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Autore: Mue    19/12/2009    2 recensioni
Quando uno dei concorrenti di una gara clandestina di auto volanti si schianta e finisce al San Mungo senza una gamba, la sua comparsa davanti al Wizengamot sembra inevitabile.
Ma grazie a un celebre avvocato, viene invece spedito a un Magazzino di Disincantamento e Smaltimento Magico per fare otto mesi di lavori socialmente utili.
E qui, in mezzo alle brughiere solitarie di Ilkley Moor, troverà l'occasione per riscattare i suoi peccati e forse, finalmente, perdonare se stesso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Policromia' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Eccomi tornata!
Non mi soffermo troppo con le note dell'autore perché sono reduce di un viaggio di quattro ore e temo di poter scrivere cose molto incoerenti -sì, più del solito.-
Grazie come sempre a chi recensisce: i vostri commenti sono come dei bellissimi regali di Natale in anticipo ;)
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Capitolo III







Ilkley Moor, 6 settembre

Ilkley Moor.
Un diavolo di posto fuori dal mondo. O, perlomeno, fuori dal mondo in cui lui era sempre vissuto.
Rocce, sterpi e brughiera a non finire; ogni tanto capitava anche qualche escursionista Babbano nelle vicinanze, ma non si avvicinavano mai più di quanto lo permettessero gli incantesimi protettivi.
E poi c’era il cielo, che lassù la faceva da padrone.
Roger non ricordava di essersi mai accorto della sua immensità in tutta la sua vita, nemmeno quel lontano giorno in cui aveva gareggiato in una brughiera irlandese di Sligo. Probabilmente perché, concentrato solo sul traguardo, sull’auto e su se stesso, non ci aveva mai fatto caso.
Ora, però, seduto fuori da un grosso Magazzino di Disincantamento e Smaltimento Magico ad aspettare il carico, aveva tutto il tempo di badarci per bene. Dopotutto non c’erano tante altre alternative per distrarsi dall’attesa e, soprattutto, dalla sbobba terribile che gli avevano rifilato per pranzo e che giaceva nel cartoccio sulle sue ginocchia.
«Ehi, Gambarossa, stai battendo la fiacca?» ruggì qualcuno alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Roger si voltò. Dietro di lui c’era la porta di legno scuro incassata nel costone della montagna che costituiva l’ingresso del magazzino sotterraneo. E sulla porta c’era uno degli uomini più minacciosi e nerboruti che avesse mai avuto la sfortuna di conoscere.
«La mia pausa pranzo finisce tra dieci minuti, Armstrong» rispose Roger con cautela. Aveva imparato in fretta a non replicare con troppa supponenza a Ruben Armstrong, il capo di quel posto dimenticato dagli dei.
«Porta avanti il tuo orologio. La tua pausa è finita due minuti fa e giù di sotto c’è un mucchio di rottami da smaltire. Fila, qui ci penso io.»
Roger riteneva il suo orologio più che efficiente, ma obbedì immediatamente, gettando il resto del suo pranzo nel prato e lasciando il suo posto di vedetta all’altro.
Non gli piaceva stare lì fuori all’aperto a sentire il vento lambirgli seducente la pelle: gli ricordava le corse nei prati, le gare clandestine e, ancor più, i voli sulle scope; tutte cose che lui, ora, con una gamba artificiale, l’espulsione dalla lega di Quidditch e il fiato del Ministero sul collo avrebbe fatto meglio a dimenticare per un bel pezzo.
Otto maledetti, miserabili mesi di nulla, ecco cosa mi aspetta, pensò tra sé mentre varcava la soglia del magazzino e un’ondata di vapori fluorescenti lo investiva con violenza.
Si tappò la bocca, trattenendo un’imprecazione, e si alzò la sciarpa fino al naso. Era una delle prime regole che gli avevano insegnato appena entrato in quel posto da incubo.
