“Convivendo
in… capsule”
EPISODIO XII
Quanto
dolce e quanto gustoso era sentire il sapore del sangue mescolarsi alla saliva!
Lo
deglutì come una caramella balsamica, se lo buttò giù per la gola come un
whisky corroborante in una serata d’inverno.
Vegeta
restò a fissare quella punta di legno sporca di sangue che gli aveva trapassato
la carne, tornò a leccarla senza vergogna mentre lo sguardo vagava ramingo
nell’aria, si posava alla pari di una tremula farfalla prima sul tavolo di
fronte, poi sul tappeto che aveva sotto i piedi scalzi, infine sulla finestra
oscura, alla ricerca quasi di una via d’uscita che le membra ormai svigorite
non gli avrebbero potuto offrire.
Il
petto, che si sollevava con un moto lento, ebbe un fremito nel momento in cui
il braccio si appesantì oltre il bracciolo del divano, quasi fosse stato un
arto a sé stante, come una coda tranciata che ancora si contorce così il pugno
chiuso ebbe ancora un palpito di vita e poi si sciolse.
Proprio
lì sull’impiantito incominciò a raccogliersi una chiazza scura, la quale
produsse un lugubre ticchettio, e alla pari di una serpe sbucata da un cespuglio scivolò piano nella penombra realizzata dalla
lampada ed agguantò il margine del tappeto.
Non
era mai arrivato a tal punto di disgusto per se stesso, ad
una considerazione tanto infima della sua esistenza, aveva sempre pensato che i
saiyan fossero nati soltanto per combattere e che
combattendo avrebbero trovato la fine più degna, con la faccia nella polvere,
gli occhi sbarrati, le budella da fuori: i saiyan non morivano tra quattro mura domestiche, non
si mettevano comodi su un divano come un vecchio decrepito.
Ora,
il principe dei saiyan era simile a una balena
arenata sulla spiaggia la quale non immagina quanto stretto possa diventare un
oceano, quanta fallace sia la sua maestosità a confronto degli altri miseri
pesci quando nuota e fa schiumare le acque.
Le
balene muoiono negli abissi più profondi, il tonfo delle loro carcasse richiama
gli altri pesci che accorrono veloci, allo stesso modo i saiyan
si spengono sul campo di battaglia e la loro morte genera un’eco fino ai
confini dell’universo, ma non sempre la natura segue schemi prefissi, a volte è
come una donna volubile che prima ama un uomo e poi lo tradisce.
Vegeta
avrebbe voluto morire alla maniera che più gli
confaceva, ma ora non c’erano nemici, c’erano solo lui, il divano, quella
chiazza scura che si allargava sul pavimento e la pioggia che scrosciava fuori
senza sosta.
Eppure
quanto piacevole era quel tepore che pervadeva le membra, quell’incoscienza che
a poco a poco annebbiava il cervello e non gli faceva pensare alla sua miseria!
Voleva
morire e sguazzava in quel desiderio come un bambino a piedi nudi che gioca in
un putrido stagno, a tratti voleva risollevarsi ma era come se il fango si fosse
già cementificato intorno alle ginocchia.
Il
battito di ciglia sembrò definitivamente fermarsi quando un colpo assestato ai
vetri della finestra lo fece tornare all’erta.
La
sagoma apparsa gettò un’occhiata all’interno della stanza col naso schiacciato contro
il vetro, poi tornò a bussare concitatamente prima contro la finestra, poi
contro la porta in un disperato andirivieni:
“Apri! Ma che cosa stai facendo?” urlò Bulma che
reggeva in braccio il piccolo Trunks “ti supplico,
apri!” il pannello elettronico che apriva la porta automaticamente al
riconoscimento dell’impronta digitale non rispose ai comandi, così la donna
rovesciò tutto il contenuto della sua borsetta alla ricerca delle chiavi, mentre
il bambino scalciava felice e osservava gli spiccioli e altre cianfrusaglie
varie tintinnare sui gradini.
“Apri, ti ho detto! Mi senti sì o no?! Ma sei
impazzito?!” la schiena era ricurva, il volto
stravolto. Poco mancò che pure il bambino finisse a terra.
Vegeta
restò immobile quasi fosse stato un elemento decorativo del divano, un altro
inutile cuscino gettato lì sopra da scuotere ogni mattino al momento delle
pulizie.
