatto del mento le fece capire che doveva andare più su e così scoprì una striscia di cioccolato proprio in prossimità della punta del naso.

Di nuovo il suo corpo sussultò sotto la coperta in un’allegra risata che non lo contagiò ma stranamente neanche gli diede fastidio.

“Sono proprio impresentabile” piagnucolò strofinando gli occhi e vedendo che la pioggia le aveva sciolto pure il mascara.

Non seppe per quale ragione le venne da fare quella domanda, forse perché lui era lì accanto e la stava osservando con un piglio indecifrabile:

“Mi trovi… mi trovi ridotta veramente così male?”.

Lui tornò a fissare la televisione costretta nel frattempo al silenzio: pareva che Mister Satan stesse sbraitando al microfono per fargli alzare il volume guardandolo diritto negli occhi.

Bulma colmò quel vuoto ingombrante con un altro dei suoi guizzi improvvisi:

“Bene, quando è sera e fuori piove, dopo aver bevuto una bella tazza di cioccolato caldo, non c’è niente di meglio da fare che guardare la televisione e vedere se danno un buon programma” aveva il tono di chi stava impartendo delle lezioni di vita a un giovane infermo appena risvegliatosi dopo lunghi anni da un coma irreversibile “almeno questo è quello che fanno i comuni mortali per ingannare il tempo quando non hanno altro da fare. Del resto neanche si può pretendere di essere attivi ventiquattro ore su ventiquattro!”.

Vegeta aveva l’espressione di chi si stava intrattenendo dall’incenerirla.

Al saiyan non importava un bel niente di come i terrestri passassero il loro tempo libero, ma l’uomo che era in lui, almeno in quel momento, non disdegnava la compagnia di quella terrestre, non fosse altro per l’ottima cioccolata che gli aveva preparato e per quella spalla scoperta, senza omettere il dettaglio che di meglio non aveva niente da fare.

Se poi si aggiungeva il fatto che fosse la madre di suo figlio e che per lei provasse un’attrazione fisica che la separazione non aveva spento, era cosa normale che egli restasse piantato sul divano, la tollerasse e le lasciasse prendere in mano pure il telecomando.

Sullo schermo passarono in rapida sequenza la faccia di Mister Satan, un cartone animato, ancora la faccia di Mister Satan, una pubblicità di merendine, le farfalline grigie ed ancora la faccia di Mister Satan che sponsorizzava un detersivo:

“Non se ne può più di lui!” commentò Bulma “giurami, Vegeta, che se proprio un giorno dovessi svegliarti con la voglia di fare del male a qualcuno andrai da lui”.

L’altro sogghignò:

“In tal caso, sarei ridotto veramente male”.

Ancora una volta Bulma si alzò, si sistemò la coperta sulle spalle e si avvicinò al televisore:

“Se non trasmettono nulla di interessante…” riprese di nuovo quel tono da maestrina “si può ricorrere sempre ad un dvd” si piegò sulle gambe e si mise a cercare nel mobiletto sottostante tra una ventina di dischetti.

“Uhm… sembra intrigante!” esclamò senza molta convinzione sventolando una delle custodie “un film sugli alieni venuti a conquistare la Terra, un epico scontro tra due mondi lontani…” citò la didascalia con tono volutamente impostato.

Vegeta non aveva ancora idea di come quella giornata sarebbe finita, forse avrebbe disintegrato il televisore o fatto saltare in aria l’intera abitazione ma intanto la lasciò fare.

Quando la donna accese il lettore si accorse che era già occupato da un altro dvd, lo avviò per accertarsi che fosse proprio il film in questione visto che la custodia che aveva tra le mani si era rivelata vuota.

Non fu subito chiara l’inquadratura, ma, man mano che lo zoom si riduceva, la sua mascella vibrava sempre più forte e alla fine cadde come se si fosse slogata dal resto della faccia.

L’impianto stereo diffuse nella stanza i gemiti di un amplesso e le immagini sullo schermo erano talmente esplicite da sembrare di assistere ad un’esibizione dal vivo:

“Stavi… stavi guardando un… un porno?!” si voltò verso l’uomo che sussultò colto alla sprovvista “come ti permetti in casa mia… qui, proprio in questa stanza, alla mercé di tutti, ed io che pensavo tu fossi diverso da tutti gli altri uomini!” gli lanciò contro prima la custodia del dvd e poi il telecomando che non lo scomposero di un centimetro.

