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Autore: Cassie chan    12/04/2011    14 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
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Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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Capitolo 31 – Love song requiem step two

 

L’uomo non può volare… è un assioma scontato nella sua ovvietà. O perlomeno, lo dovrebbe essere.

In fondo, io, adesso, contro ogni legge fisica ed anatomica, sto effettivamente volando. In ogni senso metaforico e letterale. Quindi, come insegnano tante cose nel nostro mondo, nulla è mai troppo scontato, ovvio o banale.

La vita ha sempre lo straordinario talento di rendere tutto imprevedibilmente realizzabile.

E il bambino biondo, che si dimena sul sedile accanto a me, cercando di sporgersi dal finestrino chiuso, ne è una concreta e tangibile testimonianza.

Non avrei mai pensato, nemmeno come ipotesi remota suggerita da un pazzo con un discutibile senso dell’umorismo, di avere un figlio da Draco Malfoy.

Non ci credo nemmeno adesso, se ci ripenso… ma non perché sia assurdo, come comunque è. 

Ma perché l’incontrovertibile dato che lo rende mio e suo figlio, quel dato che porta i suoi capelli biondi, la sua aria nobile, la sua fossetta sul mento, il suo naso arricciato…

… lui è lontano da me migliaia di chilometri, milioni di secondi e miliardi di flagelli di emozioni.

È difficile concretamente ricordarmelo… ripetermelo nel cervello, per renderlo reale, per non relegarlo in una dimensione quasi onirica, dove non sono sicura che tutto sia successo sul serio.

Ogni giorno, ho fatto questo sforzo, aggrappandomi con le unghie e con i denti a Draco, per non permettere che mi scivolasse via dalle dita e dalla memoria. Era come stare aggrappata ad uno spuntone di roccia, sospesa sull’oceano ribollente, cosciente che sarebbe bastata una sola esitazione per cadere di sotto, in un oblio nero e denso, dove sarei stata rivestita di ogni giustificazione.

Quanto siamo stati assieme io e Draco, davvero? Pochissimi giorni. Da quanto siamo divisi? Cinque anni.

Voleva un figlio da me? Forse. Sa che ha già un figlio da me? No.

Che cosa ha fatto in questi cinque anni? Non lo so.

Ogni risposta era un invito a ricadere in quell’oceano, che sarebbe stato miele sulle ferite che porto dovunque per essermi attaccata al suo ricordo.

E io ho scelto il sale, invece, sulle mie ferite. Ho scelto che me le aprisse il vento. Ho scelto che me le infettasse la terra. Ho scelto che me le lavasse indolente la pioggia, senza farle mai sparire.

Contro tutto… e contro tutti.

Fino ad oggi.

Fino alle sei e trentanove di stamattina.

È stato come se il mio cuore fosse esploso in mille pezzi, sottoposto ad una deflagrazione potentissima che ha generato un calore tale da rinsaldarne, poi, i frammenti in modo compatto ed inespugnabile. O meglio… il mio cuore non è mai stato intero, da quando l’ho perso. Oggi ne sento di nuovo il confortante peso dell’interezza nel mio petto, quasi come un cucciolo addormentato sul mio torace che riscalda il mio stesso respiro.

Come quando tengo in braccio Alex, fino a quando si addormenta.

Non… mi sento… sola.

… ecco, come se si fossero venuti a ripescare dopo anni, sospesa su quella rupe, mi portassero in una casa accogliente e mi dicessero che oramai quel mare non mi ghermirà più.

Dimenticare… scordare… mai più.

Ho sempre odiato volare, sin da quando ero bambina e mia madre voleva venire a trovare mia nonna in Sicilia d’estate. Prendevamo l’aereo e io mi muovevo sul sedile tutto il tempo, agitandomi e piangendo, scatenando le reazioni scioccate dei miei genitori che non erano abituati a queste mie intemperanze, visto che ero sempre abbastanza tranquilla e posata.

Ad Hogwarts, la situazione non migliorò con la possibilità concreta di staccare i piedi dal suolo, non all’interno di un uccello di metallo solido e resistente, ma a cavallo di una fragile asta di legno: credo che la mia repulsione naturale per le scope sia ancora tramandata agli studenti di quella scuola, come l’eccezione tangibile della regola che vuole i maghi e le streghe grandi amanti delle scope.

L’uomo non può volare… è così scontato che credo che, persino da bambina, ogni cosa che ne dimostrasse minimamente il contrario, mi sembrava illogica e priva di senso.

Ergo, l’aereo, la scopa o qualsiasi altro mezzo volante, doveva schiantarsi prima o dopo, come se la forza di gravità improvvisamente si ricordasse di fare il suo ancestrale dovere.

Ed anche da adulta, sebbene cercassi sempre razionalmente di dirmi che non correvo rischi e che ci sono mezzi tecnici capaci di prevenire qualsiasi tipo d’incidente, sia a bordo di una scopa che di un aereo, mi tremavano sempre le gambe se dovevo affrontare delle prove del genere, come se io stessa fossi ancorata alla terra da una forza più forte di quella di gravità e che, staccandomi da essa, io perdessi appoggio e rifugio.

Quindi, anche se ero costretta per ipotesi a salire su un aereo o su una scopa, restavo immobile, gli occhi socchiusi, e cercavo di concentrarmi intensamente, così da convincermi di essere seduta comodamente sul mio letto, piuttosto che su un trabiccolo volante.

Fino ad oggi.

Fino alle nove e diciotto di stamattina.

Non ho smesso un secondo di guardare fuori dal finestrino, tenendo Alex in braccio che mi indicava case, alberi, palazzi, colline, montagne… e specchi d’acqua, illuminati per un attimo dal sole. Diventavano schegge di luce liquida per un secondo, poi si spegnevano mentre l’aereo se li lasciava alle spalle. Come tante schegge di vetro…

… come le schegge di vetro del vaso che Ronald ha rotto ieri sera, facendo rovinare una cascata d’acqua e fiori sul tappeto cremisi del salotto.

Attonita, l’ho sentito prendere la giacca, inforcare l’uscita ed andarsene, sbattendo la porta. Sapevo che sarebbe tornato la mattina dopo, le orecchie rosse d’ira e lo sguardo glaciale, cercando poi ogni pretesto per fare pace mediante piccoli contatti fortuiti, oppure parole sfuggite casualmente, o ancora usando Alex come ambasciatore che non può portare pena. E io avrei riso rassegnata, lasciando perdere il motivo della litigata, dicendo che non importava.

È stato questo il punto, il lasciar perdere perché non importava. Per me ha sempre avuto un motivo quasi imbarazzante nella sua indubbia chiarezza.

A me non importa più avere ragione in una discussione con lui, perché in fondo Ronald non è mio marito nel senso comune del termine.

Ovvio. Che diamine me ne dovrebbe importare allora di avere ragione, in questo caso?

Ma lui ha scambiato questo “lasciar perdere perché non importava”, decisamente per altro.

Credevo che lui lo avesse capito… l’ho sempre pensato. Insomma, come avrebbe potuto pensare il contrario? Sa perfettamente che cosa ha portato al nostro matrimonio, sa perfettamente che Alex non lo chiama nemmeno papà, sa perfettamente che persino mio figlio sa di avere un padre di nome Draco Malfoy, che ha i suoi stessi occhi e che ride nella sua stessa identica maniera.