Quando
Bulma riuscì a entrare da una porta secondaria
collocata nel retro della villa e raggiunse la stanza, Vegeta si rigirò tra le
dita lo stuzzicadenti e con la punta della lingua rimosse il grumo di sangue
che era rimasto tra gli incisivi.
La
donna e il piccolo Trunks erano fradici fino alle
ossa, se il bambino sembrava divertito da quella situazione e scalciava con il
pannolino inzuppato di pipì e di acqua, la donna gli avrebbe volentieri gettato
contro la prima cosa capitata a tiro se fosse servita almeno a gonfiargli un
occhio:
“Si
può sapere perché non sei venuto ad aprirmi?” si avventarono addosso
le sue domande senza scomporlo come uno sciame di vespe su un apicoltore
“non mi dire che stavi dormendo, ho visto benissimo che avevi gli occhi
aperti!”.
Bulma
registrò la chiazza scura sul pavimento, notò anche la bottiglia con
l’etichetta rossa riversa a terra:
“Sarai
mica ubriaco?” lo squadrò con disappunto.
Allora
Vegeta si sporse in avanti, raccolse la bottiglia di rum rimasta intatta al
momento della caduta, la poggiò sul tavolino e ci mise sopra anche i suoi
piedi:
“Mai
stato più lucido”.
La
donna allargò le braccia e altra acqua si raccolse ai suoi piedi, la mascella
tremò per il freddo e le spalle tornarono a ingobbirsi: se non fosse stato per
lo sguardo furioso, avrebbe fatto quasi pena poiché solo quello le era rimasto
di riconoscibile e dignitoso.
“Non
esistono più le mezze stagioni!” cambiò discorso “faceva caldo fino a poche settimane
fa e ora guarda che tempo!” un nucleo di aria fredda spirava dai monti Paoz dalla notte precedente scacciando di prepotenza la
stagione estiva.
Si
avvicinò al camino e spinse un interruttore: come per incanto la legna al suo interno prese ad ardere con un’unica vampa.
Gli
occhi vispi di Trunks danzarono insieme alle fiamme,
le manine si allungarono quasi a volere afferrare quel prodigio mai visto e
restò deluso quando si ritrovò nel buio soffocante della maglietta mentre la
mamma gliela sfilava di fretta.
Alla
fine restò nudo sul tappeto mentre Bulma usciva di corsa dal bagno più vicino con in mano l’asciugamano che
l’avrebbe ancora una volta distolto dalla nuova attrazione:
“Cosa
ti costava aprire la porta?” riprese la predica intanto che asciugava le carni
paffute del bambino “se non per me, avresti potuto farlo almeno per tuo
figlio!” i brividi di freddo non le fecero dare la giusta intonazione e alla
fine sembrò solo un piagnucolio senza replica come un vecchio disco che s’inceppa
e nessuno aggiusta.
Con
una risposta assai eloquente il saiyan
accese il televisore che aveva di fronte, ovvero l’elettrodomestico che
egli reputava più inutile e fastidioso.
La
donna si rialzò con un sospiro esasperato, gettò le scarpe in un angolo e sfilò
i pantaloni infradiciati.
Le
sue dita esitarono un istante sui bottoni della camicetta, si voltò in
direzione dell’uomo che ascoltava le previsioni meteorologiche con la stessa
attenzione con cui avrebbe ascoltato la sig.ra Brief
parlare dei suoi fiori e dei probabili innesti, poi fece cadere a terra anche
l’ultimo indumento.
Né
malizia, né audacia accompagnarono quel gesto e
neppure la forza dell’abitudine o la confidenza di due amanti, giacché niente
di tutto questo era rimasto tra loro, piuttosto ci mise dentro una robusta dose
di dignità e fermezza.
Solo
quando Vegeta intuì che ella aveva finito, le lanciò
un’occhiata e vide allora che aveva gettato sulle spalle la coperta di lana che
suo padre aveva lasciato su una sedia dopo la pennichella pomeridiana consumata
sul divano e che sedeva a terra insieme al bambino ad osservare il fuoco e a
trarne altro beneficio.
Il
fuoco cullava come una dolce nenia, più della mano materna che non smetteva di
accarezzargli i capelli: lo aveva divertito col suo bagliore, con la sua danza
irrequieta e lo scoppiettio a sorpresa, aveva lentamente bruciato la sua
curiosità allo stesso ritmo di quel ciocco di legno massiccio che stava sotto
gli altri e gli aveva appesantito le palpebre.
