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Autore: Terre_del_Nord    05/10/2010    26 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Storm in Heaven - III.007 - Storm in Heaven (2)

III.007


Mirzam Sherton
Mallaig, Highlands - 21/22 dicembre 1971

Fuori dalle finestre di pietra antica, la neve scendeva silenziosa, ammantando di fiaba tutto ciò che ci circondava; il mare, dopo aver ululato per giorni, terribile e minaccioso, ora sembrava una piatta tavola d’inchiostro antracite, placida, di cui avevo percepito appena, in lontananza, per tutta la notte, perso tra i nostri sospiri e le nostre timide risate, il suono armonioso della lenta risacca. Abbracciati, affondati tra la biancheria morbida e la seta pregiata, chiusi e protetti nel baldacchino antico, i preziosi abiti da cerimonia dimenticati sulla cassapanca infondo alla stanza, tutto sembrava preservarci e isolarci da un mondo lontano e insignificante, uno sfondo inanimato che non ci toccava, completamente assorbiti dalla felicità che provavamo, che si diramava dalle lontane fibre dei nostri corpi, penetrandoci attraverso il sangue fino al cervello. Non esisteva niente, oltre al profumo di fiori dei suoi capelli, oltre al suo calore, che timido e appassionato risvegliava continuamente il mio; mi deliziavo del tocco leggero della sua pelle morbida, lei, l'altra parte di me, con cui finalmente mi completavo, formando per sempre un'entità sola. Non trovavo le parole, per esprimere razionalmente quello che sentivo, per dirle quello che forse avrei dovuto, che forse avrebbe voluto ascoltare, ma dallo sguardo innamorato di Sile fisso nel mio, sentivo che l'energia, che si liberava tra noi e in noi, rendeva inutile qualsiasi parola, persino la poesia più bella del più grande dei poeti.

    La mia poesia è lei... solo lei.

Ero a casa, finalmente a casa, finalmente sereno, finalmente completo. Era la seconda volta che passavamo la notte insieme, che attendevamo il nuovo giorno una tra le braccia dell'altro, dopo una notte intera passata ad amarci, e sentivo che la felicità che provavo in quel momento era persino più potente e piena di allora, perché nulla poteva più dividerci, perché nulla avrebbe più interrotto quel fluire continuo di amore e vita tra lei e me. Sorrisi e mi chinai a stampare un bacio leggero tra i suoi capelli, con le dita scivolai sulla sua pelle candida e l'attirai di nuovo a me, reclamando, ancora e ancora, vorace, i suoi baci.

*

L'avevo commossa quando c’eravamo materializzati. Avevo nascosto a tutti, persino a lei, le mie reali intenzioni. Avevo chiesto aiuto a Orion Black e a mio padre, perché mi prestassero tutti i loro Elfi che di solito servivano a Zennor e ad Amesbury, così che sistemassero, in tempo utile, almeno alcune stanze, le più importanti, della casa acquistata a Maillag: al contrario di quello che avevo fatto capire, saremmo partiti per il viaggio di nozze solo dopo alcuni giorni, lo sapevano solo mio padre e il Ministro, perché, memore di certe riflessioni di Sile ai tempi della scuola, non volevo vivere le prime notti con mia moglie in un luogo anonimo, che per quanto bello, non sarebbe stato solo ed esclusivamente nostro, un luogo che poi non avremmo vissuto più, un luogo che non avesse per entrambi un’incredibile importanza. Persino la scelta di vivere a Maillag nasceva da un motivo preciso: per Sile, che vi aveva vissuto per un po' durante l'infanzia, era un luogo pieno di ricordi felici ed io volevo darle altra felicità, un futuro meraviglioso, tutto me stesso. Sile era rimasta meravigliata quando c’eravamo materializzati sulla terrazza che si apriva sul mare, avevo visto che all'inizio era spaesata, perché non aveva riconosciuto, al buio, la casa che aveva visto altre volte, ma sempre di giorno e sempre senza di me; mi aveva guardato stranita, dubbiosa che fossimo di nuovo a Herrengton, poi aveva scorto, alla luce della luna, il profilo noto del promontorio, la spiaggia sabbiosa sotto di noi, la foresta che si schiudeva alle nostre spalle. Non avevo risposto a parole ai suoi occhi carichi di domande, mi ero limitato a stringerla a me, a baciarla tenero e appassionato, facendole capire che era tutto vero, che eravamo lei ed io, il nostro futuro, la nostra felicità, il nostro sogno che, tassello dopo tassello, diventava realtà. Avevo accarezzato il suo viso con tenerezza alla luce della luna e finalmente mi ero sentito pieno di quella felicità che nasce non dal benessere personale, ma dal vedere la gioia racchiusa negli occhi di colei che era tutta la mia vita. Le avevo preso le mani e, seguendo la tradizione, l'avevo invitata a seguirmi nel salone illuminato dalla luce soffusa delle candele, entrambi muti per l'emozione e la consapevolezza che era finalmente tutto vero.
Avevo chiesto a Kreya, ennesimo dono di mio padre per il matrimonio, di allestire le poche stanze pronte con alcuni dettagli romantici e raffinati, anche quelli che la mia inesperienza non mi facevano nemmeno immaginare, ma arrossii imbarazzato quando ci trovammo nel salone col caminetto acceso e scoppiettante, con i cuscini, le coperte e i vassoi di frutta sistemati opportunamente per accoglierci come una comoda alcova, piena di candele, fiori e petali di rose, se avessimo deciso di trattenerci e passare la notte lì. Già perplesso, mi sentii ancora peggio quando scoprii che, di fianco al salone, lo studio era stato trasformato in una maestosa stanza da bagno, con un'enorme vasca magicamente riempita di continuo con acqua piacevolmente calda in cui erano disciolte essenze sensuali e invitanti. Sile mi aveva guardato divertita e maliziosa, mentre il mio volto passava dal rosso al porpora al viola, comprendendo che era tutta opera dell'Elfa, anche perché, vista la nostra unica precedente esperienza, sapeva che nonostante morissi di desiderio per lei, senza un suo chiaro invito ci avrei messo una vita a farmi avanti. Ormai era diverso, non eravamo più due ragazzini, eravamo addirittura sposati, pertanto non era solo normale, ma per molti era persino dovuto, eppure dopo quattro anni di lontananza costellati di mille errori, l'ultima cosa che volevo era essere frainteso proprio in quel momento: non volevo sembrarle uno che pensava a una cosa sola, uno che cercava nella propria moglie solo legittima soddisfazione fisica e discendenza. Ci tenevo troppo a lei e ai sentimenti che provavo, per commettere altri errori, potevo aspettare, non le avrei mai messo fretta, non in quel modo così spudorato. Sile mi era sembrata condividere il mio imbarazzo ma, al contrario di me, aveva reagito divertita, mi aveva preso per mano, giocosa e curiosa, mi aveva guidato all'esplorazione del resto dell’opera di Kreya, per distrarmi dalle mie paure e dare a entrambi il tempo di vincere l'emozione. Osservandola, così serena e sicura, mi ero reso conto che nel suo sguardo finalmente era ritornata la luce che avevo conosciuto anni prima, quella che a causa della mia stupidità era sparita per troppo tempo. Seguendola, un po’ alla volta, anch'io mi ero ritrovato a sorridere di me stesso, mi sentivo così simile, in quel momento, al me ragazzino che, emozionato e imbarazzato, l'aveva seguita durante le ronde nei corridoi di Hogwarts fino a rendersi conto quasi con sorpresa quanto Sile fosse non solo una ragazza simpatica e gentile, ma anche estremamente femminile e desiderabile. Dovevo solo aprire gli occhi e rassicurarmi, perché il tempo dei dubbi e della sofferenza era finito quel mattino, sulla spiaggia di Herrengton, quando avevamo dimostrato l'uno all'altro in modo inequivocabile quanto fosse sincero e forte il nostro legame...

    Si
amo finalmente noi, finalmente tutto è come deve essere, senza se e senza ma... finalmente è il momento di lasciarsi andare, di vivere e di essere felici.

Mentre, ridendo, Sile mi aveva indicato un buffo carillon che avevamo comprato a Doire anni prima in un negozietto di articoli magici, e che io avevo fatto mettere a sorpresa sopra una consolle, nel corridoio che portava nella nostra camera, l'avevo trattenuta piano per la mano, lentamente, e mentre lei si era voltata sorpresa e carica di domande, avevo iniziato a disegnarle arabeschi immaginari con i polpastrelli sulla sua pelle morbida, andando a stuzzicare le Rune delle sue dita e del suo palmo, cercando di essere il più discreto possibile, ma anche inequivocabilmente determinato. L'avevo attirata piano a me, l'avevo trattenuta e stretta tra le mie braccia, intrappolandola quasi, contro la parete, l'avevo baciata, con trasporto e passione, scostando i suoi capelli e scendendo rapido sulla Runa del suo collo, lasciando che le mie labbra ricalcassero in un bacio lento e inesorabile tutti i dettagli di quel disegno. L'avevo sentita vibrare e sorreggersi a stento a me, le sue dita che si aggrappavano quasi dolorosamente alla mia pelle, la sua gamba che cercava di annodarsi alla mia, insofferente ormai alla prigione delle vesti. Avevo indugiato ancora in quella dolce tortura, per strapparle quei sospiri che sapevo capaci di mandarmi in fiamme la mente, cancellando così ogni mia remora o imbarazzo, come la più potente delle pozioni ottenebranti, poi avevo alzato il viso e avevo guardato i suoi occhi, leggendo lo stesso desiderio che consumava me, la stessa richiesta di felicità. La mia mano era scivolata ad accarezzarle la linea morbida del collo e del mento, mi ero abbassato a stuzzicare, con le mie, quelle labbra invitanti, quasi volessi divorarla con un bacio. Senza indugiare oltre, l'avevo presa in braccio, mentre lei, allentandomi i lacci che fissavano ancora il mantello sulle mie spalle, lo aveva fatto cadere, abbandonato, inutile, nel corridoio. Avevamo raggiunto la nostra stanza, con un paio d’incantesimi avevo fatto in modo che nemmeno la solerte Kreya potesse raggiungerci, per nessun motivo.

    Il mondo si riduce a noi, siamo noi, il resto non ha più importanza.

