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Autore: Willow Gawain    29/12/2010    6 recensioni
Hidel, contea di Northumberland, Inghilterra - 1852.
Quel villaggio era perennemente bagnato dalla neve, perennemente avvolto dal freddo, dal vento, dalle nubi. Non compariva sulle carte, ma la sua figura tanto piccola quanto antica era sempre lì, ad aspettare pazientemente. Come un mostro in agguato, come un fantasma dagli occhi spietati. Una volta entrati a Hidel, la legge del villaggio proibiva tassativamente di abbandonarlo. Una maledizione, un sortilegio, una stregoneria lanciata tempo addietro da Satana camuffato da vecchia strega.
Forse, però, c’era ancora una speranza per Hidel. E quando il primo degli Angeli, il Supervisore, varcò la soglia di quel villaggio costruito in modo perfettamente circolare, come un cerchio magico, il conto alla rovescia per l’Apocalisse di Hidel ebbe inizio.
«Ora aggrappati al mio braccio. Tieniti forte. Visiteremo luoghi oscuri, ma io credo di sapere la strada. Tu bada solo a non lasciarmi il braccio. E se dovessi baciarti nel buio, non sarà niente di grave: è solo perché tu sei il mio amore.» [Cit. S.King]
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 20: Persona significa maschera.

Buio assoluto e silenzio tombale.

Se l’Inferno esisteva veramente, allora doveva essere in quel modo. Una stanza enorme, le cui dimensioni non avrebbe saputo definire con certezza, completamente soggiogata dalle tenebre, senza che neanche un solo raggio luminoso riuscisse a penetrarle e donare quel minimo di coraggio necessario a stringere i denti e non arrendersi davanti al timore non delle tenebre, ma di cosa si annidava in esse.

E all’improvviso una luce.

Tutto prese forma: la sala, il palco, l’uomo che si ergeva con coraggio innanzi al suo pubblico. Un vecchio che dimostrava molti anni di più di quanti probabilmente ne possedeva. Un riflettore lo illuminava da capo a piedi, mostrandone le umili vesti, i capelli imbiancati e la barba incolta, gli occhi socchiusi, contornati di occhiaie scure e rughe, eppure vivi, attenti, splendenti di una speranza che neanche l’avanzata età era riuscita a far decadere.

Teneva i piedi ben puntati a terra, come se le scarpe consumate dal tempo gli si fossero ancorate al pavimento in legno; la fronte alta, lo sguardo intenso.

Alzò una mano e il silenzio che fino ad allora era stato quasi sacro sembrò improvvisamente non appartenere più alla sfera dell’esistenza. Con un semplice e regolare gesto, la Persona era stata capace di imporre se stessa su ogni altra cosa presente.

-Tutti sappiamo cos’è la bellezza- parlò con voce profonda, sicura. Un uomo che sa farsi ascoltare è un uomo che deve essere ascoltato –ma cosa significa “godere della bellezza”? Qualcuno in questa sala è capace di darmi una risposta?-

Probabilmente nessuno, e anche se qualcuno l’avesse saputo non avrebbe potuto esprimerlo perché, molto semplicemente, non esisteva. C’era solo Persona, lei e la sua domanda a cui solo lei avrebbe potuto e dovuto dar risposta.

Mosse un passo lento verso la propria destra, tracciando una linea curva sul palco, mentre l’intensa eppure gelida luce lo seguiva fedelmente, come un cane col padrone. Una mano dietro la schiena, l’altra all’altezza del petto, aperta.

La pelle era screpolata all’inverosimile a causa della fredda aria che avvolgeva il luogo, entrando dentro, fino in profondità, conferendo a quella domanda ancora irrisolta una pesantezza glaciale. Ormai l’attesa era diventata insopportabile.

-Godere della bellezza secondo molti è osservare un fiore, un colore. Per altri è lasciarsi avvolgere e trasportare da una melodiosa sinfonia. Per altri ancora è soffermarsi ad osservare con meticolosità i dolci e amati tratti della persona con cui condividiamo la vita. Ma è giusto fermarsi a questo?- un’altra domanda.