Alla
fine Trunks, raccolto in uno scialle di lana, fu
messo a riposare in una culletta che stava nell’angolo, lei invece con addosso la coperta a frange andò a sedersi accanto a Vegeta
ed inchiodò il suo sguardo diritto alla televisione: mister Satan,
ospite di un talk show nella fascia preserale del primo canale, raccontava per
l’ennesima volta della battaglia contro Cell, metteva
in scena insieme ai suoi discepoli le tecniche di lotta che avevano decretato
la sua vittoria, ballava e cantava goffamente insieme a ragazze discinte in un
tripudio di luci e di colori, acclamato come un dio sceso in terra, ridicolo
quanto un vitello d’oro.
“Quattro
settimane fa ho riparato la stanza gravitazionale come avevi chiesto (vedi Episodio IV n.d.a.), ora qual è il problema?” senza neanche
guardarlo riusciva ad arrivare subito al dunque, lo sapeva trovare con
l’abilità con cui un idraulico trova una falla nei condotti e col fastidio con
cui un sondino scopre un nodulo alla gola.
Nella
stanza si sentì solo il sospiro al rum di Vegeta quando il volume del
televisore fu abbassato di colpo, eppure entrambi continuarono a tenere gli
occhi piantati in quella direzione neanche avessero potuto trovare la risposta
nei titoli di coda che scorrevano in sovrimpressione.
In
verità, era tornato ad allenarsi non appena la camera era stata riparata, ci
restava dentro tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio.
Ora,
la questione non era tanto che l’allenamento non avesse più il ritmo frenetico
di un tempo, che il nemico tanto odiato fosse morto, che gli ardori di prima si
fossero spenti, che avesse acquisito una maggiore consapevolezza dei propri
limiti, quello che non andava, e che lui non sapeva spiegare, era quella
sensazione indefinita che lo assaliva quando smetteva di allenarsi e si chiudeva
alle spalle lo sportello del trainer.
Che
cosa era? Noia, apatia, depressione, insofferenza?
Avrebbe
potuto smaltire questa frustrazione prolungando fino a notte fonda gli
allenamenti, del resto era ciò che aveva fatto in attesa dell’arrivo dei
cyborg, ma ora sapeva che non ne valeva la pena per tutte le ragioni suddette e
francamente neanche aveva voglia di stramazzare al suolo per la fatica ogni
sera.
Aveva
ripreso ad allenarsi dopo un lungo periodo di sofferenza interiore, ma lo stava
facendo nella giusta dose e sentiva che questo faceva bene al suo organismo,
eppure non bastava a farlo stare meglio.
La
verità era che non stava soffrendo il saiyan, era l’uomo che c’era in lui che si era
risvegliato e guaiva allo stesso modo di un sopravvissuto sotto le macerie che
scava invano con le unghie e mangia solo polvere.
Non
riusciva a vedere lo spiraglio di luce e seppure lo avesse trovato
sarebbe stato troppo debole per sollevarsi con le proprie forze.
Era come
le radici non ancora consolidate di un arbusto appena piantato, era come il
cemento non ancora impastato e solidificato: l’essenza esisteva ma
qualcos’altro doveva plasmarlo.
“Su
questo pianeta non c’è niente da fare” commentò piatto.
“Se ti riferisci alla possibilità di
distruggerlo, conquistarlo e vendere la popolazione… direi di no… non c’è molto
da fare” avrebbe voluto essere ironica ma quella dichiarazione rimbombò come le
campane di un funerale.
“Lo
so” sibilò senza espressione.
Allora
Bulma esaminò meglio la postura delle braccia che non
erano intersecate come era sua abitudine ogni volta
che stava fermo ma cadevano in grembo con pesantezza, pure lo sguardo, sempre
assorto e profondo quando non era irrequieto, adesso era perso nel vuoto.
Bastò
quella posa anomala per farle dedurre l’origine del suo problema, poi fece
schioccare la lingua sotto il palato quasi a trovare la frase giusta:
“Non
è che su questo pianeta non c’è niente da fare, anche noi terrestri ci annoiamo
e ci deprimiamo, talvolta basta molto poco, sono stati
d’animo normali, più o meno passeggeri o pensavi forse di esserne immune?” dal
silenzio del suo interlocutore pareva essersi levato un responso affermativo.
