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Autore: perry    14/03/2010    0 recensioni
Il ritorno a Chicago di John Carter per curarsi non si limita alla dialisi, ma diventa un complicato tentativo di risolvere una questione che aveva lasciato in sospeso per troppi anni e che ancora, anche se lui la respinge, lo tormenta...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Abby Lockhart, John Carter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“So many things I would take back

You were the best I ever had

I don't blame you for hating me

I didn't mean to make you leave.

You and I were living like a love song

I feel so bad, I feel so bad that you're gone

Now I know you're the only one that I want

I want you back, I want you”

State of Shock

 

La mattina seguente, Carter ebbe qualche problema ad alzarsi dal letto. Fino a notte fonda era rimasto sveglio, seduto sul divano a gambe incrociate e con le mani sulle ginocchia. Aveva guardato un punto ben preciso nel muro, e l’aveva trasformato in uno schermo dove proiettare i suoi pensieri per poterli guardare come al cinema. Lo faceva spesso fin da quando era un bambino, fin dalla morte di suo fratello. Così poteva pensare a lui tanto intensamente che gli pareva di vederlo lì, sul muro davanti a lui, che gli sorrideva un’ultima volta. Allo stesso modo quella notte Carter vide Abby. Proprio lei, che con gli occhi lucidi gli urlava addosso tutto quello che lui era significato, tutto quanto lui non aveva mai voluto ascoltare. Era fuggito da quelle verità, e si era rifiutato di guardare negli occhi il fatto che il bene più prezioso l’aveva perso andando in Africa. Che fosse amore, che fosse amicizia, aveva perso il bene più grande della sua complicità e della sua comprensione. Gli ci erano voluti anni per desiderarlo, anni per ottenerlo e solo poche ore per buttarlo via. E lei glie l’aveva detto così, in faccia, quando erano ormai due estranei; e sembrava che fosse stato facile per lei urlare quelle cose, come se l’avesse sgridato perché aveva scordato di comprare lo zucchero al supermercato. Ma John sapeva quanto in realtà le ci fossero voluti anni per elaborare tutto quanto, forse neanche lei se ne rendeva veramente conto: pensò che probabilmente anche lei era rimasta sveglia tutta la notte domandandosi da dove fossero venute tutte le cose che aveva detto, quando era riuscita a metterle in ordine e a dar loro un senso. Sicuramente si era chiesta se le pensava davvero, o se in realtà tutto era stato dettato da un momento di follia, di scardinamento dell’ordinario. E poi c’era ancora quel piccolo pensiero che si intrufolava nella mente di entrambi… Era per lui che lei era tornata?

 

Alla fine Carter riuscì a tirarsi su dal letto e a vestirsi. Mentre si radeva si guardò allo specchio: era pallido e due profonde occhiaie gli solcavano il volto. Si sentiva incredibilmente vecchio e stanco, e forse non era più capace di gestire queste situazioni così piene di sentimenti, di emozioni affievolite e riesplose e di parole taciute  e all’improvviso cacciate fuori di getto. Così, come se per tutto quel tempo fossero rimaste agganciate alla gola con un filo sottilissimo, che era bastato uno sguardo perché si spezzasse. Si sentiva appiattito, devastato dalla malinconia e dai rimpianti, e forse tutto quello che desiderava era mettersi a letto e dormire per il resto della vita, senza dover più rispondere di nulla. Eppure, anche se quella sensazione se la sentiva incrostata addosso come uno sporco permanente sulla pelle, quella mattina gli sembrava che ci fosse qualcosa di diverso. Era come una pulce nell’orecchio, qualcosa che lo teneva sulle spine, come una certa curiosità; pensò che era da tanto che non provava più curiosità per qualcosa: non aveva più niente da cui aspettarsi alcunché. Si accorse che stava facendo tutto insolitamente in fretta, come se volesse arrivare al Policlinico il prima possibile per incontrarla… Pensò che era uno stupido. In fondo perché lei avrebbe dovuto essere lì? Non ci lavorava. Ma lui ci lavorava. Avrebbe dovuto venire lì soltanto per lui? John non osò rispondersi a questa domanda. Per un attimo pensò che sarebbe stata la cosa più bella del mondo, ma poi si disse che non doveva né aveva alcun diritto di sperarlo: era legato a Kem, e lei era legata a Luka. E lei aveva Joe a cui badare: non poteva sempre lasciarlo a qualche vecchia baby sitter, o al nido dell’ospedale, dove qualche vecchia conoscenza era disposta a farle il favore di tenerlo per qualche ora. Sì, sì, assolutamente: doveva pensare a Joe, non a lui.

E allora perché lui stava pensando a lei?

 

Quando arrivò al Policlinico, John era come in un altro pianeta. Entrò nel salottino trattenendo il respiro, come aspettandosi di vederla lì appena entrato, ma lei non c’era. Rimase quasi deluso, ma poi si riscosse con rabbia da quel sentimento: non doveva pensare a lei. Non le doveva niente, era acqua passata. Acqua che aveva già abbastanza inquinato di infelicità il suo passato. Ma poi rise, rise di sé: lo pensava sul serio? Riusciva ancora a vedere Abby solo come una fonte di pessimismo, di disgrazia? E anche se fino a un paio di giorni prima non l’avrebbe mai creduto in quel momento ci sperava, se non altro per il bene di entrambi.

