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Autore: Diana924    18/04/2010    1 recensioni
Gertude Gustavson si reca in Etiopia per lavoro. Non sa che lì incontrerà l'orrore, e poi c'è quella voce, una voce che viene dalla foresta...
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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X una mia amica, che ieri ha festeggaito i 18 ammi, cui dedico questa storia

Una voce nella foresta, ecco quello che odo questa notte, aprendo la finestra della mia camera da letto. Sento mio fratello nella camera accanto che russa. E di colpo mi torna in mente l’incubo in cui sono quasi precipitata due mesi fa, complice il sole di mezzanotte, da casa mia vedo distintamente questo fenomeno.

Ero andata alla redazione del “ National Geographic ” per poter ricevere il ricavato della vendita di alcune mie fotografie. Già dall’anticamera intuì che le cose si stavano mettendo male. Non era la prima volta che vendevo le mie foto al “ National Geographic ”, ma non aveva mai fatto anticamera, venivo ricevuta subito.

<< Gertude Gustavsson? Può entrare >> sentì la segretaria chiamarmi, mi feci coraggio ed entrai.

Il signor Ansem appartiene a quel gruppo di persone che sono convinte di avere sempre ragione, razza sempre più numerosa dalle nostre parti, purtroppo. Sulla cinquantina, grasso, miope e con occhiali che erano dei fondi di bottiglia apparteneva anche ad un altro gruppo: quello dei direttori bastardi.

<< Gertude cara, posso chiamarti Gertie, vero? Vieni accomodati >> mi disse con fare viscido. Mi avvicinai e mi sedetti su una sedia. << Signor Ansem, gradirei non perdere tempo, devo andare a prendere mio fratello a scuola, quindi mi dica a quanto ammonta il ricavato della vendita in esclusiva del mio servizio sulla famiglia Reale >> gli dissi con tono molto seccante, si stava facendo ora, Mark mi avrebbe atteso di fronte alla sua scuola fra un quarto d’ora.

<< Allora cara, le foto sono molto belle, si vede che ci sai fare, quindi ti posso offrire 13350.5643 corone, né una di più né una di meno. Più un altro servizio, ma all’estero >> Avevamo bisogno di quei soldi, per pagare la scuola privata di Mark, così accettai.<< Dove all’estero? >> << In Etiopia >> fu la sua risposa, breve, concisa ed arrogante. << E senza giornalista, voglio, anzi pretendo un servizio fotografico, corredato da didascalie. Le foto devono essere massimo trenta >>. Stava per dirmi dell’altro, ma non lo sentì, perchè presi la porta, che richiusi con forza, come odiavo quell’uomo.

Mentre guidavo verso la scuola di Mark ripensai a quel giorno in cui avevamo perso i nostri genitori, per dieci anni non ne avevo parlato a Mark, forse questo era il momento giusto. Avevo sempre rifiutato ingaggi all’estero perchè ero in continua apprensione per lui, ma ora che aveva quasi quindici anni potevo raccontargli tutto. Quando sarei tornata. Tre semafori rossi mi fecero fare un ritardo di dieci minuti, ma non mi preoccupai, Mark una volta mi aveva aspettato per mezz’ora.

Giunta lo vidi, che stava ascoltando la musica con il suo lettore MP3. Lo chiamai suonando il clacson. Si avvicinò, aprì la portiera dal lato del passeggero, entrò e lanciò lo zaino sul sedile posteriore.<< Allora Gertie? Quanto ti hanno dato per le foto? >> fu la prima cosa che mi chiese. << Bene, il signor Ansem mi ha dato 13350.5643 corone, più un nuovo ingaggio >>. << Fico, dove? >> mi chiese. << Devo andare in Etiopia, ma penso che non accetterò >> << E perchè? E’ una grande opportunità e io sono abbastanza grande da potermela cavare da solo, non sono più un bambino >>. << Va bene, ti lascerò a casa, ma promettimi di andare a letto presto, di non fare feste e di andare almeno una volta al giorno a trovare papà >>. << Accordato, parti tranquilla Gertie, è tutto sotto controllo >>. Sebbene non ne fossi intimamente convinta fui d’accordo con lui, era ora che Mark si assumesse le sue responsabilità.

Tornati a casa preparai la cena, erano già le sei, poi presi la macchina e mi diressi verso l’ospedale, dove in un letto al terzo piano, giaceva in stato di coma da dieci anni nostro padre.

Giunta trovai il dottor Andersen, che da quasi sei anni si occupava di mio padre. Mio padre giaceva a letto, immobile, secondo i medici sordo ad ogni contatto che proveniva dall’esterno. Fissai il monitor sistemato alla sua destra, il battito era buono.