Sa perfettamente Ronald, dei cinque regali di Natale per Draco, nascosti in soffitta, che ogni anno ho accuratamente incartato, messo sotto l’albero e portato via con le lacrime agli occhi, quando Natale passava ed era tempo di mettere a posto le decorazioni. Stessa cosa per i regali di compleanno. Cinque regali ancora incartati.

Sa perfettamente Ronald, delle novecento e tredici lettere che ho scritto a Draco in questi cinque anni, tenute assieme da un nastro verde come sarebbe piaciuto a lui, e che non ho mai potuto spedire.

Sa perfettamente Ronald, del saluto che faccio a lui ogni mattina, appena apro gli occhi: “Buongiorno Draco…”. E della buonanotte, ogni sera, alla fine della giornata che non mi ha riportato da lui: “Dormi bene, Draco…”.

Solo un sussurro, perso nelle lenzuola di cotone. Un trillo festoso che va ripetendo, invece, Alex, appena si alza da letto, da quando ha scoperto per caso che lo facevo io, ed ha preteso di imitarmi.

“Buongiorno mamma!! Buongiorno Ron!! E buongiorno anche a te, papà!!”.

Ronald sa anche di questo diario, di queste parole che scrivo ogni sera prima di addormentarmi. Lo sa, perché mi vede scrivere. Lo sa, perché me ne ha chiesto il motivo, quando ho iniziato a scriverlo quattro anni fa.

E io gli ho risposto: “Draco deve sapere tutto di questi cinque anni, quando torneremo da lui…”.

Quel giorno, corrugò la fronte ed arricciò le labbra, ma non disse nulla. E io pensavo che avesse capito. Non che ci volesse tanto, ma forse Harry gli aveva messo altre idee in testa… e comunque era meglio chiarire.

Deve aver capito, ovviamente. Questo, ho pensato.

Fino al vaso rotto.

Fino a ieri.

Fino alle ventidue e quarantasette di ieri sera.

Ronald non ha mai capito. Lui mi ha sempre seriamente considerato sua moglie, in ogni senso comune, metaforico ed anche poetico del termine.

Ha sempre seriamente pensato che, in fondo, non fosse vero che io amassi Draco Malfoy. Forse, non è nemmeno convinto che Alex sia davvero nostro figlio, anche se somiglia a Draco così tanto.

… non ha mai seriamente pensato che sarei tornata da lui, appena avessi potuto. Nessuno l’ha mai davvero pensato. Forse nemmeno i miei, Helder ed Hayden che sono stati con me in questi anni, l’hanno mai davvero creduto possibile.

Forse, pensavano che mi abituassi in fretta alla mia nuova vita da neo signora Weasley, ed accettassi fino in fondo il sacrificio da madre che mi era stato imposto e che avevo accettato.

Anche loro, forse, l’hanno sempre pensata come Ron.

Non importa.

Perché, poi, è arrivata la discussione e il vaso rotto delle ventidue e quarantasette di ieri sera. E Ronald se n’è andato, sbattendo la porta.

È arrivata la lettera in filigrana delle sei e trentanove di stamattina. Ed Helder ed Hayden mi hanno salutato, abbracciando forte me ed Alex.

Ed è arrivato l’aereo delle nove e diciotto. Ed ogni paura di volare mi è evaporata dal cuore, come se librassi io stessa per la gioia.

Mentre intravedo dopo cinque anni Londra, mentre mi si avvicina con i suoi colori e suoni che non ho mai smesso di ricordare, stringo forte mio figlio tra le braccia e la mia borsa da viaggio.

Il mio solo bagaglio.

Cinque regali di Natale, cinque regali di compleanno e novecento tredici lettere.

 

 

La mia tenue ma decisa pressione sulla superficie liscia dello specchio, impedisce alle immagini successive di prendere consistenza e forma, mentre scivolano veloci come vagoni di un treno notturno, illuminati da grappoli di luci tremule mentre sfrecciano a tutta velocità. Sotto i polpastrelli, sento il freddo che mi suscita lo specchio, propagarsi come una serie di piccoli crampi fastidiosi, anche se so che quello stesso specchio non è altro che una forma mentale data da Draco ai suoi ricordi, e che quindi, tecnicamente, nemmeno esiste.

Ma la logica, la razionalità, in questo posto, mi hanno già dato ampia prova di non esistere.

Lo specchio non è reale, ok… eppure, provo comunque quella sensazione di freddo sotto le dita, come se stessi indugiando su un pezzo di ghiaccio.

E non c’entra nulla il fatto che questo specchio abbia una fattezza così tangibile da farmi dubitare costantemente sul fatto che non sia reale. Il freddo è per quelle immagini che, nonostante la mia volontà faccia scorrere rapide come se avessi premuto un invisibile tasto di avanzamento veloce, mi sembrano sempre troppo lente, troppo cariche di dettagli e particolari che riesco comunque a cogliere, mio malgrado.

Dettagli carichi di odio, repulsione, violenza.

E di cui io sono il centro vorticante e tenebroso, nella mente di Draco.

Piego la testa come vessata da un carico opprimente ma invisibile sulle mie spalle, che mi curva la schiena come una supplice vestita solo di stracci. So che tutto questo è cambiato, ma la vividezza di quelle immagini è così sconcertante e potente da darmi le vertigini.

Draco, l’ultima volta che mi ha condotto nei suoi ricordi, mi ha persino protetto da essi, anche se aveva intenzione di farmi del male in modo da allontanarmi da lui.

Adesso, che lui non c’è a filtrarli, mi arrivano tutti, prendendomi in pieno e tagliandomi il respiro.

Sono gli anni di Helena, certo, rivedo a sprazzi ancora la loro amicizia complice trasformarsi in amore, le notti proibite, i giorni rubati, la nascita di Serenity, la morte di Amos ed Helena stessa, la disperazione e l’inerzia di Draco, l’arrivo nella sua vita di Astoria. E, rapido, vedo persino l’incontro con Seth, quando Helena era ancora viva ed aveva deciso di fondare il Petite Peste per avere una carriera alternativa alla vita da modella. Vedo, rapidi come lampi, particolari che non ho visto la prima volta, ma non mi concentro troppo, perché tutto è avvolto da una patina grigiastra, scura, come lanugine che vela ogni pensiero.

Tutto filtra dall’amore per Helena prima, e per Serenity, poi. Ovvio. Ma nulla sembra più forte dell’odio.

… dell’odio per me.

Ora non sono più la ragazzina saccente che, confrontata con lui, vinceva sempre e che lo spodestava dal suo trono in modo illegittimo, e che quindi era ovvio odiare, specie se non aveva nessuna delle doti che lui riconosceva come fondanti quella supremazia. Non sono più nemmeno la giovane donna che, per un solo ed avventato attimo, lui ha quasi stimato in quella tenda di soccorso sul campo di battaglia.

Non sono più nessuna di quelle persone.

Ora lui mi vede coperta del sangue delle persone che ha amato di più, i suoi genitori, Amos ed Helena. Sono il simbolo incarnato di tutto ciò che detesta, di tutto ciò che esiste di opposto a lui e che gli ha causato dolore e sofferenza. Pensa spesso a me, mi vedo nella sua mente dipinta di colori scuri e glaciali, un ritratto in calce di un demone travestito da angelo.

