Bellatrix.
Il mio nome è Bellatrix e sono quella che non fu più sola.
Tutti si ricordano il loro primo
giorno ad Howgarts, è inevitabile, succedono troppe
cose la prima sera per essere dimenticate, eppure a me non piace ricordare, per
nulla.
Quella sera io ero solo una bambina,
come tutte le altre.
Sull’Espresso mi ero seduta con delle
ragazze più grandi di Serpeverde e Corvonero, che conoscevo grazie alle feste che i miei
genitori davano: solo i purosangue nobili erano ammessi; eppure quelle ragazze
che si dimostravano così carine e gentili non erano veramente interessate a me,
mi prestavano un’attenzione cordiale, ai limiti della freddezza, mi ignoravano
quando facevo delle domande che riguardavano cose assolutamente scontate per
loro, come le materie, i professori. Ridevano di me e questo mi faceva male, mi
ripromisi che non sarei diventata così, che mi sarei interessata alle persone e
non ne avrei mai fatto sentire una umiliata e a disagio come ero io.
Ma le cose non vanno come uno si
immagina, e io non sono un’anima candida e forte. Io sono debole, estremamente,
ma nessuno è mai riuscito a capirlo, nessuno tranne lui: il mio signore Oscuro.
La sera in cui divenni una serpe fu
una delle più brutte: tanti applausi nella Sala Grande, tante botte nella Sala
Comune; lo chiamavano rito di passaggio, prima ti picchiavano, poi ti facevano
bere fino a storditi, infine i “maschi più puri”, i leader, ti seviziavano e
poco importava se avevi solamente 11 anni. In quella notte perdevi tutto e
nessuno ti dava una mano, nessuno ti rivolgeva uno sguardo. Per la prima volta
mi sentii veramente sola.
Passarono gli anni, incominciai a
capire che una Serpe non poteva avere amici nelle altre Case e nemmeno nella
propria, l’esclusione era diventata esclusivismo e motivo di orgoglio
insensato.
Non parlavo nemmeno più con mia
sorella Andromeda, che era stata smistata a Serpeverde
e a quanto pareva era molto amica di
certe mezzosangue: una macchia per la mia famiglia e per la mia reputazione.
Fortunatamente però ci pensò mia madre a lavare l’offesa: la diseredò un paio d’anni
dopo, quando si sposò con un babbano. D’altra parte
anche mio cugino Sirius non era più di famiglia; se
possibile lui aveva fatto di peggio: aveva scelto Grifondoro
e sbandierava questa sua decisione in faccia a tutti. Anche io avrei voluto poter
scegliere, ma il Cappello non aveva avuto nessun dubbio con me. Narcissa mi aveva confidato di aver scelto Serpeverde e non Corvonero solo per
tradizione di famiglia, Andromeda avrebbe potuto scegliere Tassorosso,
Sirius Grifondoro. Io ero Serpeverde nel midollo, a quanto pareva, e così mi misi d’impegno
per ostentarlo sempre, come se fosse un vanto, un onore. Formai il mio gruppo.
Mi muovevo tra i corridoi come una regina egizia, lavoravo sodo per esserlo: i
capelli non erano più solo belli e neri, ma avevano il riflesso del mare a
mezzanotte, erano sempre acconciati con fermagli d’argento e smeraldi, la mia
pelle era più chiara della neve e allo stesso modo fredda, i miei occhi erano
carboni neri ornati di polvere d’onice. Volevo essere una divinità temuta e
rispettata, ma ne ero solo l’impronta di carta.
Una volta che le mie schiavette furono diplomate, che io fui diplomata,
mi ritrovai di nuovo sola, daccapo, senza una meta.
Tornai nella casa paterna, passavo le
mie giornate oziando e preparando di tanto in tanto pozioni e amuleti che
vendevo agli studenti di Serpeverde facendoli pagare
ben più cari del loro valore reale, per il resto mi dedicavo alla cura del
corpo. Una sera passò un ometto smilzo, con gli occhi febbrili, la pelle gialla
e unticcia e un naso a punta, sembrava un povero e anche malato, ma mio padre
lo fece accomodare nel soggiorno dove stavo leggendo un libro. La visione di
me, una creatura dalla bellezza eterea, e lui nella stessa stanza mi fece
rabbrividire d’orrore, mi alzai con discrezione e uscii con un leggero, e
voluto, fruscio d’abiti. Per la prima volta da quando era entrato in casa lo
sentii guardarmi, ma non mi girai.