Egli giocava su quel susseguirsi istantaneo e potente di domande e risposte; non concedeva agli esseri di cui era oggetto di studio, più di quel dovuto attimo di appagamento nello scoprire la risposta all’ultima domanda.

–Godere della bellezza è anche soffrire. Osservando un colore o i giovani tratti della donna che amiamo, il nostro animo matura la consapevolezza che siamo mortali. Godere della bellezza non significa solamente ammirarne i colori e le forme, ma avvertire il profondo dolore della consapevolezza che un giorno le nostre membra decadranno, gli occhi perderanno vivacità, il cuore batterà con fatica, in una lenta e inesorabile discesa verso l’abisso-

Ancora nessun suono, nemmeno un sospiro.

Persona tornò sui suoi passi, facendo così finire sotto la luce del riflettore una sedia apparsa dal nulla, o meglio, apparsa dalle tenebre. Vi si sedette con fare stanco, tirando un sospiro dopo aver poggiato i gomiti sulle ginocchia. Con la schiena così piegata sembrava anche più vecchio di prima.

Movimenti lenti, i suoi, curati e ragionati. Ogni suo battere di ciglia era colto con attenzione, ogni volta che apriva la bocca per parlare, richiudendola subito dopo, il mondo sembrava dapprima trattenere il fiato per poi afflosciarsi con cocente delusione.

-Molte persone colgono questo ragionamento; esse si dividono in due grandi gruppi: i vinti e i non  vinti- riprese il discorso, stavolta con toni più sentenziosi ed estremisti –analizziamo i secondi, decisamente meno interessanti: essi comprendono quanto detto sopra e, consci della propria caducità, tentano di godere quanto più possibile della bellezza. Questi uomini hanno preso molti nomi nel corso del tempo: artisti, poeti, intellettuali, filosofi; tutti accomunati dall’amore e l’interesse verso l’interiorità dell’uomo e della natura.

Facciamo un salto all’indietro e torniamo ai primi. Essi non accettano di perdere quel poco di tempo che ci è stato messo a disposizione nella ricerca di un qualcosa che non è possibile conoscere. Preferiscono accontentarsi della bellezza intesa puramente in senso estetico. Ma fino a che punto una bellezza esteriore rispecchia una bellezza interiore, che è invece propria degli appartenenti alla seconda categoria?-

Un ragionamento lineare, preciso, che rispondeva a modo suo a molti perché, ma ciò non sembrava bastare. Una pesante atmosfera aleggiava, e ciò provocò una risata divertita in Persona, che riprese a parlare.

Il tono stavolta era alto, solenne, quella era la conclusione.

–L’uomo è nato come bestia, e la bellezza è affascinante anche per la sua capacità di farlo tornare tale. Il bello, a volte, coincide col malvagio-

 

E tutto finì così com’era iniziato: nel silenzio.

Le luci si alzarono illuminando tutto il teatro, il cui principale colore era l’oro. Le sedie vecchie, sporche, con la tappezzeria addirittura strappata in certi punti; i muri invasi dall’umidità e dalle crepe. Insomma, sembrava che tutto il plesso si tenesse in piedi per miracolo.

Persona era rimasto sul palco, in attesa di un applauso. Fece un inchino a mezzobusto mentre il silenzio veniva spezzato, stroncato, violentato dal battere di un unico paio di mani, quelle del solo spettatore in quel teatro di fantasmi.

Gli occhi di Persona si poggiarono su quelli celesti del biondino che era stato il suo spettatore, cogliendone immediatamente l’eterocromia nonostante questa fosse pressoché invisibile.

Il battere ritmico delle mani, l’espressione concentrata di chi ha seguito tutto il ragionamento, ma non solo: la leggera inclinazione delle sopracciglia, la mascella serrata, i gomiti poco lontani dal busto, tutto in quel giovane lasciava indovinare il suo stato d’animo: una cocente frustrazione.

Mentre Persona si incamminava per uscire dalla scena, Nathan si alzò.

