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Autore: Tsukuyomi    03/02/2010    6 recensioni
Salve a tutti! Finalmente prendo coraggio e pubblico.
Questa fanfic mi ronza in testa da tanto di quel tempo che ormai si scrive da sola.
Per il momento avrete sotto agli occhi dei futuri Gold Saint, ancora bambini e innocenti (più o meno), alcuni ancora non si conoscono e altri sì, alcuni sono nati nel Santuario e altri no, alcuni dovranno imparare il greco e, di qualcuno, non si sa per quale recondito motivo, non si conosce il nome. Spero che apprezziate. La storia è ambientata ai nostri giorni, per cui, le vicende conosciute avranno luogo nel futuro.
Genere: Comico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ultimi arrivi
India - 19 Settembre di 3 anni prima -

«Sta nascendo!» urlò un giovane uomo, con la pelle ambrata e i capelli neri come la notte più profonda. «Nasce! Sta per nascere!»
I festeggiamenti cominciarono mentre la partoriente veniva condotta in una piccola stanza, pulita e agghindata con fiori esotici, dalle donne della famiglia. Le cognate, le sorelle, la madre e la suocera la esortavano a tranquillizzarsi e ignorare il dolore. Le nettarono la fronte dal sudore e continuarono a offrire una spalla di conforto alla giovane che si apprestava a dare alla luce il suo primo figlio.
Passarono le ore, scandite da lamenti sempre più acuti e sentiti, finché la madre della giovane non le si posizionò vicino e la esortò a spingere.
Sembrava un ordine alle orecchie della giovane, che piagnucolava incapace di sentire ancora le proprie gambe, paralizzate dal dolore.
La fatica del travaglio la stremò.
Desiderò un attimo di riposo, un corpo non attraversato da simili lampi di dolore.
«Forza!» la spronò la madre, mentre trafelata continuava ad asciugarle il collo e il volto.
Supina, obbedì. Prese l'ossigeno necessario e contò i secondi prima di accompagnare la nuova contrazione con una spinta: forte, decisa e dannatamente dolorosa.
Una lacrima sfuggì al suo controllo.
La seguì finché non cadde a terra e in quel momento vide la vita che aveva generato fare capolino tra le cosce ambrate.
Un'ultima spinta. Un urlo profondo. Un'altra lacrima.
Le mani della suocera furono rapide ad aiutare il nuovo arrivato a scivolare fuori; grida di gioia invasero la stanza prima di lasciarsi abbandonare all'indietro sul corpo della madre che piangeva e non tratteneva più le sue emozioni. Chiuse gli occhi; stremata e desiderosa di dormire.
«Gautami! Gautami! Sveglia, guardalo, guarda cos'hai fatto!» la scuoteva la sorella e lei piano, con un piccolo sforzo, aprì gli occhi.
Non ebbe il tempo di vederlo, gli venne messo sul petto nudo, con il cordone ombelicale ancora da tagliare.
Raccolse le forze e lo cinse con le braccia.
La pelle candida del neonato risaltava sulla sua pelle scura.
Il bambino sembrava dormire, non dava segni di vita. Gautami non comprese e chiese disperata l'aiuto della madre, che rideva, inneggiando al dono divino per i tratti somatici del nuovo nato.
«Non si muove, aiuto. Perché? Cos'ha il mio bambino?»
La stanchezza scivolò via dal corpo quando si convinse che il bambino non ce l'aveva fatta. All'improvviso il piccolo sgranò gli occhi, erano cerulei e sembravano riflettere l'immensità del cielo. Dopo qualche leggero movimento delle braccia rise. Una risata delicata e allegra.
«Shaka» sussurrò la giovane, rasserenata dai gesti del pargolo.
«Buddha!» gridò la suocera prima di scaraventarsi fuori dalla stanza e cercare il figlio per dargli la notizia.
Il dio aveva fatto loro dono di un bambino speciale, biondo e candido, così diverso da loro, aveva riso anzichè piangere e aveva aperto gli occhi come se si stesse guardando attorno. Non poteva non essere un dono del cielo.
Il piccolo venne tolto dalle braccia materne e il loro legame fisico venne reciso. Venne lavato e avvolto in morbidi drappi colorati.
Fuori dalla casa dei genitori della sposa, Siddharth, circondato da amici e parenti, ascoltava la notizia della nascita del suo primogenito dalla madre che trafelata, gridante gioia, raccontava senza prendere fiato.
La nonna materna seguì la consuocera poco dopo, col piccolo stretto tra le braccia. Arrivò dinnanzi al genero e glielo porse.
Siddharth lo prese e lo levò al cielo, mostrandolo alla piccola folla maschile che lo attorniava.
Un grido si levò.
«Buddha! Buddha si è reincarnato! Buddha è tra noi!»
Da quell'istante ebbero il via i festeggiamenti per la nuova vita, mentre le due donne anziane riportavano il piccolo alla madre.

