Capitolo I - Presente
Fuori era ancora neve, e
ancora e ancora. L’inverno era iniziato freddo e aveva continuato gelido e sempre
più bianco, vestendo gli alberi di nastri candidi e stalattiti di cristallo.
Dalla finestra tutto sembrava
più bello, rami scuri contro un cielo abbagliante e turbinoso, nell’aria calma
e calda della stanza, lenzuola pulite come il paesaggio fuori, trapunta spessa
come le nuvole.
Il corpo nudo di Ginny sotto
le coperte stava immobile. Si passò una mano in mezzo al fiume disordinato
sulle spalle, portò indietro le ciocche che le coprivano gli occhi, scomposte
dal sonno breve e agitato.
Sdraiata su un lato, tese
l’orecchio destro per catturare il respiro dell’uomo steso accanto a lei, che
riempiva col suo ansare rumoroso la piccola stanza. Niente da fare, dormiva
ancora.
La ragazza si alzò dal letto,
scuotendo nel frattempo apposta il molle materasso nel tentativo di far
ridestare l’ospite che si era possessivamente impadronito del cuscino.
Si infilò la vestaglia
azzurra e leggera, pettinò ancora nervosamente i capelli con la mano e sbuffò.
Si morse un labbro, quindi
scrollò le spalle.
-
A mali estremi...
– mormorò.
Prese un angolo della coperta
e la gettò ai piedi del letto, poi si sedette su un pezzo di bordo libero,
accarezzando il collo all’ospite. Ancora niente.
Gli diede un pizzicotto.
-
Ahi! – l’uomo
fece un balzo, aprendo repentinamente gli occhi.
-
Oh... mi scusi
Mr. Nott, non intendevo svegliarla... – fece lei con aria noncurante, alzandosi
e spalancando la finestra. L’uomo rabbrividì.
-
Non le piace
l’aria fresca del mattino? E’ proprio una toccasana, vero? – prese la spazzola
sul comò e cominciò a pettinarsi senza aspettare risposta.
In silenzio, questi si
rivestì, guardandole la schiena coperta dal tessuto sottile.
Quando ebbe finito, si
avvicinò e la prese per le spalle, sfiorando le labbra della ragazza con le
sue.
-
Ci vediamo,
bellezza.
Ginny aspettò che uscisse
dalla porta. Quindi sbuffò di nuovo, passandosi velocemente una mano sulla
bocca, biascicando qualcosa simile ad un “Bleah...”.
Lasciò che la vestaglia le scivolasse via per
poi richiudere immediatamente la finestra, massaggiandosi le spalle
infreddolite, quindi si rivestì anche lei, dopo aver recuperato la biancheria
intima gettata per terra, in un angolo della moquette marrone, vicino alle
gambe dell’armadio.
Andando oltre il cono scuro
delle scale arrivò nella cucina, bassa e accogliente, piena di bei mobili intensi
di ciliegio, che riempivano meglio lo spazio allargato dalle pareti bianche.
Ginny non entrò, appoggiò una
mano allo stipite della porta e sfiorò tutto con uno sguardo trasparente. La
donna seduta al tavolo rotondo alzò gli occhi dal suo libro e abbandonò la
tazza di caffè che prima teneva stretta in mano. Arricciò il naso piatto e
olivastro, riordinando le idee e accendendo gli occhi azzurri e taglienti.
-
Ben fatto,
Ginevra. Mr. Nott sembra essere rimasto soddisfatto, ha anche lasciato qualcosa
in più, assicurando che tornerà.- così dicendo spinse verso di lei alcune delle
monete che si trovavano sul tavolo, senza un sorriso, appena un brillio
accennato in fondo agli occhi.
La ragazza si strinse nelle
spalle. Guardò un attimo le monete, le mise in una tasca dell’ampia mantella,
poi fece un cenno con la testa e, senza guardare oltre la donna, uscì, a labbra
strette, chiudendo dietro il calore della casa ed il rigido chignon della
padrona.
Era ancora troppo presto per
sperare di trovare la folla del mezzogiorno, a quell’ora del mattino, a Diagon
Alley. In genere cacciava il prima possibile il suo ospite notturno e poi stava
a letto fino a tardi, la testa sepolta sotto al cuscino, pensando al niente.