Colse con mano pesante il proprio cappotto, indossandolo con movimenti meccanici. Faceva freddo lì dentro, o forse era solo una sua impressione?

D’un tratto si bloccò, e lì rimase, statico come il pendolo di un orologio scarico.

Il suo animo era mosso da una serie di emozioni contrastanti, un vero turbine di sentimenti, che doveva riuscire però a tenere a bada. Strinse i pugni, imponendosi di sopprimere l’ira.

Mentre usciva da quel luogo diventato ormai opprimente, venne investito dall’aria gelida di Terren, che però non aveva niente a che vedere con quella di Hidel. L’atmosfera era fredda, proprio come lui in quel momento.

Si dice che la rabbia faccia ribollire il sangue nelle vene, ma per lui non era mai stato così. Quando si adirava, lui non sentiva mai caldo. Piuttosto avvertiva un incredibile freddo; era come se il sangue gli si raffreddasse all’improvviso, obbligandolo ad una razionale e glaciale riflessione su ogni minima cosa, persino su questioni assolutamente inutili.

Per questo era pericoloso quando era arrabbiato: niente gli sfuggiva. Un’ottima macchina da guerra, a detta di Marcus.

E le parole di Persona erano state talmente azzeccate che lo avevano colpito nel profondo della sua mente già scossa per la propria dimostrazione di debolezza appena avuta con Annlisette. Già, quella serata era cominciata male, e stava andando sempre peggio.

 

Nonostante abitasse a Terren da diversi anni, Nathan non aveva mai colto certe sfumature di quella città. Ma ora, con la mente congelata, che come al solito gli imponeva una fredda compostezza davanti alle situazioni complicate, riusciva a cogliere nuove immagini, nuovi volti, e capiva che forse lui, in realtà, di Terren ne sapeva davvero poco.

Aveva sempre pensato che la notte avesse un che di spaventoso in una città grande come quella, con tutti suoi vicoli bui e stretti che non erano mai cambiati, sin dai tempi dei cavalieri; pensava anche che molte brutte facce si aggirassero rendendola poco piacevole, pericolosa: malavita, gang, maniaci e prostitute; insomma, Nathan aveva sempre creduto che fosse decisamente meglio evitare di uscire di notte.

C’erano tuttavia molte cose a cui non era mai riuscito a dare risposta, e una di queste era quell’incomprensibile senso di appartenenza a quella seconda faccia di Terren.

Era possibile che un Angelo si trovasse a suo agio proprio lì, in mezzo all’oscurità di una città che di notte diventa cattiva?

Camminava guardando in avanti, senza però perdere nessun particolare di ciò che lo circondava. La pioggia gli batteva addosso ancora più fredda dell’aria, ma era una bella sensazione. La sentiva infiltrarsi attraverso il colletto del cappotto, qualche goccia riusciva addirittura a raggiungergli le spalle. Alzò il capo lasciando i bui vicoli per osservare il cielo. Le nubi erano davvero tante, nere, con qualche venatura rosse; sembravano veramente fatte di cotone. Il cielo totalmente coperto, ad eccezione di un piccolissimo spazio che si era ritagliata una grande, rotonda luna splendente di rosso, talmente luminosa da poterne distinguerne i vari crateri anche a quella distanza.

Di tanto in tanto quel magnifico scenario veniva reso ancora più potente dal calare impetuoso dei fulmini, che si aggrovigliavano tra di loro come serpenti. L’unione durava meno di un secondo, eppure erano ben visibili. Sembrava che giocassero; no, sembrava che si azzannassero violentemente.

Sul volto di Nathan apparve un sorriso mentre faceva quei pensieri.

–C’è un qualche timore reverenziale in tutto questo… o forse è solo desiderio di onnipotenza- disse a voce ben alta, consapevole che nessuno lo avrebbe udito. Era solo lì, mentre il cielo veniva squartato.

