Il
personaggio di Noah Keynes non è di mia
proprietà, ma è una creazione di
Shichan. Non lo uso contro il suo volere, mi ha dato il permesso U.u
Questo
penultimo capitolo mi è stato ispirato da un duetto di
Jordin Sparks e Chris
Brown, che però io ho ascoltato cantato dal cast del
telefilm “Glee”. Il titolo
è “No Air”, e la consiglio a tutti,
perché è veramente bella.
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Midnight
Solamente
con la punta delle dita, in un gesto divenuto automatico dopo solo
qualche
istante, passando i polpastrelli fra i morbidi fili castani ancora
umidi dalla
doccia.
Era
incredibilmente... semplice, quel movimento.
Non
era niente, a ben vedere: una piccola carezza, una banale dimostrazione
d’affetto.
Eppure,
anche solo così, si sentiva bene.
In
pace con se stesso, e in pace con il mondo per la prima volta da molto,
molto
tempo.
Pace.
Una parola che per
lui non aveva significato mai nulla se non una specie di utopia
irraggiungibile.
Si
era sforzato, di tendere le mani verso quell’illusione.
Talmente tante volte
che aveva perso il conto, e con esso anche la voglia di rincorrere
quella
“pace” che ogni volta sfuggiva via, sempre un passo
avanti a lui.
Finché
non si era arreso all’evidenza che non avrebbe mai sfiorato
quel bellissimo
sogno. Fino a pensare di non esserne destinato, nonostante per lui il
fato
fosse un concetto molto relativo.
Abbassò
lo sguardo su Eric, disteso sul letto fra le sue gambe, girato sul
fianco
sinistro. Sentiva il dolce peso della sua testa sul petto,
così come il calore
della sua pelle attraverso il tessuto dell’accappatoio bianco
che indossava
come unico indumento; similmente percepiva il fastidio della testata
del letto
piantata sulla propria schiena, ma non vi badò assolutamente.
Non
si sarebbe mosso mai, di lì. Se avesse potuto farlo, non
avrebbe nemmeno
respirato pur di non far spostare Eric da quella posizione,
così tranquilla ma tuttavia
così intima.
Era
così vicina, la pace. A qualche passo, qualche metro
più in basso rispetto all’aldilà.
Aveva
i capelli castani e gli occhi della tonalità del caldo
legno. Aveva un’anima
talmente candida da far impallidire i santi, e una
sensibilità fragile come il
cristallo, degna di ogni protezione.
Si
chiamava Eric Everald, la “pace”, e stava riposando
fra le sue braccia.
Aggrottò
la fronte, fermando d’istinto la mano.
Lui
non poteva proteggerlo. Da nulla. Tantomeno da lui stesso.
Lo
avrebbe ucciso quella notte. Lo avrebbe ucciso stringendolo fra le
braccia
proprio come in quel momento; avrebbe visto la luce spegnersi, i suoi
occhi
velarsi e poi chiudersi, il suo sorriso svanire pian piano.
Ma
in quel momento, in quel lieve battito di cuore che a malapena
percepiva
attraverso gli abiti e la pelle, percepiva la propria esistenza come
vera vita. Non sopravviveva in quel
momento,
no... stava vivendo, e c’era un abisso a dividere i
significati delle due
parole.
Ma
con essa, sopraggiunse la consapevolezza di non potersi più
privare di lui. Di
non poter più portare a termine il compito che gli era stato
assegnato.
Non
ne aveva più... il coraggio.
«
Joshua? »
sussurrò Eric,
attirando la sua attenzione: «
cosa c’è? »
domandò poi, alzando lo sguardo.
La
voce era ancora flebile, gli occhi rossi. L’espressione era
decisamente stanca,
quasi sfibrata, e la colpa era quasi sicuramente di tutte le lacrime
che aveva
versato nel tragitto verso casa, poi sotto la doccia, poi di nuovo fra
le sue
braccia. Consumate finché ne aveva, finché i suoi
occhi ne ebbero abbastanza.
Piangere...
chissà com’era. Chissà se faceva...
male.
Sorrise,
e non dovette sforzarsi più di tanto. Non voleva far pesare
nient’altro sulle
spalle del castano, tanto meno i propri pensieri egoistici nei suoi
confronti.
«
Nulla »
sussurrò a sua
volta, come per rispetto al tranquillo silenzio che li avvolgeva: «
stai meglio? »
domandò poi,
passando con delicatezza il pollice sulla gota dell’altro,
sentendola ancora
umida.
Il
castano annuì contro la sua maglia. «
Mi fanno male gli occhi »
disse solamente, il
tono appena strascicato.
«
Non fatico a
crederlo... »
rispose lui,
distaccando la schiena dalla testata del letto nel tentativo di
alzarsi: «
vado a prenderti un
po’ di ghiaccio, magari si sgonfiano un po’ »
aggiunse nel mentre.
Eric
annuì di nuovo, lasciando che si alzasse e uscisse dalla
camera. Abrahel – no, Joshua,
ormai. Solo Joshua – percorse
lentamente l’appartamento, sentendo solamente il rimbombo dei
suoi piedi sul
parquet.
Si
concentrò per non pensare, bloccando qualsiasi suo pensiero
per la prima volta
in millenni.
Non
voleva... vedere l’ovvietà.
Sarebbe
successo. Girarci attorno non serviva.
L’attesa,
ora, era il suo chiodo, la sua spada di Damocle. Ventiquattro ore.
Anzi,
ormai ventitre e mezzo.
Un
giorno. Che per lui era un intero
giorno, mentre per Eric solo un
giorno.
Einstein
non si era sbagliato, parlando di relativismo. Le cose erano veramente
relative
ai diversi punti di vista da cui venivano esaminate.
Aprì
il freezer, estraendone il contenitore in plastica per il ghiaccio. Le
sue mani
non provarono dolore al freddo pungente, così come non
reagirono quando i
polpastrelli delle dita toccarono in ghiaccio stesso, rimanendovi
attaccate.
Poteva
fingersi umano, ma non lo sarebbe mai stato. Così come
poteva fingere di voler
portare a termine il suo lavoro sapendo che non ne aveva più
la minima
intenzione.
Sapendo
che avrebbe mandato a fanculo il mondo senza tanti complimenti, per
salvare lui.
Nell’aprire
l’acqua del lavello, aggrottò la fronte affranto
dai suoi stessi pensieri.
Era
“amore”, quello? Beh... se era l’amore,
faceva un male fottuto.
Non
sarebbe stato un ottimo rimedio, ma almeno sperava che avrebbe
sgonfiato un po’
i suoi occhi. Faticava a tenerli aperti da quanto erano stati
bistrattati, e a
giudicare dal rossore dovevano anche bruciare.
Si
sedette sul letto al suo fianco, passandogli l’involucro con
la parte fresca
girata verso il basso. Eric lo afferrò, in silenzio, e
sempre silenziosamente
se lo appoggiò sugli occhi chiusi.
Un
solo sospiro prima di vederlo cadere di schiena sul materasso. Abrahel
lo seguì
con lo sguardo ma non fece e disse nulla.
Semplicemente,
non sapeva che dire. Qualsiasi parola suonava ipocrita, anche se il
silenzio
sembrava piombo dal quanto era pesante.
Decise
per la cosa più semplice, e la più idiota. «
Stai meglio? »
domandò cauto,
cercando di nascondere l’ansia provocatagli dai suoi continui
ed inconcludenti
pensieri.
Lo
osservò annuire appena sotto il manipolo di tessuto bianco. «
Meglio, sì... »
sussurrò, anche se
non sembrava esattamente convincente.
Tuttavia
si fidò, credendogli sulla parola. Si limitò a
scostare lo sguardo da lui,
puntandolo su un angolo qualsiasi della moquette. Solamente una
settimana
prima, se Dio in persona gli si fosse presentato davanti dicendogli che
si
sarebbe... innamorato – suonava ancora strana quella parola
associata a se
stesso – probabilmente gli avrebbe riso in faccia. A Dio.
Sì, anche a Lui.
Ma
era successo, stava succedendo anche in quel momento. Ed era
combattuto,
lacerato dal risentimento verso se stesso, e verso Enma, e verso il
Destino, e
verso tutti, tutti, nessuno escluso.
No,
tranne Eric. Tutti tranne Eric, che di male non aveva fatto nulla se
non avere
sfortuna.
La
sfortuna di avere incontrato uno come lui.
Chiuse
gli occhi, massaggiandoseli con la mano destra. Sentì un
fruscio alle sue
spalle ma, prima che potesse voltare il capo per vedere se Eric aveva
bisogno
di qualcos’altro, le mani dell’altro si
aggrapparono alla sua maglia e percepì
la sua fronte appoggiata fra le scapole.
«
Josh, cosa c’è che
non va? »
domandò Eric a voce
bassa, come se fosse la cosa più importante del momento.
Quel
ragazzo doveva rivedere la lista delle sue priorità.
Girò
appena il capo in sua direzione, rimanendo in silenzio qualche istante
ancora. «
Non voglio...
ucciderti »
non poté esimersi
dal rivelare, corroso dal tormento che quella decisione stava
comportando.