Serro il pugno, chiudendo gli occhi sotto le palpebre che tremano. Sogna di uccidermi.

Al mattino, quando si risveglia, la sua umanità lo fa riscuotere e dimenticare quelle fantasie nefaste, ma ogni notte sogna di nuovo di uccidermi. Con Harry, non riesce a prendersela, perché chiaramente lui l’ha aiutato enormemente e si sente legato a lui da un sentimento frammisto di gratitudine, invidia ed avversione.

Ma, con me, è diverso. Quella purezza che mi aveva riconosciuto, diventa per converso il mio personificare tutti quei valori estremamente bigotti ed inquadrati che hanno portato alle morti delle persone che ama. Sono pregna di quella giustizia, priva di sfaccettature, che, quando decreta un sentenza di morte, la esegue senza nemmeno battere ciglio.

In fondo… ha ragione. L’avevo già notato e pensato. Ed è il motivo per cui ho deciso da tempo che non sarò più il Capo degli Auror.

Cosa avrei fatto, solo un anno fa, se avessi saputo di tutto questo? Che Draco Malfoy mi riteneva la diretta responsabile della morte dei suoi genitori e della donna che amava?

Probabilmente nulla, lo so. Avrei replicato con tono borioso e colmo di acrobazie dialettiche, che io non ero ancora il Capo degli Auror, quando furono uccisi Lucius e Narcissa… stessa cosa per Helena. Non ero più il Capo degli Auror già da un anno. Eppure, nulla avrebbe impedito che Draco vedesse quel sangue sporcarmi le mani.

Perché l’Hermione, capo degli Auror, convinta fautrice di quella giustizia, forse avrebbe trovato milioni di giustificazioni ad entrambe quelle uccisioni.

Narcissa e Lucius erano Mangiamorte e dovevano morire, poco importa come. Se Helena era senza protezione, la colpa era di Draco e del suo aver rifiutato gli Auror.

Non ci avrei mai creduto fino in fondo, e dentro ne avrei subito un tormento lacerante… ma, di fronte a lui, come sempre è stato, dovevo vincere. Granitica come sempre.

Ora, con infinità consapevolezza, mi rendo conto che solo il mio abdicare a quel ruolo, mi ha consentito di avvicinarmi davvero a Draco.

Prima di tutto, per ragioni logistiche… se fossi stata ancora il Capo degli Auror, non avrei mai cercato un lavoro. Ma soprattutto mi sarei sentita in dovere di difendere il mio mondo e il mio ruolo, e so che avrei chiuso gli occhi davanti al suo dolore e alla sua rabbia.

… e non avrei mai capito che cosa c’è di sbagliato nell’ergersi giudice del mondo intero, segnando spartiacque di fuoco tra il vizio e la virtù, la bontà e la cattiveria… il bene e il male.

Me l’ha insegnato lui, Draco… senza volerlo ovviamente. Ma l’ha fatto.

Ed oggi non essere più io a ricoprire quel ruolo, per cui comunque ho sudato e faticato, oggi… è una benedizione.

Non saprei più essere quella persona… e non sopporterei il modo con cui Draco mi guarderebbe. Non lo potrei reggere e sopportare.

All’inizio, non me ne resi nemmeno conto, scambiai quello sguardo per il disgusto solito che aveva per me, da quando andavamo a scuola. Ma sapevo, dentro, che era diverso.

Poi, quando inquadrai la cosa… come tu sei lieto di essere Draco, io sono lieta di essere Hermione. Me stessa con le mie idee e i miei pensieri... e sono davvero stanca che tu sconti su di me colpe altrui… fu il tormento dell’inferno, non appena iniziai a provare qualcosa per lui.

Poi… un giorno… lo sguardo sparì. Cambiò, mutò, si trasformò, come un soffio di aria gelida diventa una brezza calda e soffice.

Sono qui, per quello sguardo. Per capire come fece a cambiare.

Sono qui, per questo.

Le immagini si fermano, riprendono a ritmo normale, come se rispondessero alle mie domande, individuando il lontano bandolo della matassa che ha intrecciato i nostri destini slegati.

 

A mai più arrivederci anche a te, Granger…” rispose a tono in maniera falsamente educata Draco, mentre la guardava scendere le scale.

La vide dall’alto ripercorrere con la schiena dritta la sala piena di tavolini, fermandosi solo davanti alla saracinesca abbassata, per poi chinarsi con attenzione. Sembrò indugiare qualche secondo sulla soglia, la mano di Draco si contrasse ferocemente sul corrimano. Si rilassò solo quando sentì i passi veloci di lei allontanarsi in fretta, correndo quasi. Un rivolo di sudore freddo gli scese lungo la schiena, facendolo rabbrividire.

Era stato bravo a restare calmo nel rivedere la Granger davanti a lui, dopo circa due anni che non la vedeva… l’aveva vista l’ultima volta con Weasley, quel giorno che era corso al Dipartimento degli Auror per rinunciare alla loro protezione.

L’errore più grande della sua vita… l’errore che aveva ucciso Helena.

Il respiro divenne agitato, convulso, affannato, mentre la sua schiena scivolava sulla parete su cui si era appoggiato per sostenersi, dopo la tensione che gli aveva riempito le vene di urgenza e dolore. Seduto sul pavimento, un gomito poggiato sul ginocchio piegato, si portò pensosamente una mano tra i capelli biondi, stringendone con livore una ciocca.

Era stato bravo… ma forse non sarebbe dovuto esserlo. Avrebbe dovuto ucciderla, appena l’aveva vista. Puntarle una bacchetta alla gola, vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime, gioire del tremore nelle sue membra… poi un lampo verde e finalmente lo avrebbe lasciato in pace. Brividi freddi lo assalirono ancora e dovette serrare le labbra per fermarli. I soliti segni che conosceva bene, i segnali che il corpo gli mandava, quando si trattava di uccidere.

La febbre… la solita febbre, che non conosceva la giustizia di uccidere l’assassina di Helena.

Gli occhi grigi rotearono con fastidio, lo sguardo fisso sulle travi del pavimento.

Non era solo questo, ovviamente. In fondo, aveva già ucciso. Mangiamorte, nemici. Ed ogni giorno pianificava la morte di Pucey e Montague. Sapeva combattere oramai quella malattia, che aveva decretato il suo destino.

Avrebbe ucciso la Granger, senso di colpa, febbre altissima, rimorso… ma, dopo un po’, sarebbe stato bene. Avrebbe seppellito anche lei nel cimitero della sua mente, sempre pieno zeppo di cadaveri putrescenti.

Ma c’era Potter, ricordò con una smorfia, lui non l’avrebbe mai accettato. Ed addio protezione del ministero, garanzie con Astoria.

Ed addio anche a Serenity. E non era ancora il momento di rinunciare alla bambina.

A meno che non fosse stato proprio Potter a mandarla… e perché, poi? Non sapeva come viveva…? E la Granger sembrava effettivamente sorpresa di vederlo lì. O aveva solamente recitato? Probabilmente era così… voleva indagare. Sicuramente.

Forse su come trattava Serenity… la mano strinse il ciuffo di capelli, fino a fargli male. Erano convinti che non fosse in grado di prendersi cura di Serenity… ovvio, lui era Malfoy, non poteva fare da padre adottivo ad una bambina di un anno.