L'avevo guardata, vibravamo entrambi come fiamme che danzavano all'unisono. Lei era scivolata via dal mio abbraccio, io l'avevo presa per mano e l'avevo condotta al centro della stanza, ero passato dietro di lei e, mentre avevo ripreso a baciarle lentamente il collo, avevo iniziato a manomettere il suo meraviglioso abito da sposa. Dopo un'impresa a dir poco ciclopica, costellata di risata, di dita, le mie, ripetutamente e dolorosamente affatturate, di promesse di morte ai danni di amiche e parenti, di baci consolatori, Sile si era voltata verso di me e, con grazia e malizia, aveva lasciato scivolare a terra il suo prezioso abito di seta avorio, restando con la sottoveste che esaltava la sua bellezza e mi accendeva come non mi era mai capitato in tutta la vita. Aveva sollevato il palmo sul mio viso, aveva percorso con i polpastrelli i miei lineamenti e sollevandosi sulla punta dei piedi aveva appoggiato le sue labbra calde sul mio collo. L'avevo guardata meravigliato quando mi aveva spinto sul letto dietro di noi, salendo rapida a sedersi accanto a me, aveva ripreso ad accarezzarmi il viso e i capelli, a baciarmi, mentre, aiutata da me, aveva iniziato a sua volta ad allentare, divertita, la trappola in cui Jarvis si era tanto impegnato a imprigionarmi. Alla fine, eravamo rimasti senza molto addosso, a osservarci, muti ed emozionati, riscoprendoci simili eppure diversi, più adulti, più forti e al tempo stesso più fragili: un po' imbarazzato per il mio chiaro entusiasmo, notai subito che lei, se possibile, era addirittura più bella di quando eravamo a scuola, il suo corpo era più maturo, benché avesse la stessa grazia e la stessa eleganza di allora. Da parte sua, avevo osservato come Sile avesse percorso con lo sguardo il mio corpo, soffermandosi sulle Rune che avevo preso quell'estate, che rendevano il mio corpo parecchio diverso da quello del ragazzino con cui aveva conosciuto per la prima volta l'amore. Mi ero trattenuto a stento, quando avevo sentito le sue dita accarezzare senza indugi i singoli tratti di quella Runa, ben sapendo che in quel modo mi stava rendendo pazzo, avevo combattuto con me stesso, per impedirmi di farle altrettanto, di annullare in entrambi qualsiasi remora e inibizione, cancellando il controllo della mente e abbandonandomi alla fame e alla sete che avevo di lei. Sapevo che era una prova, l'avevo visto quando compiaciuta aveva appoggiato il palmo aperto sul mio cuore, facendo sfiorare la Runa del mio petto e quella del suo palmo: avevo lasciato che m’invitasse a stendermi sul letto, in silenzio, mi aveva fissato senza mai staccare gli occhi dai miei nemmeno per un solo istante, mentre scivolava lenta e felina su di me e le mie mani erano risalite lungo la sua schiena. Sile si era abbassata su di me, andando a baciare lenta e sensuale la Runa sul mio collo, i suoi capelli lunghi e profumati che mi circondavano, formando una cortina di seta che mi separava dal mondo esterno. Avevo accarezzato ancora una volta la sua tunica di pizzo, l'unica barriera tra me e il suo corpo vibrante che mi accendeva, Sile si era sollevata, andando a eliminare con grazia quell'ultimo ostacolo: dopo essere rimasto rapito, per rapidi, pudichi, istanti sulla vista del suo corpo completamente nudo sopra di me, ero risalito con le mani dai suoi fianchi sottili su, fino alla base della sua testa, annodando di nuovo le dita tra i morbidi capelli corvini, spingendola delicatamente a unire la sua bocca alla mia. Ci eravamo persi così, in un altro bacio, l'ennesimo, un bacio sensuale, affamato, mentre fondevamo di nuovo i nostri sguardi, i nostri corpi e le nostre anime. Una vita sola, un'anima sola, per tutto il resto dei nostri giorni e fino alla fine del tempo.

    “Sei la mia vita, Sile... l'unica vita possibile... ”

Avevo alla fine sussurrato tra i suoi capelli, le uniche parole che avevano un senso, le uniche, per me, preziose e vere.


***

Rigel Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 21/22 dicembre 1971

Ritto di fronte a me, il Mangiamorte rideva, osservandomi mentre lo fissavo atterrito, ipnotizzato dal Marchio Nero che si animava sulla sua pelle, rosso, pulsante, oscenamente attraente.

    Non devi fissarlo, Rigel, non devi fissarlo! Concentrati, pensa! Devi solo pensare! Devi solo pensare!

Che cosa potevo fare? Avevo solo tredici anni e avevo un padre, una madre, dei fratelli, degli amici, tutti inconsapevoli di essere in pericolo di morte; avevo solo tredici anni ed ero l'unico a sapere che il Ministro della Magia stava per essere ucciso proprio a Herrengton, trascinando così la mia famiglia e la mia gente in una guerra che non era la nostra. Avevo solo tredici anni e probabilmente solo io potevo evitare che mio padre finisse ad Azkaban, o peggio, abbandonando i miei fratelli e me, privando mia madre del suo amore, lasciando la Confraternita senza guida, tutti quanti macchiati del turpe sospetto di far parte di quella banda di pazzi criminali mascherati! No, non potevo permetterlo: mio padre era severo con me, litigavamo spesso, a volte, addirittura, lo odiavo, ma era sempre stato molto chiaro su certi aspetti e per me aveva ragione quando sosteneva che Milord non era la strada “giusta” per il Mondo Magico.

    Che cosa puoi fare, Rigel? Pensa! Che cosa puoi fare?

Se avessi provato a fuggire per avvertirlo, il Mangiamorte mi avrebbe colpito alle spalle e mi avrebbe reso inoffensivo, distruggendo ogni nostra possibilità di salvezza; se avessi provato a combatterlo per poi scappare da mio padre, mi avrebbe spazzato via subito, senza difficoltà, perché ero solo un ragazzino e non avevo mai fatto un vero duello in vita mia.
   
    No, non è quella la strada che devi seguire, Rigel, ma forse, se provassi a...
   
Guardai oltre il Mangiamorte, avanti, verso il braciere: dovevo limitare i danni, dovevo impedire a qualsiasi costo che i suoi complici entrassero a Herrengton, l'unica azione alla mia portata, per vicinanza e abilità, era raggiungere il braciere e alimentare il fuoco, al posto di Deluin.    E non c'era tempo da perdere: lo scudo sopra la tenuta, infatti, si stava facendo via via più fragile, presto si sarebbe aperto, lasciando entrare la nostra rovina. Tra me e il braciere, però, c'era lui, il Mangiamorte, e questo non era un problema da poco.

    Ragiona, Rigel, ragiona: come puoi evitarlo? Sai che devi farlo, devi assolutamente farlo, perciò, avanti, trova una soluzione! Che cosa puoi realmente temere da questo assassino?
   
Se il Signore Oscuro era davvero un Mago d’immensa conoscenza, se era l'Erede di Salazar, come molti sostenevano, doveva sapere che non poteva uccidere mio padre e i suoi figli senza aver prima scoperto con certezza chi di noi l'avrebbe sostituito come erede di Hifrig, non senza essere già entrato a Herrengton e aver già preso il saldo controllo di Habarcat, dimostrandosi successore di Salazar, altrimenti le Terre del Nord e la Fiamma gli sarebbero state precluse per sempre; se invece volevano coinvolgere la Confraternita e farla incolpare dell'assassinio del Ministro, il Mangiamorte doveva cercare di non uccidermi, perché, se il loro piano fosse fallito e i Ministeriali mi avessero trovato morto, avrebbero compreso che gli Sherton erano anch'essi vittime, visto che gli Aurors, di solito, non andavano in giro ad ammazzare ragazzini di appena tredici anni. Forse, però, a Milord non interessava attribuirci la colpa della morte di Longbottom, e magari credeva, come tutti, che l'erede di Hifrig fosse senza dubbio Mirzam, il figlio primogenito, e s'illudeva di poter trattare i miei fratelli e me come semplice carne da macello. Forse, addirittura, Milord era il pallone gonfiato che immaginavo io e, privo di qualsiasi conoscenza sulle nostre antiche tradizioni, non sospettava che ci fosse un legame tra uno di noi e la Fiamma; pieno della sua proverbiale arroganza, non poteva certo concepire che persino un neonato poteva mandare a monte i suoi piani e, invece, la situazione era proprio quella: se insieme a mio padre avesse fatto uccidere il figlio sbagliato, prima di farsi riconoscere da Habarcat, tutti noi, la mia famiglia, i miei amici, la mia gente, i Ministeriali e persino i nostri aggressori, tutti coloro che si trovavano a Herrengton, saremmo spariti nel limbo, insieme all'ultima goccia del nostro sangue maledetto. Persino Lui, Lord Voldemort, il Signore Oscuro, se fosse stato presente alla carneficina. Un brivido di folle speranza mi percorse la schiena, al pensiero di poterlo trascinare all'inferno con me.

    Non devi pensarci nemmeno, Rigel! Concentrati sui tuoi fratelli, piuttosto, pensa a loro, pensa alla mamma!

Dovevo attenermi all'idea che ci fosse una speranza, almeno una speranza: nella migliore delle ipotesi, il Mangiamorte aveva l'ordine di non uccidermi, ma poteva sempre pietrificarmi o cruciarmi, o rendermi inoffensivo in qualche altro modo, e se l'avesse fatto, per la mia famiglia e la mia gente sarebbe finito tutto, quindi dovevo sbrigarmi e fare attenzione a non farmi colpire.

    Più della Cruciatus che cosa può capitarti? Più di essere umiliato e di impazzire dal dolore? Più di sbagliarti e soffrire per niente? C’è solo una cosa peggiore di tutte queste e preferiresti morire che affrontarla: vedere il tuo mondo in rovina, sapere di essere stato l'unico a poterlo evitare e non aver fatto niente. Per paura. Rifletti: che cosa si aspetta il Mangiamorte da te? Che cosa si aspetta da un ragazzino?
   
Per uno Sherton, da sempre, “La prima regola è sopravvivere”, lo sapevano tutti e se davvero gli uomini di Milord conoscevano bene mio fratello, lo sapevano anche loro, perché Mirzam lo ripeteva in continuazione: dovevo far vedere, perciò, che questo comportamento vigliacco e opportunista valeva anche ai tempi di Alshain Sherton, che mio padre ci aveva insegnato a portare a casa la pelle a ogni costo, che di fronte a una scelta dovevamo cedere e non morire.