Eric
rimase silenzioso dietro di lui, le mani sempre strette alla stoffa
sulla sua
schiena.
Un
fremito, indecisione. «
Ti metti nei guai
se non lo fai? »
domandò poi,
mormorando lentamente quelle parole.
Non
avrebbe dovuto dargli una speranza inesistente. Non avrebbe dovuto
illuderlo a
quel modo.
Decise
di mentirgli, però. Perché da qualche parte
dentro di sé sapeva che Eric
avrebbe reagito male, se avesse risposto un “sì,
ci affogherei, nei guai”;
ovvero se avesse detto la verità.
Anche
se non lo sapeva con esattezza cosa capitasse, a chi si rifiutasse di
uccidere.
Nessun Shinigami si era mai tirato indietro da che il mondo esisteva,
dunque
non aveva precedenti con cui avere anche solo un minimo raffronto.
In
ogni caso, non era niente di bello. Almeno quello era chiaro.
«
No »
rispose dunque,
mentendo. Ma non ci credeva nemmeno lui, alla sua menzogna.
«
E’... una bugia? »
chiese infatti
Eric, il tono di voce sempre più basso. Più
triste.
Esitò:
«
...no »
rispose, rendendo
palese l’inganno.
Non
era più capace di raggirarlo. Non poteva sopportare di farlo.
...Incredibile
quanto i sentimenti potessero averlo cambiato.
Si
sentì abbracciare; le mani di Eric passarono in avanti dai
suoi fianchi,
posandosi con gentilezza sul suo petto. Percepì la schiena a
contatto con il
petto dell’altro, i battiti del cuore che rimbombavano nel
suo torace vuoto
riempiendolo di vita.
Lo
sentì respirare, e si concentrò su quel respiro.
A volte veniva trattenuto,
altre rilasciato in lungi sospiri, ma tutto sommato era tranquillo e...
piacevole, sentire il suo fiato sulla nuca.
Prese
fiato – poté sentirlo – e
sussurrò: «
non mentirmi ».
Abrahel
chiuse gli occhi, portando la sinistra ad afferrare una delle mani di
Eric sul
proprio petto. Non si scusò, né
smentì, ma quel gesto conteneva tutti i
significati del caso e non c’era niente da aggiungere.
Rimasero
così in silenzio per un tempo che sembrò
infinito, anche se forse passarono
solamente pochi minuti. Fu poi di nuovo il castano ad interrompere
quella
specie di stallo.
Lo
sentì allentare la presa fino a sciogliere
l’abbraccio, portando nuovamente le
mani dietro di lui. Poté catturare con l’udito un
fruscio, probabilmente
l’accappatoio che veniva slacciato ed abbandonato da qualche
parte sul letto,
poi la mano si posò sulla sua spalla facendo una lieve
pressione, chiedendogli
silenziosamente di girarsi.
Obbedì.
Se non altro perché era una richiesta di Eric, anche se non
espressa
verbalmente.
La
pelle nuda della sue spalle sembrava essere compatibile con la luce
della luna,
che la sfiorava come fosse morbida seta. Facendola sembrare tale, per
di più.
E
lui sapeva che era vero, che la Luna non esagerava a farla apparire
tale.
Perché l’aveva accarezzata, e baciata, e sfiorata
con le labbra e le mani fino
ad ubriacarsi, di quella pelle.
Non
poté trattenersi dall’allungare la mano, saggiando
solo con i polpastrelli
quella morbidezza; lasciandoli scivolare sulla clavicola, lievemente,
lentamente, in un tocco a malapena accennato.
L’accappatoio
era abbandonato sulla sue gambe, completamente slacciato, e copriva
solamente
in parte il suo corpo nudo. Abrahel poté vedere i muscoli
delle gambe piegate,
osservarne rapito la consistenza quasi violenta in contrasto con le
forme
armoniche delle braccia e dei fianchi, ma soprattutto delle mani.
Portò
lo sguardo al volto di Eric, cogliendone la leggera nota rossastra
sulle gote.
Imbarazzo; sembrava un sentimento che caratterizzava i rapporti intimi
dell’altro, mostrandolo a chi gli stava vicino illuminato
come da una luce
soffusa che faceva tenerezza.
Teneva
lo sguardo basso, Eric. Non si lasciava scrutare per paura di mostrare
le sue
debolezze quando, con la morte fatta persona davanti, non ve ne era
nemmeno
bisogno.
Quando
Abrahel aveva imparato a memoria ogni sua reazione, ed espressione.
Ogni suo
respiro, o sospiro, e sbuffare seccato. Quando aveva ascoltato persino
il più
roco dei suoi gemiti e percepito il piacere in ogni suo muscolo
riflesso nel
proprio corpo, catturato dalla sua vita e ad essa incatenato.
Conosceva
ogni cosa... persino come dovevano sembrare quegli occhi che ora li
teneva
nascosti facendo un torto al mondo.
Ma
non parlò. Lasciò il tempo al castano di
esprimersi come meglio preferiva, di
dire le parole che preferiva quando gli era più congeniale.
Lasciando
scorrere istanti che sembravano ore in quel silenzio, in quei respiri.
«
Josh, potresti... »
cominciò Eric,
sottovoce: «
...vorresti... »
si corresse,
indeciso: «
...fare l’amore con
me? »
domandò infine,
pronunciando quelle ultime parole lentamente nonostante
l’imbarazzo tangibile
di cui era venata la sua voce.
Sorrise,
Abrahel, nel sentire quella richiesta. Malinconicamente, sorrise.
Ma
non era come lo voleva.
«
Guardami negli
occhi »
disse solamente,
aspettandosi la reazione.
Le
spalle di Eric si irrigidirono, e il dio della morte poteva quasi
leggere i
pensieri che vorticavano in quella mente tutta particolare: stava
paragonando
quella richiesta ad una sorta di rifiuto, oppure al fatto che non
volesse più
ripetere l’esperienza. Per quello non si mosse, probabilmente.
Ma
Abrahel non si scompose, se lo era aspettato. Con la voce
più tranquilla,
ripeté la richiesta: «
Eric, guardami
negli occhi »
sussurrò divertito,
immobile mentre aspettava.
Eric
alzò il capo, puntando le iridi castane sulle sue bianche.
Riflettevano imbarazzo,
sì, ma mescolato ad esso c’era un mare di altri
sentimenti, sensazioni che un
essere come lui non poteva descrivere.
Ma
sapeva che c’erano. Vedeva
che erano
lì nascoste; in fondo all’anima, in fondo al cuore.
Sorrise;
un evanescente incurvarsi di labbra. «
Ora, chiedimelo di nuovo »
esordì mormorando
piano.
Vide
il panico serpeggiare in quegli occhi. Poi una sorta di vergogna,
mescolata al
tentativo blando di cambiare idea e lasciar perdere.
Lui
aspettava, attendeva. Sapeva che la richiesta era sincera - lo aveva sentito
chiaramente dalla voce e dal
modo tutto suo di frapporre il silenzio alle parole – ma
voleva che anche i
suoi occhi glielo domandassero.
Voleva
scrutare dentro di essi, con occhi da umano,
la bianca luce della sua anima riflettersi in quel desiderio.
Il
castano prese fiato una volta, due volte... e alla fine
esalò la sua richiesta:
«
ti andrebbe... di
fare l’amore con me? »
chiese, resistendo
all’istinto di abbassare lo sguardo ed interrompere il
contatto fra i loro
occhi.
Per
una sorta di ridicolo pudore, pensò Abrahel. Un pudore
beffardo, che gli
impediva di avere quegli specchi d’anima solo per
sé.
Il
moro alzò la mano destra, adagio, sfiorando con il pollice
le labbra di Eric
per poi scendere lungo il collo; e proseguire sulla gola, lungo lo
sterno,
sullo stomaco. Saggiando in quell’effimero contatto la pelle,
i brividi, i
respiri.
«
Eric, la mia vita
non vale niente »
cominciò a dire in
un filo di voce, il necessario perché risuonasse forte e
chiaro: «
sono un servo del
Destino, una delle tante mani della Morte, e per tale motivo non credo
che la
mia si possa effettivamente definire “vita”. Il
significato stesso del
vocabolo, improntato su uno come me, causa un controsenso di fondo »
una pausa, breve.
Un momento sufficiente per far sì che gli occhi castani di
Eric si posassero su
di lui, attenti, desiderosi di interromperlo per dissentire.
Ma
Abrahel continuò comunque. C’erano cose che
sentiva fosse giusto dire.
Allungandosi
verso di lui posò le sue labbra sulla spalla, succhiando
appena la pelle
sottile di quel punto. Era sufficientemente vicino da far sì
che potesse
semplicemente sussurrare, per farsi sentire.
«
Non valgo nulla, su
questo mondo. E non capisco ancora molte cose, ma... »
una pausa, un altro
bacio: «
...per le prossime
ventiquattro ore, la mia esistenza ti appartiene »
bisbigliò.
Sentì
Eric trattenere il respiro, sussultare appena. Avvertì la
sua mano farsi strada
sotto la maglia, cercando la pelle, il contatto diretto.