Aveva fatto così la prima
volta, e la seconda, e sempre da due mesi a quella parte, tentando di soffocare
nel silenzio e nel calore il ricordo ancora vivido di quelle mani urgenti ed
ansiose sopra di lei, dei corpi esigenti che lasciava entrassero ed uscissero chiudendo
gli occhi, stringendo le labbra, trattenendo le lacrime.
La prima volta che era
successo si era lasciata gettare sul letto e sfilare i vestiti ferma, in
silenzio, in silenzio aveva sopportato ed immobile aveva tentato di ancorarsi
al materasso, nel tentativo di non lasciarsi trascinare via dalla brutalità
sopra e dentro di lei.
La mattina dopo, quando Mrs.Greystone
l’aveva attraversata coi suoi occhi-spillo, lei era arrossita ed aveva
abbassato lo sguardo.
-
Io... mi dispiace, signora. Credo di non esserne in
grado. Davvero.
-
Di cosa? Di sopravvivere? Beh, sì, è difficile. Ma io
ti ho dato un’opportunità. Che forse non dovresti sprecare.
-
Ma... non ce la faccio. Non... riesco. Non posso.
Io...
-
Tu? O ciò che hai avuto finora? Ciò che eri, ciò che
ti è stato inculcato? Dove sta il problema, nella morale, forse?
-
Io... non so...
-
Infatti. Tu non sai. Ma io posso insegnarti, e alla
fine vedrai che ti riuscirà tutto più facile. Questa strada è tutta in discesa,
tesoro, una volta imboccata. Fidati di me. E soprattutto, di ciò che vuoi e
puoi avere, adesso.
Non sapeva cosa l’aveva
spinta a restare. Forse la sua impossibilità di scegliere. O la sua incapacità
di farlo. Forse. Forse era davvero il destino tanto chiamato venuto a
raccoglierla in quell’angolo di strada, anche se ciò rinnegava le sue puerili
speranze di un aitante giovane vestito d’azzurro, che l’avrebbe issata sulla
sua scopa e condotta verso un azzurro orizzonte. No, decisamente. L’orizzonte
che al mattino si stagliava oltre il vetro della sua finestra era grigio, o al
massimo bianco sporco.
E nessuna voce melodiosa si
distingueva mai in mezzo al traffico brulicante del centro del mondo dei maghi,
solo parole stridule ed abiti scoloriti.
Ma almeno niente pretendeva
di passarle attraverso in quell’oceano di indifferenza ed egoismo, e seduta ad
un tavolo del Paiolo Magico poteva
permettersi il lusso di guardare in silenzio dal suo angolo scuro, senza ansimi
fastidiosi e pressanti, o simulati, richiesti da corpi sempre troppo pesanti
sul suo, o forse dalla speranza ed il bisogno di una moneta in più, il giorno
dopo.
E così lasciava e preferiva
che le altre vite che aveva davanti le passassero accanto senza sfiorarla,
senza immaginare niente per loro che non fosse quello che già leggeva sui visi
stanchi, ridenti, malinconici, assaporando solamente il momentaneo potere del
guardare ed emozionarsi senza essere vista, almeno per una volta, lasciandosi
alle spalle le notti troppo lunghe.
A volte comprava un giornale,
e leggeva. Lasciava scorrere gli occhi sulle parole senza volerne davvero
comprendere il significato, pensando di averne già abbastanza di ciò che le era
spettato in dote dal mondo. Però quando trovava una sola parola consolante si
fermava, la girava e rigirava fra la lingua e il palato, e la conservava per
l’intera giornata, ripescandola di tanto in tanto quando un viso più provato la
raggiungeva, fino al momento fatidico della sera. Poi la dimenticava, ma la
ritrovava ad ogni respiro profondo che recuperava, alla fine di tutto, in fondo
al petto.
Trovò il suo solito tavolo
libero, nell’angolo ombroso in fondo al grande locale sempre più colmo col
passare delle ore, prese con calma alcuni sorsi del primo the della giornata
(mai perdere le cattive abitudini, mai) e intrecciò le mani davanti a sé, guardandosi
le dita.
Si sentiva nervosa, e un
singulto le era salito piano fin dalla bocca dello stomaco, cogliendola di
sorpresa. Scosse la testa passando gli occhi sull’umanità rumorosa a portata
del proprio braccio.
Quando si alzò e se ne andò,
dopo aver lasciato due opache monete di rame sul tavolo, ebbe la strana ed
acuta sensazione che qualcuno la stesse fissando.