Il giorno dopo andammo a pranzo dai Malfoy, io e Narcissa eravamo stupende, naturalmente io lo ero di
più. Risaltavo nel grande Malfoy Manor quanto una gemma
sotto i riflettori, Narcissa invece, con il suo
pallore cereo e i suoi capelli pressoché bianchi, si confondeva con
l’arredamento e la cosa, sebbene a pensarla mi sentissi un po’ in colpa, mi
faceva piacere.
Passarono quasi due mesi da quel
giorno e passammo molti fine settimana assieme, in particolare io, Narcissa e Lucius ci
allontanavamo dagli altri e passeggiavamo nel bosco. Lui era molto galante e
anche se aiutava lei quando il sentiero si faceva più scosceso, era me che
guardava con desiderio.
Quando mio padre mi disse che un uomo
aveva chiesto la mia mano, che veniva da una delle più potenti famiglie
purosangue e che mi aveva promessa a lui, io non ebbi più alcun dubbio.
Scioccamente pensavo che fosse il giovane Malfoy, che
finalmente si fosse dichiarato, immaginavo già Malfoy
Manor nella luce che sarebbe nata dalla nostra
unione, le risate dei nostri figli, le loro corse nel parco, i nostri sguardi
complici e felici mentre li osservavamo giocare. Mi ripromisi che i miei figli
non avrebbero conosciuto privazioni e che sarebbero stati tutti Corvonero, una volta a scuola, la Casa dei geni, dei
creativi, sicuramente mai Serpeverde, con quello che
avevo dovuto passare io non l’avrei mai augurato loro.
Sorrisi radiosa per la fantasia di me
e Lucius mano nella mano. Mentre scendevo le scale
per arrivare nell’atrio addobbato a festa per l’annuncio del mio fidanzamento,
i miei occhi rilucevano, i miei piedi quasi non toccavano il suolo, ma quando
mio padre mi mostrò il mio futuro marito il mio colpo mancò un battito. Nessuno
si accorse del cambiamento, la mia espressione si era congelata da prima nel
bellissimo sorriso che avevo, solo gli occhi si erano spenti e il passo si era
fatto più grave.
Non era Lucius.
Quello vicino a mio padre non era il mio Lucius,
anzi, paggio! Narcissa stava a braccetto con lui e
lui la guardava ammirato, lei era infinitamente più bella di me quella sera, le
gote le si erano tinte di rosa, sembrava una candida rosa selvatica. Io oramai
ero diventata solo rovi attorcigliati.
Scesi l’ultimo scalino e mia madre mi
prese sotto braccio portandomi faccia a faccia con quell’essere.
L’uomo unticcio e trascurato, con
ancora lo stesso sguardo inquieto, le occhiaie e la pelle giallognola,
quell’uomo che mi aveva fatto allontanare dal mio salotto pur di evitarne la
vicinanza, quello era mio marito, o meglio: lo sarebbe diventato presto.
Rodolphus Lestrange, il mio futuro
marito.
Rodolphus Lestrange, non avrei mai
fatto nessun figlio con lui, non lo volevo, volevo che morisse e che nessuno
ricordasse di noi. Non potevo oppormi a mio padre, ma mi sarei opposta a lui, i
posteri non avrebbero saputo della nostra storia. Promisi in quell’istante che
sarei diventata una terribile e fredda moglie, che mai un sentimento diverso
dall’indifferenza avrebbe potuto aprirsi nel mio cuore. Mai più umana, sempre
più sola e inafferrabile.