Deglutì, sospirando
piano, come se avesse paura che tutto
fosse sparito se solo avesse soffiato un po’ più
forte.
Le
labbra di Abrahel ripresero a danzare sulla sua pelle, le dita a
toccare punti
strategici, nascosti a chiunque tranne che a lui. Lo sospinse
all’indietro ed
Eric, chiudendo gli occhi, seguì docilmente quel movimento,
concedendosi a lui
totalmente, anima e corpo e fiato e pensieri.
Uniti
nel tutto, uniti nell’uno.
Lui
sorrideva di quel gesto, non riuscendo ad evitarselo.
L’acqua
della vasca era calda, e i vapori di quel calore aleggiavano ancora per
il
bagno come una fine foschia, appannando lo specchio sopra il lavandino
e
rendendo opache di condensa le manopole argentate.
Ogni
tanto, una goccia cadeva nell’acqua infrangendo il silenzio.
Che
non era vero silenzio. Perché c’erano i loro
respiri, le loro mute risate, i
fruscii delle loro pelli a riempirlo.
Era
tutto un insieme di percezioni. Un sovraccarico di sensazioni che
proveniva da
ognuno dei cinque sensi.
Il
tatto percepiva il tempore del petto di Joshua contro la sua schiena,
la sue
gambe piegate contro le proprie, il fiato dei suoi lenti respiri sul
collo.
Poteva percepire i propri capelli bagnati aderire alla nuca,
così come
avvertiva il solletico causato da quelli di Joshua quando si chinava a
baciargli il collo, lievemente, dolcemente.
La
vista vedeva le loro mani congiunte, e i giochi, e le carezze delle
loro dita
le une sulle altre. Vedeva l’acqua arrivare appena sopra le
sue spalle, lasciando
scoperte quelle del moro dietro di lui, che però non aveva
freddo.
L’udito
percepiva il silenzio imperfetto ed i piccoli rumori che lo riempivano.
Così
come sentiva i sospiri lievi del ragazzo dietro di lui, e le sue brevi
risate
fatte solo di respiri.
Il
gusto era rimasto immobile in un tempo ormai trascorso, fermo a quella
notte.
Aveva ancora sulla lingua il sapore della sua pelle, delle proprie
lacrime, del
loro sudore.
L’olfatto
era stuzzicato dall’odore di sapone disciolto
nell’acqua, galleggiante
nell’aria. Profumo di pulito, lo stesso che avevano i capelli
di Joshua.
Un’overdose.
E
quella notte non era stato diverso. Tutto aveva avuto senso in quella
dolce
confusione, nell’ebbrezza, nell’eccitazione.
Il
piacere che aveva provato e tutto ciò che aveva sentito...
aveva percepito
Joshua veramente, interiormente, completamente. Lo aveva accolto dentro
di sé
fino a sciogliersi per poi fondersi con lui, nel più
recondito dei significati;
si erano divorati l’un l’altro fino a far scontrare
le loro ossa le une contro
le altre.
Nonostante
l’altro non avesse mai sfiorato le sue labbra. Nonostante
fosse il sapore del
suo bacio, quello che ancora mancava per completare il quadro.
Era
come dover dipingere la neve senza il bianco.
Decisamente...
sfibrante.
«
Cosa intendi fare
oggi? »
la voce del dio
della morte gli arrivò dolce alle orecchie, svogliata, come
se nemmeno lui
avesse voluto interrompere quella magia.
Eric,
la testa appoggiata sulla spalla dell’altro,
mugugnò appena.
Non
ci aveva pensato.
Molte
volte, o almeno una nel corso della vita, ci si chiede cosa si farebbe
se la
fine fosse vicina.
Se
si cercherebbero di esaudire i desideri, o i propri sogni.
C’è chi sceglierebbe
il tepore della famiglia, e chi il calore di una donna.
Lui...
sì, se lo era chiesto, un giorno. Inconsciamente forse, si
era domandato cosa
avrebbe voluto fare nei suoi ultimi giorni.
Ma
la domanda era scivolata via come acqua dal suo cervello, perdendosi in
qualche
cassetto della memoria che poi era stato chiuso e la chiave gettata via.
Cosa
si fa, l’ultimo giorno di vita? Come si vive, cosa si pensa,
quali sono i
rimpianti che affollano la mente?
«
Voglio un
appuntamento »
esordì
all’improvviso, facendo così tabula rasa della sua
mente.
Nessun
rimorso, nessun ripensamento. Basta. Solo Joshua, solo lui,
perché era la cosa
più bella e la più dolorosa al contempo. E la
più calma, la più pacata, la più
tranquilla.
Voleva
ubriacarsi di lui, perché non ne aveva ancora abbastanza.
Voleva dimenticare se
stesso, in lui.
«
Mh... »
lo sentì mugugnare:
«
ti devo confessare
che non so cosa sia »
disse poi, la voce
calma che scivolava lenta sulla sua pelle, facendogli nascere una
risatina
spontanea.
«
E’ una giornata che
passi in compagnia della persona che ti piace. Si fanno diverse cose,
si
passeggia, si pranza, si va al cinema... è un giorno normale
»
spiegò brevemente,
guardandolo con la coda dell’occhio.
Lo
vide inclinare appena il capo, fissando con le iridi candide un punto
qualsiasi
delle piastrelle. «
Va bene »
acconsentì poi: «
accetto la sfida »
scherzò lievemente,
sbeffeggiando la sua stessa ignoranza.
Eric
sorrise allegro. «
Da dove possiamo
iniziare? »
cominciò poi,
lanciandosi con la mente a programmare la giornata.
Non
voleva niente di banale, ma non sapeva cosa
uno come Joshua avrebbe potuto definire “banale”.
Non aveva raffronti, né
misure, né esempi per poter fare confronti.
Si
rese conto improvvisamente che del moro sapeva tutto, ma al contempo
non sapeva
nulla.
«
Mi sono appena reso
conto che non so cosa ti piace fare... »
sussurrò, fissando una mattonella con la
fronte aggrottata: «
anzi, che so
pochissimo di te »
aggiunse, quasi
contrariato da quella sua stessa lacuna.
Dietro
di lui, Joshua sospirò piano. «
Non c’è da sapere molto più di quello
che sai già »
giocò con le
parole.
Eric
lo guardò con la coda dell’occhio, curioso: il
moro aveva puntato le iridi
sulle loro mani ancora intrecciate e appariva concentrato
esclusivamente su di
esse.
Aveva
tutto il sapore di una risposta elusiva.
«
Ma c’è »
sentenziò lui, insistendo.
Non era una di quelle persone che mollano la pezza. «
Per esempio, cosa
fai di solito? »
chiese
distrattamente, andando a disegnare con la mente trame inesistenti nei
disegni
della tenda di plastica appesa sopra la vasca.
Fu
per quella distrazione, forse, che la risposta di Joshua gli
gelò il sangue
nelle vene.
«
Cerco di annullarmi
»
disse il moro, il
tono piatto ed inespressivo; vero.
Staccandosi
dal suo petto si girò per poterlo vedere bene negli occhi.
Erano
sinceri. No, non mentiva.
«
Cosa... vuol dire? »
domandò
controvoglia, sapendo in cuor suo che avrebbe fatto volentieri a meno
di
conoscere quella risposta. Che non gli sarebbe piaciuta.
Joshua
lo guardò per un istante, in silenzio, ed Eric
capì che anche il moro aveva
pensato la stessa cosa. Tuttavia rispose comunque, come se lo stesse
assecondando apposta. Come se lo stesse facendo solo
perché... perché era
l’ultimo giorno.
«
Noi Shinigami
scompariamo, se non assimiliamo energia vitale per un po’ di
tempo. Io
semplicemente aspetto. Dormo un sonno privo di sogni, immerso nelle
tenebre di
un luogo cosparso di nulla, e aspetto »
spiegò.
Per
un qualche motivo che ancora doveva riconoscere, il castano si
sentì
pesantemente seccato. No... offeso.
«
Quindi tu vuoi...
morire? »
chiese nuovamente,
assottigliando gli occhi.
Il
moro lo guardò distrattamente, poi negò appena
con il capo. Il sollievo per
Eric, però, durò fin troppo poco: «
si può dire così, ma non è la stessa
cosa.
Noi non moriamo... scompariamo totalmente. Ci addormentiamo e poco dopo
di noi
non rimane niente, nemmeno la polvere. Forse solo il ricordo »
precisò ligio e
accondiscendente.
Era
la stessa cosa.
La
morte non era annullamento? La morte non era scomparsa? Anche di lui
sarebbe
rimasto solo il ricordo, quando il suo corpo sarebbe stato sepolto sei
piedi
sotto terra a marcire insieme ai vermi in una cassa di legno foderata
di seta!
E
lui veniva a dirgli di voler morire, lui?! Lui che lo avrebbe ucciso,
lui che
avrebbe interrotto la vita a cui stava cercando di tenersi aggrappato
da quando
era nato, lui che non sapeva niente
di cosa volesse dire vivere nel significato più recondito
del termine?