Alla sera, mentre il sole si spegneva sul mare, il pargolo venne mostrato ancora alla famiglia e a chiunque volesse ammirare il piccolo miracolo, adagiato tra le braccia materne. Gautami lo guardava orgogliosa mentre le respirava sul petto, con le gote rilucenti agli ultimi raggi del sole d'India.

26 Dicembre
Il caldo era opprimente.
Le viuzze erano brulicanti di turisti che si beavano di nuovi stili di vita e assorbivano con ingordigia le mille curiosità che offriva loro quella cultura millenaria, ai loro occhi completamenti nuova. Si aggiravano curiosi, con le macchine fotografiche spianate pronti a cogliere ogni singolarità.
Mentre loro si affannavano, gli abitanti si godevano la rilassatezza, ridacchiando per la cocciuta frenesia degli occidentali.
Le vacche, magre ed emaciate, pascolavano pigramente per le strade.
Gautami, meravigliosamente avvolta tra i pregiati tessuti arancioni e gialli, cullava il piccolo Buddha. Lo fissava, ancora incredula di essere stata in grado di generare un miracolo. Si guardò attorno, infastidita dal continuo andirivieni dei turisti decise di fare una passeggiata sulla spiaggia. Trasgrediva ad un’importante e antica legge: il marito doveva sempre sapere dove fosse la moglie e soprattutto lei avrebbe dovuto avere prima il permesso del consorte prima di allontanarsi dalla loro abitazione.
Erano già una famiglia atipica, la dote corrisposta per il suo matrimonio  era stata modesta, in fondo aveva avuto la fortuna di essere innamorata dello sposo.
Con cura legò il bambino sulle spalle e si diresse verso la vicina spiaggia, speranzosa di trovare un angolo in cui restare da sola col figlio, immersi nel sole e nella magnificenza di quei luoghi.
A piedi nudi calpestava la sottile rena, alla ricerca di quel piccolo paradiso che anelava. Alzò il volto per farsi baciare dal sole e distolse subito lo sguardo ferito. Rimase qualche secondo col capo chino prima di alzarlo nuovamente, con l'intento di guardare il mare.
Restò colpita dalla stranezza di quello che vide: la distesa d'acqua sembrò scappare dall'orda di turisti che affollava la spiaggia rendendola simile ad un formicaio. L'oceano si ritirò, scoprendo diversi metri di sabbia davanti a lei che, come rapita, mosse qualche passo avvicinandosi alla battigia.
Per la prima volta dalla sua nascita il bambino si lasciò andare ad un forte pianto. Mai, prima di quel momento, Shaka si era discostato dalla divina apparenza che gli era stata donata. Fino a quel momento sembrò essere in grado di comunicare le sue necessità con piccoli e semplici movimenti, rendendo palese un legame tra lui e la madre che aveva davvero del sovrannaturale, come se ci fosse una sorta di telepatia.
In quel momento si agitava, senza che la madre riuscisse a comprenderne il motivo. Si allontanò di qualche passo, rinunciando all'inusuale spettacolo.
Accelerò, fino a mettersi quasi a correre, andando contro alla folla di curiosi che si dirigevano verso la spiaggia per guardare l'oceano. Schivava frotte di turisti pallidi come il suo bambino, che sfoggiavano abiti buffi con scritte strane, con alla mano macchine fotografiche, cellulari e altri apparecchi tecnologici, decisi ad immortalare l'evento.
Dal momento in cui il suo piccolo Shaka aveva cominciato a piangere, una strana angoscia si era impadronita di lei; correva verso casa, trattenendo il pianto. Doveva avvertire il marito e la famiglia di quell'innaturalezza. Andò a sbattere contro un turista, alto e grosso. Venne sbalzata indietro e cadde, riuscendo però ad appellarsi a tutto il controllo di cui era capace per non sbattere la schiena e schiacciare il figlio con il suo peso. Il turista fu veloce ad allungare la mano e a fare in modo che la donna non cadesse completamente a terra. Iniziò a parlare una lingua a lei sconosciuta, con chiaro intento di scuse ma Gautami riprese la sua corsa senza degnare l'uomo di attenzione.
Sentiva di dover scappare. Più scorrevano i secondi e più sapeva di fare la cosa giusta. Presagiva la catastrofe.
Lo ordinava Buddha. Lo chiedeva Shaka.
Quando ritenne di essere abbastanza lontana dalla spiaggia fermò la corsa.
Si voltò a guardare il bambino che aveva smesso di piangere, riacquistando la solita espressione serafica e quasi distaccata; superiore. Trasse un sospiro di sollievo e gli sorrise mentre scioglieva l'imbracatura che lo legava, quando Shaka aprì gli occhi.