“Anch’io
vorrei avere il tempo di annoiarmi e invece non ne ho…” così prese a elencare
tutto quello che aveva fatto dalla mattina, tra le pappe e i pannolini del
bambino, il collaudo di un nuovo elettrodomestico da piazzare sul mercato,
l’incontro con i pubblicitari, la conferenza abbozzata sul p.c. che avrebbe
dovuto tenere fra solo due giorni, la spesa al supermercato all’angolo,
l’acquisto dei biglietti per l’inaugurazione di un nuovo centro commerciale per
suo padre e sua madre che si sarebbe tenuta quella sera stessa…
“Piantala” la zittì senza tanti complimenti.
Lei
si passò una mano tra i capelli ancora umidi:
“Forse potresti incominciare a trovarti un diversivo,
un passatempo quando finisci di allenarti. I terrestri vanno in palestra quando finiscono di lavorare, ma questo
non è il tuo caso visto che già trascorri così il tuo
tempo. Il giardinaggio, i circoli ricreativi, la beneficenza non ti si addicono…” ed intanto il tono si alzava su un registro più
nevrotico come il secondo tempo di una sinfonia “magari potresti darmi una mano
in laboratorio, oppure potresti preoccuparti di tuo figlio tanto per dire”
puntualizzò senza più alcuna ironia.
In
risposta lo vide protendersi verso il tavolino e scolarsi quell’ultimo sorso di
rum rimasto nella bottiglia.
Era
così umano in quel comportamento che
non riusciva a credere ai suoi occhi, sarebbe rimasta meno sbalordita se
l’avesse visto raccogliere dei fiori in giardino, perché almeno in quel caso
avrebbe potuto pensare che fosse impazzito.
“Credi
che bere sia una soluzione?”
“E
tu credi possa stordirmi questo?” gli fece da eco.
Bulma
chiuse gli occhi quando sentì la bottiglia sfiorargli l’orecchio e infrangersi
nel camino dove ravvivò la fiamma.
Pure
il piccolo Trunks sbarrò gli occhi e poi tornò a
chiuderli mettendosi un dito in bocca.
Bulma si
strinse nella coperta poiché nella stanza calò il gelo, restò a fissare le dita
dei piedi divenute violacee tanto erano fredde e
comprese, mentre le sfregava, che rinfacciargli le sue mancanze non gli sarebbe
stato d’aiuto.
Allora
si diede una pacca sulle gambe e si alzò:
“Quando
si è depressi, non c’è niente di meglio che mangiare un po’ di cioccolata, anzi
bere una bella tazza di cioccolato caldo!” si avviò verso la cucina e i piedi
tornarono a raffreddarsi a contatto con l’impiantito.
Con
la coperta gettata sulle spalle sembrava da dietro una specie di supereroe imbranato che saltellava di qua e di là.
“Io
non sono depresso!” ribadì Vegeta con ritrovata
fermezza.
“Va
bene” accondiscese per farlo contento mentre regolava la macchinetta “diciamo
allora che fa bene a chi non ha il morale alle stelle”.
Fece
ritorno con una ciotola da latte piena di cioccolato e con una tazzina da
caffè, pose il vassoio sul tavolino e afferrò tra le dita la porzione più
piccola.
L’aroma
del cioccolato si mescolò con quello del rum esalato dalla chiazza
rimasta ai piedi del divano.
Vegeta
la osservò centellinare la bevanda, stringere la tazza per riscaldare
l’estremità delle mani, vide anche che la coperta era caduta da un lato
lasciando nuda una candida spalla.
“Bevi,
altrimenti si raffredda” gli sorrise mostrando una
fila di denti ormai nera.
Nessuno
dei due fiatò e neanche si guardarono, ciascuno assorto nei propri pensieri
dava l’impressione di vedere qualcosa di scritto nel fondo della
tazza anche quando non ci rimase più nulla.
Vegeta
alzò la testa solo nel momento in cui un fazzoletto di carta fu sventolato
sotto il suo naso:
“I
baffi non ti stanno bene” rise lei intanto che la coperta scendeva con
innocenza anche dall’altra spalla “forse in futuro ma
ora ti invecchiano”
“Guardati
tu” fece lui di rimando gettandola nel panico.