La
voglia di fargli del male, di scaricare la rabbia, fu troppo forte. Lo
colpì,
facendo vibrare lo schiaffo nell’aria immobile della stanza,
espandendone il
rumore acuto lungo i muri.
Non
seppe se Joshua se lo stesse aspettando o fosse riuscito a coglierlo
totalmente
di sorpresa; semplicemente lo ignorò altamente.
«
Ipocrita »
sputò velenoso,
arrabbiato, tradito: «
proprio tu vieni a
dirmi di voler morire quando non puoi nemmeno farlo... e me lo dici
quando io sto per morire, io che non
voglio morire!
IO NON VOGLIO MORIRE, PORCA PUTTANA! »
urlò, lasciando che la sua voce
rimbombasse per la stanza e ferisse i timpani.
Un
silenzio pesante calò fra loro dopo quello sfogo, questa
volta totale e
completo. Nemmeno i suoi respiri accelerati sembravano abbastanza
rumorosi da
poterlo riempire e spezzare.
Il
dio della morte non si mosse. Stette semplicemente immobile a guardarlo
serio,
la guancia pallida che si stava pian piano tingendo di un rosso spento.
Chiuse
poi gli occhi in un sospiro e fu proprio in quell’istante che
Eric si pentì del
gesto.
Non
era colpa di Joshua. Non era colpa sua. Ognuno desidera ciò
che vuole, e...
Stava
per dire qualcosa, ma il moro si alzò e uscì
dalla vasca. Il corpo decisamente
troppo attraente fu velocemente rinchiuso in un accappatoio e, senza
dire
niente, uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.
Era
uno stupido.
Si
alzò a sua volta, afferrando in fretta il secondo
accappatoio e uscendo fuori a
sua volta. Una rapida occhiata all’appartamento gli fece
rendere conto che
l’altro era in camera da letto; vi entrò,
trovandolo di fatti intento ad
abbottonarsi una camicia nera a mezze maniche, i jeans scuri appena
infilati ancora
slacciati.
Gli
dava le spalle. Si sentì in colpa.
«
Joshua... »
chiamò da sulla
soglia, piano. «
Mi dispiace, io non
volevo dire... sono solo... »
«
Io sono stanco,
Eric »
lo interruppe il
moro, la voce profonda. «
Esausto. Stanco di
veder mutare questo mondo in peggio ad intervalli regolari. Stanco di
svegliarmi
dal nulla per cadere in un altro tipo di nulla, stanco della
consapevolezza di
dover uccidere per continuare ad esistere anche se la mia esistenza non
vale
niente. Stanco... stanco di stringere fra le mani qualcosa illudendomi
che
durerà, per poi perderla inevitabilmente »
disse, girandosi piano. Il suo sguardo
esprimeva un tormento talmente grande, quegli occhi bianchi
così addolorati,
che il castano credette di non aver mai visto nulla del genere sul
volto di
nessuno.
Quelli
erano occhi millenari. Non vi era altro termine per descriverli.
«
Da quanto...? »
domandò Eric,
facendo due passi avanti: «
da quanto esisti? »
completò la domanda
sottovoce.
Evitò
il verbo “vivere” per una sorta di sottile rispetto.
Gli
occhi di Joshua si chiusero, e sembrarono quelli di un vecchio reduce
di guerra
che rivive ancora una volta il suo combattimento sul campo.
«
Non me lo ricordo.
E’ passato troppo tempo, credo »
rispose, afflitto. Ma era un tipo di afflizione
stanca, provata, così antica da aver perso ogni traccia di
dolore.
Il
castano deglutì, ricoprendo velocemente la distanza che li
separava fino ad
abbracciarlo, affondando il volto nell’incavo fra la spalla e
il collo. Joshua
rispose al gesto, stringendolo a sé.
«
Scusami... »
gli sussurrò Eric
all’orecchio, ma venne anticipato.
«
Perdonami »
si scusò Joshua,
mormorando piano. «
Non avrei dovuto
parlare di queste cose, non era il caso. Non volevo farti arrabbiare »
soffiò.
Eric
si strinse di più a lui, chiudendo le mani sulla stoffa
della camicia nera
finché non gli fecero male le dita. Perché non
prima? Perché non aveva potuto
incontrarlo in un’altra situazione, in un altro tempo, in un
altro modo?
Dipendere
dal suo carnefice senza che fosse tale. Amarlo senza che ciò
significasse
desiderare la Morte. Avere quelle piccole gioie di cui si era privato,
come
vederlo dormire, o sentirlo sognare. Assaggiare le sue labbra senza che
gli
fosse proibito; passare le serate così, solo baciandosi,
ridacchiando a qualche
battuta idiota o sorridendo alla pace che sicuramente quei momenti
avrebbero
avuto.
Stare
con lui senza l’inquietudine, l’ombra della
mezzanotte a gravare su di loro.
Su
di lui.
«
Vestiti »
gli sussurrò il dio
della morte, posandogli un leggero bacio sulla tempia: «
vado a prepararti
qualcosa per colazione »
aggiunse,
sciogliendosi dall’abbraccio per dirigersi in cucina.
Eric
annuì, guardandolo uscire con la coda dell’occhio.
Se
solo fosse stato un essere umano...
{Abrahel}
Per
una questione sì di sopportazione, ma anche per problemi
tecnici legati alla
sua natura di Shinigami.
Vedeva
le anime della gente che gli passava accanto, sul viale principale
della città;
e questo significava essere circondati da un manipolo di luci di varie
tonalità
di grigio. Una cosa decisamente deprimente.
Solamente
l’anima di Eric, al suo fianco, brillava candida e calda.
Poteva sentire la
lieve energia che emanava anche senza impegnarsi, semplicemente sulla
pelle,
percependone l’onda gentile.
Una
sensazione che era aumentata pian piano, col tempo. Era quasi sicuro,
adesso,
che avrebbe potuto avvertire l’energia vitale di Eric anche a
grande distanza.
Magari
era “colpa” del loro rapporto, sia fisico che
sentimentale. Poteva essere che,
affezionandosi a lui in quel modo oltre misura, fosse diventato
sensibile ad
ogni cosa che lo riguardava. E questo, ovviamene, comprendeva anche
l’anima.
Lo
osservò di sottecchi, facendo attenzione a non essere visto
dal castano.
Non
sapeva cosa provava. Non riusciva a... capirsi.
Per
lui era una cosa complicata, nuova. Sentiva il bisogno di proteggerlo;
e
nonostante sapesse che la minaccia più grave da cui avrebbe
dovuto
salvaguardarlo era proprio se stesso, non sentiva il coraggio per
staccarsi da
lui e lasciarlo perdere.
Ma
non era una cosa che riguardava Enma, o la punizione che spetta agli
dei della
morte che non portano a compimento un incarico – qualunque
essa fosse. Era
piuttosto una sorta di... nostalgia.
Sentiva
che gli sarebbe imploso il cuore, se si fosse separato da Eric. Il
cuore che
non aveva, ma che sembrava essere presente dal momento in cui aveva
incontrato
Eric fuori da quella discoteca di periferia.
Che
aveva cominciato a battere piano, sottovoce, per poi farsi sentire man
mano che
si avvicinava al castano. Per poi esplodere nel momento in cui si erano
uniti,
in mezzo alle lenzuola stropicciate del letto nel suo appartamento, e
aveva
sentito di non poter essere più nessuno, senza
l’altro. Nemmeno l’esistenza
vuota e silenziosa che era sempre stato dal momento in cui era stato
creato
fino ad una settimana prima.
Ridacchiò
sommessamente, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure degli occhiali
da
sole. Patetico.
Era
diventato un umano nel corpo di uno Shinigami.
«
Cosa c’è? »
domandò l’oggetto
dei suoi pensieri, osservandolo con un cipiglio a metà fra
il curioso e... il
malinconico.
Abrahel
lo guardò meglio, approfittando biecamente delle lenti scure
per soffermarsi
sui suoi occhi. C’era un’ombra nel suo sguardo che
ne oscurava la luce... un
pensiero, forse?
Oppure...
Chiuse
gli occhi in un sospiro, non credendo a se stesso quando
sentì il proprio cuore
stringersi per l’aver notato quel piccolo particolare. «
Pensavo »
disse
semplicemente, cercando di chiudere il discorso senza planare sul
torbido.
Ma
era un illuso nel credere che Eric avrebbe lasciato perdere. «
E a cosa pensavi? »
domandò infatti,
nascondendo la sua curiosità in un tono scherzoso.
A
mali estremi, estremi rimedi. «
Potrei chiederti la stessa cosa, suppongo »
rispose direttamente,
lanciando la freccetta esattamente al centro del bersaglio che aveva
puntato.
Lo
vide abbassare appena lo sguardo, un sorriso spento ad incurvargli le
labbra. «
Si vede così tanto?
»
chiese poi,
auto-ironico.
«
No »
replicò Joshua,
tornando per un momento sulla folla intorno a lui: «
solo per chi sa
vederlo »
chiarì, lievemente
ironico a sua volta senza però suonare canzonatorio.