Sentiva già le loro voci, nella testa. Probabilmente pensavano, nella migliore delle ipotesi, che la trascurasse… e nella peggiore, che la maltrattasse.

Gli sovvenne il ricordo del viso di Hermione, nitido, preciso, come se ce l’avesse davanti agli occhi. Le palpebre lievi sopra le ciglia lunghe e nerissime, gli occhi castano chiaro, la pelle del collo lasciata scoperta dalla canotta rossa che indossava, le spalle magre che avrebbe potuto afferrare con una mano. Arrivò immediatamente il ricordo della sua voce, tenuemente soffusa mentre nell’oscurità della sua stanza sussurrava: “Harry non mi ha mandato qui, Malfoy… e, se questo può consolarti, io non so minimamente chi sia questa Serenity…”.

Stava mentendo… stava mentendo quella dannata Mezzosangue… avrebbe dovuto ucciderla, altroché… ed invece le aveva anche retto il gioco.

“Dannazione!” urlò, picchiando violentemente il pugno contro il pavimento. Le nocche si graffiarono, perdendo qualche flebile goccia di sangue.

Si riscosse immediatamente, quando sentì dei passi su per le scale, alzandosi in piedi e scuotendo la polvere dai jeans neri. In una manciata di rapidissimi secondi, il suo volto perse tutta l’angoscia e la preoccupazione che, assieme con la rabbia e l’odio, avevano scavato di profonde rughe la sua espressione. Liscia come l’avorio, la sua pelle riassunse un colorito normale e un cipiglio tranquillo, mentre fingeva di attardarsi annoiato sulle scale.

“Eri qui, Danny? È andata via la tua amica?” chiese Seth con tono gentile, salendo le scale e guardando il ragazzo biondo. Draco irrigidì le spalle, l’espressione raggelata, mentre un groppo pesante in gola gli impediva di respirare e parlare normalmente.

Respirò profondamente, cercando di dissimulare nonchalance e tranquillità: “Certo… possiamo finire l’inventario…” ed iniziò pigramente a scendere le scale, il magone che non passava.

Superò Seth, mentre diceva scherzando: “E’ una ragazza carina! Un po’ nevrastenica, ma sembra simpatica… non so se avrebbe mai potuto fare la cameriera, è troppo poco paziente. Purtroppo non ho potuto assumerla, non aveva referenze… e per il party abbiamo bisogno di una ragazza esperta” soggiunse Seth con voce contrita, mentre Draco capiva con ulteriore rabbia, l’inganno che aveva ordito la Granger. Fingere di essere alla ricerca di un lavoro e circuire quell’ingenuo di Seth.

Strinse i pugni, mentre il ragazzo chiedeva con voce tranquilla: “La conosci da tanto?”.

Draco sospirò lungamente, chiedendosi se Seth stesse solo tentando di fare conversazione oppure se stesse effettivamente indagando sulla Granger e sul loro inesistente legame. Avrebbe voluto urlargli tutto contro, rivelando che lei era l’indiretta responsabile della morte della sola donna che avesse mai amato e la complice degli assassini dei suoi genitori, e, per un attimo folle, ci pensò seriamente. Seth era un buon amico e, sebbene tutta la sua vita per lui fosse un mistero e un carico cospicuo di bugie, sapeva che il giorno in cui si fosse deciso a dirgli la verità, Seth avrebbe capito. Dalle questioni sui Purosangue e Mezzosangue, fino al suo destino segnato di futuro Mangiamorte, arrivando persino al suo tradimento.

Era convinto Draco, che Seth avrebbe capito entrambi i tradimenti, che ancora bruciavano nelle sue vene come lava incandescente.

Quello verso i suoi genitori, quando era diventato una spia per l’Ordine.

Quello verso Amos Diggory, quando era diventato l’amante di sua moglie.

Seth avrebbe capito e lo avrebbe giustificato, assolto, scagionato dalle sue colpe. E lui non lo voleva. Era questo il punto. Voleva restare quello che era, anche agli occhi di Seth… la finzione di quel Danny Ryan, che era un uomo senza passato.

Puro, candido, innocente, come solo una finzione può essere.

Dentro, invece, sarebbe rimasto Draco Malfoy, il traditore di ogni parte del mondo. Quell’uomo non meritava alcun ristoro o alcun sollievo alla sua condizione.

Draco, spesso, concepiva il tutto come un qualcosa di clamorosamente scontato… quell’uomo meritava di morire, non appena avesse affidato Serenity a chi ritenesse degno di crescerla e non appena avesse ucciso Pucey e Montague.

E la Granger? Era un’altra vita che doveva prendere?

Probabilmente sì… più realisticamente no.

Per Potter, certo… e poi non desiderava realmente ucciderla. Non era un mostro, non lo era mai stato.

Una vita fa, avrebbe aggiunto a quel “non lo era mai stato” un “suo malgrado”. Non saper uccidere era stata la condanna sulla sua testa, in fondo.  Il motivo per cui i suoi genitori lo avevano rifiutato e scacciato.

Non amava prendere delle vite, non lo aveva mai amato nemmeno in guerra. Ma se fosse stato costretto, le cose sarebbero cambiate.

La Granger non doveva mai più avvicinarsi a lui, se aveva cara la pelle.

Sibilò freddo come il vento, ricordandosi della presenza di Seth e della sua ancora sospesa domanda: “Era una mia compagna di scuola, Seth… ma non ci siamo mai sopportati…”.

Divennero un sussurro di minaccia le sue ultime parole, mentre si voltava guardando fisso l’amico negli occhi con espressione raggelante.

Seth trasalì, non abituato a quel viso, così strano sul guscio vuoto che rispondeva al nome di Danny Ryan, ma perfetto come se fosse nato solo per quello, se lo si legava al nome Draco Malfoy.

“… non voglio più vederla qui dentro…”.

 

Se avessi saputo tutto questo, se avessi saputo di questo suo viso… e persino della sua risolutezza ad uccidermi, se mi fossi avvicinata troppo a lui e a Serenity…

Sicuramente non avrei davvero messo più piede al Petite Peste… e io che pensavo che era il solito odio dei tempi della scuola…

Devo ringraziare di come siano andate le cose… e di come questo odio così raggelante, un giorno, si sia trasformato in amore.

Non riesce la paura a scalfirmi, ovviamente. Non potrei mai temerlo adesso. Per come lo amo e come ho sentito distintamente lui confessare di amare me, non posso averne paura.

Ma non riesco a smettere di chiedermi come sia potuto tutto questo cambiare…

… dato che io, ingenua, il giorno dopo, ero già di nuovo davanti ai suoi occhi.

 

Draco Lucius Malfoy non aveva un gran numero di giornate da enumerare, come “le più belle della sua vita”. Erano poche, da potersi contare sulle dita di una mano.

Nemmeno i giorni con Helena, constatò con un lieve sospiro che si perse nel vento, potevano essere considerate tali. Certo, era meraviglioso stare con lei, ma nel sottofondo della sua anima, il pensiero di Amos e l’angoscia per il loro futuro, gli impediva di essere felice appieno, di godersi quei momenti che, ancora non lo sapeva, avrebbero avuto breve durata. Inoltre, Helena era sempre stata bravissima nel lasciarlo in un perenne stato d’insoddisfazione, che lo consumava fino alla volta in cui l’avrebbe avuta di nuovo. Non era solo il sesso, ma era soprattutto la distanza che comunque preservava nei suoi confronti, ed il fatto che, nel bene e nel male, aveva sempre rifiutato di considerarsi sua.