Un nuovo fulmine si abbatté poco lontano, facendo tremare la terra, e a questo punto il giovane rise tra sé e sé, spostando delicatamente con una mano una ciocca di capelli che gli era ricaduta in viso –oh sì, è decisamente voglia di onnipotenza-

Riprese a camminare per i vicoli a grandi falcate, sembrava quasi giocare a fare il passo più lungo della gamba senza cadere. E ci stava riuscendo. Osservava con intensità ogni cerchio d’acqua che i suoi passi creavano, riflettendo intanto su quanto il suo atteggiamento potesse risultare contraddittorio.

-C’è una diatriba- sentenziò senza che quel sorriso assorto gli abbandonasse il volto.

Rifletteva su quanto il suo modo di fare cambiasse quando si trovava in compagnia di Annlisette. All’interno degli Angeli era conosciuto, sì, per la sua grande sagacia, ma soprattutto per quella vena tipica dello scienziato pazzo che a volte lo portava a fare discussioni connesse tra di loro solo ai suoi occhi, o a chiudersi in un silenzio tombale per ore intere, prima di scoppiare a ridere senza un motivo. C’era persino che giurava di averlo visto giocare a scacchi da solo.

Eppure, questi atteggiamenti erano tanto strani quanto rari. Ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, che tende a nascondere mostrando una faccia allegra e posata davanti agli altri. Fin qui non c’era niente di strano, questo si diceva Nathan –Il mondo è folle, gira a testa in giù, e ognuno lo dimostra a modo suo-

Saltò una pozzanghera evitando così di bagnarsi ancora di più.

-Ma allora perché…?- perché quella sua facciata “folle, a testa in giù”, veniva soppressa dalla piccola Ann? Forse per la sua innocente sensibilità, priva della contaminazione della realtà nuda e cruda? Non riusciva a capirlo. Sapeva solo che con lei il suo lato umano riviveva, e questo non aveva bene agli occhi di molte persone.

Si fermò mettendo una mano in tasca, osservando la città intorno a sé. Si trovava ad un incrocio vuoto, nessuna carrozza in vista, nessuna persona a ore tre o due. Le fredde gocce d’acqua continuavano a battere incessantemente contro il lastricato e i mattoni delle case. Essendo notte fonda, tutte le finestre e le porte erano barricate, a parte una, ben illuminata dall’interno.

Si soffermò sull’insegna illuminata appena, leggendovi a fatica “Mastro birraio – taverna”. In effetti un caffè ci sarebbe stato bene, perlomeno gli avrebbe calmato un po’ i nervi.

-Dubito che farebbero entrare uno ridotto così- ridacchiò, realizzando che doveva avere proprio una brutta cera.

Era riuscito a calmarsi da poco, quando aveva finalmente buttato fuori tutti – o quasi - i suoi pensieri e li aveva espressi ed affrontati, eppure non sentiva di essere ancora giunto alla soluzione finale, quella che avrebbe risolto tutto e gli avrebbe finalmente permesso di capire cosa era giusto fare. Erano quelli i momenti in cui avrebbe dato qualsiasi cosa per un caffè.

Era quasi deciso ad entrare quando un’illuminazione giunse dal cielo sotto le spoglie di una prostituta.

La donna bardata di verde stava infatti uscendo in quel momento dalla taverna assieme a un uomo decisamente poco felice. Nathan aprì bene le orecchie, rimproverandosi quella curiosità.

-Juliet, ti prego!- urlava l’uomo, un ragazzetto dalle origini evidentemente umili. Muoveva le braccia coperte solo da un vecchio e logoro pastrano, affondando fino alle caviglie nelle pozzanghere.

-Taci, non voglio più saperne niente di te!- urlò quella con voce troppo profonda per essere quella di una donna.  Al contrario dell’uomo, ella vestiva una pelliccia sfarzosa volutamente aperta sul davanti, in modo da mettere in risalto le forme dell’abbondante seno. Il viso, truccato egregiamente, il portamento fiero, tutto in lei era molto sensuale. Beh, a parte la voce.

-Ma io ti amo, Juliet! Non posso vivere sapendo che lavoro fai!-

“Eh” sospirò Nathan “non vedo quale altro lavoro potrebbe fare…”

-Non me ne importa! Avevi detto che andava bene! E’ il mio lavoro, decido io, non tu!- urlò in risposta la giovane.