«Se vuoi sopravvivere qui» aveva abbaiato Ruben il primo giorno, «vedi di coprirti il naso e la bocca e respirare meno che puoi. E non levarti gli occhiali. Se non obbedisci, ti accechi e muori per i vapori tossici, oppure muori lo stesso perché ti ho ammazzato io dopo averti trovato a faccia scoperta. Tutto chiaro?»
Cristallino, a parere di Roger. D’altro canto non aveva scelta: doveva passare in quel magazzino sepolto nel ventre di una montagna i successivi otto mesi della sua vita, e per sopravvivere non c’era da fare altro che obbedire.
Sospirò, si sistemò i grossi occhiali protettivi e si inoltrò nel corridoio che portava dritto dentro il magazzino.
O “inferno”, come lo chiamava lui.
Perché degli inferi quel posto aveva molto: a partire dall’ingresso, un cunicolo buio scavato nel fianco della montagna che portava dritto dritto al primo livello, una balconata circolare che ti permetteva di affacciarti giù, verso il secondo, più in basso di trenta metri.
Un elevatore faceva da tramite tra i due piani e permetteva di scendere di sotto, dove c’era il vero cuore del magazzino.
Era lì, infatti, che venivano ammucchiate auto incantate, utensili maledetti, meccanismi stregati, aggeggi Babbani di ogni tipo impregnati di magia illegale e altro ancora. Ed era lì che, grazie al Mastomantice, tutti quei mucchi di roba venivano lentamente disincantati.
Prima di entrare lì dentro Roger non sapeva quanto fosse complicato togliere incantesimi e fatture superiori allo standard elementare dagli oggetti incantati. Soprattutto quelli clandestini, spesso in origine semplici oggetti Babbani maledetti dai Mangiamorte e dai seguaci di Colui-che-non-deve-essere-nominato.
Il primo giorno Ruben gli aveva fatto vedere il Mastomantice, un’enorme caldaia di fuoco magico in cui, un po’ alla volta, gettavano auto, utensili e tutto il resto, che poi bruciavano insieme alla magia di cui erano impregnati.
Era un processo che richiedeva un ammasso di sudore, di vapori velenosi, di scintille pericolose e, soprattutto, un assordante pulsare lento e continuo del mantice che comprendeva il corpo principale di quell’enorme marchingegno.
Ruben era già stato così gentile da avvisare Roger che probabilmente otto mesi sarebbero stati più che sufficienti a renderlo se non rintronato, perlomeno mezzo sordo per il resto della sua vita.
Che importa? Sono sette anni che non ho un futuro davanti, quindi perché dovrei preoccuparmi adesso di come sarò ridotto tra otto mesi?, si disse Roger azionando l’elevatore per scendere al Mastomantice a fare l’ingrato lavoro che gli era stato assegnato. E chi mi dice che dopo questi otto mesi non mi costringeranno a restarmene rinchiuso qui altri otto? O per tutta la vita?
L’elevatore giunse al livello inferiore con un cigolio sinistro e Roger uscì ancora immerso nei suoi pensieri.
Forse avrebbe dovuto rifiutare l’offerta di Finnigan e del Ministero, e lasciare che aprissero un’indagine su di lui. Ma, come aveva detto lo stesso Finnigan, la Seconda Guerra Magica era una ferita ancora aperta, e non sarebbero stati indulgenti su certi suoi trascorsi. No, piuttosto che un ergastolo esemplare ad Azkaban preferiva un meno esemplare periodo indefinito di “volontariato” in quel posto infernale.
«Attento al cavo» esclamò una voce femminile, distogliendolo di colpo dalle sue meditazioni.
Roger scavalcò un lungo filo nero teso a mezz’aria appena in tempo per evitare un clamoroso capitombolo con la faccia a terra. Sorpreso, alzò lo sguardo e incrociò un paio di occhi nascosti dietro grossi occhiali protettivi.
«Ah, sei tu» commentò lui, allargando la faccia in un sorriso che rimase sotto la sciarpa. «Allora sai anche parlare, eh?»
La persona che gli stava di fronte sbuffò.