Era la moglie fedifraga di Amos Diggory, ma intanto, ci teneva sempre a sottolineare con un gesto, con una parola, con una curva delle labbra, che era comunque sua moglie.

Draco sospirò ancora, afferrando una manciata di sabbia ed osservandone poi i minuscoli granuli disperdersi nel vento, mentre le sue dita si aprivano lentamente. Gettò un’occhiata in tralice a Serenity, che, seduta sulla sabbia accanto a lui, contemplava affascinata il volo dei gabbiani, frecce d’argento nel cielo turchino e riflessi di luna nell’acqua cobalto del mare. Gli occhi di Serenity erano identici a quelli di Helena, quando venivano lì, su quella spiaggia dove era stata per la prima volta con Cedric Diggory e dove aveva conosciuto per la prima, e forse l’unica volta, la speranza di un destino diverso.

Ci tornava spesso Helena, se lo ricordava ancora, forse perché ne traeva quella speranza, assente ora nel suo corpo e nella sua mente. E Draco, dalla sua morte, aveva preso a venirci anche lui spesso, traendone solo il beneficio di un nitido ricordo di lei.

La speranza era annegata da anni… da un ricordo che non sapeva nemmeno di possedere ancora. Sciarpa calda e guance rosse.

La speranza spariva con i ricordi di Helena. Persino la villa che lei amava guardare, era stata messa in vendita.

I ricordi di Helena, profumati di ciliegia, perdevano definizione ogni giorno. Cercava di trattenerli come poteva, ma sapeva che presto sarebbero stati sempre meno netti. 

Era il meccanismo della sua mente per continuare a sopravvivere, dimenticando in parte quel dolore. La sua mente agiva così, senza una sua specifica volontà in proposito. Non gli interessava sopravvivere, era disperato all’idea di dimenticarla.

E nemmeno il quadro vivo di lei, era una consolazione. Non dipingeva un tratto, da quando lei era morta.

Helena si era augurata per lui, una sequela di giornate da chiamare le “più belle della sua vita”, quando gli aveva lasciato il suo ultimo messaggio. Si era augurata anche una donna, che gliele facesse vivere.

Assurdo, constatò come sempre, stendendosi sulla sabbia, le braccia piegate sotto la nuca, e chiudendo gli occhi, le voci di rari bagnanti nella testa come un eco morente.

Anche quel giorno, il conteggio delle giornate più belle della sua vita era fisso sul numero tre.

Una mattina in cui suo padre aveva trascorso tutto il tempo con lui e sua madre, insegnandogli il Quidditch. Il sorteggio come Serpeverde. Serenity che diceva la sua prima parola: “Danny”.

La consolazione magra che poteva darsi e raccontare allo spirito di Helena, quasi come una giustificazione, era che anche quelle “più brutte” erano ferme da qualche mese al numero tre.

Le parole di Piton che dicevano che non poteva essere un Mangiamorte. Il ricordo della morte dei suoi genitori. La morte di Amos e quella di Helena.

Draco aveva invece un’invidiabile serie di giornate da definire “fastidiose”, al punto che, se avesse dovuto fare una sintesi dei suoi ventitré anni di vita, quell’etichetta era applicabile ad una buona metà dei suoi giorni.

Sapeva che era anche il suo carattere, poco incline a sopportare la gente in generale, ad infastidirlo più del dovuto di fronte ad una sequela innumerevole di cose. Ad alcune giornate, poteva attribuire quell’appellativo, anche se una ragazza lo aveva fissato per strada, o se un commesso aveva cercato di vendergli qualche cosa di più. E nonostante non potesse negare di essere anche sollevato di vivere da babbano, aveva anche notato che il fastidio era aumentato da quando era senza poteri, visto che doveva usare mezzi pubblici, avere a che fare con il traffico londinese e così via.

Eppure, se avesse dovuto dare una pole position alla sua giornata più “fastidiosa”, quella odierna vinceva assolutamente su tutte. E la cosa meno confortante era che non era nemmeno finita.

Stilò una lista di sufficienti argomenti che perorassero questa sua ultima tesi e quel poco auspicabile primato, gli occhi ancora chiusi mentre restava supino, di lui restava attento solo l’udito per verificare che Serenity non iniziasse a piangere.

Punto primo, la Granger. Si era ripresentata al Petite Peste, a quanto pare ancora con la recita della ricerca del lavoro in piedi.

Quando se l’era rivista davanti, aveva fatto eco a tutta la sua forza per non schiantarla all’istante. Ma ovviamente non poteva farlo, perché era in una stanza piena di babbani, con cui viveva e lavorava ogni giorno: l’incantesimo di memoria, poi, non era mai stato il suo forte e nessuno, tantomeno la Granger, lo avrebbe messo nelle condizioni di chiedere aiuto ad Astoria, che invece sapeva fare quasi solo quello.

Aveva retto ancora il gioco all’Auror, solo per difendere la sua copertura, ed era rimasto oltremodo sconvolto dalla faccia di bronzo della Granger. Non soltanto continuava nella recita del posto di lavoro, ma si era persino meravigliata che lui non glielo avesse dato sul serio! Il fastidio per la Granger in generale era, poi, anche acuito da molti punti che non gli tornavano della vicenda.

Lei aveva accennato ad una condanna, che doveva aver ricevuto e su cui lui si sarebbe potuto fare due risate… che diamine voleva dire? Era stata condannata? E da chi? E per cosa?

Perché poi, se voleva fare delle indagini su di lui, continuava con quella messinscena, sicuramente poco positiva visto che lui comunque non le avrebbe dato il lavoro? Poteva benissimo fare irruzione al suo locale con una decina di Auror, fare delle perquisizioni e liquidare in fretta la vicenda. Invece, no, evidentemente aveva optato per la tortura mentale.

Si morse il labbro inferiore, forse la vita della Granger era così patetica da volerlo indurre ad ucciderla… lui sarebbe stato arrestato, Serenity gli sarebbe stato tolta e lei sarebbe morta come un’eroina.

Altrimenti non sapeva come spiegarsi come si azzardava anche a nominare suo padre… “sei identico a tuo padre”… magari lo fosse stato, pensò stringendo le labbra. Lucius l’avrebbe uccisa con una semplice scrollata di spalle.

Lui, invece, era riuscito a resistere, anche dopo quel commento. Certo, aveva immaginato con sublime soddisfazione di ammazzarla sul serio ed aveva sentito il viso infiammarsi di collera così tanto da credere di esplodere, ma ce l’aveva fatta.

Ne andava dei suoi progetti di vita: la sua vendetta e la cura di Serenity. Solo pensando a quelle due cose, era riuscito a darsi forza sufficiente.

Ma la Granger, sebbene in modo incomprensibile, aveva anche in parte ragione. E con questo si arrivava al punto secondo: Seth Green.

Sì, perché se la Granger si era sentita in dovere di presentarsi nuovamente da lui, era stato anche per lui, che l’aveva assunta a sua insaputa.