    Puoi farlo, Rigel! Devi farlo! E devi essere convincente.

Quando il Mangiamorte alzò la bacchetta su di me, tremai, quando l'agitò per aria e mi puntò, non ebbi remore, m'inchinai di fronte a lui e gettai la bacchetta ai suoi piedi, in segno di resa.

    “Ti prego! Perdonami! Non sapevo chi fossi, ti ho visto giù alle teche e ti ho scambiato per un ladro. Perdonami! Io non volevo... ”

Il Mangiamorte borbottò qualcosa, vidi un lampo di luce verde, o forse azzurra, uscire dalla sua bacchetta e un ciuffo di erba alla mia sinistra fu incenerito, con un gran botto che mi fece perdere vent'anni di vita. Lo sconosciuto scoppiò a ridere, io pallido come un morto, mi resi conto che non era difficile cercare di sembrargli patetico e vigliacco: avevo tredici anni, ero poco più di un bambino, solo un pazzo non avrebbe avuto paura di morire e desiderato con tutto se stesso di non trovarsi lì. Ed io non ero né pazzo né Grifondoro, la mia era autentica, fottuta, paura.

    “Oh povero, povero, cucciolino! Chiama la mammina che ti tenga la manina!”
    “Ti prego, non farmi del male! Mio padre ti darà tutto ciò che vuoi, ma non farmi del male!”
    “Tuo padre... Mi darà tutto ciò che voglio, certo! E godrò a vederlo strisciare a terra come stai facendo tu, piccolo, stupido, ragazzino inutile! Siete tutti così patetici e vigliacchi! Ve la fate con feccia e babbanofili, come traditori del Sangue Puro! Salazar si rivolterebbe nella tomba!”
    “No, traditori del Sangue no! Traditori mai! Te lo giuro sul mio onore!”
    “L'onore di uno Sherton? Ma quale onore? Non farmi ridere!”

Mi sentii il sangue ribollire: se solo fossi stato più grande e più abile, se solo avessi potuto rischiare solo me stesso, se solo non avessi dovuto pensare al destino di tutti gli altri! Il Mangiamorte mi fissava, non lo vedevo in faccia, ma dalla sua postura mi trasmetteva un senso d’irrisione che non potevo sopportare: anche se non era lui, perché più basso e più gracile, perché dalla feritoia percepivo uno sguardo di ossidiana scura, non chiari occhi di ghiaccio, non riuscivo a non immaginarmi il volto di Lucius Malfoy dietro quella maschera e l'odio profondo, che albergava in me nei suoi confronti, divenne sempre più difficile da controllare. Feci un respiro fondo e cercai di ritornare lucido, non sarei stato credibile se a quel punto non avessi reagito in qualche modo, perciò alzai il volto verso il mio avversario mascherato, cercando di mantenermi saldo e determinato.
   
    Non avere paura, Rigel, non avere paura! Non ti ritiene una minaccia, ti sta sottovalutando, puoi agire! Continua a fargli credere che ha davanti uno stupido… Accumula e controlla la rabbia, domina la rabbia, usa la rabbia! Pensa che hai davanti quel maiale di Malfoy, se ti aiuta! Sì, c'è lui sotto la maschera, c'è lui, e tu puoi fargliela pagare, finalmente! Per tutto!
   
    “Potrei darti il mio anello… Milord potrebbe usarlo per dominare la Fiamma, dovevamo darglielo a Hogmanay, in dono; se glielo porterai, sarai ricompensato al posto nostro. Ma devi portarmi da Lui: voglio il tuo stesso Marchio, lo voglio con tutto me stesso! Voglio usare la spada che hai preso per Lui, voglio uccidere i maledetti Babbani e la lurida feccia che insozza il nostro mondo! Per favore! Portami da Milord: sono uno Sherton, sono nato per servire l'Erede di Salazar!”

Non si fidava di mio padre, d’accordo, ma perché non doveva credere a me? Ero noto per essere un piantagrane, a scuola finivo di continuo dal Preside, ero sempre in lite con i miei che ormai volevano spedirmi a Durmstrang per i miei atteggiamenti ribelli; e Mirzam, che non faceva altro che salmodiare di Milord, a casa nostra, di sicuro non andava a dire ai suoi “amici” di non essere riuscito a convincere nemmeno uno di noi sul Signore Oscuro.

    Sempre ammesso che tuo fratello non sia coinvolto nel casino di questa notte, che non vi abbia traditi tutti, che non abbia detto loro che preferireste morire piuttosto che sottomettervi!

No, questo, ne ero convinto, non era possibile: Mirzam era uno stupido, certo, ma non riuscivo a pensare a lui come a un assassino e a un traditore della sua famiglia!

    “Tu, piccolo, patetico insetto, un Mangiamorte? Ahahah! Milord non saprebbe che farsene di un ragazzino stupido e inutile come te! Milord libererà il nostro mondo dalla tua famiglia di viscidi traditori! Lo farà personalmente, domattina stessa, appena entrerà a Herrengton, darà un messaggio chiaro a tutti! Per quanto mi riguarda, un bel Petrificus, ora, mi libererà della tua molesta presenza!”

Era il momento, non potevo indugiare oltre. Mentre alzava la bacchetta su di me, pronto a colpirmi per rendermi inoffensivo, io pronunciai a bassa voce “DominusTerra”, sperando di avere accumulato abbastanza concentrazione da far collassare un po' il terreno sotto di lui e coglierlo così di sorpresa: avevo tredici anni, non avevo la forza né le capacità per fare qualcosa di grandioso che lo ferisse e lo rendesse inoffensivo, che lo travolgesse e lo eliminasse, ma a me bastava distrarlo per un attimo, per un breve attimo. Come facevo da piccolo, quando ero arrabbiato o spaventato, e riuscivo a muovere gli oggetti nella stanza per sfuggire a Mirzam che m’inseguiva per punirmi. Sì, mi bastavano pochi attimi: il tempo di correre a tutta velocità attraverso il cortile fino al braciere col fuoco magico, poi, una volta lì, l'avrei alimentato io, avrei mantenuto intatta la protezione su Herrengton, non con le erbe ma con il mio sangue, fino alla mia ultima goccia, perché lo scudo sulla tenuta ritornasse subito al massimo della sua estensione, il più possibile resistente, solido e impenetrabile, dando il tempo agli altri di mettersi in salvo con i camini e le Passaporte. Poteva funzionare, le leggende dicevano che spesso i miei avi si erano salvati così, con un sacrificio: se non erano bugie, se non erano stupide favolette per bambini, gli altri potevano farcela. Il pavimento di pietra si avvallò: come immaginavo, il Mangiamorte perse l'equilibrio e, confuso, distolse la sua attenzione da me, senza comprendere che ero stato io.

    “A volte non avrete una scopa e dovrete usare il vostro corpo, oltre alla vostra Magia!”

Così tuo padre lanciava una Pluffa in mezzo al prato, tuo fratello la colpiva con una mazza da Battitore e tu dovevi correre nell'erba alta, correre fino a perder il fiato, fino a raggiungere tua madre che, seduta nell'erba, insieme a Meissa, ti applaudiva e t’incitava.

    “Corri Rigel, corri!”

    Sì, Rigel, corri, corri finché il mostro è distratto! Corri e pensa a tua madre! Corri e pensa all'abbraccio che ti dava! Corri e pensa che lo stai facendo per salvare lei!

Ed io corsi, corsi verso il mostro, stavolta, rapido mi abbassai a raccogliere la mia bacchetta, sfiorai la lama della spada il tanto che bastasse a tagliarmi appena il palmo destro, poi ripresi a correre, fermandomi solo quando giunsi in prossimità del braciere. Il Mangiamorte, intanto, aveva recuperato l’equilibrio, si era voltato e aveva messo a fuoco la nuova situazione: io iniziai a recitare, come un mantra, il nome di Salazar, cercai di bagnare, con le gocce del mio sangue che cadeva ancora non troppo copioso, i simboli runici dei punti cardinali disegnati a terra da mio padre, il giorno prima, pronunciai in gaelico i loro nomi, infine entrai nel cerchio di pietra in mezzo al quale c'era il braciere. L’ombra mi puntò la bacchetta addosso e lanciò uno Stupeficium, io mi gettai a terra invocando Habarcat, perché accettasse il mio sangue per alimentare il fuoco; il Mangiamorte si avvicinò, minaccioso, io nascosi la mano, perché non vedesse troppo presto che ero ferito e il sangue stava già nutrendo la debole fiammella verdina, che rapidamente riprese vita.

    Cresci, avanti! Proteggici tutti!

    “Che bel giochino ti ha insegnato tuo padre! Stupido, molto stupido! Stupido come te, che sei rimasto qui, invece di provare a metterti in salvo! Forse non hai ben compreso chi hai di fronte! Forse non hai ben compreso che non sono tutti dei rammolliti come tuo padre! I veri Slytherin, sai, insegnano la disciplina agli stupidi mocciosi nell'unica maniera in cui va insegnata: Crucio!”

Nello stesso istante, immersi completamente la mano nella Fiamma, una fiamma fredda che non ustionava, legandomi intimamente a lei, fino oltre alla morte se fosse stato necessario: era pericoloso toccarla, evocazione mortale e maligna di Habarcat, ma solo così potevo assicurarmi che nulla potesse staccarmi da lei, impedendomi di portare avanti il mio piano, folle e disperato. Una volta unito a lei, infatti, non sarebbe importato se avessi perso i sensi, per colpa del dolore, perché il mio sangue avrebbe continuato a fluire lentamente, fino all’ultima goccia, alimentando la fiamma e proteggendo tutti gli altri: attraverso la ferita, il fuoco sarebbe penetrato dentro di me, avrebbe assorbito la mia energia, mi avrebbe consumato, mangiato, rendendomi più debole, a mano a mano che lui diventava più forte, fino a spegnermi per sempre. A modo suo, mi avrebbe protetto da colpi mortali ma, ancora piccola e debole, non poteva impedire che subissi i colpi del Mangiamorte, per questo sentivo violento il dolore della “Cruciatus” che entrava in me, sotto forma di terribili aghi incandescenti, a torturare ogni parte del mio essere: avevo le lacrime agli occhi dal dolore, non credevo che potesse essere così, terribile, inesorabile, straziante, ma non potevo fare altrimenti, non c'era altra scelta, non potevo difendermi in alcun modo, pregai soltanto, con tutte le mie forze, di riuscire a resistere, estraniarmi, accettare.