Avevo comprato dei fiori, li sistemai vicino al suo letto, in un vaso. Poi parlai per un po’ con il dottore, lui voleva che gli dessi il mio consenso per poter staccare la spina, ma fui contraria, ne riparliamo quando mio fratello sarà maggiorenne, così potremo discuterne meglio gli risposi. Mentre uscivo guardai se nella libreria vicino l’ospedale c’era una guida turistica dell’Etiopia. Ve n’era una, ma era decisamente vecchia, però essendo l’ultima la presi,costava soltanto 16350 corone, che mi parvero un ottimo prezzo.

Tornata a casa guardai nella casella delle lettere, c’era il mio biglietto aereo e la brochure dell’albergo dove avrei alloggiato. Andai a controllare Mark, ormai erano le dieci, lo trovai che dormiva beato.

Smetto per un secondo di ricordare, è il telefono che mi distoglie, all’ospedale va tutto bene, papà sta riprendendo a parlare, solo poche parole, ma basta a risollevarmi il morale.

Di colpo ripenso a quando all’aeroporto ho salutato Mark. Mi ricordo bene quel giorno, pioveva dalla mattina, e sembrava che gli antichi dei del nostro Paese volessero ricordarci la loro presenza con quell’acquazzone e quei tuoni e fulmini. mark mi era vicino, sarebbe tornato a casa con l’autobus, e ci salutammo, odio gli addii. Comunque mi avviai verso il gate, destinazione Adis Abeba, la capitale dell’Etiopia. Il mio aereo avrebbe prima fatto una tappa a Roma, in Italia, poi sarebbe stata la volta dell’Etiopia.

Quando fu l’ora dell’imbarco fui tra le prime a salire sull’aereo, appena mi sistemai mandai un sms a Mark, per sapere come stava. Mi rispose dopo tre minuti. Stava bene, ma voleva sapere dove si trovasse il merluzzo che avevo comprato due giorni fa. Il merluzzo era in frigo, gli risposi, bastava che lo cercasse bene. Occorrevano tre quarti d’ora affinché si scongelasse per bene nel forno a microonde, poi doveva aggiungere delle patate al forno, venti minuti al forno, e cuocere il tutto ad almeno 120 gradi, per fare in modo che il merluzzo e le patate si cocessero nello stesso tempo, gli risposi. Va bene, ma se quando torni non vedi più casa e perchè l’ho mandata a fuoco, mi scrisse. Non sapevo se ridere o aspettarmi il peggio, quando l’aereo decollò.

Il viaggio fu breve, ebbi a malapena il tempo di poter gustare il cibo, che come al solito era orribile, che già l’aereo si preparava al primo atterraggio. Ero a Roma, la Città Eterna. Mentre l’osservavo dall’alto pensavo a come poteva venire bene un servizio là, in estate o in inverno, non che ad Oslo notassimo moltissimo la differenza o l’alternanza delle stagioni.

Mentre aspettavo che l’aereo ripartisse guardai fuori dal finestrino; l’aeroporto era modesto, per nulla paragonabile a quello di Oslo.

E in più si mise a piovere.

Dopo venti minuti di attesa, durante chi doveva scendere scese, l’aereo si preparò a ripartire, destinazione finale. Adis Abeba.

Siccome si era fatta notte vidi il film, poi presi un cuscino che mi dette una hostess, lo stropicciai bene bene, abbassai lo schienale, mi distesi, chiusi gli occhi e inizia a scivolare nel sonno.

Mi svegliai che l’aereo era già arrivato da un pezzo, perchè erano scesi quasi tutti. Dopo aver preso i miei bagagli, cercai un taxi, rendendomi conto di quanto caldo facesse lì, non c’ero abituata. A Oslo faceva quasi sempre freddo, invece qui probabilmente nessuno conosceva il concetto di gelo o aveva mai visto la neve.

C’era un taxi, ma quando mi mossi per raggiungerlo un ciccione con maglietta a maniche corte e cellulare mi precedette. Irritata ne cercai un altro, trovandolo dopo mezz’ora di ricerche.

 << Dove deve andare? >> mi chiese il taxista, << Al Ghion Hotel, grazie >> gli risposi in inglese.

Giunta mi presentai e registrai alla reception, dove venni a sapere che già da il giorno dopo sarei dovuta partire per un safari, senza poter visitare la città. Ansem me l’avrebbe pagata. Una cosa sola mi piacque, aveva prenotato per me una suite, e la cena era veramente buona, da capogiro. Terminata la quale chiamai Mark, a Oslo erano le sette, aveva mangiato e stava guardando la televisione.

