Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: My Pride    22/03/2011    4 recensioni
Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei.
Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
[ Prima classificata allo «Yaoi Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al contest «L'amore ai tempi di EFP» valutato da Lady Viviana ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Miglior Personaggio secondario al contest «Let's talk about a Beatle» indetto da DakotaDeveraux ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dè a tha thu_4
ATTO II: SINFONIA [1] { APRILE 1912 }
SCENA I: NOTE DI FOLLIA E INCONTRI DI PAROLE
 
    Era la terza o quarta notte che passavo all’addiaccio, fermo su quel vecchio porto sulle rive del Tamigi.
    Quando calava il sole sentivo pullulare quella zona di presenze, come se fosse un ritrovo per chi, come me, sembrava essersi perso fra i sussurri della notte. Non erano solo gli uomini a ritrovarsi in quel luogo, il più delle volte, ma persino creature inquiete che fino a quel momento non avevo mai avvertito.
    I loro respiri mi solleticavano il viso non appena socchiudevo gli occhi, le loro bocche gelide mi sfioravano con delicatezza, sussurrandomi all’orecchio parole che io non comprendevo. Quando alzavo le palpebre sembravano poi sparire nel nulla, lasciando solo nell’aria un’eco simile ad una risata cristallina. Ed era proprio in momenti come quelli che temevo d’esser ormai impazzito, lasciando però che quelle stesse voci continuassero senza che facessi nulla per scacciarle. Alcune erano dolci e malinconiche, quasi portassero con sé il dolore della mia terra natia; altre ancora risuonavano invece aspre e dure, e mi rimproveravano per cose che, almeno per quanto ricordassi, non avevo mai fatto. Vecchie nenie cantate nella mia lingua sommergevano poi tali voci, lasciando che trovassi nel sonno quel poco riposo che mi concedevo.
    Avevo ormai ripreso a viaggiare, diretto Dio solo sapeva dove. E ad esser sincero, affidare quel mio peregrinare all’Onnipotente dopo quanto mi era successo, dopo quel che ero diventato, mi sembrava quasi assurdo. Ma forse, giacché la mia, in vita, era stata una famiglia fortemente religiosa, non avevo potuto fare a meno di conservare quel frammento di fede insito nella mia persona. Non ci speravo poi molto, ma pensarci, arrivati ormai a quel punto, a cosa sarebbe servito? Assolutamente a nulla. E mi imposi dunque di smetterla con certi pensieri, incamminandomi in silenzio fra quelle vie buie e solitarie in cui mi ero ritrovato. Il Big Ben [2], che da dove mi trovavo riuscivo a scorgere scostando soltanto di poco lo sguardo verso sinistra, segnava sul suo immenso quadrante un quarto a mezzanotte. Si avvicinava l’ora in cui le mie compagne voci cominciavano a manifestarsi, e non sapevo se esserne lieto o meno. Forse erano reali, forse no, ma se lo erano, avrei dovuto iniziare a far davvero attenzione.
    In quei secoli avevo imparato che creature come me, dunque pressoché immortali, erano piuttosto volubili, a lungo andare. Bastava pensare ai vampiri, ad esempio: non ne avevo mai incontrato uno, però avevo sentito che in quanto a volubilità erano i peggiori. Imbattermi sfortunatamente sul cammino di in uno di loro, dunque, era davvero l’ultima cosa che volevo. Intorno a me regnava però una strana quiete, forse più bizzarra di quanto non mi fosse mai sembrata fino ad allora. E fu proprio in quel mentre che, abituato a star continuamente in giro senza dipendere da niente e nessuno, ricordai di non aver avvisato Henry della mia decisione d’allontanarmi ancora. Non che avrebbe poi fatto tanto caso alla mia mancanza, probabilmente; impegnato com’era con i suoi quadri, forse avrebbe cominciato a rendersi conto della mia assenza solo dopo l’aver sentito quella stanzetta silenziosa per troppo tempo. Non contavo di star via a lungo, ma non si poteva mai sapere.
    Quel mio peregrinare mi condusse ai confini della città, e fui indeciso se lasciarla o meno. Avrei lasciato alle spalle tutti quegli strani fantasmi che mi perseguitavano, ma sapevo che mi sarei pentito di averlo fatto. Dove sarei potuto andare, poi? Mi era sempre piaciuta l’Europa, non lo mettevo in dubbio, e visitare Vienna per spostarmi verso l’Italia e visitarne Firenze non era una così cattiva idea. C’era qualcosa che continuava a bloccarmi, però, non permettendomi di compiere un altro passo.