Eric
rimase silenzioso per qualche istante, impegnato in ragionamenti tutti
suoi.
Dal canto suo, Abrahel non spostò mai lo sguardo dalla folla
finché l’altro non
si decise a rispondere.
«
Pensavo a te »
rivelò il castano,
facendo istintivamente sorridere il moro.
«
Sono un chiodo
fisso? »
ci scherzò sopra,
facendo ridacchiare anche Eric.
«
Più o meno »
rispose quello,
mordendosi il labbro: «
mi stavo solo...
chiedendo... come sarebbe stato se tu fossi un semplice umano »
rivelò poi, tenendo
gli occhi puntati a terra e stando bene attento a non sollevarli.
Abrahel
non rispose subito. Era difficile per lui poter dire cosa potesse
essere
diverso, e cosa sarebbe rimasto uguale anche nell’ipotesi che
lui non fosse un
dio della morte. E c’erano tante, moltissime risposte a
questo quesito, primo
fra tutti l’assenza dell’ovvio finale.
«
Sarebbe stato
esattamente così »
rispose invece, tornando
a guardarlo: «
tu ed io, per la
strada, fianco a fianco. Come amici o come amanti non ha importanza,
è sempre e
comunque “insieme” »
disse, suonando
convinto di se stesso in un modo che spaventò anche lui.
Non
era probabile una cosa del genere, e non era nemmeno possibile. Ma
sentiva il
bisogno di poter credere che lo fosse. Anche se era una bugia, un
illusione con
fondamenta evanescenti... in una menzogna si poteva credere comunque.
Vide
Eric sorridere, e ne fu subito rincuorato. Poi girò il volto
in sua direzione,
con lo sguardo sereno. «
Io credo che...
sarebbe diverso »
mormorò: «
per un semplice
motivo: non mi godrei ogni istante di questa giornata. Mi sono reso
conto come
sia incredibile, che le persone che non
sanno vivano la giornata pensando sempre a quello che faranno
dopo. Anche io ero così »
una piccola pausa,
uno sguardo al cielo azzurro e soleggiato: «
una donna cammina per strada e pensa a
cosa dovrà prendere al supermercato per cena, un uomo esce
dall’ufficio e pensa
subito al programma di lavoro per il giorno successivo, una segretaria
archivia
una pratica e già la sua mente si sposta su quella
successiva. Tutti inseguono
il dopo come se il futuro fosse certezza, anche se solo di pochi minuti
o al
massimo di qualche ora ».
Un
altro lieve incurvarsi di labbra, il suo avvicinarsi modesto fino a far
sfiorare le loro spalle, le nocche delle loro mani abbandonate lungo i
fianchi.
«
Sapere, mi ha aperto gli occhi... »
continuò Eric con
la voce ridotta ad un mormorio fievole, che Abrahel comunque sentiva: «
...se fossimo
persone normali, e se io non fossi condannato... non mi godrei ogni
attimo che
passo in tua compagnia. Non sarebbe così... »
«
Profondo »
concluse Abrahel al
suo posto, incontrando l’assenso del castano al suo fianco.
Allungando la mano
catturò quella di Eric, così vicina, unendone i
palmi e lasciandone intrecciare
le dita.
Il
castano non rifuggì il contatto, rendendo anzi la presa
più salda. «
Ci guarderanno
tutti... »
sussurrò
preoccupato, guardandosi intorno guardingo.
«
Lascia che guardino
»
rispose il moro: «
magari impareranno
a soffermarsi sul presente ».
Sotto
al suo sedere, la panchina su cui si era seduto dopo quella
diavoleria pareva l’unica cosa ferma
dell’ambiente
circostante. «
Non ne sono molto
sicuro »
bofonchiò quindi,
aumentando appena la stretta sulle assi di legno a lato dei suoi
fianchi.
«
Può vomitare uno
Shinigami? »
domandò
l’altro con cipiglio curioso.
«
Non credo di
volerlo scoprire, Eric »
ribatté prontamente
Abrahel, chiudendo gli occhi e riaprendoli come se, con quella mossa,
il mondo
potesse finalmente fermarsi.
«
Mi dispiace... »
bofonchiò il
ragazzo, appoggiandogli la bottiglietta dell’acqua fresca al
collo: «
non credevo che soffrissi
le montagne russe ».
«
Già. Beh, nemmeno
io »
schernì lui,
afferrando con la mano la bottiglia e posandosela sulla fronte. «
Perché gli esseri
umani se non inventano di queste cose non sono felici? Cosa
c’è di bello
nell’andare su e giù e girare in tondo come dentro
ad una centrifuga? »
si lamentò,
decisamente contrariato questo sviluppo inutile di tecnologia da parte
della
razza umana. A cosa serviva quell’affare, oggettivamente
parlando?
Al
suo fianco, sentì Eric ridere di gusto. «
Cos’ho detto di così divertente? »
borbottò offeso,
restituendogli la bottiglia. In un qualche modo, sembrava che il mondo
fosse un
po’ più stabile sotto i piedi.
«
Sei unico, davvero!
»
esclamò il castano,
tenendosi le stomaco per non piegarsi in due dal ridere: «
sembri un
vecchietto che se la prende con la generazione giovanile! »
aggiunse,
osservandolo di sottecchi fra le lacrime delle risate.
Abrahel
assottigliò gli occhi nella sua migliore espressione
omicida. Ma con Eric, si
rese conto presto, non funzionava; anzi, a dire la verità
non riusciva a
guardarlo in quel modo nemmeno sforzandosi.
«
Un vecchietto molto
longevo »
ironizzò poi,
restituendogli la bottiglietta d’acqua con un gesto elegante.
«
Beh, li porta
magnificamente, signore »
scherzò a sua volta
Eric, assumendo un tono suadente che non si preoccupò di
celare poi così tanto.
Abrahel
rispose con un sorrisetto complice, avvicinandosi appena con il volto a
quello
dell’altro: «
non dovrebbe
flirtare in questo modo sfacciato con gli anziani, giovanotto »
rimase al gioco: «
potrebbe
incontrarne uno particolarmente spudorato da rispondere positivamente
alle
avances »
rispose, fissandolo
direttamente negli occhi con un sorrisetto malizioso.
Sorriso
a cui Eric rispondeva ad arte. «
Dipenderebbe tutto da come l’anziano in questione
avrebbe intenzione di trattarmi... »
lasciò cadere appositamente, facendosi a
sua volta un po’ più vicino ad Abrahel.
«
Gentilmente. Ma il
vecchietto è puntiglioso, e un corpo giovane sotto mano va
esplorato con la
dovuta cura e... lentezza. Estenuante lentezza, oserei dire »
ipotizzò
scherzosamente, arrivandogli abbastanza vicino da far scivolare
“inavvertitamente” un dito lungo il profilo della
sua coscia, da sopra i jeans.
Lo
vide deglutire mentre seguiva con lo sguardo il percorso del dito. «
Mh... in questo
caso... »
«
Eric Everald?! »
sentirono da
qualche parte in mezzo alla folla del luna park, e la loro reazione fu
simultanea nel girare la testa verso di essa.
L’unica
differenza fra loro, era che lo sguardo di Eric non prometteva
l’auto
combustione spontanea.
«
Noah? »
mormorò Eric al suo
fianco, puntando gli occhi su un ragazzo dalla zazzera rossiccia che
salutava
dalla fontana, sbracciandosi in loro direzione. Rispose al saluto con
un
sorriso, alzandosi.
Abrahel
lo seguì. «
Chi è? »
domandò poi,
modulando il tono per non farlo sembrare seccato. Inutilmente.
«
Noah Keynes »
rispose l’altro,
attirando la sua attenzione: «
abitava vicino a noi prima che i suoi genitori si
separassero. Quando la madre se ne andò lui e suo padre
cambiarono casa »
alzò nuovamente il
braccio in direzione del rosso, che a sua volta si era alzato dal bordo
della
fontana e camminava verso di loro. «
Abbiamo giocato insieme praticamente
sempre, da bambini. Anche se era più piccolo di quattro anni
ci divertivamo lo
stesso come matti »
spiegò, correndo
per coprire gli ultimi metri.
Abrahel
squadrò bene il ragazzo dai capelli rossi, facendosi tornare
finalmente alla
memoria il perché quel nome gli suonasse famigliare.
Corporatura normale, occhi
castani. Un viso rotondo e sorridente, un modo di parlare spigliato e
gioviale,
uno sguardo sincero e... un’anima candida simile a quella di
Eric.
Sospirò,
avvicinandosi con le mani in tasca. Due anime bianche in una
settimana... roba
da non credere.
«
Noah! »
esclamò il castano
una volta abbracciato l’altro, che gli diede qualche pacca
sulla spalla: «
è da un’esistenza
che non ci vediamo! Come va? »
«
Al solito, niente
di che »
disse il ragazzo in
risposta, osservandoli entrambi: «
vi ho disturbati? »
domandò poi
assumendo un’espressione lievemente colpevole.
Abrahel
represse l’istinto di rispondere un
“perspicace” che sicuramente avrebbe fatto
arrabbiare Eric. E poi, se si conoscevano non era poi così
male: aveva un
messaggio da consegnare.