-Ma…-

-Niente ma! Se mi amassi veramente capiresti che è questo…-

Un fulmine colpì terra, impedendo a Nathan di sentire il resto della frase. Nella sua mente continuava a pensare che non potesse esserci lavoro migliore per una donna con un simile caratterino. Sarebbe stata una tragedia averla in casa.

Quei due avevano del tutto perso ogni interesse agli occhi dell’Angelo, che voltò le spalle facendo per andarsene, quando la voce dell’uomo gli giunse un’ultima, decisiva volta.

-Per te combatterei contro il Signore!-

Il biondo si fermò in mezzo alla strada, con un’espressione stupita sul volto. Dietro di lui la lite continuò a lungo, fin quando il povero uomo non venne malamente cacciato.

Juliet mise i polsi impreziositi da bracciali sui fianchi, tirando un lungo sospiro –Che giornataccia…-

Si lamentò a lungo, fin quando i suoi occhi castani non si posarono sulla figura avvolta dalle tenebre che stava più in là.

Inizialmente ne fu intimorita, avendola ricondotta a quel killer che da un po’ di tempo a quella parte si divertiva a far a fette la gente. Poi però la luce le permise di scorgerne i lineamenti maschili, i capelli spettinati biondo scuro. Era un essere umano, sì. Era un maschio, ovvero un possibile cliente.

Fu così che si avvicinò a Nathan dopo aver aperto l’ombrello. Avanzava nella notte con passi misurati e curati, ancheggiando in modo sensuale. Quando gli fu praticamente accanto, poté finalmente notare che si trattava di un tipo piuttosto affascinante. Ridacchiò “Forse questo bel bambino può rendere redditizia questa serataccia”.

-Ti bagnerai tutto, se continui così- sibilò condividendo il proprio ombrello, e finalmente poté vedere il suo viso per bene –la tua mogliettina potrebbe rimanerci male se torni a casa malato-

Nathan le lanciò un’occhiata inizialmente assente, come se fosse rimasto assorto nei suoi pensieri fino a quel momento. Ma fu questione di un attimo, infatti quello dopo stava già ridendo allegramente.

-Lo trovi buffo?- Juliet, presa in contropiede, alzò un sopracciglio.

La risata di lui si smorzò poco a poco, ma sul suo viso rimase uno splendido sorriso. Lo stesso di chi trova all’improvviso qualcosa che cerca da molto tempo.

-Assolutamente sì; ho penato come un pazzo, e la risposta era proprio la più ovvia! Grazie, Juliet! Ora ho capito-

-Oh, prego, amore. Ma non sta bene origliare, sai?- fece finta di rimproverarlo. Era il suo metodo per attaccare bottone, ma sapeva che stavolta sarebbe stata dura. Quell’uomo non sembrava una preda facile –Comunque… e qual è la risposta, mio caro?-

-O meglio, qual è la domanda- la corresse lui. Sembrava su un altro pianeta, questo si diceva la donna mentre lo ascoltava dire con fare entusiasta e concentrato –cosa si deve fare per rendere possibile l’amore tra un essere umano e un Angelo?-

Lei non rispose, lasciando che fosse lui a riprendere la parola. Eppure Nathan volle attendere, forse creare una sorta di suspense, nell’illusione che Juliet fosse realmente interessata. Ma anche lui lo sapeva che se quella donna era lì, in mezzo alla buia notte e al freddo gelido, a condividere il suo ombrello con lui contro la pioggia scrosciante, era solo per un motivo.

Sul suo pallido volto apparve un sorriso appena accennato, una di quelle smorfie degne delle migliori Personae.

E in quel momento un rumore li spazzò via il silenzio.

 

Ann guardava tristemente il paesaggio fuori dalla finestra. La stanzetta di Sogno era molto piccola e rosa, disordinatissima e calda. Buia com’era in quel momento, ogni pupazzo di pezza assumeva contorni abbastanza paurosi, per non parlare delle bambole di porcellana, che avevano terrorizzato la giovane contadina a prima vista.