    Cos’era quella strana sensazione che aveva cominciato a fluire nel mio corpo, simile a fuoco vivo nelle mie vene? Non lo comprendevo, ma ciò di cui ero certo era che aveva di sicuro a che fare con la città alle mie spalle. Ritornai allora sui miei passi, venendo ben presto investito da un vento gelido di cui non capii la provenienza. Più che un vero e proprio vento, era molto più simile ad un mormorio nella notte, rassomigliante alle voci che per giorni non avevano fatto altro che accompagnarmi, ma molto più lieve, quasi come un suono che in realtà non era tale, una confusione di colori e forme e di tasti bianchi e neri.
    Or dunque, mi venne da pensare che avessi raggiunto il mio limite. Era follia, pura e semplice follia, e se l’avessi raccontato, così come avrei potuto raccontare la mia stessa vita, nessuno mi avrebbe mai creduto. Non l’avrei fatto nemmeno io. Quella era un’assurdità e tale doveva restare, se le avessi dato spago non avrebbe fatto altro che tormentarmi per l’eternità dei miei giorni.
    Scossi la testa e cercai di scacciarla, sentendomi seguito da piedi invisibili e deboli fruscii. Continuai sulla mia strada senza voltarmi indietro, attraversando un piccolo ponte di pietra per ritrovarmi sull’altra sponda della città, in modo da potermi dirigere verso il confine sud del quartiere Mayfair, a Piccadilly. I passi divennero più rapidi e scattanti mano a mano che ci avvicinavamo a case e negozi, finché, stufo, non decisi di fermarmi io stesso e di voltarmi di scatto, lanciando un grido esasperato e gutturale che nemmeno io avevo mai sentito provenire dal fondo della mia gola. I rumori cessarono del tutto, ma qualcosa privo di consistenza mi strisciò sulla pelle, viscido come un serpente, e storsi il naso con fare disgustato prima di cercare di togliermelo di dosso. Com’era prevedibile, però, non trovai assolutamente nulla.
    Andai avanti così per giorni e giorni, pensando quasi d’accettare quella mia follia come un chiaro segno del destino. La morte non era riuscita ad avermi con sé, dunque cercava in tutti i modi di farmi impazzire per spingermi magari al suicidio. E, aye, io quasi ci avevo pensato. Ma quale folle, dopo esser scampato per secoli dalla nera signora con la falce, avrebbe mai fatto ciò? Per quanto quelle voci mi spingessero più e più volte su quella stessa strada, la natura di quell’essere che si era insidiato in me, e che mi aveva inoltre reso ciò che ero, riusciva a salvarmi sempre per un soffio da quell’orripilante baratro.
    Mi trascinai quasi faticosamente verso i quartieri alti di Londra, alzando soltanto di poco lo sguardo verso il cielo: sebbene non piovesse, il tempo era uggioso, ed erano molte le nubi che solcavano quel manto ormai cinereo sopra di noi. Erano pressappoco le due del pomeriggio di un plumbeo sette aprile, e la gente che passeggiava o che si trovava semplicemente a guardare le vetrine dei più svariati negozi, appariva serena come sempre, ignara del terrore che si celava ogni notte negli anfratti bui. E mentre il mio sguardo vagava stanco fra quei mille volti, e il mio stomaco sembrava reclamare a gran voce pietanze che giorni addietro non avrei mai creduto di poter assaggiare [3], gli occhi mi caddero sul viso di quel qualcuno che aveva continuato ad affollare i miei pensieri per tutto quel tempo.
    Forse sgranai gli occhi, non ne fui sicuro, ma sentii un qualcosa stringermi dolorosamente il cuore alla sua vista. Era perso nel contemplare una vetrina di balocchi, con un vago sorriso dipinto sulle piccole labbra rosee. Non poteva avere più di sedici o diciassette anni, adesso che riuscivo a vederlo meglio, e aveva persino perso quell’aspetto etereo con cui lo ricordavo. Ma sapevo che era lui, non c’era alcun dubbio: quello sguardo un po’ perso, come se si trovasse sempre in un mondo tutto suo, e quei capelli rossi, spesso tipici della maggior parte di noi scozzesi, avrei potuto riconoscerli fra mille. Non sapevo il perché, non comprendevo come mai il vederlo aveva provocato quella bizzarra sensazione che sentivo ormai nel petto e in tutto il mio essere, come se dentro di me accrescesse una strana sorta d’ansia che mai, fino a quel momento, avevo avvertito.