Gautami rabbrividì: il pericolo, qualunque esso fosse, non era scampato.
Riprese a correre, verso l'entroterra.
Un boato la costrinse a voltarsi, rallentando la fuga.
Un'onda, gigantesca e veloce, inghiottiva tutto quello che incontrava lungo la strada.
Si fermò e sfilò il bambino dai veli, cingendolo poi contro il petto e offrendo la schiena alla marea. Chiuse gli occhi, permettendo ad una lacrima di fuoriuscire dalle folte ciglia brune e attese.
Sentiva la terra tremare sotto i piedi a causa dell'acqua che le correva incontro. Si lasciò cadere all'indietro appena Shaka strinse la mano sulla sua pelle. L'impatto con la massa d'acqua fu meno violento di quanto si aspettava.
Mentre veniva trascinata via, con Shaka al petto, sorrise. Era convinta sarebbe morta sul colpo; lei e il suo bambino. Lottava contro la violenza della mareggiata e  per tenere la creatura fuori dall’acqua.
Fu un in quel momento che Shaka si illuminò di dorato. Una bolla di cosmo comparve attorno a lui e s’ingrandì fino ad avvolgere anche la madre. Sembrava potessero rimanere a galla in quella protezione divina.
Gautami riuscì ad ancorarsi ad un albero che imponeva la sua supremazia sul mare. Si tirò su e depose tra le fronde il corpo del figlio. Con uno sforzo riuscì ad allontanarsi dal bambino e dall’aura dorata che li avvolgeva. Si lasciò andare alla furia dell’acqua, permettendole di trascinarla via. Non staccò lo sguardo per un secondo da Shaka, finché non chiuse gli occhi.
«Sopravvivi.» pensò, cosciente che il figlio l’avrebbe sentita.
Riemerse e riaprì gli occhi, cercando di guardarsi alle spalle, di scorgere almeno l’albero sul quale aveva deposto la sua vita. Avrebbe voluto piangere, strappandosi i capelli per non essere stata una buona madre, ma rivolse il suo ultimo pensiero al figlio, prima di soffocare.
Le onde tornavano al mare per poi scagliarsi nuovamente sulla terraferma, abbattendo ad ogni passaggio quello che era miracolosamente rimasto in piedi dopo le ondate precedenti. Dopo ore la massa d’acqua sembrò acquietarsi; le acque defluirono nuovamente verso il mare, per non tornare, e verso i fiumi.
Sulla superficie della piena che andava calmandosi galleggiava di tutto, dai corpi agli oggetti. Quando un materasso transitò sotto l’albero dove Shaka attendeva, una piccola esplosione di cosmo lo fece cadere dall’albero, miracolosamente ancora radicato.
Alla notizia del maremoto, molti monaci dei templi vicini si diressero verso le coste per prestare soccorso alle anime sopravvissute.
Dalshim e Mok si erano persi nella foresta che circondava la cittadina. Non era stato per loro possibile utilizzare gran parte delle strade battute a causa dei soccorsi motorizzati che cercavano di raggiungere i luoghi del disastro: il mondo intero si mobilitava per mandare aiuti. Pochi monaci, appiedati, non avrebbero fatto altro che intralciare il via vai, già confuso a causa dei superstiti e dei feriti che andavano a cercare rifugio nei vari villaggi. Decisero quindi di cercare di giungere alla costa per vie diverse, dividendosi sempre di più, fino a formare numerosi gruppi di due persone. Mentre guadavano un fiume ingrossato dalla piena, videro il materasso galleggiare verso di loro. Lo scrutarono a lungo finché non riuscirono a distinguere il fagottino adagiato sopra. Riuscirono a fermarlo e a trascinarlo verso di loro, salvando il bambino da un naufragio in pieno oceano.
Shaka sorrise appena si trovò tra le braccia del più anziano: Dalshim. Notò immediatamente il segno rosso che troneggiava sulla fronte del bambino e lo collegò immediatamente ad una della tante caste, quando si rese conto che non si trattava di un bindhi ma di un segno naturale: una piccola voglia tondeggiante.
«Buddha…» sussurrò per poi voltarsi verso Mok, comprendendo che si trattava di un segno divino. «Messaggero tra la terra e il cielo sarai nel corso della tua vita.» aggiunse, allungando le braccia e osservando più attentamente l’infante.
Ripercorsero la strada a ritroso, conducendo il bambino in un tempio sorto secoli prima sulle rive del Gange.
Appena arrivò al tempio diede direttive affinché il bambino fosse nutrito.
Mok sparì per poi ricomparire recando in mano una missiva.
Dalshim sorrise nel vedere il marchio impresso sulla cera: il marchio del Santuario di Atena, una lettera di Sion.