Bulma
afferrò un altro fazzoletto di carta e lo strofinò vigorosamente sulle labbra
senza trovare traccia:
“Ti
stai prendendo gioco di me?”.
Con
uno scatto del mento le fece capire che doveva andare più su e così scoprì una
striscia di cioccolato proprio in prossimità della punta del
naso.
Di
nuovo il suo corpo sussultò sotto la coperta in un’allegra risata che non lo contagiò ma stranamente neanche gli diede fastidio.
“Sono
proprio impresentabile” piagnucolò strofinando gli occhi e vedendo che la
pioggia le aveva sciolto pure il mascara.
Non
seppe per quale ragione le venne da fare quella domanda, forse perché lui era
lì accanto e la stava osservando con un piglio indecifrabile:
“Mi
trovi… mi trovi ridotta veramente così male?”.
Lui
tornò a fissare la televisione costretta nel frattempo al silenzio: pareva che
Mister Satan stesse sbraitando al microfono per
fargli alzare il volume guardandolo diritto negli occhi.
Bulma
colmò quel vuoto ingombrante con un altro dei suoi guizzi improvvisi:
“Bene,
quando è sera e fuori piove, dopo aver bevuto una bella tazza di cioccolato
caldo, non c’è niente di meglio da fare che guardare la televisione e vedere se
danno un buon programma” aveva il tono di chi stava impartendo delle lezioni di vita a un giovane infermo appena risvegliatosi dopo
lunghi anni da un coma irreversibile “almeno questo è quello che fanno i comuni
mortali per ingannare il tempo quando non hanno altro da fare. Del resto
neanche si può pretendere di essere attivi ventiquattro
ore su ventiquattro!”.
Vegeta
aveva l’espressione di chi si stava intrattenendo dall’incenerirla.
Al
saiyan non importava un bel niente di come i
terrestri passassero il loro tempo libero, ma l’uomo che era in lui, almeno in quel momento, non disdegnava la
compagnia di quella terrestre, non
fosse altro per l’ottima cioccolata che gli aveva preparato e per quella spalla
scoperta, senza omettere il dettaglio che di meglio non aveva niente da fare.
Se
poi si aggiungeva il fatto che fosse la madre di suo
figlio e che per lei provasse un’attrazione fisica che la separazione non aveva
spento, era cosa normale che egli restasse piantato sul divano, la tollerasse e
le lasciasse prendere in mano pure il telecomando.
Sullo
schermo passarono in rapida sequenza la faccia di Mister Satan,
un cartone animato, ancora la faccia di Mister Satan,
una pubblicità di merendine, le farfalline grigie ed
ancora la faccia di Mister Satan che sponsorizzava un
detersivo:
“Non
se ne può più di lui!” commentò Bulma “giurami,
Vegeta, che se proprio un giorno dovessi svegliarti con la voglia di fare del male
a qualcuno andrai da lui”.
L’altro
sogghignò:
“In
tal caso, sarei ridotto veramente male”.
Ancora
una volta Bulma si alzò, si sistemò la coperta sulle
spalle e si avvicinò al televisore:
“Se
non trasmettono nulla di interessante…” riprese di
nuovo quel tono da maestrina “si può ricorrere sempre ad un dvd” si piegò sulle
gambe e si mise a cercare nel mobiletto sottostante tra una ventina di
dischetti.
“Uhm…
sembra intrigante!” esclamò senza molta convinzione sventolando una delle
custodie “un film sugli alieni venuti a conquistare
Vegeta
non aveva ancora idea di come quella giornata sarebbe finita, forse avrebbe
disintegrato il televisore o fatto saltare in aria l’intera abitazione ma intanto
la lasciò fare.
Quando
la donna accese il lettore si accorse che era già
occupato da un altro dvd, lo avviò per accertarsi che fosse proprio il film in
questione visto che la custodia che aveva tra le mani si era rivelata vuota.
Non
fu subito chiara l’inquadratura, ma, man mano che lo
zoom si riduceva, la sua mascella vibrava sempre più forte e alla fine cadde
come se si fosse slogata dal resto della faccia.