Quando lei se ne era andata, gli aveva urlato contro per ore, lui che assumeva la sua espressione da cucciolo abbandonato sotto la neve, ma gli occhi verdi del ragazzo continuavano a scintillare ispirati.

Ergo, qualsiasi cosa avesse in mente, assumendo la Granger, non gli era ancora passata.

Draco sospirò a lungo, non che fosse un mistero che cosa volesse da lei… e nella sua mente maledisse ancora quella dannata strega. Seth aveva un’adorazione per lui, era evidente, e conoscere una ragazza del suo passato, doveva essere stato come un imprevisto regalo di Natale. Da quando lo conosceva, si era sempre profuso in miliardi di domande su di lui e sul suo passato, non sapendo quanto scavava nel torbido. Per fortuna, di Helena aveva un tenue ricordo e non aveva avuto modo di collegarla a lui, credendo solo che fosse la sorella di Summer. Quindi, ora che si era trovato davanti una ragazza che sicuramente sapeva molte cose su di lui, era chiaro che avrebbe sfruttato la cosa. Inoltre, Seth era fondamentalmente buono, era capace di affezionarsi a chiunque ed infatti tutti gli volevano bene; Draco non era pertanto sorpreso che sembrasse nutrire una certa simpatia anche per la Granger. Come diamine facesse ancora non era chiaro…

Punto terzo: ovviamente Astoria, che aveva montato un teatrino assurdo quando aveva visto la Granger. L’aveva incantata, costringendola a credere che lei fosse davvero Summer Breeze Layton, e questo aveva evitato a Draco che la Granger fosse ulteriormente insospettita dalla presenza della sorella minore di Helena. Ma ovviamente, aveva evitato una parte del problema, perché Astoria, che già non aveva mai visto di buon occhio la Granger come qualsiasi Serpeverde che si rispetti, aveva fatto una scenata pazzesca dato che era convinta che fosse stato lui a farla venire, in modo da trovare un modo per spezzare la Promissio Gemina. Non ci aveva tenuto a sottolinearle che, se così fosse stato, avrebbe accolto la Granger spargendo petali di rosa per aria ed intonando canti propiziatori, visto che quella farsa dell’essere fidanzati doveva durare ben sette anni. Ne era passato solo poco più di uno, e già si era pentito amaramente di come si fosse lasciato incastrare.

E, con questo, per collegamento di idee, si arrivava al punto quarto: Potter. Erano giorni che cercava di contattarlo, innervosendosi di volta in volta alle sue mancate risposte e ai vari messaggi della segretaria che, schioccando la lingua con fastidio ed irritazione, ripeteva che il Ministro era occupato. Come diamine si azzardava Potter ad ignorarlo in quel modo? Una parte razionale della sua mente sapeva che Potter, in fondo, era il Ministro, era anche abbastanza normale che fosse occupato.

Ed una vocina estremamente fastidiosa, che parlava anche curiosamente in modo molto simile alla Granger, insinuava anche che il suo ex nemico di scuola avesse fatto davvero tanto per lui, in quegli anni.

Ma la sua propensione allo sdegno aristocratico, non gli impediva comunque di sentirsi quasi offeso dal fatto che, nonostante avesse lasciato decine di messaggi, Potter non si decideva a richiamarlo.

Si levò bruscamente a sedere, piegando un braccio sul ginocchio. Inoltre, se Potter lo stava evitando, questo deponeva decisamente per la tesi per cui sapesse perfettamente della Granger e del tormento che gli stava dando.

Sperava solamente che con quell’ultimo sgradevole incontro, la parentesi Granger si fosse finalmente conclusa… chiuse gli occhi sofferente, stava cercando di evitare di farle del male, ma forse la prossima volta il tormento dell’inferno, che per colpa anche sua stava vivendo, lo avrebbe travolto al punto tale da rendergli impossibile rispettare la sua vera natura, che in fondo non era malvagia.

L’avrebbe uccisa. E sapeva anche che avrebbe potuto ucciderla in un modo terribile.

Respirò a fondo l’aria dell’oceano, cercando di ricavare dal profumo penetrante dello iodio una calma che non possedeva e che sperava che sarebbe giunta dal paradiso, dove si trovava Helena. Ma lei, come sempre, non lo ascoltava mai, taceva nella sua culla turchina, sorda alle preghiere sue e di sua figlia. Quasi lo derideva nel suo silenzio, mostrandogli a cosa lui invece fosse simile… non alla placida assennatezza del mare, ma al torbido carnevale della pioggia.

Lontano, risuonò un tuono, che squarciò il silenzio di voci di gente che iniziava ad affannarsi per evitare il vicino fortunale, mentre iniziavano a cadere pesanti gocce dal cielo, improvvisamente ricolmo di nubi.

Draco riaprì gli occhi gemelli di quel cielo spezzato, mentre la pioggia aumentava di intensità, affrettandosi a raccogliere Serenity per riportarla in macchina. La bambina aveva messo su un pianterello isterico e innervosito, sicuramente indotto dalla paura che aveva dei tuoni, che oramai si susseguivano velocemente, incalzando la pioggia con il loro rombare. Sistemò la bambina sul seggiolino, sistemato con cura sui sedili posteriori, assicurandosi che non si fosse bagnata, mentre Serenity continuava a piagnucolare, tirando su con il nasino. Draco cercò di rassicurarla come poteva, ma alla vista della coda che si stava formando per tornare in città, decise di tornare subito al posto di guida per ripartire, prima di trovarsi imbottigliato nel traffico crescente. Cosa che comunque non riuscì ad evitare, la pioggia iniziò a cadere sempre più forte mentre si avvicinava quasi a passo d’uomo a Londra, le strade completamente intasate.

Draco cercava ancora di rassicurare Serenity, ma la bambina non ne voleva sapere di stare tranquilla.

Quando arrivò finalmente al Petite Peste, oramai un’ora dopo, era già scesa la sera e la pioggia non aveva smesso un secondo di scendere, anzi dal grado di allagamento delle strade, a Londra doveva aver iniziato a piovere molto prima. Tamburellando sul volante all’ennesimo semaforo rosso e cercando di far concentrare Serenity sulla versione storpiata della favola del Brutto Anatroccolo, dato che non ricordava assolutamente come finisse, Draco si chiese per l’ennesima volta come diamine aveva fatto ad arrivare a vivere quella vita, la vita di un ragazzo padre babbano, con un locale sulle spalle, un amico iperprotettivo e una fidanzata nevrastenica.

Era stata Helena, era tutta dannatamente colpa sua. La vedeva persino ridere di quel sorriso dolce, accucciata in un angolo del cielo, lei che magari l’aveva anche rimpianta una vita simile. E lui, invece, non aveva nessuna vita da desiderare.

Non desiderava tornare alla Magia, se non per strette esigenze concrete e funzionali, tipo la Smaterializzazione che mai come ora, sarebbe stata utile.

Non desiderava tornare ad essere Draco Malfoy… ma non desiderava nemmeno continuare ad esistere in quella bugia incarnata, il cui stesso nome era un altro di quelli che aveva posseduto Helena. Danny Ryan, l’originale.

In fondo, pensò seguendo con lo sguardo una goccia di pioggia che cadeva lungo il vetro, tingendosi del verde della luce del semaforo, non desiderava esistere affatto.