Stesa sul letto, così immobile come una morta, la piccola Sogno pareva davvero una delle sue adorate compagne di giochi. Faceva un po’ impressione, con quella pelle così pallida e le ciglia lunghe, i capelli che ricadevano in tanti morbidi boccoli sulle lenzuola; ma la cosa più inquietante era che non pareva respirare, tanto che Ann diverse volte si era avvicinata per controllare che fosse ancora viva. Così aveva scoperto che la sua dolce amica aveva un respiro lievissimo: sollevava appena il petto quando respirava. Era davvero incantevole.

Ann avrebbe volentieri ceduto alla tentazione di addormentarsi lasciandosi cullare dalla sua principesca immagine, ma la grande preoccupazione che le attanagliava lo stomaco glielo aveva impedito.

Era infatti consapevole del fatto che Nathan fosse uscito da un pezzo e non avesse ancora fatto ritorno. Cosa era andato a fare in una notte tempestosa come quella? Aveva udito la porta dell’appartamento accanto aprirsi e chiudersi con un botto rabbioso, così aveva subito realizzato quanto dovesse essere nervoso.

Non l’aveva mai visto arrabbiato, né ci teneva. Riusciva solo a immaginare cosa era in grado di scatenare nei momenti d’ira un animo così portato alla pacatezza e alla riflessione.

Si sentiva molto in colpa, capiva che buona parte di quella rabbia era dovuta alla loro discussione, alle sue domande invadenti. Ma immaginava che Nathan fosse rimasto frustrato anche dalla propria indecisione, o almeno lo sperava; altrimenti le sarebbe toccato addossarsi tutta la colpa, ed era una cosa che il suo orgoglio le imponeva di rifiutare.

L’aveva guardato allontanarsi sotto la pioggia da solo, senza ombrello, come un’anima che non trova pace. Avrebbe voluto scendere, urlargli di non andarsene, aveva infatti paura che stesse per scomparire di nuovo, come aveva già fatto una volta, quando se n’era andato da Hidel, senza lasciare alcuna traccia del proprio passaggio.

Sembrava un fantasma, quell’uomo.

Ann aveva passato tutta la notte lì, alla finestra, poggiata contro il caldo muro. Di tanto in tanto il calore della grande e pesante coperta verde che le avvolgeva il corpo la induceva ad uno stato di incoscienza, ma si risvegliava poco dopo, rimproverandosi di quei minuti di mancata attenzione, per poi tendere l’orecchio ad ogni possibile suono. In cuor suo, sperava che Nathan fosse tornato già da un pezzo, rendendo vana quella sua attesa.

Di certo la ragazzina non immaginava che il giovane uomo stesse proprio in quel momento salendo le scale del palazzo. Completamente fradicio, al suo passaggio lasciava una scia d’acqua piovana. Il respiro concitato e il sorriso sulle labbra testimoniavano quanto fosse entusiasta.

Trascinava malamente qualcosa avvolto in una cappa marrone, anch’essa totalmente bagnata, come se fossero appena usciti da una vasca da bagno.

Saliti finalmente al piano abitato dai Metherlance e dai Darkmoon, Nathan infilò le chiavi nella toppa con un movimento infelice, spezzato di tanto in tanto da qualche parola rivolta alla cosa che si stava portando dietro.

Entrato dentro, dopo esser stato finalmente invaso dal calore ristoratore della casa, gettò per terra il mazzo e subito dopo anche la cappa, la quale rivelò finalmente il suo contenuto, che lo fissava con uno sguardo in cui collidevano ansia e feroce rabbia animale.

-Osi guardarmi così, animale?- rise a bassa voce l’Angelo, richiudendosi alle spalle il paletto della porta.

Anche se, a dirla tutta, in quel momento il vero animale era lui. E ne era consapevole.

-Non darti tante manie di superiorità, Angelo!- berciò rabbiosamente l’altro, quasi sputando su quell’ultima parola. Nel parlare aveva usato una lingua che non era l’inglese, piuttosto sembrava un dialetto nordico, di quelli tipici delle zone di Hidel.