    Non riflettei neanche, quando feci i primi passi verso di lui. Era quasi come se il mio stesso corpo si muovesse senza che gli imponessi di farlo, e di questa cosa non me ne capacitavo affatto. Ero quasi ad una spanna da lui quando infine si voltò, alzando il viso verso il mio per potermi osservare attentamente negli occhi. Non era alto più di un metro e cinquantacinque, probabilmente, il che lo rendeva ancor più bambino di quanto non sembrasse.
    Mi squadrò a lungo, in silenzio, sbattendo solo di tanto in tanto le palpebre per umettare gli occhi. Sembrava quasi che intorno a noi non ci fosse più nessuno, mentre ci fissavamo immobili dinanzi a quella vetrina. Sentivo che il tempo si sarebbe potuto fermare in quello stesso istante, lasciando così che vagassimo entrambi in un limbo che non avrebbe avuto nome. Infine lui parlò, con una voce così bassa e roca che sembrava non aprisse bocca da parecchio tempo. «È venuto a prendermi?» mi domandò, ma io mi limitai solo a fissarlo basito e muto, non comprendendo il senso di quel suo strano quesito.
    Non mi sarei mai aspettato che il vederlo mi avrebbe rimescolato l’animo in quel modo, dando vita ad un sentimento di cui mi vergognavo persino a pronunciare il nome. In quei giorni in cui mi ero ritrovato a pensare a lui, a quello stesso ragazzino che avevo ormai dinanzi ai miei occhi, avevo cercato di trovare una qualche spiegazione razionale a quella mia ossessione, non riuscendoci. E nemmeno adesso ci riuscivo, se dovevo proprio essere sincero, e la cosa iniziava a spaventarmi un po’. Spaventava me, una creatura che in teoria sarebbe dovuta nascere proprio con lo scopo di terrorizzare gli incauti.
    Ritrovarmi dunque vicino a lui, così tanto che potevo benissimo scorgere la spruzzata di lentiggini sul suo viso da bambino, mi faceva quasi sentire... male. Era quella la parola adatta da utilizzare, in quel momento? Rincorrendo quei pensieri ebbi finalmente il coraggio di rispondergli con un’altra domanda, resistendo all’impulso di leccarmi le labbra nel sentire il fresco e giovane odore che sembrava provenire da lui. «E per portarti poi dove, mo gille [4]
    Stavolta fu lui a prendersi qualche attimo per rispondermi, raschiandosi persino di poco il labbro inferiore con i denti. E, Dio, ai miei occhi apparve così fragile e indifeso! Era come un piccolo bocciolo che tardava ancora a mostrare i suoi petali al mondo.
    Infine, dopo aver incurvato di poco le spalle ed essersi ficcato entrambe le mani nelle tasche, quasi l’avessi rimproverato anziché porgergli un semplice quesito, abbassò di poco lo sguardo per evitare di fissarmi ancora negli occhi. E di quel distacco me ne rammaricai. «Al Foundling [5], signore», mormorò a mezza voce, quasi sperasse che non lo sentissi. Ma l’avevo udito eccome, e quelle sue parole mi fecero aggrottare di poco le sopracciglia.
    Senza nemmeno pensarci troppo mi chinai verso di lui e mi puntellai sui calcagni, in modo da poter quasi essere alla sua altezza. Perché l’avessi fatto non lo compresi, così come non capii il mio allungare una mano verso di lui per sfiorargli il viso, sentendolo tremare appena. «Vivi lì?» gli chiesi ancora, e, dopo aver fatto un piccolo passo indietro, lui si limitò semplicemente a scuotere il capo.
    Non alzò lo sguardo e non ricambiò il mio, come se avesse paura che io potessi fargli qualcosa. E come dargli torto? Ero un estraneo, e lui era poco più d’un ragazzino che con molta probabilità aveva davvero quattordici o quindici anni. Che cosa ci faceva, allora, tutto solo per le strade di Londra? Ma di certo non erano affari miei, quelli.