Fosse evaporato come l’acqua che il cielo riversava sull’asfalto… sarebbe stata la giusta fine, per uno come lui. Silenzio. Pace. Quiete. Li agognava come miele dorato.

Dallo specchietto retrovisore, gli occhi colmi di lacrime di Serenity furono come sempre la corda che lo legavano alla vita, che lo riportavano a galla dal mondo gonfio di morte, in cui annegava la testa, annaspando nel sangue che aveva versato per essere ancora lì. Respirò profondamente, giungendo infine nel cortile esterno del Petite Peste e parcheggiando la macchina. Armeggiò con la cintura di sicurezza, liberandosi infine, ed uscì fuori, cercando di non bagnarsi mentre prendeva Serenity, avvolgendola nel suo cappottino verde. La bambina, dal pianto leggero e tutto sommato ignorabile che aveva mantenuto fino a poco prima, proruppe in una serie di schiamazzi umanamente impossibili in un esserino così piccolo, dimenandosi come una  furia tra le braccia di Draco. Stranamente nella sua psiche infantile, non voleva uscire dalla macchina… magari, aveva capito che tra poco avrebbero dovuto rincontrare Astoria… afferrando tra le manine una ciocca di capelli di Draco e tirando forte, Serenity cercò ovviamente di far intendere a “suo fratello” che non era poi così d’accordo con l’idea di tornare a casa da quella strega e che potevano benissimo intraprendere un viaggio in Cina.

Il risultato fu che Draco ci mise circa tre ore a trovare la chiave di casa, bagnandosi completamente i piedi, coperti dalle scarpe leggere di tela, e, solo all’interno, quando evidentemente si rese conto che Astoria non c’era, Serenity finalmente si calmò, erompendo in trilli estatici. Draco sospirò, era peggio di sua madre quando ci si metteva… doveva essere nata, come sua madre, per rendergli la vita un inferno.

Si rendeva conto confusamente di essere vagamente negativo in quella giornata, come sempre del resto, perché sapeva anche di adorare Serenity e di aver amato profondamente sua madre Helena.

Ma era in giornate come quelle, fastidiose come quelle, che riviveva inconsciamente lo strazio dei giorni senza di lei… e tutto quindi era inferno. Lui, Helena, Serenity, la sua vita.

Tutto.

Con quel pensiero, aprì la porta di scatto, sbattendola subito alle sue spalle, bofonchiando a mo’ di saluto: “Serenity deve essere nata decisamente per rendermi le serate un inferno!”. Le scarpe, completamente zuppe, gocciavano sul pavimento, ne osservò le travi di legno bagnarsi progressivamente. Quando sollevò lo sguardo, inizialmente non notò la presenza incuriosita e divertita di Seth che sostava pigramente davanti a lui. I suoi occhi furono catalizzati completamente da qualcosa alle sue spalle.

La Granger. Ancora.

Per un attimo lunghissimo e sciocco, Draco si chiese sbigottito se non se la stesse semplicemente immaginando, se il fastidio di quella giornata non si fosse tradotto in una visione assolutamente molesta e sgradita. Ma la visione era troppo reale per non immaginare che fosse lei, sul serio… la ragazza era seduta a gambe incrociate sul letto di Seth, una mano sospesa per aria mentre portava alla bocca delle patatine. A questo, si aggiungeva il fatto che non indossasse lo stesso vestito azzurro della mattina, ma un paio di shorts neri ed una maglia rossa; come se non bastasse, poi, aveva i capelli vistosamente umidi e sembrava che si fosse appena fatta una bella doccia.

Ancora una volta, come se fosse stata chiaramente invitata a restare, A CASA SUA.

Il nervosismo gli tinse il viso di rosso, facendolo sentire accaldato e vagamente claustrofobico, sensazione che aumentò al sospiro malcelato di lei, mentre alzava gli occhi al cielo. Lei si permetteva di alzare gli occhi al cielo?? Lei??!! Il perenne ospite sgradito???!! Si può sapere che razza di interesse masochistico aveva sviluppato nei suoi confronti da stargli costantemente davanti ai piedi? Non ce l’aveva una vita sua? E poi… se voleva controllarlo, non poteva essere diretta come sempre e smetterla con tutte ste sceneggiate? Ovviamente, sperava di fargli perdere la pazienza… dimostrando quanto del Mangiamorte che non era mai stato, c’era ancora in lui.

Non sapeva quanto fosse vicina a rincontrarlo, le dita fremevano di rabbia, mentre ostentava indifferenza, stringendo Serenity con il terrore di vederla sparire. La bambina, quasi come se stesse percependo la tensione che si era venuta a creare nella stanza, era rimasta in un muto silenzio, non proferendo più nemmeno l’ombra di un sospiro o di una risata.

Improvvisamente, il viso della Granger cambiò repentinamente, mentre sbatteva le palpebre un paio di volte, assumendo un’espressione incredula mentre lo fissava, le labbra leggermente dischiuse nella forma quasi di una piccola “o”.  E Draco, con una stretta gelata attorno al collo, ricordò repentinamente della presenza di Serenity ancora tra le sue braccia. Il senso di possesso su quella che considerava alla stregua di sua figlia, si mescolò con l’imbarazzo, quando Serenity lasciò perdere le vicende dei grandi che ovviamente non poteva decifrare, e mise su di nuovo il broncio, biascicando: “Danny! Danny! Fame!!!”. Era così assurda quella situazione, paradossale… al punto da desiderare di fuggire pur di non continuare a viverla.

Sentiva il peso del suo stesso corpo inchiodarlo al suolo, come quelle farfalle trafitte da collezionisti sempre troppo poco consci della loro evidente crudeltà.

E lui quello era, al momento… infilzato in bella mostra davanti alla Granger, sadicamente interessata ai colori della sua vita, alla ricerca spasmodica di quel tono scuro che lo avrebbe fatto gettare nella spazzatura del mondo. Di nuovo.

Lo sguardo che lei possedeva, aveva come sempre qualcosa di clinico, di chirurgico, nel modo che aveva di scandagliargli il viso, i tratti, le espressioni, come se fosse sempre sotto una lente d’ingrandimento.

Una parte tremolante del suo pensiero, gli ricordava che era sempre così con lei… la Granger era proprio fatta così, non lo faceva apposta. Era nata con quello sguardo d’agata, che ti perforava il cervello.

Ma, ovviamente, la maggior parte del suo riflettere non poteva essere razionale e lucido, andando anche a recuperare quel particolare che aveva sempre conosciuto di lei.

Notò piuttosto che gli occhi della Granger trasudavano sorpresa e, con un fremito delle dita nervose, Draco immaginava quello stesso stupore perfettamente cesellato sul suo volto, con la maestria di uno scalpellino o di uno scultore formidabile.

Esibito ad uso e costume, della risoluzione incomprensibile che aveva preso, da qualche giorno. E cioè quella di rovinargli la vita.

Era inutile la sorpresa, visto che sapeva perfettamente che quella era la figlia di Helena, anche se non l’aveva mai vista in viso. Chiunque avrebbe potuto riconoscere in Serenity sua madre.

Ma se la sorpresa era inutile e fastidiosa, l’ilarità, che cercava di trattenere a fatica e che evidentemente doveva essere per lei massima nel vederlo nelle vesti imbranate e poco abili di giovane padre, fu la cosiddetta goccia che fece traboccare il vaso.