Tentò di mettersi in piedi, ma ben presto il suo tentativo fallì a causa di una ferita piuttosto profonda alla coscia sinistra, che lo costrinse a terra, piegato dal dolore.

-Fa male, vero?- continuò Nathan con un sorriso crudele, rispondendo alle parole del suo avversario nella sua stessa lingua. Le parole di entrambi, ora, sembravano molto più leggere e sfuggenti di prima –E non hai neanche assaggiato l’antipasto-

-Che cosa vuoi da me?-

Gli occhi furenti della seconda persona parvero sul punto di prendere fuoco, tanto erano rossi di rabbia. Sicuramente non avrebbe avuto problemi a far a pezzi Nathan se fosse stato in buone condizioni fisiche, ma con una gamba grondante di sangue e una pallottola probabilmente piantata nel femore l’impresa sembrava ardua persino per un omone di due metri.

-Esattamente quello che tu volevi da me- rispose candidamente il biondo, avvicinandosi poi a quella che era diventata la sua preda –solo qualche risposta. Oh, ma non rispondere subito, perché, vedi, in questo momento ho proprio bisogno di torturare qualcuno-

 

Damon bussò alla porta d’ingresso diverse volte prima che il padrone di casa si degnasse di aprirla. Fu così che si ritrovò a imprecare mentalmente davanti ad un Nathan totalmente lindo e tranquillo, con tanto di tazza di caffè in mano e giacca addosso.

-Noi ci preoccupiamo tutta la notte… e tu ti fai il caffè. Fico, devo provarci anch’io- commentò sarcasticamente, entrando poi nella casa appena illuminata dalle imposte quasi del tutto chiuse. Mise le mani sui fianchi –Dovevi vedere Ann; ha passato tutta la notte alla finestra aspettando il tuo ritorno. Ci ha detto che sei uscito senza neanche un ombrello-

-E’ vero- confermò Nathan con una serenità invidiabile. Superò in cugino raggiungendo la cucina fredda sia nei colori che nella temperatura; posò lentamente la tazza sul tavolo, per poi sedersi con il placido sguardo ancora focalizzato sul cugino Darkmoon, che sembrava volerlo fare a pezzettini.

-Non essere così vitale, Nate-

-Cielo, Damon, sono le sette del mattino! Come vuoi che mi comporti?- borbottò esasperato, stiracchiandosi.

-Che siano le sette del mattino o le due di notte, mio caro e inesperto cuginetto, la preoccupazione di una donna è una cosa da prendere al volo!- lo ribeccò Damon avvicinandosi al tavolo e sedendosi poi come se si trovasse a casa sua, sistemando accuratamente i piedi sul banco –Insomma, devi coltivarti queste cose o resterai scapolo a vita, sai?-

-E tu resterai mutilato a vita se non togli quei piedi dal mio tavolo entro tre secondi. Due secondi, un sec…-

-Va bene, va bene!- proruppe Damon mettendosi composto sulla sedia. Fulminò Nathan con lo sguardo, ricevendo in cambio un altro totalmente disinteressato –Già di buon umore, vedo-

L’altro emise un sorta di “mhh-mh” che avrebbe dovuto essere un’affermazione, sorseggiando intanto il proprio caffè. Poggiò il gomito sul tavolo.

Anche se a giudicare dalle sue solite frasi poco cortesi poteva non sembrare, era davvero allegro quella mattina, e lo si poteva notare da due principali particolari: primo, si era fatto la doccia, ed era una cosa che faceva la mattina solo se era particolarmente di buon umore; secondo, non se ne era ancora uscito col suo solito sorriso beffardo.

-Allora?- lo spronò Damon, ma ricevette in cambio solamente un’espressione incuriosita –Che ti è successo di bello?-

-Hm!- finalmente Nathan staccò le labbra dal bordo della tazzina, lanciando un’occhiata entusiasta al cugino. Inghiottì e si mise a parlare –Me ne stavo dimenticando; guarda nel magazzino-

Damon non se lo fece ripetere due volte. Balzò in piedi con fare scattante, saltando il gradino che elevava la cucina al di sopra del salone, attraversando poi la stanza a grandi falcate, curioso di scoprire il motivo di tutta quella vitalità di quell’uomo solitamente così freddo e scostante.