    «Perché dovrei portarti al Foundling, allora?» domandai infine, forse persino un po’ incuriosito, squadrandolo dall’alto in basso non appena mi rialzai in piedi.
    Di quel ragazzo non comprendevo parecchie cose, ma c’era un qualcosa, fra i meandri della mia anima oscura, che mi spingeva a pazientare e ad attendere che fosse lui stesso a dissimulare le mie curiosità e i miei dubbi, come se fra noi potesse esserci un patto silenzioso e mai stipulato che imponeva l’uno di parlare con l’altro. Avrebbe difatti potuto scappare via e non l’avrei biasimato, data la sua giovane età. Anch’io, quand’ero un ragazzino, diffidavo degli estranei che mi si avvicinavano. E anche a maggior ragione, visti i tempi che correvano.
    Il mio interlocutore si gettò delle occhiate a destra e a manca, quasi non volesse rispondere, avvicinandosi poi ancor più alla vetrina per poggiarvi sopra le mani. Osservò distrattamente l’interno, concentrato probabilmente come me su quel brusio circostante che faceva quasi da sottofondo.
    Passarono altri minuti di silenzio, attimi durante i quali fummo affiancati da un bambino accompagnato dalla propria madre. Chiacchierarono animatamente fra loro mentre davano degli sguardi alla merce, finché non si decisero finalmente ad entrare nel negozio. Il mio piccolo amico li seguì con lo sguardo, allontanandosi poi con un’espressione mesta prima di sistemarsi la giacca logora che indossava. Era di una o due taglie più grande, e ricadeva a nascondergli praticamente metà cosce, fasciate da un semplicissimo pantalone scuro che, ne ero sicuro, riscaldava ben poco durante le fredde notti.
    Giacché non si era ancora deciso a rispondermi, come se stesse guadagnando in qualche modo tempo, mi ritrovai a chinarmi un po’ a mezzo busto verso di lui. «Non hai un posto dove andare, mo gille?» gli chiesi ancora. «Una casa, un luogo dove io possa accompagnarti?»
    Sebbene si fosse ritrovato ad osservarmi ancora una volta in silenzio, perso in chissà quali pensieri interiori, alla fine scosse il capo, facendo persino brevemente spallucce. «Poco tempo fa abitavo con altri ragazzi in una piccola baracca nei pressi del porto, signore», mi informò. «Molti sono stati decimati dalla febbre, altri sono scappati o si sono diretti proprio al Foundling».
    «Sei scappato anche tu, dunque?» domandai con fare ovvio e senza troppi giri di parole, guadagnandoci un rapido annuire.
    «Avevo paura a restar lì da solo la notte, signore», soggiunse un po’ spaventato. «Gli altri ragazzini non mi credevano, ma da quelle parti risuonano le voci dei morti».
    Risuonano le voci dei morti. Ripetei quelle parole più e più volte, nella mia mente, cominciando a pensare che quelle basse nenie che avevo udito per giorni, non fossero tutte frutto della mia immaginazione. Se dunque esistevano davvero, non ero stato affatto l’unico a sentirle. Però non mi sarei mai aspettato che ci riuscisse un piccolo umano come quello che avevo dinanzi.
    Mi puntellai ancora verso di lui, squadrandolo con attenzione in quegl’occhi un po’ sbiaditi, molto simili a quelli d’un cieco. Fu solo allora che mi accorsi che in essi c’era qualcosa di strano, e non era affatto il loro colore particolare. Era un qualcosa che non comprendevo, ma che, presto o tardi, mi sarebbe forse stato svelato. O almeno sembravo sperarci. «Dovrei portare anche te al Foundling, mo gille», cominciai, nonostante io stesso non fossi così sicuro delle parole che stavo pronunciando. «
È lì che dovrebbero stare i bambini senza famiglia».
    Contro ogni mia aspettativa si aggrappò alla mia giacca, costringendomi a drizzarmi per non perdere l’equilibrio a causa di quel suo scatto improvviso verso di me. «La prego, signore, non mi accompagni lì», supplicò.
    Lo guardai con la fronte aggrottata, se dal turbamento o dalla preoccupazione era difficile a dirsi. Quello scricciolo sembrava non volerne proprio sapere, dato il modo in cui si impuntava. «Quanti anni hai, mo gille?» mi ritrovai a chiedere di punto in bianco, e nonostante lo sconcerto che gli si dipinse in viso per quel cambio repentino di discorso, alzò gli occhi per fissarmi intensamente prima di rispondermi.
