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Autore: Slits    24/02/2011    2 recensioni
« Era un misantropo e per assurdo, come ogni misantropo, sembrava conoscere il mondo meglio di chiunque altro. »
Cinque mesi dopo aver dato l’ultimo esame, uno psicologo si ritrova a far tirocinio in una clinica divenuta famosa per aver dato asilo ad un misantropo. Un assassino, a detta dei protocolli.
Ad ogni seduta rivivranno le tracce di un passato che non può più aspettare, mentre la storia mostrerà l’innocenza di una persona che, per una volta, non è l’assassino.
Prima classificata al The Nightmare Hospital Contest indetto da LoLLy_DeAdGirL e vincitrice Premio Giuria.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sanji
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Terzo appuntamento. [Parte I]

Una serie interminabile di acquazzoni aveva trasformato ben presto il parco dell’ospedale in un nugolo di pozzanghere che rimandavano l’immagine dell’incedere incerto dei suoi passi. Victor cercò la finestra del paziente, ma la nebbia gli rendeva quasi impossibile vedere ad un palmo dal naso.
Si fermò alle spalle dei cancelli. Nella sua mente avevano cominciato ad affacciarsi le immagini del dialogo avuto con Sanji, come frammenti di una pellicola malandata. Aveva ucciso. Lo psicologo valutò le probabilità di finire in una situazione ben più grande se soltanto avesse cercato di andare a fondo in quella faccenda. Scoccò un’altra occhiata alla facciata della clinica e per un attimo tentennò su una gamba. Si sentiva ancora impreparato per affrontare un caso come quello Regū e, in fondo in fondo, covava la certezza che – a dispetto dei discontinui e vivaci incoraggiamenti del direttore – nessuna di quelle sedute avrebbe mai portato da qualche parte. Il paziente si divertiva a tenere i fili invisibili della conversazione e muoveva i personaggi come un burattinaio, ma raramente avrebbe scoperto gli altarini nascosti dietro ciascun pezzo. Era un misantropo e per assurdo, come ogni misantropo, sembrava conoscere il mondo meglio di chiunque altro.
Victor si strofinò le mani per scaldarle come potè. Valutò l’idea di lasciare tutto. Un mozzicone cadde al suolo tamburellando su una o due tettoie, e si spense in un rivolo d’acqua. Lo psicologo alzò lo sguardo soltanto per vedere Sanji affacciato alla finestra sostare immobile e fissare le chiome spoglie degli alberi. Per un attimo pensò che lo stesse cercando ed una strana morsa lo colse alla bocca dello stomaco: terrore, con ogni probabilità.

Quel giorno il corridoio gli parve infinito. In alto, un fascio interminabile di neon illuminava il soffitto come una lingua di luce. Victor oltrepassò la reception sentendo alcuni infermieri parlottare di fianco l’ascensore. Era la prima volta che un brusio simile si levava nella clinica. Gli parve di sentire distrattamente il numero di una stanza, ma non vi prestò attenzione. Arrivato al distributore, alzò gli occhi e cercò l’ombra dinoccolata di Sanji svettare con la stessa baldanza di sempre. Vide uomini e donne camminare in silenzio. Inservienti infastiditi dal continuo via vai passargli di lato, ma del biondo nessuna traccia. Raggiunse a grandi falcate la camera del paziente, perplesso. Senza l'uomo a guidarlo non poteva fare a meno di sentirsi come uno straniero in terra straniera. A quella considerazione, il parassita parve quasi sogghignare. Victor abbassò la maniglia ed entrò senza un fiato.
Nell’aria aleggiava un tanfo di alcol, come alone di disinfettante.
Lo psicologo rimase immobile sulla porta per una manciata di secondi prima di decidersi ad entrare. Sentì il paziente muoversi. Qualche istante dopo, il rumore della finestra che veniva chiusa. Victor mosse i primi passi in quella che, da una prima occhiata, immaginò essere la scena di un crimine. I libri erano a terra, i vestiti lasciati a penzolare come teli su mobili ed armadi.
Non disse niente. Sanji si poggiò stancamente alla parete e mormorò qualcosa nel vuoto. Un brandello del camice era appallottolato a terra. Victor sentì il paziente muoversi vicino al davanzale e prendere un pacchetto di sigarette. La destra, seppur impercettibilmente, sembrava tremargli. Alla fine l’accendino si spense ed il biondo rimase immobile, con un braccio ancora alzato. L’uomo continuò a fissarlo per un paio di minuti, finché non sentì lo sguardo dell’altro su di sé. Soltanto allora cercò gli occhi del paziente. Sembravano soffocati da una tranquillità plumbea ed irriconoscibile, qualcosa che probabilmente non gli era mai appartenuta. A passi incerti si avvicinò all’uomo, che continuava ancora a fissarlo senza trovare niente da dire, e gli si piazzò davanti. Emanava un odore dolciastro e nauseabondo. Lo scosse leggermente per un braccio e mormorò qualcosa che l’altro non riuscì a decifrare. Si accorse troppo tardi che il motivo per cui Sanji aveva scelto di non spostarsi dalla finestra, neanche per fumare, era perché aveva valutato le probabilità di rompersi l’osso del collo se avesse cercato di muovere anche un solo passo. Accostò la poltrona al letto e con cautela fece sedere l’altro. Il biondo si fece condurre docilmente. L’apatia di un sedato, pensò Victor, con una punta di fastidio.