So che ti recherai a donare aiuto e so anche che tornerai al tempio con un piccolo ospite.
Il bambino appartiene ad Atena, abbine cura finché non sarà il momento. Insegnagli ciò che sai.

Sion

Ripiegò con cura la pergamena e fissò il volto del neonato, e sorrise.
Se ne sarebbe preso cura e ne avrebbe guidato la meditazione, lo avrebbe seguito finché non sarebbe arrivato il momento di condurlo in Grecia.
In pochi mesi il bambino dimostrò essere realmente un dono del cielo, pronunciando le prime parole e iniziando a camminare. Era incredibilmente ricettivo e disposto alla meditazione e alla ragionevolezza. Poteva discorrere con gli altri Buddha, che seguivano la sua vita terrena, dimostrando di essere realmente il filo conduttore tra Terra e Cielo.

Grecia - Dicembre – 3 anni dopo

Sion, come ogni notte, si recò ancora all’Altura delle stelle. Da un po’ era arrivato Ramón dal Brasile. Un altro cosmo si agitava nell’aria. Un nuovo risveglio.
Capì subito da dove proveniva il nuovo cosmo, da un posto che lui conosceva molto bene: la sua patria, lo Jamir.
Come in ogni generazione di santi, almeno uno dei cavalieri sarebbe dovuto appartenere alla sua stirpe. I discendenti di Mu sono gli unici in grado di riparare le armature dei guerrieri della dea, gli unici con poteri psicocinetici tanto forti da poter manipolare gli atomi e la polvere di stelle, da poter forgiare l’orihalcon. Valutò a lungo chi dei cavalieri a sua disposizione avrebbe dovuto mandare per recuperarlo.
Decise fissando il corso della Via Lattea. Fece chiamare Arles.
Il Cavaliere dell’Altare lo raggiunse a Star Hill poco dopo.
«Non dirmelo. Lo so già.» disse nell’affacciarsi alla fredda aria di Dicembre.
«Cosa sai, Arles?»
«Andrai a recuperare un bambino.» rispose tranquillo. Osservò un compasso poggiato su un piccolo piedistallo di marmo, adagiato su diverse carte.
«E come lo sai?»
«Ho imparato da te a leggere le stelle. Non sarò mai alla tua altezza, ma qualche segreto lo rivelano anche a me.»
Sion sorrise conciliante e alzò lo sguardo verso la volta celeste.
«Siamo quasi al completo, Arles. Mancano pochi bambini e presto le schiere saranno complete; almeno quelle d’Oro. Manca così poco al risveglio della dea.»
«Già.»
Non avevano niente da dirsi.
A volte è sufficiente la sola presenza di un amico per acquietare lo spirito. Parole e sguardi sono superflui.
Una leggera brezza si sollevò, facendo ondeggiare i capelli del Gran Sacerdote. Assaporò ogni istante di quel gelido vento venire dal nord.
Le gote pizzicavano e le labbra iniziarono a screpolarsi, quando Arles tossì.
«Sei vecchio per queste cose.» disse Sion, senza abbassare gli occhi dal cielo.
«Io? Quello vecchio sarei io?» ridacchiò. «A tuo confronto sono un bambino, non negarlo.»
«Hai ragione.» ammise volgendosi verso di lui.«E sai una cosa? Ancora non sai leggere le stelle: porterò qui non uno, ma due bambini.»
Si voltò e rientrò nella casupola che lo ospitava durante le notti di osservazione, lasciando Arles da solo.
Dopo un veloce sguardo al mare lontano e invisibile all’oscurità notturna, seguì Sion.