I primi tempi
del nostro matrimonio erano stati anche abbastanza sereni: lui non mi toccava
mai, si limitava a guardarmi e adorarmi a distanza. Il solo bacio che mi aveva
mai dato era stato al nostro matrimonio, sulla mano che portava ora una scomoda
fedina incantata, di quelle che rimangono al dito finchè
uno dei due non muore. Quell’anellino pesava più di un macigno, sul mio cuore, perché
ora era diventato palese a tutti che io fossi una moglie e non più una dea
seducente come lo erano ancora le mie sorelle.
In giro si
diceva, e dovevo affidarmi alle chiacchiere dato che i nostri rapporti si erano
interrotti anni fa, che mia sorella minore Andromeda avesse la mia stessa
eleganza di anni addietro, che però si accompagnava con una gentilezza a me
sconosciuta e un fascino particolare dato dalle forme più morbide del suo corpo
e all’espressione serena del suo viso. In più si mormorava anche che fosse ben
più felice di quando stava in famiglia, che nessuno di noi le mancava perché eravamo
degli “ottusi bigotti”. Naturalmente la gente si zittiva quando mi vedeva, ma
ero piuttosto brava a nascondermi e non farmi notare, nonché ad ottenere
informazioni da spie di fiducia. Così avevo saputo che era anche incinta, e
questo era certo, e che ci si aspettavano grandi cose dal futuro nascituro perché
già sembrava avere poteri magici.
Felice,
sposata e con un figlio superdotato benché non purosangue. La invidiavo.
Stavo
nella mia nuova villa, con un marito odiato che non vedevo quasi mai se non in
occasione di qualche festa in cui mi esibiva come un trofeo. Mi passò persino
la voglia di curarmi. Un giorno mi disse anche qualcosa che suonava come “sei
vecchia, che ti succede? “ io gli risi in faccia, così.
Era la
prima volta che ridevo a quel modo, come una donnaccia: buttai indietro la
testa di scatto, aprii quanto più possibile la bocca e risi, una risata
malefica, senza vera allegria. Lui si impietrì e se ne andò via.
Passarono
ancora settimane, poi un giorno in cui c’era un terribile temporale lui mi si
parò davanti, trafelato, più pallido del solito. “Ha chiamato” mi disse, non
una spiegazione di più, solo un avambraccio teso di fronte a me con un simbolo
contorto: un teschio e un serpente.
Non sapevo
ancora cosa significasse, lo guardai con sufficienza credendo che mi volesse
portare a qualche stupida riunione del gruppo di cui faceva parte, una specie
di setta contro i babbani e i mezzosangue. Non mi ero
mai interrogata su cosa fosse realmente, su che cosa facesse, perché gruppi
così erano normali tra i purosangue, erano quasi dei club esclusivi e non era
un mistero per nessuno la loro esistenza. Lo guardai, gli domandai se mi
dovessi vestire e andai a cambiarmi.
Mi ricordo
che non mi ero minimamente curata: un vestito nero intero, lungo, un po’
svasato ai piedi, stivaletti neri alti per non bagnarmi i piedi casomai avessi
dovuto camminare, capelli scompigliati ricci e crespi dall’incuria, un trucco
pesante che mi faceva assomigliare più a un vampiro che a una donna un tempo
bella.
Ci smaterializzammo
appena fuori casa per apparire in un posto tetro, isolato. Per un momento
pensai che anche quell’uomo che dovevo chiamare marito si fosse stancato della
fedina e mi volesse uccidere, così stetti all’erta con la bacchetta pronta, ma
era tutt’altro: quella sera lui firmò la sua condanna a morte, lui mi presentò
il mio Signore Oscuro.
Che ne dite di questo scorcio di vita? Mi lasciate una recensioncina?
Probabilmente seguirà una seconda parte in cui si vedrà in che modo Bellatrix diventò veramente quella che appare nei libri e
come fece a liberarsi della sua precedente identità di signora Lestrange…
probabilmente, se la volete, altrimenti “passo e chiudo” come si dice.
(il carattere l’ho messo grande perché mi rendo conto che è un po’
pesante come impaginazione, quindi magari se uno è astigmatico, come me, trova
più gradevole un carattere un po’ più grande )
Grazie a tutti quelli che leggeranno
e ancor più a quelli che recensiranno!
A presto,
Gufo