    “Se razionalizzi il dolore, Rigel, se trovi una giustificazione a esso, se arrivi ad accettarlo vedendolo come tramite per ottenere ciò che ti prefiggi, puoi contenerlo: prendere le Rune è doloroso, ma se ti concentrerai sul percorso che hai compiuto e superato, se sarai desideroso di apprendere ancora, giustificherai con te stesso quel dolore e riuscirai a sopportarlo! Le Rune ti aiuteranno ad affrontare tutte le prove della vita con questo spirito: nulla ti sembrerà troppo, mai!”

Mio padre mi aveva fatto spesso quel discorso, ma i Riti del Nord prevedevano sempre prove che fossero alla portata delle nostre reali capacità, in un dato momento della nostra vita: quello che stavo provando io, invece, andava ben oltre il mio limite di sopportazione.

    L'hai desiderato tu, Rigel, l'hai voluto tu, l'hai scelto tu: pensa al bene dei tuoi, non cedere!
   
Iniziai a urlare chiedendo aiuto, sperando che qualcuno, per sbaglio, mi sentisse, ma non era possibile, eravamo lontani, soli, ed io non avevo già più le forze nemmeno per piangere. Il Mangiamorte si avvicinò, la Fiamma si fece più alta, rivelandosi ai suoi occhi: la mia paura, infatti, la rese talmente potente e folgorante da impossessarsi di me fino a tutto il polso.

    “Maledetto, sei riuscito a riaccenderlo! Crucio!”

Mi accucciai ancora di più, sempre più debole, la Fiamma ormai illuminava di una luce verde-azzurra il mio pallore cadaverico estendendosi fino al gomito ed io, infine, pazzo di dolore, scoppiai a ridere.

    “Torturami quanto vuoi, Mangiamorte, non puoi staccarmi da qui! Sei così stupido da non averlo ancora capito? Io ti ho vinto! Darò tutto il mio sangue, morirò persino, ma i tuoi amici non entreranno mai! Sei solo, solo contro una schiera di Aurors che difenderanno il Ministro fino all’ultimo! Solo contro la Confraternita, che farà scempio di te, appena scoprirà, e lo scoprirà presto, che cosa mi stai facendo. Ti conviene nasconderti e provare a scappare, non ti resta molto tempo!”

Forse l'aveva capito anche da solo, lo vidi alzare il viso verso il cielo, guardai anch’io, sopra la foresta sembrava percorso da numerose scie rossastre simili a stelle cadenti: avevo letto che i Mangiamorte si manifestavano così, poco prima di materializzarsi e seminare morte e distruzione, ma ormai non importava, non sarebbero riusciti a materializzarsi a Herrengton, si sarebbero mossi per ore attorno a noi, senza però riuscire a vederci, né a trovare un varco per raggiungerci.
   
    “Al posto tuo avrei paura... Dove ti nasconderai? Perché se riuscirai a salvarti da noi, poi sarà il tuo Signore a darti la caccia! Quanto pensi sarà incazzato con te, quando saprà in che modo, e da chi, sei stato giocato? Quanta disciplina, quante Cruciatus, pensi ti costerà il tuo fallimento?”
    “Al posto tuo, io penserei piuttosto a risparmiare il fiato, stupido moccioso! Crucio!”

Nel dolore, folle, continuai a ridere: ero riuscito a mandare a monte il suo piano, lo capivo dalla crudele determinazione con cui mi faceva del male, dovevo solo resistere, ora, presto sarebbe finita, presto avrebbe capito di potersi salvare solo deponendo la spada e la maschera e mescolandosi di nuovo agli altri invitati, come se niente fosse, lasciandomi lì, da solo. Quanto a me, forse papà mi avrebbe trovato prima che fosse troppo tardi, avrebbe mandato via rapidamente gli ospiti, avrebbe esteso di nuovo su Herrengton gli incantesimi che la rendevano inaccessibile, quelli che aveva dovuto togliere per permettere agli altri di partecipare alla festa. La sicurezza di aver messo in salvo i miei, mi dava fiducia anche riguardo alla mia sorte, soprattutto quando sentii la sua ultima Cruciatus, pur feroce, durare molto meno delle precedenti. Avevo, però, sottovalutato l'inesorabile e feroce sadismo del criminale che avevo di fronte. All'improvviso, infatti, senza udire parole, dalla punta della sua bacchetta uscì un’enorme frusta di fuoco che venne ad abbattersi su di me: privo di forze, cercai invano di farmi scudo con la Fiamma e un patetico Protego, ma quella diavoleria, di cui nemmeno mio padre mi aveva parlato mai, m’investì completamente, provocandomi un inferno di dolore che mi dilaniava da dentro, in tutte le parti del corpo, nessuna esclusa, senza che però mi uscisse del sangue.

    Salazar, aiutami! Fa che qualcuno si accorga che sono sparito! Fa che qualcuno passi di qui, anche solo per sbaglio! Fa che qualcuno venga a salvarmi!
    Io non voglio finire così, io non voglio finire così! Io non voglio morire! Io non voglio morire...

    “Come vedi, Rigel Sherton, i miei non sono inutili giochini stupidi come i tuoi! Resta qui, con la tua preziosa Fiamma, piccolo, patetico stolto, e muori consapevole che il tuo sacrificio è stato inutile, perché per tuo padre, per la tua famiglia, per la tua gente era comunque già finita prima ancora che nascessi! Anche senza gli altri, là fuori, io non sono solo! Addio, salutami l'inferno!”

Mi piegai a terra, come un sacco vuoto, preda di dolori violenti, mentre i passi del Mangiamorte e la sua risata gelida si allontanavano da me, non verso la festa, come immaginavo, ma sulla pietra del cortile, diretto, con la spada, dentro la torre: il dubbio che fosse vero, che non fosse solo, che potesse compiere qualche altra malvagità, mi travolse, ma non potevo fare più niente. Tutto intorno a me cadde improvvisamente il silenzio. E il freddo. E la notte.
   
***

   
Rodolphus Lestrange
Herrengton Hill, Highlands - mar. 21 dicembre 1971

Avevo notato Bellatrix rientrare dalla terrazza con il solito ghigno beffardo, e Sherton, turbato, parlare evasivo con Black, allontanandosi poi con lui, misterioso: mi ero guardato attorno, tutti erano presi da chiacchiere e balli, capii che era finalmente giunto il momento di agire. Indifferente, ero scivolato tra gli invitati presenti nel salone, mi ero avviato nel giardino, allontanandomi circospetto, avevo rasentato i muri, nell'oscurità, diretto alla porticina più piccola che si apriva a poca distanza dalla nicchia di Habarcat, immettendo di nuovo nel castello. Non c'era modo, per chi non avesse sangue Sherton, di toccare direttamente la Fiamma senza restare colpito da qualche antica maledizione di Salazar, quindi immaginavo che non ci fossero sistemi di sicurezza che bloccassero quella stupida porta: in effetti, era addirittura aperta. Ghignai per l'ingenuità congenita di ogni singolo membro di quella famiglia, a volte non sembravano nemmeno veri Slytherins, incapaci com'erano di comprendere e prevedere quali inganni, e di quale complessità, i loro nemici potessero ordire alle loro spalle. O magari erano talmente arroganti da scadere nella più sciocca stupidità. Mi guardai attorno, la sala era rischiarata solo dalla luce bassa e rossa di alcuni bracieri, gli stessi accesi per la Cerimonia del matrimonio, mentre Habarcat era già stata ricollocata dentro la sua nicchia, di là dei tre archi di pietra, nascosta dietro i tendaggi: m’intrufolai nel sacello, senza prestare particolare attenzione, perché se anche qualcuno fosse entrato e mi avesse visto, non avrebbe pensato avessi intenti disdicevoli, qualsiasi Slytherin presente a quella festa, infatti, prima di andarsene, avrebbe tentato di avvicinarsi, mosso da curiosità, attratto da quell'oggetto carico di fascino e mistero, che la leggenda diceva essere stato portato fin lì da Salazar stesso. A me, però, della Fiamma, in quel momento, non importava niente, avrei avuto modo di osservarla quando fosse stata finalmente nelle mani del mio Signore: scivolai dietro di lei, avendo cura di non sfiorarla, controllai i mattoni del camino anneriti dai secoli fino a trovarne uno che potesse essere manomesso, presi la bacchetta, recitai un piccolo incantesimo che allargasse la fessura il tanto da poter costituire un nascondiglio e lasciai lì il regalo di nozze di Milord per Mirzam, un ricordo compromettente di certe notti passate insieme, qualcosa che avrebbe messo spalle al muro suo padre e avrebbe spaccato la sua famiglia, se la missione di quella notte non fosse andata completamente a buon fine e fossimo stati costretti a passare al piano alternativo. Richiusi il tutto, avendo cura che quel mattone, sebbene in modo discreto, saltasse all'occhio ben allenato di un Auror in cerca d’indizi, quindi, controllando che nessuno mi vedesse uscire, serrando deciso la bacchetta tra le pieghe della tunica per ogni evenienza, sgattaiolai fuori dal nascondiglio e mi avviai verso il fondo della stanza, per raggiungere gli altri, stavolta dal corridoio. Era stato allora che l'avevo visto: si stava allontanando dalla sua famiglia, che come sempre non si curava di lui, guardandosi attorno per assicurarsi che nessuno lo seguisse, io mi nascosi dietro una colonna per non farmi notare, in attesa di sviluppi a me propizi. Ero stato bravo e furbo, soprattutto intuitivo, quando avevo capito che non dovevo puntare direttamente alla mia preda, ma controllare quell'altro, il ragazzino, il rinnegato, Sirius Black, perché mi sembrava l'unica presenza in grado di distrarre la piccola Meissa, farle infrangere le regole, spingerla a opporsi all'ossessivo e noioso controllo di sua madre: li avevo tenuti d'occhio per tutto il giorno, dopo aver notato una strana complicità tra loro a Grimmauld Place, avevo visto come si guardavano a distanza, come si cercavano durante i balli e il banchetto, avevo riso del timido arrossire di entrambi quando, furtivi, i loro occhi s’incontravano.

    Che teneri!