    «Dodici alla fine di questo mese, signore».
    Fui io a sconcertarmi, questa volta. Quella creatura che avevo dinanzi, e a cui avevo erroneamente dato qualche anno in più, era soltanto un bambino. Un bambino per il quale io, senza rendermene conto io stesso, avevo cominciato a provare quella sorta di bizzarro sentimento prima ancora che lo conoscessi. E forse fu proprio per quello che alla fine scossi il capo e gli allontanai delicatamente le mani dalla mia giacca, rilassando il viso. «Un motivo in più per non lasciarti per strada, allora».
    Adesso che avevo scoperto che era soltanto un semplice ragazzino, non sembravo più così ossessionato da lui e dai fantasmi come lo ero stato al principio. Volevo solo che restasse al sicuro, lontano dalle creature oscure che popolavano il mondo e dai pericoli che quella città racchiudeva nel suo vaso di Pandora fino al calar del sole, momento in cui veniva inevitabilmente scoperchiato.
    Quello che stavo osservando era un bambino, lasciare che lo accogliessero al Foundling Hospital come altri trovatelli era la cosa più giusta da fare. Allora perché quel qualcosa, in cuor mio, continuava ad agitarsi senza remore come un leone in gabbia? Che non fossi predisposto per buone azioni come quella, e il mio spirito stesse cercando di ricordarmelo insistentemente? Nay, se fosse stato soltanto quello non avrei di sicuro perso tutto quel tempo. C’era ben altro con cui avrei dovuto fare i conti, ma non avevo la benché minima intenzione di capire cosa, questa volta. Mai come in quel momento, desiderai solo restare all’oscuro di tutto come durante la mia vita mortale e tornarmene a casa.
    Guardai dunque quel bambino mentre intorno a me il brusio della folla continuava, ogni volto da esso composta diveniva soltanto una macchia sbiadita che si perdeva fra mille altre ancora. C’eravamo solo io e quel ragazzino, per il momento. Nessun altro.
    Dopo attimi che apparvero interminabili, mi ritrovai ad aprire di poco la bocca, dando vita a parole sommesse e quasi indecifrabili. «Dirigiti al Foundling a tua volta, mo gille. Non vi è nulla fra le strade, per te». E non attesi nemmeno che potesse rispondermi, accennando un saluto con il capo prima di dargli le spalle e incamminarmi per la mia strada. Che razza di creatura abbandonerebbe un bambino senza prestargli il soccorso adeguato, penserete voi. Ebbene, io vi risponderei: una creatura come me. Non avevo nessun obbligo nei suoi confronti, men che mai volevo averne. Essendo solo un essere umano, e non uno spettro come avevo erroneamente creduto quando l’avevo visto da lontano la prima volta, volevo che restasse il più lontano possibile da me e dal mio mondo. E, forse, ad impormelo era proprio quella bizzarra sensazione che avevo cominciato ad avvertire nei suoi confronti, e che solo in rarissime occasioni avevo provato. Come quando avevo veduto le meraviglie di Parigi, tanto per dirne una. Ma mai mi era successo con un essere umano. E questo mi turbava.
    Sperai che quel ragazzino mi ascoltasse, che comprendendo la sua posizione andasse a cercare asilo in quel luogo, e nemmeno mi voltai per accertarmi che fosse scomparso in quella direzione. Sentii solo i suoi piccoli passi mescolati con quelli della miriade di altre genti, il suo cuore che pompava sfrenatamente e che sembrava battere furente contro le pareti della gabbia toracica. Potei persino avvertire il flusso del sangue nelle sue vene, e il comprimersi dei polmoni ad ogni suo respiro. Sembrava che fosse qui, vicinissimo, nel mio stesso essere, quasi fossimo un’entità sola.
    Fu soltanto a quel punto che mi voltai, vedendolo farsi largo fra la folla per venirmi in contro. Ne rimasi ancor più esterrefatto, non comprendendo le ragioni che spingessero quel bambino a seguirmi con tutta quell’ossessione. Quando mi fu abbastanza vicino da poterlo squadrare dall’alto in basso, lo fissai quasi con distacco, come se quel modo di fare potesse aiutarmi ad allontanarmi davvero da lui, dal suo sguardo e dal suo cuore. «Cosa credi di fare, mo gille?»