«
Lui è Joshua Archer,
si è trasferito qui da poco »
lo presentò il castano, indicandolo con un gesto della
mano. All’allungarsi della mano del rosso, lui la strinse con
un «
piacere »
abbastanza
neutrale.
«
Piacere mio »
rispose l’altro con
un sorriso gentile. «
Cosa ci fate qui in
giro raga? Niente lezioni? »
domandò poi con un ghigno furbo sulle labbra.
Eric
negò con il capo: «
saltate »
rispose con la
stessa furbizia: «
e tu? Niente
scuola? »
chiese a sua volta.
Anche
Noah negò con un sospiro: «
saltata anche io.
La fidanzata di papà è tornata da poco e hanno
organizzato una sorta di “uscita
famigliare” o roba simile »
spiegò velocemente,
infilandosi le mani nelle tasche.
«
Tuo padre si è
trovato un’altra donna? »
chiese Eric,
abbassando il tono di un’ottava. Probabilmente cercava di
usare del tatto, non
sapendo cosa pensasse l’altro della propria situazione.
Abrahel
rimase ad ascoltare, in silenzio.
«
Sì, da un po’. Ma
lei è archeologa, dunque non è a casa spesso »
spiegò paziente: «
ho un fratellastro
però, più grande di me di un anno »
aggiunse con un nuovo sorriso sulle
labbra. Più dolce.
Anche
di un secolo, pensò Abrahel sorridendo sotto i baffi.
Avrebbe volentieri
scoperto le carte in tavola, rivelando a Noah di conoscere Marcus,
anche solo
per vedere la reazione che avrebbe avuto; ma preferì lasciar
perdere e
continuare ad ascoltare.
Eric
sorrise cortese. Non doveva essere molto ferrato sul come prendere di
petto gli
argomenti famigliari; in quello almeno si somigliavano. «
Andate d’accordo? »
domandò infatti,
rimanendo su una sorta di conversazione neutra che non andasse a parare
sulla
relazione di suo padre. Solitamente l’oggetto di astio era la
nuova compagna
del padre, non l’eventuale fratellastro.
Noah
ridacchiò allegro, però, e la cosa faceva ben
sperare. «
All’inizio no, mi
odiava »
rivelò con un
sorriso divertito: «
però adesso sì.
Siamo... molto uniti »
mormorò, abbassando
lo sguardo come se dire quelle parole gli causasse imbarazzo. Il
sorriso che
gli piegò le labbra aveva quel sentore.
Abrahel
cominciò a pensare che la trasparenza fosse una
caratteristica comune delle
anime bianche. Soprattutto l’imbarazzo era facilmente
individuabile nei tratti
delle persone – il leggero rossore, l’abbassarsi
degli occhi, il tono di voce
che diveniva un sussurro – ma sia Noah che Eric avevano occhi
sinceri, dentro
ai quali si potevano leggere molte cose.
«
Beh, ora mi sa che
devo andare »
intervenne il
rosso, indicando con il pollice la fontana: «
ho promesso a mio padre che ci saremmo
incontrati alla fontana, se non mi vede va in panico ».
«
Va bene, divertiti
allora »
rispose Eric
sorridendo allegro: «
fatti... sentire
ogni tanto »
esitò un momento,
per un breve istante.
Ma
Noah non sembrò accorgersene. «
Certamente! »
ribatté, e stava già per allontanarsi
quando fu Abrahel a fermarlo. «
Keynes! »
chiamò, la voce ferma.
Il
rosso si girò in sua direzione. «
Potresti portare un messaggio a Marcus da parte mia? »
gli domandò,
osservandolo con pacatezza. Noah sembrò dapprima sorpreso
poi dubbioso, ma alla
fine annuì con il capo.
«
Digli che ora so
cosa vuol dire “importante”. Lui capirà »
disse, gentile.
Noah
annuì di nuovo, salutando e tornando a sedersi sul bordo
della fontana. Nel
frattempo, loro due cominciarono ad incamminarsi in direzione
dell’uscita.
«
Come fai a
conoscere suo fratello? »
domandò Eric
curioso, osservandolo di sbieco.
Abrahel
sogghignò. «
L’ho conosciuto per
caso »
rispose poi,
guardando dritto davanti a sé con ancora il ghigno sulle
labbra: «
i vampiri sono e
saranno sempre esseri intrattabili ».
Nonstante
Eric non fosse esattamente sicuro che Joshua avesse mai messo piede
dentro un
McDonald, decise comunque di tentare la sorte e di portarcelo. Non
sapeva a
base di cosa fosse la dieta degli Shinigami, ma almeno una volta lo
aveva visto
mangiare dell'insalata, dunque supponeva potesse cibarsi anche di
alimenti
umani.
Chissà
perché riteneva Joshua una persona abbastanza schizzinosa,
in fatto di cibo. E
magari, pensò una volta in fila alla cassa, portare un dio
della morte vegetariano
in un posto in cui si vendeva solo roba a base di carne non era stata
una
grande idea.
L'espressione
poco convinta che assunse il moro guardando i tabelloni con il
menù fu una
sorta di prova del nove.
«
Josh, possiamo
anche cambiare posto... »
mormorò al ragazzo,
in fila alla cassa di fianco alla sua.
«
No, va benissimo »
rispose quello,
probabilmente troppo assorto nella sua mania di assecondarlo per
mettere in
primo posto i suoi bisogni alimentari.
Eric
sospirò rassegnato. «
Mi sembrava di averti
detto di non assecondarmi per ogni cosa! Se ti dicessi che il sogno
della mia
vita è vederti volare da un grattacielo di trenta piani ti
butteresti
dall'Empire State Building? »
domandò ironico, fissandolo decisamente male.
«
Tanto non morirei »
fu la risposta
disinteressata che ottenne.
«
Lo so che non
moriresti! »
non era quello il
punto! «
E' solo che... »
«
Eric »
lo interruppe però
Joshua, girandosi in sua direzione con un'espressione che non ammetteva
repliche: «
se ti ho detto che
va bene vuol dire che va bene, e che ho trovato comunque qualcosa da
mangiare.
Perciò rilassati, ok? Non ti sto assecondando apposta »
spiegò, tornando
con gli occhi al menù.
Eric
sospirò rassegnato. «
Ci rinuncio »
borbottò a se
stesso, ripassando mentalmente la propria ordinazione prima di arrivare
davanti
al cassiere.
«
Prego? »
disse quello, in
attesa.
«
Un menù tre, coca
media, con ketchup »
disse brevemente,
abituato a quel tipo di ordinazioni. Con Rob e Doug non si mangiava
altro
quando organizzavano serate "cena, cinema e night club".
Il
cassiere annuì, selezionando i prezzi sul dispaly e mandando
in stampa lo
scontrino; si allontanò poi dietro al bancone per recuperare
il suo hamburger e
il resto dell'ordinazione.
Nel
frattempo, al suo fianco, Joshua arrivò alla cassa. Aveva
l'aria di uno che
aveva preso una decisione significativa della sua esistenza, e il suo
sguardo
risoluto - e a dir poco inquietante - trapassò la cassiera
da parte a parte,
facendola balbettare nel chiedere cosa volesse.
Joshua
la fissò, e lui fissò Joshua con la coda
dell'occhio. Una lista di possibilità
scorse nella sua mente, come quella che vedeva l'altro ordinare un Big
Mac. Con
dentro ben DUE hamburger. La rivoluzione della carne made in Joshua
Archer.
Deglutì,
attendendo con trepidazione. Finalmente vide il moro prendere fiato,
aprire la
bocca...
«
Un milk shake alla
fragola ».
Se
avesse potuto prendere il vassoio e sbatterselo in fronte,
probabilmente lo
avrebbe fatto. Solo, non voleva rovesciare le patatine.
Una
volta ritirato il vassoio (Joshua non poté esimersi dal far
notare che non
c’era bisogno di un vassoio per la sua ordinazione alla
cassiera che pendeva
dalle sue labbra), si andarono a sedere in sala, cercando un tavolo che
non
fosse in un punto troppo affollato.
«
Cazzo, l’hai fatto
di nuovo! »
esclamò una volta
sedutosi, riservando all’altro un’occhiata a dir
poco pungente.
Joshua,
che sembrava a suo agio in qualsiasi luogo andasse, trasse dubbioso un
sorso di
milk shake dalla cannuccia, alzando gli occhi su di lui proprio mentre
ne
considerava il gusto. «
E’ schifosamente
dolce »
commentò, per poi
aggiungere: «
cosa? »
in risposta, un
sorriso sghembo ad incrinargli le labbra.
«
La cassiera! »
fece notare lui,
non potendo non considerare però quanto amasse vedere quel
sorrisetto sornione
sul volto dell’altro. «
Era ai tuoi piedi,
hai notato? Ti ha persino chiesto se volevi il ketchup per tenerti alla
cassa
qualche minuto in più! A te che le patatine nemmeno le hai
prese! »
continuò lamentoso,
scartando l’hamburger e sbattendone l’involucro sul
tavolo.