Mancavano pochi giorni al Natale.
Le nutrici erano sempre ben disposte nei confronti dei bambini, ma la decisione di fare un piccolo gioco la presero a seguito di una discussione tra i bambini, ancora spaesati dal trasferimento e forse non ben consci che i fedeli di Atena non festeggiassero il Natale.
Portarono grandi e piccini nel naos di uno dei templi maggiori, e parlarono loro con attenzione e dolcezza spiegandogli come al Santuario di Atena non si festeggiasse il Natale.
Lessero un velo di delusione negli occhi di molti, soprattutto i più piccoli. Eccetto Milo.
«Cos’è il Natale?» chiese curioso, ma nessuno gli rispose. S’impegnò al meglio andando a chiedere ad ogni bambino presente.
«Cos’è il Natale?»
Angelo, Shura e Tyko lo guardarono perplessi.
«Il Natale è…» proruppe Angelo, per poi bloccarsi e chiedere velatamente aiuto agli altri due. «Aiuto. Che cos’è il Natale?»
«L’ho chiesto prima io.» puntualizzò Milo.
«Il Natale è il giorno in cui nasce Gesù.» asserì Shura.
Milo tempestò di domande lo spagnolo, che sembrava conoscere quello che voleva sapere, ma ben presto si rese conto che non capiva.
Lui aveva conosciuto solamente Atena come divinità, la giovane età non gli permetteva di comprendere la presenza di altre deità.
Le nutrici valutarono attentamente le reazioni del gruppo, offrendo loro la possibilità di partecipare ad una piccola caccia al tesoro.
Le temperature si erano abbassate notevolmente, spesso durante la notte si formava uno strato di ghiaccio lungo i lastricati, obbligando i cavalieri ad addestrare i futuri cavalieri all’interno dei templi.
Quel pomeriggio, Sion aveva concesso qualche ora di libertà, lasciando alle donne e ai maestri il compito di aiutare i bambini ad entrare completamente nella realtà di cui avrebbero fatto parte fino alla loro morte.