L’impianto
stereo diffuse nella stanza i gemiti di un amplesso e le immagini sullo schermo
erano talmente esplicite da sembrare di assistere ad
un’esibizione dal vivo:
“Stavi…
stavi guardando un… un porno?!” si voltò verso l’uomo
che sussultò colto alla sprovvista “come ti permetti in casa mia… qui, proprio
in questa stanza, alla mercé di tutti, ed io che pensavo tu fossi diverso da
tutti gli altri uomini!” gli lanciò contro prima la custodia del dvd e poi il
telecomando che non lo scomposero di un centimetro.
“Avanti,
piantala!” disse seccato “non sono l’unico uomo che
sta in questa casa!”
Bulma
ebbe bisogno di qualche secondo per capire a chi si riferisse:
“Vuoi
dire che… che lo ha guardato… mio padre?” balbettò.
“Lui,
tua madre… che vuoi che ne sappia!” scrollò le spalle “io no e di certo neppure
il bambino!”.
L’espressione
di Bulma cambiò colore come l’acqua mescolata col
vino e scoppiò in una risata che la fece piegare letteralmente in due.
Alle
sue spalle scorrevano ancora immagini sconce.
Singhiozzando
riuscì ad arrivare fino al divano dove recuperò il
telecomando:
“Ma non funziona!” esclamò travolta da un’altra risata che la
gettò a terra alla maniera di un cavallone in riva al mare “come… come si
spegne?” incominciò a premere alla cieca qualsiasi tasto intanto che i due
protagonisti cambiavano posizione come due contorsionisti.
A
quel punto pure l’inossidabile principe dei saiyan
aveva sulla faccia un’espressione divertita, tanto rara questa era che sembrava
tutto ad un tratto trasfigurato.
Anche
quel peso senza misura che si portava dietro sembrava essersi alleggerito,
l’oceano spalancato davanti ai suoi occhi, il fango intorno alle ginocchia
deterso, ma non avrebbe mai e poi mai riconosciuto che la via d’uscita, anche
solo transitoria, potesse trovarsi su quel divano, in una cioccolata calda, in
una sera di pioggia a guardare la televisione, in una spalla nuda, in una
sciocca risata.
Dove
erano il sangue, i lividi, l’affanno, il sudore, il
dolore, la morte?
Dove
erano il nemico e il campo di battaglia?
Se
ne stava in un salotto col camino acceso, la pioggia che batteva contro i
vetri, con una donna raccolta in una coperta di lana che gli stava togliendo il
fiato, con suo figlio che dormiva nella culla… eppure non provava vergogna.
“Smettila!
Smettila di guardare quella robaccia!” gattonò senza forze
fino al televisore e pigiò trionfante il pulsante rosso.
Aveva
ancora l’ombra svanente di quelle risa quando sfiancata
si rigettò sul divano.
Ormai
la coperta le avvolgeva soltanto il corpo lasciando nude le spalle, si era
messa su di un fianco e con un braccio reggeva il capo arruffato:
“Beh…
ognuno ha i suoi svaghi, come vedi”.
Vegeta
non riusciva a toglierle gli occhi da dosso.
Quando
ella percepì sulla pelle quel campo magnetico
instaurato tra loro, subì quell’indagine col capo basso e con una tensione che
si sarebbe potuta affettare, tanto che le mancò il respiro nel momento in cui
lui allungò il braccio e fece scivolare la coperta.
Non
un’altra goccia in più bagnò i vetri della finestra che lui si avvicinò
flessuoso costringendola a distendersi.
Bulma non
ricordava più quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che erano stati
così vicini, ciò nonostante trovò chissà dove la fermezza di fissarlo negli
occhi e di precisare:
“Io
non sono il tuo svago, Vegeta”
“E
che cosa saresti?” si mise a osservare le sue labbra.
“Io
sono la madre di tuo figlio”
“E
con questo?” sarebbe suonato troppo duro se non fosse andato a mettere la
lingua nell’incavo della spalla.
“Voglio
che torniamo a stare insieme” si aggrappò alle sue spalle e strinse le gambe
intorno ai fianchi quasi con disperazione.
“Mi
pare che lo stiamo già facendo” mormorò sfilandosi con impazienza la maglia.
“Ma
non voglio che sia solo un passatempo qualunque” ribadì
con affanno mentre l’altro faceva scendere la mano.
Lui
allora sembrò pensarci un istante su prima di ritornare a sentire il profumo
del suo petto:
“Puoi
stare tranquilla, non intendo avere passatempi di alcun genere su questo
pianeta”.
FINE