Milord vedendoli sarebbe stato compiaciuto, sempre che non avesse per la bambina qualche altro violento progetto immediato: speravo di no, quel Sangue era troppo puro per essere versato prima di averne tratti tutti i benefici, non potevamo permetterci di sprecarlo con leggerezza. Secondo me, anzi, quei due ragazzini potevano essere un'ottima coppia su cui puntare per il futuro dei Purosangue e degli Slytherin: se volevamo crescere di numero e rafforzarci, dovevamo favorire unioni come quella, tra famiglie Slytherin e Purosangue ancora scarsamente imparentate tra loro, ci servivano unioni di sangue puro, prezioso e soprattutto sano, unioni finalizzate a ottenere figli fisicamente più forti e “stabili”, non le solite, basate solo sull'interesse economico, che preservavano da secoli le eredità, certo, ma svilivano la nostra forza, generazione dopo generazione. Dovevamo soprattutto essere più prolifici, per contrastare il vantaggio numerico della feccia: in quel senso, Sherton aveva capito cosa servisse alla nostra gente, e almeno in quello aveva fatto la sua parte, e ora, essendo io uno dei pochi che non aspirava a vederlo morto, mi auguravo che Milord lo riportasse sulla retta via, perché il suo aiuto e il suo potere erano più utili della sua morte.  Lasciai da parte pensieri al momento inutili e iniziai a seguire il ragazzino: non dovevo perderlo di vista, dovevo raggiungerlo, intuire le sue intenzioni e, se possibile, anticiparle. Black uscì in un giardinetto innevato ed io rimasi, ben nascosto, al caldo, a osservare la sua figuretta intirizzita che ammirava le stelle; poco dopo, Meissa Sherton si avvicinò rapida e furtiva, uscì dalla medesima porta, attraversò il giardino e s’immerse, ridendo con lui, nell'oscurità. Ghignai: che già fossero più svegli di quell'imbranato di Mirzam? Era possibile Immaginai la faccia di Alshain Sherton, se avesse scoperto che il figlio del suo migliore amico gli insidiava la preziosa figlioletta proprio sotto il naso! Risi di cuore. Poteva essere stata Walburga Black a lanciare ai pargoli un bell'Imperius, così da realizzare quanto prima le sue ambizioni dinastiche, ma ero convinto che stessero facendo tutto da soli: per certe finalità, infatti, i Black si sarebbero serviti del figlio più piccolo, molto più addomesticabile. Smisi di impicciarmi e mi mossi a poca distanza da loro, nel buio e nel freddo, senza seguire il loro percorso, perché mi ero accorto che si accendevano delle timide luci a terra, per la pressione dei loro corpi, pur leggeri, sulla neve, perciò mi tenni vicino alle piante, ai margini del sentiero, sperando che non si accorgessero della mia presenza. Giunti sulla terrazza a picco sul mare, mi ero nascosto lontano da loro, tenendoli sempre sotto controllo: con la coda dell'occhio avevo intravisto sull'altro lato, vicino alla base della torre, una figura maschile, probabilmente Lucius Malfoy, stando al fisico, “imboscato” con una femmina e mi augurai che quell'idiota non mi rovinasse la seconda occasione propizia di avvicinare e portar via quella dannata ragazzina; già qualche ora prima, infatti, avevo mancato il bersaglio. Quando esplosero i fuochi magici, mi calai meglio il cappuccio in testa e mi acquattai tra i cespugli, perché nessuno mi scorgesse, ghignai quando i due amanti mi passarono vicini per rientrare furtivamente nel castello e riconobbi in Narcissa Black la figuretta leggermente scarmigliata che seguiva Lucius: il mio sguardo sempre malizioso e attento, non poté fare a meno di notare che da sotto il mantello, tra i tessuti preziosi del suo vestito, faceva capolino un piccolissimo, malizioso inserto di pizzo che doveva essersi strappato durante gli assalti famelici di Malfoy e ora occhieggiava pettegolo e spudorato fuori posto.

    E bravo Lucius! Riceverò molto presto un invito per il tuo bel matrimonio riparatore!

Sogghignando, tornai a guardare i ragazzini, le mie prede erano finalmente sole, potevo confondere lui e prendermi lei, non mi avrebbe visto nessuno, inoltre il percorso che avevo alle spalle presentava una serie infinita di nascondigli perfetti in cui attendere, finché non mi fosse stato possibile smaterializzarmi con Meissa a Little Hangleton. Stavo uscendo dai cespugli per agire, quando la ragazzina si voltò, salì in punta di piedi e andò a scoccare un bacio in faccia a Black, poi lo baciò anche sulle labbra: sorpreso, mi rintanai di nuovo, divertito, chiedendomi se lui fosse una “mammoletta”, o fossero evidentemente vere certe storie sulle Streghe del Nord; magari era l'aria malsana di Herrengton o l'opera di qualche strano maleficio di Alshain, per evitare che qualcuno gli toccasse la sua bambina: si diceva che, quanto a perfidia e bastardaggine, Sherton non fosse secondo a nessuno, e non avevo motivo di non crederci. Smisi di ridere, m'imposi di non distrarmi più, la possibilità che ci fosse qualche maleficio nell'aria non era da sottovalutare, questo avrebbe spiegato le immagini che... No, non ci volevo pensare. Sollevai gli occhi verso il cielo, sopra la luminosità multicolore dei fuochi, dietro la torre, dovevano ormai esserci le scie rossastre dei miei compagni che venivano a darci manforte: dovevo sbrigarmi, non potevo permettermi che l'inferno esplodesse prima di aver messo le mani sulla ragazzina, dovevo evitare che durante gli scontri restasse in qualche modo coinvolta. Milord era stato categorico, la voleva viva e integra, per sondarle i ricordi personalmente. Inoltre la buona riuscita della missione si basava sulla sorpresa, perché se Sherton avesse intuito un pericolo, avrebbe lottato come una tigre per difendere non se stesso ma, appunto, i figli. Mi preparai di nuovo a colpire, Meissa alzò gli occhi verso la torre, indicò qualcosa col dito a Black, con cipiglio severo e allarmato, poi si mise a urlare: entrambi scapparono, io uscii dal mio nascondiglio e vidi in cima alla torre due figure che stavano duellando. Evidentemente gli altri erano già entrati nel castello, il piano aveva subito un'accelerazione che non capivo, ma poteva ancora procedere come previsto, se fossi riuscito a evitare che i ragazzini attirassero l'attenzione degli altri: urlando in quel modo, infatti, qualche Elfo poteva sentirli e dare l'allarme, rovinando tutto, per questo era necessario che non indugiassi oltre. Li inseguii nel buio, ripensando al piano che avevo rielaborato nelle ultime ore: dovevo “schiantare” la bambina prima di prenderla, dovevo evitare che mi guardasse negli occhi, mi aveva fatto qualcosa di strano, prima, quando mi aveva toccato o guardato, dovevo evitare che si ripetesse. Rabbrividii, cercai di reprimere la sensazione angosciante che mi aveva travolto durante il pomeriggio, rendendomi incapace di ultimare rapidamente la missione: la punizione di Milord non sarebbe stata piacevole se avessi fallito, eppure, di nuovo, ripensai turbato a quanto mi era successo.

*

poche ore prima

Stavo facendo lo stupido con alcuni amici, accanto alla porta che dava sul giardino, sbeffeggiando come mio solito lo sposo e ricordando a Pucey che doveva pagarmi una scommessa che risaliva a circa dieci anni prima: fin dalla prima volta che l’avevo vista seduta al tavolo di Serpeverde, poco lontano da me, infatti, avevo detto che quell’insolente ragazzina irlandese aveva puntato il giovane Sherton e, in un modo o nell'altro, sarebbe riuscita a farsi sposare da lui. Quel giorno eravamo tutti lì, a ridere, ad approfittare della generosa ospitalità del padre dello sposo, e a festeggiare, dopo appunto dieci anni da quel giorno, il compimento dei suoi piani, sfruttando l'ingenuità di quello stolto, che pareva nato per farsi rigirare come un calzino da tutti. Walden alle mie parole scoppiò a ridere come sempre, Augustus manteneva la solita faccia da schiaffi impenetrabile, probabilmente non condivideva il mio atteggiamento irridente, Rabastan beveva e non mi filava, tutto preso, da un po’, da una ragazzetta dai capelli rossi mai vista, Steven cercava di schermirsi, perché, di pagare, come al solito, non aveva alcuna voglia. Quando vidi avvicinarsi Jarvis Warrington, cercai di farmi serio, sicuro che fosse venuto a riprenderci, per l'ennesima volta, come aveva fatto, a suon di occhiatacce, per tutto il banchetto, suscitando ancora di più la mia ilarità: di tanti presenti, quel damerino era l'unico che non mi fosse mai stato in grazia, lo sapevamo entrambi e sapevamo entrambi anche quale fosse il motivo. In quel momento, però, desideravo che si fermasse con noi, volevo mi sentisse dire che avevo intenzione di assentarmi, di lì a poco, per un bel pezzo, per imboscarmi dietro a una siepe con qualche gentile signora: conoscendolo, non solo mi avrebbe creduto, ma si sarebbe tenuto alla larga da me, per evitare di trovarsi sulla linea di tiro di mia moglie, quando mi avesse scoperto. In realtà, nei miei progetti c'era ben altro: parlando con i ragazzi avevo sempre tenuto d'occhio il giardino e, da qualche minuto, mi ero accorto che la piccola Meissa era a dir poco esasperata dal suo biondo cavaliere e dalla ferma sorveglianza di sua madre e sembrava ormai decisa ad allontanarsi furtivamente per raggiungere il suo adorato principino Black. Non potevo farmi sfuggire quell'occasione, finora l'unica, di attuare il mio piano. Avevo sceso baldanzoso e indifferente le scale, fingendo di puntare il buffet, quando la ragazzina, forse sentendosi seguita, si era voltata di colpo verso di me, avevamo incrociato gli sguardi e sul suo volto si era formata un’espressione turbata e carica di domande; io avevo cercato di apparirle il meno inquietante possibile, le avevo addirittura fatto un sorriso e mi ero portato l'indice al naso, per prometterle che avrei mantenuto il suo segreto, non avrei fatto la spia. Non dovevo averla convinta, però, perché, sospettosa, aveva desistito dai suoi propositi, si era mischiata di nuovo tra gli invitati ed era rientrata nel salone: furioso con me stesso per averla spaventata, andai a farmi versare una generosa porzione di Firewhisky. Dovevo essere più accorto, non potevo permettermi che andasse a lamentarsi di me con qualcuno, forse non era la prima volta, quel giorno, che si accorgeva che la tenevo d'occhio, che la fissavo con insistenza, forse suo padre e persino suo fratello l'avevano messa in guardia da me.