La caccia al tesoro fu organizzata velocemente, dividendo i bambini in gruppi. Sarebbero stati seguiti in lontananza dalle donne. Angelo rifiutò categoricamente il gioco, preferendo allenarsi da solo e ripassare gli insegnamenti ricevuti, e convinse anche Shura e Tyko ad evitare quello che definiva una bambinata.
Alla fine solo i più piccoli parteciparono, attirati da un premio sconosciuto. Milo era deciso ad ottenerlo, ce l’avrebbe messa tutta e in un attimo decise che i suoi compagni di ricerca sarebbero stati Aiolia e Camus, ma ben presto Aiolia preferì seguire il fratello e continuò l’allenamento.
Parteciparono attivamente quattro squadre, e Ramón prese il posto di Aiolia. Le nutrici prepararono velocemente i bigliettini con gli indizi, consegnarono l’indizio di partenza e si recarono a nascondere gli altri.
Il gioco fu organizzato troppo velocemente perché potesse essere privo di errori, ma ai bambini non sarebbe importato di certo. Le nutrici rimaste con i piccoli li aiutarono nella lettura e nella comprensione dei biglietti, e solo quando tutto fu concluso questi poterono uscire dal naos del tempio.
Dopo qualche ora di ricerche infruttuose e non, Milo, Camus e Ramón giunsero all’ultimo biglietto, seguiti dalla più anziana delle donne. Era la più severa e si era offerta di seguire Milo data la sua vivacità.
Ramón si mostrava essere silenzioso, seguiva con curiosità gli altri due, ma la sua comprensione del greco era ancora limitata e non conosceva ancora l’ubicazione dei vari templi e delle stanze.
Si allontanò con la nutrice quando furono nelle vicinanze delle camerate, chiedendole di aiutarlo a trovare il bagno. Lei lo accompagnò, raccomandando a Milo di non combinare nessun danno e a Camus di tenere d’occhio l’altro e di riferire, eventualmente, se avesse fatto qualcosa che non avrebbe dovuto.
«Secondo me è dentro al materasso.» esordì Milo, appena la nutrice si allontanò con Ramón. Il piccolo francese lo guardò come se non avesse capito.
«Si usa per dormire bene… è il letto. Dobbiamo cercare il tesoro dentro un letto!» spiegò.
Camus cercò di capire.
«Ma non dice che si usa per dormire. Chiede di cosa si parla, non di cercare un oggetto.»
«La nutrice non ci ha detto niente, anzi, ci ha accompagnato a cercare il tesoro. Se ci accompagna a cercare il tesoro vuol dire che il tesoro c’è o ci avrebbe detto che non c’era niente da cercare.» mise il broncio.
Camus annuì e diede retta all’amico.
Si diressero verso le camerate e Milo si gettò sul suo letto, sollevando le coperte e togliendo le lenzuola. Nel materasso c’era un piccolo buco, dovuto all’usura. In poco tempo allargò il buco, facendovi entrare entrambe le mani e iniziando a tirare fuori tutto il morbido contenuto.
Camus iniziò a lamentarsi, ricordando all’amico che rischiava di dover dormire per terra.
La nutrice, accompagnata dal piccolo brasiliano, li cercò con cura e li chiamava. Nessuno dei due rispose.
«Vieni qui Camus!» trillò Milo. «L’ho trovato, avevo ragione!!»
La donna si sporse dentro la stanza e osservò la schiena di Camus che si avvicinava al letto, lo sentì dire qualcosa e perse completamente la pazienza quando vide le condizioni del materasso.
Senza ragionare si avvicinò a grandi passi verso il letto, afferrò Camus per un braccio e gli diede una sonora sculacciata.
Milo saltò giù dal letto e andò a sincerarsi delle condizioni di Camus. Capì che l’amico era stato punito a causa sua e si arrabbiò.
Rivolse uno sguardo rabbioso alla nutrice e uscì di corsa dal tempio, andando a cercare il Gran Sacerdote per riferirgli l’accaduto, ignorando i richiami della donna.
Non sapeva dove andare. Ricordò che Leurak e Akylina lo avevano portato in un grosso tempio in cima ai dodici templi maggiori e pensò di dirigersi lì.
Fortuna volle che Sion si stesse preparando per il viaggio di recupero che avrebbe affrontato da lì a pochi giorni, e lo incontrò intento a lasciare disposizioni ad alcuni cavalieri e ai comandanti delle guardie.
«Gran Sacerdote!!» gridò nel vederlo.
Sion vide il piccolo corrergli incontro, seguito dalla donna e da altri due bambini.
«Devo dirti una cosa.»
La nutrice s’inginocchiò rispettosamente e salutò, trafelata dalla corsa e si accinse a parlare. Fu però preceduta dal piccolo greco.
«Ho fatto una cosa che non dovevo e un mio amico è stato punito al mio posto.» esordì. «Stavamo giocando alla caccia al tesoro e ho sbagliato a trovare il tesoro. Voglio essere punito da te perché tu sei il capo.»
Sion sorrise sotto la maschera che gli celava il volto. E interrogò il bambino, curioso di sapere dove volesse andare a parare.
«Cosa hai fatto?» gli chiese.
Milo si voltò a cercare lo sguardo di Camus e vide la nutrice inginocchiata. Ricordò le buone maniere e s’inginocchiò davanti all’alto Pontefice, e raccontò.
«Ho rotto un materasso per trovare il tesoro.» allungò la mano mostrandogli il bigliettino con l’indizio, e Sion lo lesse ad alta voce.
«Ogni uomo ne ha uno e anche ogni Cavaliere. E’ importante tenerlo stretto e quando succede si dorme bene. Cos’è?» spostò il biglietto e guardò il bambino che gli chiedeva una punizione. Sorrise.
«Milo, chi è stato punito al tuo posto?»
«Camus.»
Dopo poche altre parole, la nutrice tornò al tempio in cui era stato decretato l’inizio del gioco, svelando ai bambini cosa avrebbero dovuto rispondere. Spiegò loro che li aveva accompagnati per i templi affinché formulassero una risposta, ma comprese dopo che l’indizio era troppo ostico per dei bambini di soli tre anni.
Fu felice, e come lei il Gran Sacerdote, che avessero imparato diverse lezioni. Non solo il gioco di squadra, ma anche la presa delle proprie responsabilità. L’orgoglio mostrato da Milo e soprattutto il fatto che non avesse tentato di nascondere la sua colpevolezza era un segno di profonda maturità, che forse solo un cavaliere di Atena avrebbe potuto manifestare a quell’età.