“Avanti, piantala!” disse seccato “non sono l’unico uomo che sta in questa casa!”

Bulma ebbe bisogno di qualche secondo per capire a chi si riferisse:

“Vuoi dire che… che lo ha guardato… mio padre?” balbettò.

“Lui, tua madre… che vuoi che ne sappia!” scrollò le spalle “io no e di certo neppure il bambino!”.

L’espressione di Bulma cambiò colore come l’acqua mescolata col vino e scoppiò in una risata che la fece piegare letteralmente in due.

Alle sue spalle scorrevano ancora immagini sconce.

Singhiozzando riuscì ad arrivare fino al divano dove recuperò il telecomando:

Ma non funziona!” esclamò travolta da un’altra risata che la gettò a terra alla maniera di un cavallone in riva al mare “come… come si spegne?” incominciò a premere alla cieca qualsiasi tasto intanto che i due protagonisti cambiavano posizione come due contorsionisti.

A quel punto pure l’inossidabile principe dei saiyan aveva sulla faccia un’espressione divertita, tanto rara questa era che sembrava tutto ad un tratto trasfigurato.

Anche quel peso senza misura che si portava dietro sembrava essersi alleggerito, l’oceano spalancato davanti ai suoi occhi, il fango intorno alle ginocchia deterso, ma non avrebbe mai e poi mai riconosciuto che la via d’uscita, anche solo transitoria, potesse trovarsi su quel divano, in una cioccolata calda, in una sera di pioggia a guardare la televisione, in una spalla nuda, in una sciocca risata.

Dove erano il sangue, i lividi, l’affanno, il sudore, il dolore, la morte?

Dove erano il nemico e il campo di battaglia?

Se ne stava in un salotto col camino acceso, la pioggia che batteva contro i vetri, con una donna raccolta in una coperta di lana che gli stava togliendo il fiato, con suo figlio che dormiva nella culla… eppure non provava vergogna.

“Smettila! Smettila di guardare quella robaccia!” gattonò senza forze fino al televisore e pigiò trionfante il pulsante rosso.

Aveva ancora l’ombra svanente di quelle risa quando sfiancata si rigettò sul divano.

Ormai la coperta le avvolgeva soltanto il corpo lasciando nude le spalle, si era messa su di un fianco e con un braccio reggeva il capo arruffato:

“Beh… ognuno ha i suoi svaghi, come vedi”.

Vegeta non riusciva a toglierle gli occhi da dosso.

Quando ella percepì sulla pelle quel campo magnetico instaurato tra loro, subì quell’indagine col capo basso e con una tensione che si sarebbe potuta affettare, tanto che le mancò il respiro nel momento in cui lui allungò il braccio e fece scivolare la coperta.

Non un’altra goccia in più bagnò i vetri della finestra che lui si avvicinò flessuoso costringendola a distendersi.

Bulma non ricordava più quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che erano stati così vicini, ciò nonostante trovò chissà dove la fermezza di fissarlo negli occhi e di precisare:

“Io non sono il tuo svago, Vegeta”

“E che cosa saresti?” si mise a osservare le sue labbra.

“Io sono la madre di tuo figlio”

“E con questo?” sarebbe suonato troppo duro se non fosse andato a mettere la lingua nell’incavo della spalla.

“Voglio che torniamo a stare insieme” si aggrappò alle sue spalle e strinse le gambe intorno ai fianchi quasi con disperazione.

“Mi pare che lo stiamo già facendo” mormorò sfilandosi con impazienza la maglia.

“Ma non voglio che sia solo un passatempo qualunque” ribadì con affanno mentre l’altro faceva scendere la mano.

Lui allora sembrò pensarci un istante su prima di ritornare a sentire il profumo del suo petto:

“Puoi stare tranquilla, non intendo avere passatempi di alcun genere su questo pianeta”.

 

 

FINE

 

 

   
 
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