Nella sua mente si avvicendarono molte ipotesi; se non ci fosse stata Ann sì e no cinque metri quadri più in là, avrebbe pensato ad una bella donna – anche se non avrebbe mai capito secondo quale criterio logico alla poverella fosse toccato proprio il magazzino -, ma, conoscendo Nathan, sicuramente la cosa in questione doveva essere legata al lavoro.

Immaginò un meraviglioso connubio in cui apriva la porta ritrovandosi davanti Jen vestita da danzatrice del ventre.

No, era troppo bello per essere vero.

Tuttavia ci sperò fino all’ultimo momento, quando, sotto il vigile sguardo del cugino dagli occhi celesti, afferrò vigorosamente la maniglia ferrosa della vecchia e pesante porta, aprendola con uno scatto fulmineo.

Beh, in un certo senso era sicuro di trovarsi davanti a qualcosa legato al lavoro, ma di certo non si aspettava una cosa simile!

In un primo momento indugiò sull’ipotesi fin troppo vezzosa di chiudere la porta e tornare a sorridere e scherzare come se niente fosse, ma fu costretto ad arenare ben presto quell’idea, in quanto un paio di occhi castani decisamente poco amichevoli si puntarono su di lui come a volerlo trafiggere.

-Fantastico. Hai ritrovato la tua vena sadica e crudele. Marcus ne sarà felice- commentò immobile.

Sentì Nathan ridere di gusto, quella sua solita risata appena udibile, forse ben più inquietante di quella dei cattivi delle fiabe.

Eppure ebbe sincera pietà verso quel povero ragazzo all’apparenza poco più grande di loro, dai lunghi capelli color pece, legato da capo a piedi, neanche fosse un animale. Sicuramente aveva commesso qualche passo falso che gli era valso un biglietto d’ingresso gratis per lo studio delle torture – il magazzino – di Nathan.

Era madido di sudore, sporco di terra, il viso grondava sangue. Gli aveva strappato un occhio. Chissà che cosa ne aveva fatto.

-Nate, non ti senti un po’ una bestia, ogni tanto?- chiese, sperando di trovare quel minimo di umanità nel cugino.

La risposta di Nathan fu immediata, quasi calcolata –E’ raro che qualcuno non mi faccia sentire tale- sì, forse Ann era davvero l’unica a riuscirci. Tuttavia si impose di non pensarci; non gli andava di cominciare male la giornata -Se c’è una cosa che odio sono le spie. Fatti dire ciò che ha detto a me-

-Spie?-

-Spie- ribadì –a quanto pare i Demoni vogliono guerra-

 

 

 

Note dell’Autrice:

Oddio, l’ho finito? L’ho finito davvero? Non è uno scherzo? E’ finito? … Banzaaaaaai! *saltella*

Non potete capire quanto sono stata su questo maledetto capitolo @@ mi ha dato tanti di quei problemi che diverse volte mi sono chiesta se sarei mai riuscita a finirlo! E ora che lo vedo completo mi sento realizzata!

Bene, finalmente si passa al capitolo 21, i cui eventi dovevano essere narrati esattamente nel capitolo 11 °w° cosa sarà mai slittare di dieci capitoli?

Spero vivamente che questo capitolo 20 abbia dato risposte e nuovi interrogativi. Ho finalmente svelato una sfaccettatura del carattere di Nathan che da molto tempo attendeva di esser messa in luce. Aww, mi piace questo personaggio, peccato che mi dia tanti problemi!

Ringrazio infinitamente per le recensioni che mi hanno permesso di vincere quella scommessa con me stessa, vi adoro! <3

Grazie mille ai lettori, ai commentatori e anche a chi si limita a tenere tra i preferiti/seguiti questa storia <3

Al prossimo capitolo!

 

Chu,

Sely.

  
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