Il
moro ridacchiò divertito, appoggiandosi allo schienale della
sedia. «
A me è sembrato che
facesse il suo lavoro »
esordì, prendendo
un altro zuccheroso sorso di milk shake.
«
Seh, te lo dico io
che lavoro faceva quella... altro che cassiera »
borbottò lui in risposta, azzannando
il panino.
Per
tutto il tempo in cui masticò il boccone, Joshua lo
guardò con un ghigno
inquietantemente compiaciuto sul volto. Solo quando si decise a parlare
–
ovvero quando Eric aveva finito di masticare e quindi poteva
rispondergli – il
castano capì che Joshua adorava fin troppo sfotterlo.
«
E sei geloso? »
domandò infatti,
quel ghigno irritante ancora dipinto sulle labbra.
Eric
sussultò appena, osservandolo da sotto le ciglia: «
perché, non posso? »
domandò, bevendo un
sorso di coca per avere la scusa di distogliere lo sguardo da quello
dell’altro: «
tu sei roba mia,
insomma... »
borbottò
impacciato.
Vide
il moro ridacchiare di gusto, e per assurdo si sentì offeso.
Cos’è, si era
sbagliato? Insomma, erano stati insieme e tutto il resto, era solo
normale che
gli girassero le palle ad elica se una cassiera random faceva la prima
donna
con il suo uomo!
...ok,
ora era lui a sembrare una
ragazzina.
Si
fece scivolare sulla panca, imbarazzato, cercando di diventare
tutt’uno con il
pavimento.
«
Ehi »
chiamò però Joshua,
appoggiando i gomiti sulla superficie di legno laccato e avvicinandosi
a lui
con il volto: «
te l’ho già detto,
la mia esistenza è tua. E credo di essere anche abbastanza
fedele »
ironizzò appena,
sorridendo sbieco con lo sguardo di uno che si sta divertendo un mondo.
Eric
sentì il proprio volto accaldato, e sperò in cuor
suo di non essere arrossito
come una ragazzina. «
Smetti di dire cose
imbarazzanti... »
mugugnò appena,
puntando gli occhi su di una crepa improvvisamente interessante.
Sentì
Joshua ridacchiare e, a sua volta, non poté trattenere un
sorriso.
Non
avrebbe potuto sperare in un giorno più tranquillo e
piacevole di quello.
Dopo
pranzo erano andati al cinema, a vedere una replica di un vecchio film
in
bianco e nero. Non che la pellicola fosse importante, comunque;
praticamente
avevano passato il tempo nell’ultima fila laterale, quella da
cui non vedi
quasi nulla, parlottando a bassa voce e ridacchiando per delle scemenze.
Al
mercatino di china town, Eric aveva piacevolmente scoperto che Joshua
conosceva
la maggior parte dei rimedi farmaceutici cinesi. Sapeva le
proprietà curative
delle radici e di alcuni tipi di funghi, così tanto che si
intrattenne almeno
dieci minuti a discutere con il vecchio proprietario di un negozietto
di spezie
e rimedi curativi.
Allo
stesso tempo, vederlo in un centro commerciale a tre piani fu la cosa
più
divertente della sua vita.
Ok,
magari poteva risparmiarsi di portare una persona intollerante alla
razza umana
nel posto più incasinato per eccellenza, ma la reazione che
Joshua aveva alla
folla era impagabile. Anche se, ad un certo punto, aveva veramente
pensato che
avrebbe incenerito un bambino troppo piagnucoloso con lo sguardo.
Si
fece perdonare con la biblioteca. Quello era un luogo che piaceva ad
entrambi;
a lui perché studiava letteratura, all’altro per
l’amore considerevole che
aveva per la lettura – anche se era puramente a scopo
informativo, gli spiegò;
li usava per conoscere ciò che si perdeva del mondo fra un
“sonno” e l’altro.
Quando
si fece buio, si fermarono a mangiare. Questa volta non in un fast
food, per
tranquillità di entrambi, anche se comunque Joshua prese
un’insalata e una
macedonia a confronto della sua pizza a doppia farcitura.
Usciti
dalla pizzeria, presero un autobus per ritornare nei pressi del campus.
Su sua
richiesta deviarono dalla strada di ritorno, imboccando il viale che
portava a
casa Everald.
Voleva
solo... vederli. Da fuori, da lontano. Magari attraverso la finestra
del
salone.
Ma
quando arrivarono, tutte le luci erano spente. Non c’era
nessuno per strada
nonostante fossero solo le dieci di sera – o forse erano già le dieci – e
anche le luci delle case affianco alla sua non
trasparivano dalle finestre.
Avvertì
Joshua afferrargli gentilmente la mano solo dopo qualche minuto, in cui
era
rimasto fermo ed in silenzio a guardare la casa immersa
nell’immobile oscurità.
«
Vuoi andare a
cercarli? »
domandò a bassa
voce, voltando appena il capo in sua direzione.
Eric
scosse il capo, chiudendo gli occhi. «
Credo non farei... in tempo »
rivelò in un
sussurrò, sospirando affranto.
Il
silenzio della sala, la cui luce non era nemmeno stata accesa per
lasciare
campo libero a quella fievole esterna, veniva interrotto solo dai loro
respiri
e dal ticchettio insistente della pendola.
Dal
ricordo del tempo che correva senza fermarsi.
«
Non manca molto...
vero? »
la voce di Eric era
flebile nello sforzo di rimanere sereno, di non cedere alla paura.
Un
paio d’occhi candidi guardarono di sfuggita l’ora,
tornando subito dopo sulla
città. «
No »
fu la semplice
risposta, granitica, fuori luogo.
Perché
fuori luogo erano i pensieri e i dubbi. I ripensamenti come i
sentimenti
stessi.
Eric
cercò la mano di Joshua, che non si tirò indietro
nel frasi trovare. Le dita si
intrecciarono, i palmi si sfiorarono l’un l’altro
in un muto contratto.
«
Dimmi a cosa stai
pensando »
il sussurro di Eric
era udibile come se fosse stato pronunciato ad alta voce; la fredda
calma di cui
la stanza era pregna fungeva da amplificatore di ogni minimo rumore,
quasi
anche del battito del cuore.
Joshua
rimase in silenzio, pensieroso. «
Non ti piacerebbe »
rispose poi, cupo.
«
Non puoi dirlo se
non ci provi »
ribatté il castano,
girando appena il viso per vedere bene il compagno.
Il
moro, notando il movimento, lo replicò. «
Non voglio ucciderti, Eric »
e sembrò più una
preghiera, che una rivelazione.
Il
castano chiuse gli occhi, pacato. «
Ciò che vuoi e ciò che devi fare non
sempre coincidono »
pronunciò,
riaprendo gli occhi per immergerli nuovamente in quelli di Joshua.
Avvolgendoli,
cullandoli. Rassicurandolo, quasi.
Il
moro si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «
Ha tutta l’aria di una citazione »
ironizzò appena,
amaramente, dando alla leggerezza statica di quella stanza un sapore
sgradevole
di stantio.
Intanto
la pendola rintoccava, rumorosa.
Mezzanotte
meno cinque minuti.
Il
fruscio dei loro vestiti fu ciò che infranse il silenzio,
depositandosi in esso
come un sedimento. I movimenti del tutto volontari di avvicinarsi
all’unisono,
di abbracciarsi dolcemente.
I
loro visi a pochissima distanza l’uno da quello
dell’altro; i loro nasi che si
sfiorano appena, le loro bocche divise in attesa di unirsi, di
assaggiarsi.
Finalmente.
Abrahel
osservò quegli occhi castani come se rappresentassero la
salvezza. Come se
fossero la via per tutte le risposte ai suoi dubbi, e alle sue
molteplici
domande. Come se potessero guidarlo perché scegliesse,
finalmente, cosa fare.
Erano
rimasti dieci minuti. Il tempo stava scadendo.
«
Josh... »
mormorò Eric,
piegando le labbra in un’ombra di sorriso gentile: «
non preoccuparti.
Se sei tu, va bene così ».
Parole
che, nel rappresentare la risposta cercata, pesavano come macigni su un
cuore
fatto di nulla.
Esisteva
Eric, ed Eric soltanto.
Così
come c’era Joshua, e Joshua soltanto.
Due
essenze all’unisono.
Quattro
minuti.
«
Abrahel ».
Gli
occhi castani si assottigliarono, lo sguardo confuso al suono di quella
parola.
«
Il mio vero nome »
chiarì allora lo
shinigami, sorridendo malinconico.
Anche
Eric sorrise; un lieve segno di divertimento in quella sua voce fatta
di
musica: «
ho letto la tua
storia su di un libro, l’anno scorso... »
disse appena, portando il naso a sfregare quello
del moro.
«
E’ probabile »
annuì Joshua: «
Abrahel è un dogma,
per voi. Qualcosa che esiste solo perché qualcuno ha detto
così ».
«
Ma Joshua è reale »
lo contraddisse il
castano: «
io posso toccarti,
e vederti, e... »
una lieve pausa, un
silenzio infinitesimale ma al contempo infinito: «
...amarti. Sei qui, adesso. Ti
sento. E non nelle polverose pagine di un libro, sottoforma di
inchiostro e
carta »
spiegò, sfiorando
al contempo la schiena dell’altro con le dita.