    Come dar loro torto? Tutti mi conoscono...

Alla fine, ghignando, mi rilassai, continuando però a controllarla a distanza: per un po' rimase nel salone, guardò a lungo Regulus giocare a scacchi con dei ragazzini, poi aveva osservato annoiata i giovani che ballavano, in particolare Lucius e Narcissa che catalizzavano su di sé le attenzioni e i complimenti di tutti, mettendo spesso in secondo piano persino gli sposi. Rigel, il secondogenito, al contrario, non sembrava apprezzare molto quella vista, era nervoso e tendeva a sparire spesso; gli sposi erano talmente presi dal loro chiacchiericcio e dalle loro risate innamorate che si erano isolati, indifferenti a tutto quello che capitava loro attorno; Alshain cercava di sottrarsi, invano, all'invadenza di Lady Walburga, mentre sua moglie si divertiva con le chiacchiere del novello consuocero, pur tenendo sempre d'occhio la figlia. Quando il giovane Emerson ripartì alla carica, istigato dal padre, per chiedere di nuovo a Meissa di ballare, io mi tenni pronto: si capiva lontano un miglio che lei non lo sopportava più, ma sottoposta allo sguardo severo di sua madre, alla fine, l'aveva seguito con l'entusiasmo di un condannato al patibolo, poi, però, si era spinta via via sempre più vicino al giardino, per sottrarsi agli occhi di sua madre e liberarsi così finalmente di quell'opprimente damerino. Mi mossi di conseguenza, sicuro di riuscire a cogliere l'occasione propizia: mi nascosi per bene tra i cespugli, in un punto riparato che mi sembrò essere sulla traiettoria di fuga più probabile di Meissa, interessato a spiare la conversazione tra i due giovani Maghi del Nord, e pronto a tirar fuori le mie conoscenze di Erbologia se qualcuno si fosse chiesto che cosa ci facessi lì.


    “Ti ringrazio, William, ma sono stanca, e vorrei starmene un po' da sola, per favore... ”
    “Non ti chiedo più di ballare, promesso, fanno male i piedi pure a me! Resto qui con te, però, non ti lascio da sola, così poi torniamo indietro insieme e ti prendo un succo di zucca... ”
    “No, voglio restare qui: sono stanca e mi fa male la testa, ho bisogno di stare da sola.”
    “Ma è pericoloso!”
    “Pericoloso? Salazar, Emerson, sono a casa mia, ricordi? Che cosa vuoi che mi capiti?”
    “Tua madre non vuole che resti da sola, nemmeno se questa è casa tua, è per questo che ti ha affidata a me! E per questo se ti dico una cosa mi devi ubbidire! Sono anche più grande di te!”
    “Che cosa? Io ubbidire a te? Ho già un padre, una madre e due fratelli maggiori, William “piattola” Emerson! Ti ho già sopportato pure troppo, per far contenti tutti! Adesso basta! Vattene e lasciami in pace! E guai a te se fai la spia con mia madre, ti giuro che non ti conviene!”

Ridevo tra me, sentendo con quale impeto Slytherin la mocciosa avesse messo a cuccia quel ragazzino invadente; lui non era stupido né ottuso, anzi, ma era troppo opprimente, crescendo doveva cambiare atteggiamento con le femmine, altrimenti il suo piacevole aspetto non gli sarebbe servito a niente, poteva giusto annoiarle o farsi picchiare da loro: e magari gli sarebbe pure piaciuto... Ghignai. Meissa rimase lì, turbata e stizzita, dall'altra parte del mio stesso cespuglio, a strappare i petali di una rosa, Emerson si allontanò, offeso, diretto al tavolo delle bevande, non prima di averle rivolto un poco elegante “saluto” in gaelico, che avevo imparato a riconoscere frequentando Mirzam; io ritornai a concentrarmi sul piano e mi preparai all'attacco. Mi guardai attorno: eravamo abbastanza isolati, lei non mi vedeva ed io non vedevo lei, ma come io potevo sentirla, lei poteva sentire me; iniziai a sussurrare attraverso le foglie, con la mia voce più suadente e gentile, bassa, una piccola nenia apparentemente innocua, in realtà malevola, capace com'era di coinvolgere il pensiero di una persona giovane e debole per abbattere le sue difese e portarla verso di me: volevo che mi seguisse a distanza, verso un punto poco visibile. Come previsto, la nenia s'impresse rapida nella sua mente: il corpo seguiva automaticamente colui che l'aveva sussurrata, mentre il cervello era impegnato a canticchiare ossessivo la melodia, senza avere più percezione di che cosa stesse accadendo tutto attorno a sé. Mi fermai, per ammirare l'oceano sotto di me, come sottofondo la musica che arrivava ormai da lontano, dalla sala, coperto dall'ombra di una delle massicce torri di Herrengton, svettante verso il cielo: poco dopo Meissa mi fu di fronte, silenziosa, vagamente assente, nel punto più riparato della terrazza, invisibile dal salone o dalla tenda in giardino. Finsi di non curarmi di lei, di non aver nemmeno notato la sua presenza, tutto preso ad ammirare le rose fiorite magicamente, le più belle che avessi mai visto: solo dopo un po' mi voltai.

    “Una rosa per voi, Mademoiselle, bellezza donata alla bellezza... ”

Porsi la sinistra verso di lei, confusa mi guardò senza capire, osservò la rosa che le stavo porgendo, bianca, infida offerta di pace: non era stata colta dal suo giardino, l'avevo portata dal mio, dopo averla recisa e avere immerso il suo tenero gambo senza spine per una notte intera in una pozione che doveva penetrarle nel sangue attraverso la pelle, rendendola più docile e debole. Non potevo né volevo usare dei metodi brutali su di lei, era piccola e non sapevo quale potesse essere l'effetto, sulla sua mente, di una maledizione come l'Imperius finché era protetta da Habarcat: se avessi perduto o rovinato i suoi ricordi, infatti, Milord se la sarebbe presa con me. La ragazzina, però, non ubbidiva, non si decideva a prenderla, sembrava impietrita: la guardai, era attratta e al contempo spaventata da qualcosa, dalla mia mano, anzi no, dall'anello che portavo sulla mano sinistra, lo guardava come se lo conoscesse, turbata, benché non ne capissi il motivo, non avevamo mai avuto nessun tipo di rapporto fino a quel momento.

    A meno che...

Mi fissò senza vedermi, pur irretita, non la stavo controllando e forte era il rischio che provasse a fuggire: dovevo impedire che accadesse, che aprisse bocca e chiedesse aiuto. Innervosito e incauto, benché mi fossi ripromesso di non compiere gesti apertamente ostili o minacciosi, finii col prenderle la mano con forza, anzi, le arpionai deciso il polso con la mano destra e subito maledissi la mia inettitudine, perché la nenia smise di colpo di farle qualsiasi effetto. Era tornata pienamente in sé, io cercai di cambiare rapidamente atteggiamento, mostrandomi gentile e preoccupato, dovevo farle credere di averla afferrata per non farla cadere.
   
    “Che succede, Meissa? Vi sentite poco bene? Perché non mi rispondete?”
    “Che cosa ci faccio qui? Perché mi tenete la mano? Lasciatemi milord!”
    “No, calmatevi, non abbiate paura di me, non ne avete motivo! Vi ho visto arrivare fin qui sovrappensiero e pallida, sembravate sul punto di svenire e... ”
    “Io... io non ho paura di nessuno, Lestrange! Io... io non voglio nulla da voi, voglio solo andarmene!”
    “E allora fatelo, se ci riuscite... ”

Lo dissi quasi ghignando: non credeva alle mie recite e altri metodi “leggeri” ormai erano inefficaci, non c'era più tempo da perdere, tanto valeva passare subito alle minacce e farla finita: in genere bastava un’occhiataccia per ridurre le prede al silenzio, lei però non s'intimorì, anzi, mi guardò ancora più furibonda, fissando minacciosa alternativamente i miei occhi e la mia mano, che ancora teneva la sua, le mie dita forti che sfioravano impertinenti le sue Rune delicate. Non capiva come avesse fatto a finire lì, con me, e questo la turbava, ma non provava nei miei confronti un vero timore, non era come le mie abituali, patetiche, vittime, pronte a scendere a compromessi di qualsiasi genere pur di salvarsi, lei mi fissava come se fossi un'insulsa nullità. Conoscevo quello sprezzo, quell'orgoglio, quell'indomabilità, il pensiero di occhi altrettanto alteri mi andò al cervello e mi fece fremere: quella ragazzina non sapeva ancora cosa fossero il vero dolore e la vera paura, e per un attimo invidiai Milord, perché glielo avrebbe fatto scoprire. Doveva essere un'esperienza affascinante sottometterla, plasmarla nella verità nitida del dolore: spezzare il suo coraggio incosciente, rompere l'illusione della sua superiorità e invincibilità, spegnere la luce del suo sguardo puro, ammantare di oscurità la sua mente, aprendola al sottile piacere del dolore e dell'inferno. Quel piacere, quell'appagamento mentale che Milord riservava solo a se stesso, doveva essere così intenso da risultare perfino più travolgente di quello che accompagna il possesso fisico. Era per questo, perché m’insegnasse quella Magia sottile ed estrema che avevo scelto di seguirlo, volevo che le persone, quelle che non mi avevano mai preso sul serio, per lo scarso rispetto che anche mio padre nutriva nei miei confronti, tremassero di fronte a me, consapevoli dell'incubo in cui li avrei travolti, se solo avessi voluto; per questo, giorno dopo giorno, avevo lottato, mi ero affermato con innumerevoli sacrifici di sangue, e ora che Milord mi riteneva il migliore tra i suoi, speravo mi avrebbe guidato verso i segreti più oscuri della vera Magia proibita. Meissa Sherton sarebbe stata il lasciapassare per tutto questo. Non potevo assolutamente lasciarla andare.

    “Che cosa volete da me?Lasciatemi andare o sarà peggio per voi!”
    “Da voi, voglio solo ciò che mi appartiene, Meissa, nulla di più: vostro padre vi ha dato qualcosa che appartiene a me. Ho visto che vi piace il mio anello, lo conoscete forse? Vi sembra familiare? Perché non mi fate vedere il vostro, qualcosa mi dice che si assomigliano...”
    “Lasciatemi! O mi metto a urlare!”
    “Dammi l'anello, stupida ragazzina! Non farmi arrabbiare, o sarà molto peggio per te!”
   