La notte, dormivo in un letto a due piazze, feci un sogno. Ero in una foresta, e sentivo una voce che mi chiamava, più mi avvicinavo più riconoscevo la voce: era quella di mia madre! Allora correvo verso di lei, ma cadevo cadevo, sentendo per ultima cosa una risata inumana, agghiacciante. Il giorno seguente, dopo aver fatto una colazione abbondante presi la mia macchinetta fotografica e mi incamminai.

Nella hall Belate Dominici, la mia guida mi stava aspettando. Alto,moro, con i capelli arruffati sembrava la mia nemesi, visto che io sono biondissima con lentiggini e capelli liscissimi, solo un poco ondulati.

<< Miss Gustavsson? Sono Belate Dominici, sarò la sua guida, se mi vuole seguire, la mia macchina è qui fuori >>. Ubbidiente come una bambina delle elementari lo seguì, era bellissimo.

La macchina era una jeep rossa sgangherata, che mi parve adattissima per un safari.

Mentre ci avvicinavamo al safari gli chiesi perchè avesse un cognome straniero. Risultò che il suo bisnonno aveva fatto parte dell’armata italiana agli ordini del comandante Badoglio, durante la conquista italiana dell’Etiopia, che aveva portato all’Impero, e all’esilio di Halile Selassie, il loro legittimo re.

Dopo l’entrata delle truppe vincitrici ad Adis Abeba Amedeo Dominici aveva conosciuto Farah Nindera, sua futura moglie, figlia di un generale sconfitto. Dopo tre mesi erano fidanzati e dopo sei sposati. Successivamente nacque Benito, il loro unico figlio, nonno di Belate. Amedeo era morto nel 1944, ucciso da una bomba, sua moglie aveva cresciuto il figlio da sola, non si sarebbe mai risposata.

A venticinque anni Benito avrebbe sposato una ragazza di Adis Abeba, ma la giovane era morta di parto dando alla luce il padre di Belate. nel 1979 era nato lui, sesto di nove fratelli.

la sua storia era così diversa dalla mia che mi intrigò profondamente; nel frattempo eravamo arrivati a destinazione.

Uno spettacolo stupendo mi si parò di fronte. Un’ immensa radura, la savana, con pochi, alti e gialli fili d’erba, che sembravano brillare al contatto con i raggi solari. Pochi, alti e maestosi sulla linea dell’orizzonte si stagliavano due alberi. E nel cielo volava un’aquila, maestosa ed altera. Per tre secondi rimasi ammutolita davanti ad un tale spettacolo, prima che la voce di Belate mi richiamasse alla realtà: << Miss, non scattate nessuna foto per il vostro giornale? >> mi chiese. << E’ vero, è vero >> gli risposi. Scattai diverse foto, convinta che l’obbiettivo non sarebbe mai riuscito a mostrare ciò che realmente avevo visto. Era tutto così diverso dal solito ambiente a cui ero abituata, tutto così immenso, mi suggeriva l’idea dell’infinito, del perdersi.<< E’ tutto così? >> chiesi meravigliata a Belate. << Si, Miss, quando ero bambino io e i miei fratelli passavamo le ore qui, a correre e saltare, la mia è una delle famiglie più ricche della regione, anche se siamo isolati. Pochi sono disposti ad accettarci, a causa del matrimonio della mia bisnonna, per loro siamo dei mezzosangue, indegni di poter disporre di un patrimonio non ingente, ma nemmeno modesto >> concluse, guardando da un’altra parte, come se si vergognasse.

Per un secondo rimasi pensierosa, ma poi vidi l’aquila planare su un albero e la mia attenzione fu completamente assorbita da essa.

Verso la sera, quando ci fermammo avevo già scattato almeno cento foto; sapevo che avrei dovuto eliminarne qualcuna, ma non sapevo quale, erano tutte stupende.

<< Accendo un fuoco, servirà a tenere lontani i corocotta >> << Che cosa sono? >> << Sono delle creature mitiche, forse inesistenti, ma che da queste parti ispirano terrore. Si dice che assomiglino alle iene, ma che posseggono la capacità di imitare alla perfezione la voce umana e che riescano a parlare. Attirano le vittime e poi le divorano, si dice che riescano ad inghiottire una vittima in un sol boccone >> <> << Non mi sorprende, nonostante sia antichissima è poco conosciuta, soprattutto all’estero >>. Se quel giorno gli avessi rivolto quella domanda, ora sarebbe tutto diverso, e Belate sarebbe ancora vivo. Ma posi la domanda e lui mi rispose solo tre sere dopo.