 

Carter stava correndo sulla sabbia, tenendo tra le braccia una ragazzina. Era sudato e sporco di terra, esausto, ma correva. Guardava la ragazzina, semisvenuta e agonizzante, con un piede quasi staccato dal resto del corpo. Un’altra mina, un altro innocente, come ogni giorno. Stava entrando di corsa dentro l’ospedale da campo, altri medici e gli infermieri gli corsero incontro. Dietro di lui una donna urlava e piangeva in modo straziante, come solo una madre può fare, come se con quell’urlo avesse potuto trattenere a sé la vita di sua figlia. Tutti gli altri rumori erano spariti, Carter faceva meccanicamente, disperato, ciò che sapeva di dover fare. Ciò che faceva ogni volta. Flebo, antibiotici, i pochissimi antidolorifici che erano rimasti nelle scorte. Poi vedeva il chirurgo arrivare di corsa, e nel giro di quelli che sembravano soltanto pochi minuti il piede era stato del tutto amputato. Carter era lì, impietrito, ricoperto di sangue, abituato ormai anche al ripetitivo, straziante urlo della madre. Ma vivo, perché era viva quella bambina, un’altra bambina ancora in questo mondo grazie a lui. Un’altra che non era Joshua, ma era pur sempre una vita in più. “Carter!” – sentiva chiamare, ma non aveva intenzione di girarsi, voleva rimanere così, pieno di quel dolore che sapeva tanto di vita, immobile con se stesso. “CARTER! Ci sei?”

John stavolta si riscosse. Si era praticamente addormentato durante la dialisi, il rumore ripetitivo della macchina che girava spesso gli conciliava il sonno. Ma quel giorno era crollato davvero pesantemente. Quando riaprì gli occhi davanti a lui c’era Abby. “Ma come sapevi…?” – iniziò.

“Me l’hai detto tu, Carter” – rispose lei prima ancora di aver sentito la domanda – “e un po’ ho parlato con Morris. Sapeva dov’eri”.

“Già…” – Carter non trovò niente di più intelligente da dire, e per un po’ rimasero in silenzio. Abby era un po’ nervosa, e si vedeva che non era sicura di voler stare lì. Guardava alternativamente le sue scarpe e il pavimento. Carter la guardava, ma il suo sguardo era spento, stanco.

“Senti Carter, mi dispiace per quello che è successo ieri. Probabilmente sono stata presa dai ricordi, dalle vecchie storie, ma ora sono chiuse. Io sono innamorata di Luka, e già una volta ho rischiato di distruggere tutto. Ho ripreso a bere mentre Luka era in Croazia, ad assistere il padre che moriva. Mentre lui era lì ad occuparsi di cose importanti io ero già convinta di essere stata abbandonata, di essere diventata una madre single senza aiuti e totalmente fragile. Così ho ripreso con l’alcol, e ci sono ricaduta in pieno. Ho trascurato Joe, non sai quante volte mi sono svegliata coi postumi di una sbornia sentendolo piangere e trovandolo con la faccia viola. Chissà da quanto piangeva così. Sono andata a letto con Kevin Moretti, e quando mi sono svegliata nel suo letto la mattina dopo neanche mi ricordavo come c’ero arrivata. Provavo uno schifo immenso per me stessa, per quell’uomo, per quello che stavo facendo e avevo fatto a me e alla mia famiglia. Ovunque mi volto porto guai, e non so perché sono tornata ora… stamattina mi ha telefonato Luka, mi ha chiesto dov’ero, si è arrabbiato perché ci ha messo tanto a perdonarmi e a superare quello che è successo e pensa che io non lo consideri importante. Non voglio distruggere anche te. Non sono qua per vendicarmi del dolore che mi hai causato scomparendo in Africa, lasciandomi con poche righe di lettera e tornando con la tua nuova fiamma africana, incinta per giunta. Non voglio rivangare il passato, che è doloroso per te quanto per me, non voglio aggiungere sensi di colpa a quelli che già ci sono. Non voglio fare del male a nessuno dei due… Né a Luka, né a Joe. Sono solo confusa. Ho un aereo per Boston già prenotato per domani pomeriggio, e voglio che tu dimentichi quanto è successo e pensi soltanto a curarti. Nient’altro.”

Carter la guardò riprendere fiato, in silenzio, senza sapere cosa dire. Lei aveva tanto da perdere stando lì. Lui aveva un matrimonio distrutto, un figlio morto, e una posizione in lista per un trapianto di rene. E se quel rene non fosse arrivato in fretta lui sarebbe morto, o sarebbe dovuto restare attaccato alla macchina per la dialisi tutta la vita.

“Se non sei qua per fare tutto questo… Tutte queste cose che mi hai detto… Perché sei qua?” – chiese semplicemente alla fine, non trovando altre parole per cercare di trattenerla.

“Devo andare ora, Carter” – ribatté Abby duramente.

“Aspetta, Abby, ti prego. Non posso alzarmi e rincorrerti, non mi posso staccare da qua. Non andartene ora, ho ancora bisogno di te.”

“No, John – Abby si voltò bruscamente verso di lui – tu hai bisogno di qualcuno. Qualcuno che ti stia accanto, in generale, che ti accompagni nel tuo calvario. Ma in una lista di possibili qualcuno io sono la persona meno adatta e lo sai bene, no? Non sono mai felice, sono negativa, tu stesso me l’hai detto anni fa. Hai fatto una scelta e io ho fatto la mia. Forse saremo accomunati dagli stessi rimpianti, dalla stessa disperazione, come lo siamo sempre stati. Ma di base quelli come me e te sono soli, e due solitudini non fanno una compagnia, mai, in nessun caso. Forse se l’avessimo scoperto prima avremmo evitato di farci del male più del necessario. Quindi ora non volermi qua, ti prego. Non fare sentire me la persona orribile che ti volta le spalle nel momento del bisogno, perché non è un ruolo che mi si addice. Buona fortuna, Carter”.

Detto questo, Abby girò i tacchi e se ne andò, lasciando Carter da solo, col filtro della dialisi in vena, impotente e con gli occhi pieni di lacrime.

  
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