    Lui mi guardò, e mai come in quel momento l’espressione che si dipinse sul suo viso mi sembrò quella d’un uomo che, nel corso della sua vita, aveva vissuto esperienze terribili. «Vengo con voi ovunque voi andiate, signore».
    Mi accigliai. «Te lo proibisco», ribattei subito, stornando lo sguardo e riprendendo ad incamminarmi senza più dargli peso. Quella mia originale ombra, però, a dispetto di ciò che io stesso avevo pensato, non si perse d’animo e continuò a seguirmi, qualsiasi strada o vicolo mi trovassi a percorrere. Aveva cominciato quasi ad innervosirmi. Se era davvero così, dunque, per quale motivo non l’avevo ancora scacciata, spaventandola come avrei dovuto? La ragione era semplice, ma la mia mente si rifiutava d’accettarla. Continuai difatti ad eludere quelle poche parole che non facevano altro che martoriarmi, affacciandosi insistentemente nella mia mente come se facessero pressione affinché io le ascoltassi. Scuotevo, però, di continuo il capo, tentando vanamente di scacciarle mentre avvertivo i passi di quel ragazzino sempre più vicini. Me lo ritrovai quasi al mio fianco quando rallentai, avendo intravisto con la coda dell’occhio l’appartamento che dividevo con Henry, il pittore.
    Raccolsi tutta la calma e la buona volontà di cui non avrei più disposto di lì a breve, sentendo distintamente il cuore di quel bambino perdere un battito quando voltai appena lo sguardo per fronteggiarlo. «Le nostre strade devono dividersi qui, mo gille beag [6]», gli dissi freddamente, sperando forse che quel mio tono di voce lo invogliasse ad indietreggiare e fuggire.
    Fece sì un passo indietro, ma dopo essersi portato entrambi le mani strette a pugno all’altezza del cuore, scosse il capo. E io sospirai, non comprendendo. «Perché ti ostini così?» domandai, senza ottener stavolta risposta alcuna. Quel ragazzino si limitava soltanto a fissarmi, ad osservarmi con quell’espressione un po’ confusa e quasi persa nel vuoto, esattamente come al prima volta che l’avevo visto. Nel profondo dei suoi occhi si leggeva un’infanzia tutt’altro che facile, e proprio per quel motivo avrebbe dovuto diffidare almeno un po’ degli estranei. Invece mi aveva seguito fin lì, fino alla mia dimora, e non sembrava intenzionato ad andarsene. E quel che era peggio era che io, nel profondo, non volevo lo facesse.
    Forse ciò che mi spinse a voltarmi del tutto verso di lui, e a fare qualche passo nella sua direzione, fu proprio quello strano sentimento che, nella mia mente, stava cominciando a compararsi con la stessa sensazione che provavo nel veder dipingere Henry. Forse in quel bambino c’era qualcosa che non attraeva me, bensì la bestia annidata nelle viscere, e che voleva disperatamente metter fine a tutta quella follia. E nel chinarmi un po’ verso di lui per poterlo fissare negli occhi, capii che il solo modo che avevo per sbarazzarmi di lui era ucciderlo, ma non ero intenzionato a farlo. Non ancora, almeno. «Come ti chiami, mo gille?» chiesi, stupendo ancora una volta me stesso e lui.
    Quel mio bizzarro amico ritrovò, però, ben presto il sorriso, e quel sorriso così innocente e bambinesco fu capace di rendermi inquieto ma... sereno. Qual spaventoso ossimoro. «William, signore», mi rispose infine, guardandomi con quei suoi grandi occhi azzurri.
    Mi accostai a lui e mi scostai un po’ il giaccone, così da poter coprire anche il suo corpicino. Era così basso e minuto che avrei potuto persino nasconderlo benissimo. «Allora vieni con me, William», pronunciare il suo nome mi parve così strano che cominciai ad incamminarmi come se quello potesse distrarmi, spronandolo a seguirmi. «C’è qualcuno che voglio farti conoscere».
    In molti si chiederanno perché mai, dopo tanti sotterfugi, avessi infine deciso di portare con me quel bambino, ne sono certo. La verità è che ero e sono tuttora un egoista. Volevo tenerlo lontano dal mio mondo, ma allo stesso tempo non volevo che, in quel modo, potesse allontanarsi da me. A quel tempo lo consideravo una preda piccola e appetitosa, un tesoro prezioso che andava custodito gelosamente finché non fosse arrivato il momento di mostrarlo al mondo.