Poi mi ritirai nella mia tenda, dove telefonai a Mark. Mi rispose al terzo squillo, si stava preparando per uscire, uno dei suoi amici aveva organizzato una festa. Dopo avergli rivolto le solite raccomandazioni e i saluti riattaccò.

Accadde a mezzanotte circa.

Stavo dormendo da almeno tre ore, e profondamente, quando l’udii. Era una voce umana, dopo un po’ la riconobbi: era quella di mia madre!

La voce era suadente, come quella di una sirena, e mi attirava inesorabilmente, quando un rumore improvviso la fece cessare e mi svegliò di colpo.

Erano tre scimmie che si erano messe in testa di tenere una festicciola proprio sul ramo dell’albero che si trovava dietro la mia tenda. Tirai loro un sasso, per fortuna mancandole, ma quelle dispettose continuarono fino alle cinque, quando potei tornare a dormire. Ripensandoci mi convinsi che nel sonno avevo immaginato la voce di mia madre, avevo un disperato bisogno di sentirla e di averla vicino.

Fui risvegliata da un odore acre di caffè verso le otto; uscì dalla mia tenda tutta assonnata.

Belate stava sorseggiando il caffè da un thermos rosso e grigio. Mi avvicinai a lui. << Mi chiedevo, Miss, perchè è qui da sola, e non con un giornalista. Di solito i fotografi non vengono mai da soli; invece lei è qui >>. << Il mio è un servizio fotografico, le mie foto non accompagneranno un articolo, sarà il contrario, tramite le didascalie che verranno scritte accanto >> gli risposi, orgogliosa, era la prima volta che lavoravo senza un giornalista. Detto questo mi servì del caffè bollente, ne avevo davvero bisogno.

Il resto del giorno proseguì con un piccolo tour nella riserva, Belate mi portò al fiume, dove potei vedere gli ippopotami con i loro piccoli e i coccodrilli. O superbi coccodrilli del Nilo ci scrutavano con i loro occhi, sembrava che ci stessero aspettando. Immobile ricambiai il loro sguardo, per un secondo mi vidi riflessa negli occhi di un vecchio coccodrillo che mi osservava con curiosità e , sembrò a me, malizia.

Ero così entusiasta che mi stavo dimenticando di avere la macchinetta fotografica finchè non la sentì mentre mi sbatteva sul petto, riportandomi alla realtà. Fu in quel momento che mi resi conto che ero vicinissima a un bestione che doveva pesare almeno tre quintali, e che mi avrebbe potuto divorare in un sol boccone. Per lo spavento mi allontanai di corsa, ma misi il piede male e caddi in acqua. Mi guardai attorno, il coccodrillo mi stava osservando, poi si girò, si immerse e si allontanò. Mentre si allontanava avrei giurato che stesse ridendo divertito.

Il resto del giorno proseguì normalmente, ormai avevo imparato a non scattare le mie foto ogni cento metri, dovevo selezionarle con cura e scegliere le più belle.

La notte, mentre dormivo sentì di nuovo la voce: questa volta aveva un che di suadente che mi convinse ad alzarmi ed ad uscire dalla tenda. Non vidi nessuno, ma per un momento mi parve di avvertire la presenza di mia madre, e per un secondo mi sembrò addirittura di vederla, mentre mi salutava, nella stessa maniera in cui mi aveva salutata l’ultima volta in cui la vidi viva.

Ma come era apparsa quella visione della mia mente si dissolse, lasciandomi nel più completo sconforto.

Nei giorni seguenti si instaurò una piacevole routine, fatta di gite, foto e a volte bagni nei fiumi, sempre seguita da Belate. La sera chiamavo Mark e m’informavo su di lui e su papà.

Una sera, parlando del più e del meno Belate mi chiese informazioni sulla mia famiglia. Ammetto di essere stata in quei giorni parecchio riservata.

Decisi di accontentarlo, non mi avrebbe fatto male, non più.

<< Allora, che cosa vuoi sapere e come lo vuoi sapere? In ordine cronologico o seguendo il flusso ininterrotto dei miei pensieri? La prima sarà noiosa ma accurata, la seconda esilarante ma al contempo caotica >> gli risposi, mentre sorseggiavo un bicchiere di Coca-cola conservata fredda, per non dire ghiacciata grazie ad un frigorifero portatile.

<< Inizia dall’inizio, così capirò meglio >> mi disse, con un sorriso a trentadue denti. << Va bene, inizio >>.

 

   
 
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