Alla sera Sion si recò a Star Hill, deciso ad interpretare ancora le stelle prima di partire. Senza pensare infilò una mano nella tasca della tunica ed estrasse il biglietto con l’indizio della caccia al tesoro. Sorrise e diede la risposta ad alta voce.
«L’onore. E il piccolo Milo ha dimostrato di averne uno, assieme all’orgoglio.»
Accartocciò il foglio e lo lasciò sulla scrivania prima di uscire ad analizzare la volta celeste. Le stelle annunciavano l’avvenuto risveglio del cosmo di un bambino, sempre lo stesso. Nessuna nuova.
Rientrò nella casupola e si preparò, pronto a partire la mattina successiva.

Al sorgere del sole di Grecia Sion si teletrasportò nello Jamir, decidendo all’ultimo di non manifestarsi subito all’interno del villaggio, scegliendo una delle tante rupi scoscese. Si fermò in un punto familiare e sorrise nel pensare ad una vecchia amica. Restò in balia dei ricordi per diversi minuti, porgendo un pensiero anche al suo antico maestro. Si riscosse grazie ad una folata di vento. Il prescelto era un bambino di poco più di tre anni e lo avrebbe trovato nella dimora di un fabbro della sua gente. Sapeva che il bambino era orfano e che era stato accolto in casa da un uomo che aveva perso la moglie.
Pensò che il destino era davvero ironico, sembrava che chiunque si avvicinasse a quei bambini dovesse avere la vita segnata da eventi tragici e tristi. Bambini nati per proteggere il mondo e l’umanità.
S’incamminò.
Quando giunse al villaggio non poté fare altro che constatare che il tempo sembrava essersi fermato. In duecento anni non era cambiato niente. Le case avevano sempre lo stesso aspetto, lo stesso i viottoli.
L’aria era fresca e pungente, considerando l’altitudine e l’ubicazione, ma Sion la percepiva stagnante. Aveva troppi ricordi legati a quel luogo, piacevoli e spiacevoli, ma non era interessato a riportarli tutti a galla. Pensò ancora una volta al suo addestramento a Cavaliere d’Oro, pronto a prendere sotto la sua ala il nuovo bambino e ad insegnargli a ridar lustro alle corazze.
I discendenti di Mu avevano un dono particolare: modellare l’orihalcon e la povere di stelle con la psicocinesi. Presto la sua vita avrebbe avuto fine, lo presentiva a prescindere dalla lunghissima vita, e serviva qualcuno che fosse in grado di mantenere lo splendore delle corazze.
Avanzò adagio tra i vicoli, sinché non giunse dinnanzi ad un piccola fucina.
Stringeva in mano un frammento di metallo, metallo che solo lui e probabilmente il bambino erano in grado di manipolare. Entrò e salutò, attendendo che l’uomo che cercava facesse la sua comparsa dal retrobottega. Non attese che qualche secondo.
Il fabbro gli sorrise e ricambiò il saluto con cortesia, mettendo seduto su un bancone un bambino.
«Posso esserle utile?» domandò.
«Assolutamente sì.» spostò dal volto il mantello che lo avvolgeva, mettendo in vista l’unico segno di riconoscimento di cui era in possesso. Quando l’uomo notò le sopracciglia sorrise.
«Non siete un forestiero. Posso aiutarvi?»
«Il bambino che avete con voi è un prescelto. Diverrà santo di Atena, dovreste affidarmelo.» Fu diretto.
Sion non reputò saggio indugiare, avrebbe avuto modo di chiarire ogni dubbio dell’uomo.
«Mi chiedete di affidarvi il bambino, mi sembra una richiesta un po’ azzardata. Da sempre la nostra stirpe è stata fedele alla dea, ma mi perdonerete se non vi credo.» Cercò di tenere un atteggiamento amichevole, anche se la richiesta assurda non solo lo insospettiva ma lo preoccupava. Ancora si narrava nello Jamir, tra la popolazione, vecchie leggende che insegnavano a non fidarsi con troppa leggerezza. Niente gli assicurava che Sion fosse chi diceva di essere, aveva bisogno di prove prima di affidargli il bambino di cui si prendeva cura. «Non me ne vorrete se prima vi chiederò anche di presentarvi, spero.»
Sion sorrise e si spogliò completamente del mantello, mostrando in tutto il suo splendore l’armatura d’oro che era in suo possesso da secoli.
L’uomo rimase a bocca aperta, incapace per qualche istante di articolare alcun suono.
«Ma voi siete…»
«Sion di Aries.» finì per lui. «Avete ora la certezza che io non sia un nemico?»