Si era ritrovato nuovamente nel corridoio dell’ospedale. Il silenzio era intenso, spiacevole. Talmente palpabile che l’uomo probabilmente non avrebbe battuto ciglio se, allungando una mano verso un punto indefinito della clinica, lo avesse potuto prendere e tenere un po’ fra le dita. I corridoi del Santa Maria erano così, si nutrivano principalmente di niente.
Un filo logoro pendeva al centro di una parete di fondo. Victor vuotò quel che rimaneva del suo bicchiere di caffè freddo in un sorso solo e percorse qualche metro verso la macchinetta che dava il fianco ad un cestino. Intravide di sfuggita i numeri della camera di Sanji, tondi e di un colore pastoso. Sul rivestimento laccato della porta il parassita si divertiva a spiccare e confondersi.
Erano passate poco più di due ore. Victor tentò, inutilmente, di convincersi a desistere dall’entrare. Scartò l’idea quasi subito. Meno di un pomeriggio era stato sufficiente a dare un colpo di spugna ad ogni buon proposito. In quel momento, dei quindici e passa motivi per cui aveva deciso di abbandonare il caso Regū non gliene venne in mente nessuno. Col senno di poi, avrebbe forse capito che di professionale in quell’incarico non vi era che la semplice facciata.
Si avvicinò e scambiò un’occhiata complice con il parassita fermo davanti a lui. Un filo di luce penetrava nell’oscurità della stanza, scivolando con polvere e rumori da un’intercapedine dello stipite. Era una follia, si disse. E qualcosa dentro di lui parve concordare.
Pur affacciandosi, Victor non riuscì ad intravedere nient’altro che buio ed abbandono. Guardandola, nessuno avrebbe dato mezza sterlina a quella stanza. Poco più di uno sgabuzzino, grande come una o due dispense, alle pareti i segni di anni ed anni di raffinato abbandono. Eppure, era il rifugio di un assassino. Un pazzo, a detta dei protocolli.
Lentamente aprì la porta. Un puntino luminoso. Poco più in là, i vetri appannati della finestra incorniciavano una bruttura che non aveva bisogno di esser vista ancora una volta per essere ricordata. L’intera camera sembrava avvolta in una bolla di silenzio. Si trattava dello stesso che aveva fagocitato i corridoi della clinica. D’improvviso il puntino parve muoversi e un fascio di luce invase la stanza: Sanji aveva sollevato quel che rimaneva delle serrande della camera.
Victor si poggiò alla parete che era inzaccherata da bruciature di sigaretta e residui di impronte. Nelle mura di quella stanza erano stati ritagliati i frammenti di un passato non troppo lontano, qualcosa fatto di lotte per la libertà portate avanti fino allo sfinimento. Lo psicologo le fissò distrattamente per poi tornare con lo sguardo al proprio paziente. Adesso, l’immagine di quell’uomo era come l’ombra di Sanji Regū.
Il biondo si mise a sedere e lasciò che una prima boccata di fumo si intrufolasse sotto la finestra. Un brusio di voci lontane giungeva dal cortile come eco di quel silenzio. Il vecchio neon pendeva ancora dal soffitto, questa volta senza alcuna luce.
Victor fece per parlare, ma ricacciò quasi subito il fiato in gola. C’era qualcosa di che non andava. Persino nell’aria la si poteva avvertire, quella dannata puzza di sbagliato.
- Come può vedere, signor Victor, qui perfino i macellai hanno degli ideali. -
Victor si avvicinò all’entrata della camera. Da fuori, perlopiù arrivavano le voci degli infermieri della clinica. Sotto quella velata offesa gli parve di vedere ognuna delle loro espressioni.
- Non dovrebbero? -
- Gli ideali, solitamente, possono essere di due tipi: quelli per migliorare il mondo e quelli per appagare se stessi. Cercando di tenere in vita un assassino già condannato quale crede che stiano tentando di reggere in piedi? -
Lo psicologo esitò per qualche secondo, come se non avesse il coraggio di rispondere.
Sanji aspettò che socchiudesse la porta e riprese a parlare. Nonostante tutto, a dispetto della boria, la forza e la sfacciataggine che tanto ostentava, aveva il tono di un malato che vuole fingersi sano.
- La risposta non conta, signor Victor. Sogno, ideale… a dispetto di tutte le stronzate che vi possono propugnare, ciò che conta è che ogni persona ne ha almeno uno a dargli forza. Non importa quanto buona possa essere o quanto… -  si interruppe per un lungo silenzio, lo sguardo perso oltre la stanza - …discutibili possano essere i suoi principi. –