    Ancora non potevo saperlo, ma avrei rubato giorno per giorno un pezzettino della sua anima e della sua purezza, sporcandola poco a poco, conducendolo sempre più dinanzi allo spartito d’una sinfonia che avremmo suonato fino alla fine dei nostri giorni. Non fu dunque con quei pensieri che lo portai in quel misero appartamento che puzzava di chiuso e trementina, ma, almeno al principio, l’avevo fatto credendo che in quel modo avrei placato le sensazioni che imperversavano nel mio animo.
    Ricordo ancora come se fosse ieri l’espressione che si dipinse sul volto di Henry nel vedermi tornare con quello scricciolo avvinghiato al tessuto dei miei pantaloni, mentre gli occhi azzurri vagavano curiosi tutt’intorno come per catturare qualsiasi particolare.
    Mi sembra ancora di vedere il luccichio in quegli stessi occhi quando s’erano soffermati sul mio piano, facendo sì che il loro possessore corresse nella sua direzione sotto lo sguardo ancora sconcertato di Henry, che aveva voltato il capo verso di me per cercar risposte. E cosa avevo mai fatto, io? Mi ero semplicemente limitato a stringermi di poco nelle spalle, alzando una mano per zittirlo prima ancora che potesse porgermi qualsiasi domanda. Forse fu la prima volta che lo vidi davvero umano, chi potrebbe dirlo. Nemmeno quando mi aveva incontrato e aveva in seguito scoperto quant’anni in realtà avessi, aveva mai avuto un’espressione simile. E, aye, non mi vergognavo per niente nel dire che in un primo momento mi aveva terribilmente eccitato. Aveva risvegliato il predatore che era assopito in me, e che gli aveva rivolto un’occhiata sardonica prima d’avvicinarsi a quel piccolo tesoro che si era arrampicato sullo sgabello.
    «Lei suona il piano, signore?» una domanda semplice e chiara, limpida proprio come l’essere che l’aveva posta. E in risposta soltanto un breve cenno del capo, mentre la creatura dentro di me si dimenava e si dibatteva, tentando di liberarsi, comparendo nel mondo per un breve attimo sottoforma d’un sorriso
.





[1] Con questo titolo si intende la nona sinfonia in Re minore di Beethoven.
Venne completata nel 1824 e, nell’ultimo movimento, include persino una parte dell’ode An die Freude, l’Inno alla gioia di Friedrich Schiller.
La sinfonia è una delle opere più note di tutta la musica classica ed è considerata uno dei più grandi capolavori di Beethoven, che l’ha composta quando si era ritrovato completamente sordo.
 
[2] Anche se è il nome della campana principale del Grande Orologio di Westminster, viene chiamata in questo modo l’intera torre dell’orologio, costruita in stile gotico (Particolare corrente architettonica nata in Francia e diffusasi poi in tutta Europa) e alta oltre 96 metri.
 
[3] In questo passaggio non si intende ovviamente del cibo umano, come si potrebbe erroneamente pensare, bensì piuttosto del sangue o delle anime.
Essendo difatti il protagonista una sottospecie di demone, l’associazione risulterebbe fin troppo facile da fare.
 
[4] Letteralmente significa “Ragazzo mio” ed è gaelico scozzese.

[5] Ricovero fondato nel 1739 come ospizio per bambini poveri o trovatelli, poveri o meno abbietti.
I primi bambini vennero ammessi al Foundling Hospital il 25 marzo 1741, in una casa temporanea dislocata a Hatton Garden. In un primo momento ai genitori che abbandonavano qui i figli perché non potevano mantenerli, veniva semplicemente richiesto di lasciare al collo dei bambini un segno di riconoscimento tramite una piccola collana a ciondolo. Il ricovero era dotato di personale anche medico-assistenziale per la prevenzione o la cura di malattie.
Attivo nell’ospedale era anche il servizio musicale, che originariamente veniva portato avanti unicamente dai bambini ciechi, ma divenne famoso per la generosità di George Frideric Handel, che sovente si impegnò gratuitamente ad eseguire il suo Messiah presso l’ospedale.
 
[6] Letteralmente significa “Mio piccolo ragazzo” ed è gaelico scozzese.  



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: My Pride