«Sì.»
Il Gran Sacerdote si rimise il mantello sulle spalle, assicurandolo in modo che coprisse le poderosa corna metalliche che gli proteggevano il collo. Alzò lo sguardo sul bambino e mosse un passo avanti per recarsi da lui, ma il fabbro si frappose.
«Non siete un nemico, ma voglio la certezza che sia un prescelto. E’ l’unica famiglia rimastami.» disse, sollevando un martello.
Era ben conscio che non gli sarebbe servito a niente contro Sion. Lo conosceva, tutti lo conoscevano al villaggio e in tutto lo Jamir.
Sion alzò lentamente il pugno e aprì lentamente le dita, una per una.
«Se volete una prova, provate a forgiare questo. Non ci riuscirete, ma ci riuscirà il bambino senza ausilio della fucina.»
L’uomo sogghignò e afferrò il piccolo pezzo di metallo dal palmo di Sion.
«Se dovessi riuscirci?» domandò rimirando il frammento.
«Me ne andrò.»
L’uomo scomparve nel retrobottega e indossò qualche protezione. Ravvivò il fuoco il tanto necessario perché si generasse una fiamma che reputasse abbastanza forte da fondere il metallo consegnatogli e si mise al lavoro.
Il primo tentativo andò a vuoto; aumentò il calore. Fallì nuovamente.
«Non è possibile. Mi ingannate!» tuonò. Le vene della fronte si caricarono e iniziarono a pulsare visibilmente.
Sion sorrise e chiese che il metallo fosse dato al bambino, ma l’uomo rifiutò.
«Come si chiama il bambino?» chiese Sion, sperando che l’uomo si calmasse e capisse. Conosceva il nome del piccolo, un nome importante per tutta la sua stirpe. Se non avesse acconsentito a dargli il bambino non avrebbe avuto problemi a tornare dopo qualche ora e portarlo semplicemente via, ma non sarebbe stato giusto.
«Mu.» rispose con un sospiro. «Si chiama Mu.»
Il bambino sollevò il volto nel sentirsi chiamare e fissò i due uomini con curiosità.
«Mu, ho bisogno che tu faccia una cosa per me.» esordì Sion sedendosi accanto a lui. Tese la mano verso il padre del bambino e si fece consegnare il frammento di orihalco. «Vedi questo metallo? – gli chiese porgendoglielo dinnanzi – Ho bisogno che tu gli cambi forma.»
Mu annuì. Afferrò l’orihalco e lo tenne in mano.
«Concentrati, concentrati intensamente su di esso.» gli disse. «Devi riuscire a vedere tutti i frammenti che lo compongono e rompere i legami che li tengono uniti. Solo così potrai modellarlo a tuo piacimento.»
Dopo qualche minuto il bambino emise una flebile luce dorata, e solo quando questa si fece più intensa, per poi svanire, il metallo cambiò forma: da semplice blocco a una sfera.
Il fabbro sorrise amaramente.
«Potete portarlo con voi.» disse carezzandogli la testa. «Fate di lui un uomo giusto e un grande guerriero. Non vi chiedo altro.»
Rientrò nel retrobottega, in attesa che l’ospite e il bambino andassero via.
«Tornerò stasera a prenderti. Vai a salutare tuo padre.» e il piccolo corse dietro il genitore.
Nell’uscire dalla bottega Sion levò gli occhi al cielo. In poche ore il sole sarebbe tramontato, scomparendo oltre i picchi a lui tanto famigliari eppure quasi sconosciuti in quel momento; erano anni che non tornava in patria. La vecchiaia ti ha intenerito, pensò.

Appena il sole fu tramontato si recò a prendere il bambino, lo trovò seduto dinnanzi la porta su un sacco. Era pronto a seguirlo.
«Andiamo, Mu.»
Il bambino si alzò lentamente e trascinò il sacco dietro di sé.
«Dove andiamo adesso?»
«In India. Il nostro viaggio è appena iniziato.»


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Ho romanzato e poetizzato un po' la nascita di Shaka, ma un po' di magia non guasta mai.
Dalshim è "quasi" il nome di un personaggio di Street Fighter: Dhalsim, che a mio dire sarebbe stato benissimo nel mondo in cui ha vissuto Shaka, ma  non volevo che la fanfiction diventasse un crossover, per cui ho spostato una letterina e il monaco che trova il futuro Virgo è solo una mera e lontana ispirazione. 
Grazie a tutti i lettori, ai preferiti e ai seguiti e a chi ha lasciato un commento.
Ho deciso di aggiornare la fanfic mensilmente, più o meno, solo per questioni di praticità.
   
 
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