La pausa che seguì fu estenuante. Victor non toglieva gli occhi di dosso dal letto della camera, come se fosse la cosa più interessante nella clinica in quel preciso istante. Sanji tossì un paio di volte, provato. L’uomo non accennò a muoversi.
- Anche tu ne hai avuto uno? – chiese dopo un po’.
Il paziente rise. Una risata amara, in verità. Sembrava insolitamente divertito.
- Mio caro Victor, l’ideale infranto è la gioia degli psicologi e la rovina dei misantropi. Sicuro di non aver oliato qualche ingranaggio per ottenere quella fantomatica laurea? -
L’uomo guardò il paziente che si tirava su a sedere a poco alla volta sotto l’occhio indifferente di una delle telecamere. Avrebbe aspettato il suo sorriso di scherno anche tutta la notte, se necessario. Era lì, pronto a vedere la luce, si disse. Ma non accadde niente. E fu soltanto in quel momento che allo psicologo venne in mente un’altra domanda, meno pertinente e più sfacciata. E tu sicuro di essere un misantropo? pensò, con una punta di fastidio.
Mentre si fissavano un uccello spiccò il volo oltre i cornicioni della clinica. Sanji guardò da lontano i numeri delle altre camere del piano, che si intravedevano attraverso oltre la porta socchiusa. Eccetto due, erano tutte chiuse a chiave. Nelle ultime settimane anche la sua era stata così e, a breve, vi erano ottime probabilità che da lì a qualche giorno sarebbe tornata ad esser tale. Riprese a parlare, come se avesse potuto intuire il pensiero dell’uomo. Quando aprì bocca Victor sobbalzò, colto alla sprovvista.
- Ne sono sicuro, non sarei di certo qui altrimenti. Con il mio odio, il mio rancore e tutto il resto, per il mondo sono diventato un personaggio scomodo. Ed è per questo che mi ha rinchiuso in questa prigione. Di certo non posso biasimarlo: potendo, anche io lo avrei preso e messo in un posto simile. Soltanto che poi gli avrei dato fuoco. -
Victor non rispose. La sedia su cui era poggiato tremò appena. Non aveva mai sentito un ragionamento simile. Un ragionamento lucido nonostante la follia, impassibile, che pretendeva giustizia. Coerente. Senza neanche rendersene conto era rimasto immobile in quella camera, incapace di dar voce ai propri pensieri.
Intanto l’espressione di Sanji, a poco a poco, si era trasformata in una maschera di costante attesa. Sembrava quasi cercare risposte per una domanda che forse non gli sarebbe mai stata posta. Non da parte dell’uomo, per lo meno.
Una volta che la campana della chiesa in fondo al viale ebbe battuto il nono rintocco, il paziente diede un paio di colpi al pacchetto poggiato sul davanzale e ne fece uscire una sigaretta. Era l’ultima della giornata, un buon pretesto per dare all’altro il tempo di rispondere. Aspettò a lungo che parlasse e si rimise a sedere in poltrona. Victor tacque fino alla penultima boccata.
- Concludi. – disse. Aveva tenuto un tono di voce fermo ed autoritario, ma le mani non la smettevano di tremargli. Imprecò qualcosa a denti stretti e le fece sprofondare nelle tasche del soprabito.
- Cosa le fa pensare che abbia qualcosa da aggiungere? -
- Ogni cattivo della storia ha sempre qualcosa da aggiungere, che sia una risata o un interminabile monologo. Non lo si potrebbe chiamare tale altrimenti. -
Per la prima volta Sanji sorrise in modo disteso e tranquillo. Aveva gli occhi vivaci di un bambino.
- Ancora divide il mondo in buoni e cattivi, signor Victor? -
- Preferisco fra persone che hanno le mani sporche e persone che ancora non. -
- E lei sarebbe il tipo con le mani pulite, immagino. Ovviamente mi corregga se sbaglio. -
L’uomo esitò qualche istante, certo di non avere una risposta in grado di compiacere entrambi.
- Sono il tipo che preferisce andare in giro a cercare di ripulire quelle altrui. – ribattè seccamente, sedendosi a sua volta.
Sanji parve sprofondare in un lungo silenzio. Diede un’occhiata veloce al corridoio, come temendo che gli infermieri potessero sentirlo e tornare. Due inservienti camminavano fianco a fianco con un carrello, cercando di spostarlo. Senza distogliere gli occhi dalla scena, mormorò lentamente:
- Scagioni l’innocente di questa storia che per una volta, le posso assicurare, non è l’assassino. -
- Mi stai chiedendo un favore? -
- Le sto chiedendo di diventare il mezzo per tenere in vita il mio ideale. –
- Il sogno del cattivo di turno? -
- Il sogno del cattivo di turno. -
Victor sospirò, piano.
- Dimmi quello che devo fare. -