Un colpo di vento mosse il tessuto del mio mantello e della mia tunica andando a scoprire il mio braccio: Meissa scivolò con lo sguardo dall'anello alla mia mano, risalì lungo il mio corpo, fissò la mia pelle, percepì il nero che si agitava bramoso di sangue, il mio oscuro segreto. Allora vidi comparire il terrore vero nel suo sguardo: conosceva il significato del Marchio, conosceva Milord, sentiva quanto fosse vicino e i suoi occhi urlarono tutta la sua paura di morire. Approfittai del suo terrore e strinsi più forte la destra sul suo polso, gli occhi fissi nei suoi, gettai a terra la rosa ormai inutile e puntai su di lei la bacchetta con la sinistra, sussurrai Legilimens per cercare nella sua mente tracce di quello che cercavo, le tracce della verità, e intanto indebolirla ancora di più, per poterle strappare l'anello e portarla via senza problemi. Era incredibilmente semplice muoversi nei suoi ricordi, non trovai alcuna resistenza, era così indifesa e inesperta che non potevo crederci: perché Sherton era stato tanto sciocco da affidare quel compito gravoso a una ragazzina incapace di reagire? Rividi, sotto forma di flash scoordinati, alcune immagini di quella lunga giornata, poi via via, sempre più lontano nel tempo, ripercorsi tutte le espressioni dei volti di suo padre e di suo fratello, scene familiari di ogni tipo, tutte stucchevolmente amorevoli; io le ripetevo sempre e solo la stessa richiesta, ancora, ancora, invano, le ripetevo sempre la stessa parola:
   
    Anello...

Preso com'ero da quella ricerca spasmodica, da quella folla d’immagini che alla fine iniziavano a ritrarre Mirzam e suo padre, il famigerato studio di Alshain Sherton, la fiamma di Habarcat, la fedina d'argento che si completava con uno smeraldo, la luce di una giornata di fine estate, non mi accorsi che, priva di forze, la bambina stava per scivolare a terra. Per non cadere, Meissa cercò di allungare anche l'altra mano verso di me, per sorreggersi al mio braccio, e finì col toccarmi proprio sul Marchio Nero: le sue unghie affondarono appena un po' nella mia pelle, facendo sgorgare una piccola stilla di sangue, proprio dalla bocca del Teschio. Come sottoposto a una scarica diretta nel cervello, un dolore terribile s’impossessò della mia testa, mi sembrò che qualcuno facesse confusione nei miei pensieri: davanti ai miei occhi sparirono le immagini di Herrengton, che carpivo a Meissa, sostituite da ombre indefinite, da sensazioni di paura e oscurità, la mia mente si riempì di flash senza senso, di figure fatte di buio, di dolore, di urla soffocate, di fame e di sete, di pazzia e disperazione, di totale infelicità. Cercai di recuperare il contatto con la realtà, provando a fissare di nuovo gli occhi nei suoi, ma non riuscivo più nemmeno a vederla, ero nel buio più completo, in una specie di prigione soffocante, non riuscivo a muovermi, attaccato com'ero ai ceppi, urlavo, desideravo solo fuggire, morire, mi sentivo braccato, spaventato, disperato, solo, con il cuore che pulsava a mille, pronto a esplodere, benché non riuscissi a muovere neppure un passo. Non riuscivo ad allontanarmi da lei, ad aprire la bocca, a interrompere quel momento.

    Che cosa mi sta accadendo? Che cosa mi sta facendo?

Riuscii ad aprire la mano, il tanto che bastasse a lasciarla andare; Meissa, che si reggeva in piedi ormai solo per la mia stretta, scivolò a terra, finendo col graffiarmi il braccio e portarsi via un lembo della mia pelle: non vedevo niente, sentivo solo un dolore atroce, dove Milord mi aveva marchiato, cercai la ferita con le dita, temevo, folle, che il Marchio non ci fosse più, invece di colpo il nero divenne rosso sangue, vidi di fronte a me la bocca del teschio ghignare, allargarsi, nutrirsi della mia pelle, sempre di più, fino al tessuto, fino ai muscoli, e poi più giù fino a divorarmi le ossa. Un fiume di sangue uscì dal serpente e mi travolse, mi fece annaspare, mi fece annegare. Urlai, ma la voce non usciva dal mio corpo, urlai più forte e infine riuscii a...

    Svegliarmi?

Col fiato corto e il cuore che pulsava impazzito, mi chiesi se fossi tornato in me o fosse un'altra allucinazione, mi guardai attorno, spaesato, non riuscivo a capire cosa fosse successo, quanto tempo fosse passato, quale fosse la realtà; davanti a me c'erano le siepi, dietro di me le forti mura della torre, attorno, da lontano, percepivo la musica, il braccio non mi faceva più male. Meissa era in piedi davanti a me, sembrava pienamente cosciente e decisamente ostile, per la mia mano che serrava ancora la sua, non pareva intenzionata a credermi mentre le dicevo che non avevo cattive intenzioni: gettai la rosa a terra e le dissi che mi dispiaceva, che mi ero sbagliato, che pensavo si sentisse poco bene, le lasciai la mano, poi mi mossi per superarla e lasciarla in pace. Lei restò presso la balconata, a osservare il mare. Che diavolo mi aveva fatto? Sembrava che la mia mente, per un tempo che non sapevo quantificare, si fosse divisa in due, e il mio Io più profondo avesse perso contatto con quello cosciente, gettandomi in una realtà che non era quella che stavamo vivendo, eppure non era meno vera… Anzi: sentivo che conteneva anch'essa una parte della mia vita. Fosse stata una Strega adulta, avrei pensato a un incantesimo oscura che non conoscevo, ma quella che avevo davanti era una ragazzina di appena undici anni: com'era possibile? Turbato, mi resi conto che me n'ero andato senza nemmeno aver avuto il tempo di Obliviarla, ma non mi rendevo nemmeno conto se c'era stato tra noi qualcosa che dovessi obliviare. Quale dei miei ricordi era vero e quale falso?  L'anello, che avevo visto nei suoi ricordi, era un sogno o esisteva davvero? Mi sentivo confuso, e la cosa peggiore era che non ero stato in grado di portare a termine il mio compito: per nessun motivo avrei voluto ripetere l'esperienza di avvicinare quella ragazzina inquietante, eppure non potevo andarmene da Herrengton senza averla catturata e portata via. Dovevo riprovarci, sì, dovevo farlo per forza, ma prima dovevo escogitare un modo per prenderla, senza che lei avesse la possibilità di posare i suoi occhi o le sue mani su di me.

*

Seguii i ragazzini nel buio dei corridoi, Sirius, in breve, era corso molto avanti, non c'era più contatto visivo tra noi, probabilmente non riusciva più nemmeno a sentirci, ed io non potevo andarlo a cercare, dovevo agire in quel momento, fare in fretta, perché quando si fosse accorto che Meissa non c'era più, sarebbe ritornato indietro a cercarla, e probabilmente non sarebbe stato solo. Rapido, gettai un Muffliato tutto intorno a noi, per sicurezza, poi colpii Meissa con un Incantesimo alle gambe, facendola cadere a terra: trattenni l'ansia che mi aveva colto, mi avvicinai, ma prima di controllare se si fosse ferita, e quanto, le scagliai addosso anche uno Schiantesimo, quindi mi accostai al suo corpo, immobile, steso sulla fredda pietra. Mi acquattai al suo fianco e la voltai: aveva battuto il naso e il sangue le stava uscendo copioso, aveva macchiato il pavimento e le stava sporcando il viso e il mantello; decisi di raccogliere un po' del suo sangue e allontanarmi per creare con esso delle tracce fasulle, ma prima dovevo farle un Epismendo per fermarle l'emorragia, poi raccolsi la rosa che le aveva donato Black e la strofinai sulla ferita, le sganciai la spilla che la fermava sul mantello, e mi allontanai per abbandonare quegli oggetti qualche metro più avanti, in prossimità di una porta, sporcai il pavimento con un po' di sangue, così da sviare le ricerche quando fossero venuti a cercarla. Quindi tornai indietro, pulii il punto in cui era caduta davvero e osservai meglio la ferita: a una prima indagine, il naso sembrava rotto, ma al momento non c'era tempo di riaggiustarglielo, avrei approfittato dell'attesa in qualche nascondiglio per farlo, se non altro perché non volevo che Milord mi chiedesse il motivo dell'aggressione, non doveva scoprire in alcun modo quanto era accaduto, o avrei perso la sua stima per aver avuto paura di una bambina. Senza indugiare oltre, la infagottai per bene nel suo mantello così che non mi sporcasse né lasciasse dei segni sui miei vestiti, poi me la caricai in spalla e mi avviai nella direzione opposta a quella di Sirius, arrampicandomi nel buio di una stretta scalinata che, probabilmente, saliva sulla torre del duello, alla ricerca di un rifugio, in attesa di potermi smaterializzare.

***

Orion Black
Herrengton Hill, Highlands - mar. 21 dicembre 1971

    Non può essere vero! No, Alshain non può essere davvero morto... non così, non lui, non a Herrengton!

    “Alshain! Gira quel dannato anello, Emerson! Chiama gli altri, fai qualcosa! Alshain!”

Emerson stava in piedi davanti a me, impietrito e pallido come un morto, incapace di spiccicare una parola o reagire in qualche modo, io, tornato indietro, lo scansai senza riguardi mandandolo a sbattere contro il muro, raggiunsi il mio amico e mi gettai a terra al suo fianco.

    “Alshain!”
    “Non c'è più niente da fare, Black! Non lo vedi? È morto!”
    “Io non sono un Medimago e nemmeno tu lo sei! Non ti sei nemmeno chinato a guardarlo! Non puoi saperlo! Gira quel maledetto anello o ti giuro, per Salazar, ti ammazzo con le mie mani!”
   
Non gli prestai più alcuna attenzione, tutto preso com'ero dal mio amico, immobile, a terra: la prima, rapida occhiata non mi rassicurò per niente, mi sembrava che non respirasse, aveva gli occhi semichiusi e una smorfia di dolore dipinta sul volto, provai a sentirgli la vena sul collo, ma non riuscivo a trovarla, gli strappai malamente il tessuto della tunica per raggiungere rapidamente il suo petto, vidi che la pelle e le Rune erano imperlate di fitte gocce di sudore già freddo, mi abbassai con l'orecchio a sentire il suo cuore, ma per quanto mi sforzassi, non percepii alcun battito.
   