Il
dio della morte portò una mano alla gota del castano,
carezzandola con le
nocche. «
Per te è una
sfortuna che io sia qui... »
mormorò affranto, cercando di nascondere la malinconia
con un sorriso scontato.
Eric
negò. «
Ringrazierei ogni
giorno chi ha deciso di far sì che ci incontrassimo »
sentenziò con
sicurezza.
«
E’ la morte che ha
deciso »
ribatté Abrahel con
amarezza.
«
E allora ringrazio
la morte ».
L’aroma
dolce di un’anima candida.
L’aspettativa
ansiosa dell’unione sperata.
Desideri
che si sfiorano timorosi.
Tre
minuti.
Il
castano alzò una mano, passando il polpastrello
dell’indice sulle labbra di
Joshua. Ne osservò lo sguardo, solo e completamente suo,
facendo pian piano
scomparire il leggero e dolce sorriso che ancora piegava le sue labbra.
«
Cosa farai dopo? »
domandò poi, colto
all’improvviso da quel dubbio senza importanza.
Joshua
sospirò, chiudendo gli occhi. Non rispose, e il suo silenzio
non fece altro che
alimentare i dubbi di Eric.
«
Josh... »
chiamò di nuovo.
«
Cosa pensi che
farò? »
eluse allora
Abrahel, riaprendo gli occhi per specchiarsi di nuovo in quelli castani
dell’altro, così vicini ai suoi.
Eric
sembrò voler rispondere, ma prese aria senza riuscire a
parlare. Dovette
prendere fiato una seconda volta, prima di lasciare che le parole
uscissero: «
la speranza, è che
tu ritorni al tuo lavoro. Il presentimento, è che cercherai
di seguirmi... a
modo tuo »
esalò, combattuto
nel rivelare quel pensiero.
Lo
shinigami ghignò: «
non puoi chiedermi
di far finta che non sia successo niente, ti pare? ».
Calore,
protezione, sicurezza.
Fra le
braccia dell’assassino, la sua vittima.
Perfetta
utopia.
Due
minuti.
Un
sospiro da parte di Eric, la sua fronte che si posa sulla spalla del
moro.
«
Non riuscirò a
convincerti a lasciar perdere, vero? »
domandò mormorando, stringendosi all’altro
ancora di più.
«
No, non ci
riuscirai »
ribatté Abrahel,
posandogli un bacio sulla tempia.
Qualche
istante di silenzio, un brivido lungo la schiena dell’umano
ma percepito anche
dal dio della morte.
Abrahel
chiuse gli occhi, stringendo a sé Eric come se dovesse
rassicurarlo. Anche se
non avrebbe dovuto farlo.
Anche
se non aveva senso, fatto da lui.
«
Non temere... »
sussurrò amaro,
sofferente: «
sarà come
svegliarsi da un incubo »
pronunciò accanto
al suo orecchio, piegandosi su di lui nell’assurdo tentativo
di proteggerlo da
qualcosa in arrivo.
Avrebbe
dovuto proteggerlo da se stesso, e avrebbe dovuto farlo andandosene.
Rinunciando. Sacrificando il mondo che odiava per la persona che amava.
«
No... »
rispose però Eric,
aggrappandosi a lui nel medesimo modo. Il fiato corto non
poté non rivelare le
sue lacrime, dettate più dall’agitazione che dalla
paura, ma pur sempre
lacrime. «
Sarà come
riaddormentarsi dopo un sogno »
aggiunse, in un soffio sofferto.
Il
sacrificio di chi si ama per la salvezza di ciò che si odia.
Vita e
morte in un solo abbraccio.
Un
minuto.
Si
guardarono negli occhi, l’uno scrutando quelli
dell’altro, ancora. Come se non
ne avessero mai abbastanza.
«
Ci rivedremo? »
domandò Eric in un
soffio, sussurrando quella domanda come se fosse una preghiera.
Abrahel
sorrise.
No.
Non si sarebbero rivisti. La vita non funzionava così,
così come la non-vita.
Il
lieto fine non esiste.
Tuttavia
si sforzò di continuare a sorridere, per non contagiare con
l’amarezza anche
quell’ultimo istante.
«
Sì »
disse dunque: «
Sì. Ci rivedremo,
un giorno ».
Il
primo rintocco sopraggiunse, e nel silenzio si spense.
Eric
trattenne le lacrime, cercando di credere con tutto se stesso che
sarebbe stato
possibile. Come ultimo regalo: la speranza.
«
Ti avevo detto di
non mentirmi... »
sussurrò tuttavia,
lasciando scivolare le gocce salate all’angolo degli occhi,
lungo le gote.
Era
tempo.
Un rintocco per battito di cuore.
Nell’istante in cui
il candido cristallo prese forma fra le sue mani, luminoso come una
stella,
lasciandogli fra le labbra il dolce sapore dell’anima di
Eric, diverso da
qualsiasi altra cosa esistente...
Nell’attimo in cui
si accorse che il sapore salato che sentiva come retrogusto era quello
delle
proprie lacrime, che gli impedivano di tenere persino gli occhi
aperti... capì.
Non sarebbe mai più
potuto tornare ad essere quello di prima. Il cambiamento era stato
troppo
profondo.
Strinse quel corpo
esanime a sé, ignorando il mondo inginocchiato su quella
moquette. Nascose il
viso sul suo collo, singhiozzando in silenzio.
Sì... piangere
faceva male.
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Credo
sia uscito la metà di quello che speravo, sia come
sensazioni che come
profondità del testo. Colpa, forse, di alcuni cambiamenti
che ho dovuto
apportare per questioni di lunghezza... spero solo che sia piaciuto.
Anche
se non è la fine (purtroppo per voi XP). L’ultimo
capitolo, l’epilogo, verrà
pubblicato – spero - in tempi brevi. E con esso i dovuti
ringraziamenti.
Intanto,
comincio con il ringraziare le persone che hanno letto e recensito il
capitolo
precedente. E anche coloro che, ovviamente, si sono sorbite questo
penultimo
capitolo e tutta la sua sconclusionata confusione (XP)
Timoty.
Eh... *sospira* Timoty purtroppo è uno di quei personaggi
creati per altre cose
e biecamente usati come “side characters”.
Sì, si può dire che ha una storia
alle spalle e, come hai detto tu, un motivo per tutti i comportamenti
che
mostra e tutto ciò che fa. Ma con questa storia non centrava
nulla, così non mi
sono spinta nell’introspezione, Magari un giorno mi
butterò su qualcosa che lo
riguardi... non saprei. Sono tuttavia felice che sia piaciuto,
nonostante tutto
XD non è un personaggio molto positivo... ma da una fan di
Abrahel, suppongo di
non potermi aspettare altro X°D.
La
parte di Trent ho penato, per scriverla. Tutta la partita. Non solo
perché di
basket non ci capisco un tubo, più che altro
perché dovevo trattenermi dal
sistemare il rapporto fra loro e far scusare l’uomo. Mi
è balenato per la
mente, ma non potevo: Trent avrà un suo ruolo
nell’epilogo. Però sì: è
stronzo.
Sono d’accordo.
Infine,
tanti grazie per i complimenti sullo stile. Fa sempre piacere
sentirseli dire,
anche se a volte è quasi imbarazzante >//>.
Spero
che questo capitolo non ti abbia delusa <3 Grazie ancora per la
recensione!
Però
mi fa piacere, non azzardarti a pensare il contrario
°____°
Cominciamo
con calma. Io... non credo di essere migliorata troppo nello stile. Nel
senso,
io vado molto a periodi, e dipende soprattutto quanto mi influenza
ciò che sto
leggendo, che sia un libro o una fanfic. Ho alti e bassi come tutti, e
forse è
per quello che io non vedo mai i miei miglioramenti (sempre che ce ne
siano)...
ma se me lo dici tu, mi fido.
Anche
perché la stessa cosa che ti facevi notare per i personaggi
vale anche per la
scorrevolezza. Essendo personaggi miei, ho meno problemi a mantenerli
IC, e non
mi devo fermare ogni dieci righe a pensare se Tizio e Caio mantengano
il
carattere e possano o non possano dire quella determinata cosa. Da un
certo
punto di vista, è più facile XD
Ti
ringrazio, poi, per il tuo apprezzamento sui personaggi stessi. Mi
impegno per
dare loro una forma senza essere troppo descrittiva e... da quello che
dici,
sembra che abbia raggiunto l’intento
^^’’’’ ne sono felice.
Oddio,
non esageriamo... non credo di essere a livello di pubblicazione al di
fuori di
EFP, il mio stile non è ancora abbastanza maturo... e
comunque credo sia una
cosa che non farò mai ^^’’’ ci
ho pensato, ma alla fine è meglio di no. Ti
ringrazio comunque per il sostegno XD
Ancora
tanti ringraziamenti (non finisco più >___>)
per la recensione. Baci
<3
Al prossimo capitolo <3