Avevano camminato fino alla reception dell’ospedale. Una fila di sedie e poltroncine, divenute il rifugio preferito di conoscenti e familiari, si diramava per l’intera parete. Si misero a sedere su un divanetto accanto a una finestra. Sanji prese un lungo sorso dal bicchiere di the caldo che l’altro gli aveva portato.
- Un articolo. – disse alla fine, senza spostare lo sguardo da terra. – Alla luce dei fatti, posso tranquillamente azzardare che lei abbia raccolto informazioni a sufficienza sul mio conto. Oltre al trattato che pubblicherà alla fine di tutto, desidero che scriva anche un articolo in grado di riscattare il vero innocente di questa vicenda. -
- Cosa le fa credere che sia intenzionato a scrivere un trattato sul suo conto? -
- Come già detto, non conosco un solo psicologo che anteponga il bene del paziente al profitto personale. – rispose, in un sussurro che aveva quasi imparato a memoria.
Un infermiere che parlottava annoiato di fianco l’entrata li osservava.
- Ha un senso del tutto distorto della misantropia, Mr Regū. Non sarebbe buona norma da parte del misantropo rinchiudersi nella propria bolla di egocentrismo e da lì odiare con calma il mondo intero? -
- Conosce le tematiche di ideale e mezzo del misantropo, signor Trafalgar? – ribattè l’uomo con un tono privo di sottintesi.
Lo psicologo si sciolse in un sorriso tutto canini.
- Sono tutto orecchi. – disse.
Il paziente annuì ed incominciò a parlare. L’altro chiuse il libretto e sorrise ancora una volta, disinvolto.
Probabilmente non ne avrebbe avuto alcun bisogno.



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S
ono viva! Sono viva! *O*
Sento l'aria! Sento il fruscio del vento! Il rumore delle automobili!
°ç°
... 'spe. .-. Aut- * BOOM

Ok, sono ancora viva. Ammaccata ma viva.
E tutto questo per dirvi che... che... * si guarda attorno
Oh, al diavolo! Ho postato! Va bene? Ho postato! La prima parte di un lungo, lungo, enorme e sconsiderato capitolo di sette pagine e passa. Abbiate pazienza, è l'ultimo della storia. Si sentiva isolato, povera stella.

Inutile dire quanto possa ringraziare tutte quelle pie anime che finora si siano interessate alla storia. E per quelle gemme rare che hanno avuto perfino l'accortezza di commentarmi, be'... la risposta è lì dove sapete. Usopp dice nel vostro cuore, ma lasciamo stare.
   
 
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