    No, non ci credo, non è ancora detto... Non significa niente, assolutamente niente!

    “Maledizione Emerson! Hai girato l'anello? Voglio Fear qui, subito! Ora!”
    “Non ce l’ho, non l’ho messo per venire oggi! Cosa poteva succedere qui, me lo spieghi?”
    “Allora fa qualcosa, qualsiasi altra cosa! Vai dagli altri, chiamali! Cosa ci fai ancora qui?”
   
Non ci vedevo più dalla rabbia: e consideravano intelligenti quei dannati Corvonero? Poi mi venne un’idea, gli dissi di fermarsi, presi la mano di Alshain, gli sfilai l'anello e lo porsi a Emerson: sulle mani di un Mago senza Rune, come me, non era che un bel gioiello, ma lui... C'era solo una cosa che mi opprimeva più del pensiero che Alshain fosse già morto: il pensiero che ci fosse ancora una speranza e che noi la stessimo buttando via, perdendo la ragione come faceva Emerson, o per la nostra incapacità e impotenza, come nel mio caso.

    “Sei un Corvonero no? Dovresti avere un minimo di cervello! Usalo! Te le devo trovare io le soluzioni? Gira questo stramaledetto anello! E ti consiglio di muoverti o non rispondo di me!”

Mi assicurai che girasse l'anello come faceva Alshain, poi, sotto gli occhi sbigottiti di mio figlio, che era rimasto impalato a qualche metro da me, muto, preda del terrore e della disperazione, incapace di trovare il coraggio di avvicinarsi, iniziai a frugare tra le vesti di Sherton, alla ricerca dei famigerati sacchettini che portava sempre legate alla cintola: non ero un Medimago e non ero un Mago del Nord, ma ero da sempre un ottimo pozionista, conoscevo l’antidoto universale, quindi... Se c'era ancora una speranza, forse potevo essere meno inutile di quanto temessi... Se davvero mia nipote aveva osato… se davvero tutto questo era colpa di un veleno… io forse c’era ancora qualcosa che potevo fare...

    “Dannato scozzese, hai sempre qualcosa di utile con te! Non mi deludere proprio stavolta! Dove lo tieni?”
    “I sacchettini... di solito li teneva dietro, a destra: era lì che li portava quest'estate!”

Guardai Sirius, il mio volto probabilmente non tradiva emozioni, ma ero fiero di lui, del suo spirito di osservazione, perché aveva ricordato un dettaglio utile che a me, preda dell'angoscia, in quel momento sfuggiva: era mio figlio, non c'erano dubbi, sapeva mantenere un minimo di controllo anche nella disperazione più profonda, proprio come faceva un bravo Black! Avrei voluto baciarlo, pieno di orgoglio e felicità, perché, dopo essere riuscito, con difficoltà, a sollevare Alshain e a girarlo sul fianco, messa mano al sacchettino, avevo trovato proprio quello che cercavo: l'avevo visto spendere una fortuna, pochi giorni prima, per comprare un paio di rari Bezoar e sapevo che ne avrebbe portato almeno uno con sé, quel giorno, per ogni evenienza, avendo in casa Lestrange e Malfoy e un ospite scomodo come il Ministro. Feci cenno a Sirius di avvicinarsi, lui dapprima parve esitare, l'espressione tesa per le lacrime trattenute ormai a stento, poi, deglutendo a fatica, nervoso, annuì e si chinò accanto a me.

    “Devi aiutarmi... La vita del tuo padrino può dipendere da te, Sirius.”
    “Vita? Allora non è morto?! Alshain non è morto?”

Lo fissai, vidi nei suoi occhi lo stesso sconvolgimento e la stessa disperazione che sentivo in me, mi fece male vederlo soffrire, e ancora di più essere incapace di consolarlo: non conoscevo le parole giuste da dirgli, né avevo certezze con cui rassicurarlo, sapevo che Alshain al mio posto avrebbe fatto “il padre”, l'avrebbe stretto a sé, gli avrebbe detto di non avere paura, che c'era sempre, anche nei momenti più bui, una speranza, ma io non sapevo dirgli tutto questo, non con l'amore che pure sentivo dentro di me; potevo solo dirgli, asetticamente, quello che mio padre avrebbe detto a me, che “un Black non deve mai lasciarsi andare”, che non c'era tempo da perdere, che dovevamo trovare Meissa e Rigel, ma, pur razionali e giuste, in quel momento, quelle parole non erano sufficienti. Alshain, al mio posto, gli avrebbe mentito, pur di non vederlo soffrire; io stesso, tendendo quel braccio, stringendo mio figlio a me, sarei riuscito per un attimo a soffocare il dolore, invece non ci riuscivo, una pietra in me mi portava a fondo, una gabbia di gelo m'imprigionava, inesorabile. Era tragico e assurdo, sì, assurdo: come padre, era mio compito anche sostenere i miei figli, non solo inculcare loro il culto del Sangue Puro o insegnar loro la Magia, dovevo aiutarli ad affrontare e apprendere la Vita, invece, in undici anni, per colpa delle mie scelte, delle mie paure, dei miei affari, non mi ero mai, nemmeno per un attimo, fermato ad ascoltare, a comprendere, come si parlava ai loro piccoli cuori, nemmeno al buio, in silenzio, quando non potevano sentirmi. Riuscivo a far loro una carezza, di nascosto, ma non riuscivo ad aprire bocca e dire quello che forse ancora desideravano e avevano bisogno di sentirsi dire da me: nonostante tutto il desiderio che avevo di rivederlo al ritorno da scuola, ero riuscito a sussurrare a Sirius, al buio, appena un "Bentornato... ". Il mio stupido orgoglio m’impediva di avvicinarmi a loro, come mi aveva impedito per anni di essere sincero e chiedere aiuto ad Alshain, l'unico che potesse capirmi: avevo sempre finto, anche con lui, di essere sicuro delle mie decisioni, mi ero mostrato sprezzante e arrogante, deridendolo per quella che chiamavo la sua debolezza verso i suoi figli, invidiandolo invece per gli occhi pieni d’amore con cui si rivolevano a lui.  E ora... Ora l'unico che avrebbe potuto insegnarmi la strada, era lì, a terra, probabilmente morto.

    Il mio migliore amico... il mio unico vero amico...

No, non potevo, non potevo cedere ai miei fantasmi, ai miei pensieri, alle mie debolezze, non sapevo se Alshain fosse davvero morto o fosse vittima di un incantesimo o di un veleno, ma di sicuro mi era stato affidato un compito importante: dovevo essere freddo e distaccato come sempre, per mio figlio, per Meissa e per Rigel, se avessi permesso al dolore di travolgermi, non saremmo mai riusciti a ritrovarli e invece, ora, questa era l'unica cosa importante. Dovevo evitare che Sirius perdesse la speranza.

    “No, non è morto, Sirius, ma è debole... Molto debole... Tienigli sollevata la testa, mentre io cerco di fargli inghiottire questo. Ecco bravo, così... Perfetto! Se, come temo, è stato avvelenato, con questo potremmo averlo salvato... ”
    “Avvelenato? Da chi? E lui ora si salverà? Si salverà di sicuro?”
    “Non sono un Medimago, Sirius, non lo so: ho visto persone riprendersi dal Vaiolo, da veleni e da fatture mortali, altri cedere per molto meno; ma se hai ascoltato il tuo precettore, sai che se somministrato in tempo, il Bezoar fa sempre il suo corso, poi spetta ai Medimaghi fare il resto... ”
    “Che cosa sta succedendo qui? ALSHAIN!”
    “SHERTON... per Salazar e per tutti i fondatori!”
    “NO!”
    “Che cosa? MERLINO SANTISSIMO!”

Dietro di me, sentii lo scalpiccio e le voci dei primi Maghi del Nord che accorrevano al richiamo dell'anello di Alshain: io non mi voltai, anzi pregai, tra me, che non ci fosse anche Deidra, perché non avrei retto davanti a lei, non ci sarei riuscito, davanti alle sue lacrime mi sarei bloccato e non potevo permettermi di cedere alla disperazione, alla paura che stavolta fosse tutto finito. Se era come pensavo, se mia nipote, quella maledetta, l’aveva avvelenato, stava agendo secondo un piano e quello doveva essere solo l'inizio: senza Mirzam e Alshain, con Meissa e Rigel scomparsi, poteva capitare di tutto, perciò non c’era tempo da perdere, dovevo muovermi subito!
   
    “Dobbiamo andare, Sirius, dobbiamo cercare Meissa: Alshain ci ha dato un compito, dobbiamo ritrovargliela, ricordi? Quando si riprenderà, sarà la prima persona che vorrà davanti a sé, e noi, qui, per lui, non possiamo fare più nulla; lasciamolo alle cure di sua moglie e della sua gente.”

Sirius mi guardò incredulo: doveva aver percepito in quegli ultimi mesi il forte legame che mi legava a Sherton e doveva immaginare quanto fosse difficile, anche per me, allontanarmi in quel modo, senza essere certo della sua salvezza, eppure anche lui sapeva che non avevamo scelta, anche lui temeva come me per Meissa. Concessi a Sirius di aspettare che Kelly ed Emerson sollevassero e deponessero Alshain su un mobile trasfigurato in lettiga, senza che nemmeno loro si pronunciassero sulle sue condizioni, ma quando il celebrante, Fear e altri tre anziani Maghi del Nord si fecero intorno per esaminarlo e sentii la voce di Deidra, tra le altre, che si affacciava dal salone sul corridoio, lo afferrai per un braccio e feci un cenno agli altri perché dovevamo subito riprendere le ricerche. Fear, liberato a malincuore da Crouch, prese uno specchietto e lo mise sotto il naso di Alshain, lo controllò, disse qualcosa che non compresi a un paio di Maghi più anziani, poi diede loro le spalle e si unì a me, Emerson e Kelly per aiutarci nelle ricerche. Rimase in silenzio quando mi raggiunse ed io non ebbi il coraggio di fargli domande, né di alzare gli occhi su di lui, per sondare la sua faccia impenetrabile e cogliere la verità; al contrario, mi misi a correre, velocemente, lasciando che la penombra del corridoio nascondesse le stupide lacrime che rigavano la mia faccia.



*continua*



NdA:
Ringrazio al solito per le letture, le preferenze, le recensioni, le mail ecc ecc. A presto.
Valeria


Scheda
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