Roger l’aveva conosciuta il primo giorno di lavoro: era l’unica altra presenza umana là sotto oltre a Ruben –se umano si potesse definire quel colosso nero- e ci aveva messo qualche ora a capire che sotto la sua tuta da lavoro c’era una ragazza. Non aveva idea di come si chiamasse perché Ruben aveva il vizio di rinominare tutti con dei nomignoli, lei compresa.
“Cub”, cucciolo, così l’aveva battezzata, ma Roger non aveva ancora capito se lo facesse perché era particolarmente minuta, particolarmente giovane o altro ancora.
In effetti aveva davvero capito poco di lei: non l’aveva mai vista in faccia perché aveva sempre una maledetta sciarpa color rame tirata su fino al naso e non si erano nemmeno mai rivolti la parola, nonostante lavorassero fianco a fianco da ormai una settimana.
Una volta aveva chiesto a Ruben come si chiamasse.
«Non provarci con lei, Gambarossa. Non voglio imbrogli amorosi nel mio magazzino. E poi non hai speranze.»
Quella frase, unita al colore biondo scuro dei ricci della donna e vaghe forme femminili sotto i suoi abiti che Roger aveva individuato nella traballante luce rossa delle lampade del magazzino, era bastata a instillargli una curiosità per nulla disinteressata.
«Ti è sparita di nuovo la lingua?» insisté seguendo la donna che gli aveva voltato le spalle e si stava dirigendo decisa verso il Mastomantice.
«Io per lavorare uso le braccia, Davies, non la lingua. E se non vuoi che Ben cominci a perdere la pazienza, ti consiglio di fare altrettanto.»
«Wow, siamo passati da tre parole a una frase intera» replicò affabilmente Roger. «Di questo passo rischiamo di uscire insieme domani o dopodomani.»
Lei non rispose, limitandosi a lanciargli un’occhiataccia.
Tutt’altro che scoraggiato, Roger continuò a starle appiccicato anche mentre lei apriva lo sportello del Mastomantice e buttava dentro un po’ di carbone per il Fuoco Draconiano che bruciava dentro la fornace.
«Dai, non vuoi dirmi nemmeno il tuo nome?»
«Perché dovrei?»
«Perché tu conosci il mio» replicò lui, facendosi serio. «E io invece no. Non mi sembra molto equo.»
Lei parve disorientata per un attimo. «Come sai che conosco il tuo nome?»
«Mi hai chiamato “Davies” due secondi fa.»
Lei indietreggiò di un passo, cercando di mettere tra loro una distanza che le concedesse di guardarlo negli occhi senza inclinare indietro tutta la testa. La differenza di altezze tra loro era piuttosto marcata.
«Ben ti ha chiamato così…»
«Armstrong non mi ha chiamato per nome nemmeno una volta» la interruppe lui subito. «Da quando sono qui si è rivolto a me sempre e solo con “Gambarossa”» e fece una smorfia accennando alla propria gamba metallica color bronzo. «Comunque non dubito che tu l’abbia saputo da lui, dato che è l’unico a conoscerlo nei dintorni. E poiché non mi sembrava il tipo a cui piace chiacchierare dei dati anagrafici dei suoi sottoposti», le si avvicinò, studiandola, «significa che t’interesso così tanto che glielo sei andata a chiedere…»
«Io non gli ho chiesto proprio niente!» esclamò lei, facendo un gesto stizzito con una mano. «Non sono come te, Gambarossa: non ho bisogno che qualcuno ci stia con me per dimostrare a me stessa e al mondo che anche se ho perso una gamba non sono ancora un rottame da buttare via.»
Roger si pietrificò.
L’aveva detto. Quella donna aveva appena detto ad alta voce ciò che da giorni e giorni Roger covava nel cuore; ciò che non era ancora stato capace di ammettere con se stesso: di essere, ora, nient’altro che un rottame; una carcassa malconcia e incapace di volare, destinata solo ad arrugginire e sbriciolarsi nel tempo; a diventare la polvere di ciò che era un tempo.
La verità di quelle parole lo soverchiò; una verità a cui non riusciva a rassegnarsi.
E’ veramente a questo che sono arrivato? E’ tutto qui ciò che sono diventato?

   
 
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