Fu quell’espressione a gelargli il pensiero ed il cuore, facendogli percepire persino Serenity come un corpo estraneo tra le sue braccia, come se nelle sue vene ormai scorresse solo il ghiaccio di un solo pensiero.

Doveva finire oggi… quella patetica sceneggiata… in quel momento… lei non era nessuno per starsene lì, sul suo solito scranno da Regina del Mondo, a giudicare la sua vita…

Poco importava il modo, poco importava il mezzo… ma oggi doveva finire. Si sarebbe pentita di aver rimesso piede lì.

“Un attimo, Serenity…” sentì Seth rispondere al posto suo, evidentemente comprendendo che non era aria. Sperava che si fosse finalmente reso conto che mettere quella ragazza nella sua stessa stanza, significava evidentemente che la voleva morta.

La Granger, alle scarne parole di Seth, sembrò riassumere un’espressione pensierosa, che le curvò il viso in uno sguardo di profonda riflessione, venandolo di improvviso sospetto. Draco la ignorò palesemente, restando immobile al suo posto, incapace di muoversi, finché di fronte al prolungato silenzio, Seth pensò bene di prendere in braccio Serenity, togliendogliela dalle mani gelide e trascinarsela dietro, chiudendosi la porta alle spalle.

Fu quel rapido contatto a farlo ritornare in sé, come se fosse ritornato da una dimensione lontanissima, la decisione di farla finita oggi ancora nel suo corpo, mentre cercava una soluzione che non implicasse l’idea di ucciderla. Sospirò vistosamente, poggiando una busta della spesa sul tavolo della cucina e prendendone a sistemare il contenuto, fingendo di non accorgersi minimamente di lei. La testa macinava alla velocità della luce, alla ricerca di una risposta, di una soluzione, gli occhi grigi apparentemente persi nelle sue faccende. In realtà, la soluzione c’era ed era semplicissima… ucciderla… ma ancora per chissà quale motivo, non voleva.

E non c’entrava nulla l’avere a che fare con il Capo degli Auror, o il dover affrontare Potter, se le avesse fatto del male.

Ancora, qualcosa lo teneva fermo nella risoluzione di non torcerle un capello, nonostante lei fosse la diretta responsabile del male di cui era piena la sua esistenza.

Ancora… era più facile convincersi a non toccarla, piuttosto che ad ucciderla. Come sempre, era quella la malattia che non lo lasciava mai in pace, nonostante i suoi propositi. La malattia del non uccidere.

Quella, per cui non era un Mangiamorte. Quella, per cui trovò un’altra soluzione, non appena, dalla stanza accanto, sentì uno sbuffo impaziente e il rumore di cose spostate. Se ne stava andando… di nuovo…

“Non questa volta, Granger…” pensò, voltandosi su sé stesso per ritornare sui suoi passi.

E, in pochi secondi, le arrivò davanti, fermandosi a pochi centimetri da lei, che era china a raccogliere le sue scarpe.

“Che c’è?!” replicò la Granger nervosa, sollevandosi, l’orecchio allenato di Draco colse un’incertezza strana della sua voce, quasi come l’eco di un pianto, ma non ci si soffermò nemmeno per un secondo.

La vicinanza improvvisa di lei, al punto da sentirne il profumo di vaniglia e tè nero, gli fece ricordare i giorni del suo passato… compresa l’ultima volta che l’aveva vista.

Il Ministero, lei con Weasley che rideva della risata di Helena…

Helena…

La rabbia fu così forte nel suo petto, da non permettere nemmeno al ricordo o al rimpianto della donna amata di farsi strada dentro di lui.

Ne soppesò con lo sguardo tutta la figura, quei tratti che, per chissà che curioso controsenso della sua psiche, a volte sembravano assomigliare a quelli di Helena. Non quando parlava con lui, ovviamente, ma quando il suo sguardo era posto in qualsiasi altra direzione. Quella stessa mattina, mentre parlava con gli altri, prima di accorgersi della sua presenza… quei pochi attimi, la piega strana delle sue labbra o il bagliore degli occhi… sembrava… quasi lei… perché, dannazione?

Perché, dannazione, se adesso invece era così diversa da Helena da ricordargli costantemente il loro divario inesauribile, il divario che Helena avrebbe avuto con qualsiasi donna esistente, soprattutto con lei?

Lei che continuava a mantenere quell’espressione da Regina del Mondo… aggrottava le sopracciglia e stringeva gli occhi di risentimento. Ora… non era lei… ora, Draco, si chiedeva come diamine avesse visto Helena anche per un secondo, in lei.

Lei, che come uno scherzo della natura, indossava persino la maglia da calcio che gli aveva regalato Seth, ma che lui non aveva mai indossato, specificando che detestava il calcio.

Testimonianza, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Seth aveva già preso in simpatia la Granger: Seth idolatrava quella maglia e non la faceva indossare a nessuno, visto che lui, Draco, l’aveva indossata una volta. E quindi lo aveva sorpreso, spesso, a sniffarla come se si trattasse di cocaina.

Ora l’aveva data alla Granger.

I suoi occhi grigi tornarono al suo viso e le sue labbra si arricciarono in una smorfia di repulsione, per il pensiero che ora la stesse indossando lei.

Lei sollevò ancora gli occhi al cielo, riprendendo a raccogliere le sue scarpe. Fu allora, vedendola così indifesa e al contempo ancora pregna di quell’ostinazione cocciuta che era stata la vera responsabile della morte di Helena, che Draco perse le ultime resistenze, decidendo di agire. La afferrò brutalmente per il polso, la sua pelle era calda, quasi bollente, ma Draco non se ne accorse neppure. Nelle orecchie, il tonfo sordo dei sandali bianchi di lei che ricadevano sul pavimento di marmo.

Mentre era ancora china, la Granger sollevò autenticamente sorpresa i suoi occhi, come se davvero non se lo aspettasse da lui. La sua pelle tremò per il dolore, ne percepì la tensione forte sotto le dita, mentre lei continuava a guardarlo, una nebbia fosca di lacrime negli occhi. Si sarebbe fermato se l’avesse vista piangere? Probabilmente no… o forse sì.

Ma le lacrime della Granger non erano per il dolore. Appariva solo frustrata, nervosa, impotente. E questo non bastò a farlo fermare, mentre nella mente ripeteva la formula per la Legilimanzia. Per violarle la mente.

La soluzione per non ucciderla… ma si aspettava che lo fermasse da un momento all’altro. Quindi rimase concentrato, cercando di leggerle i pensieri quanto prima possibile.

“Malfoy, nel caso in cui la tua ristretta scatola cranica non l’abbia immagazzinato come concetto, me ne sto andando…” sussurrò lei tagliente, cercando di mantenere ferma la voce, ma ancora lui non se ne dette pena.

Continuando a tenerla per il polso, con un strattone la sollevò violentemente dalla posizione accovacciata in cui era, facendola ritrovare in piedi davanti a lui che continuava a trattenerla per il braccio sollevato, guardandola negli occhi. Doveva restare immobile, fermo, e non perdere la concentrazione. Era senza bacchetta e doveva usare tutta la sua forza magica, senza peraltro garanzia di riuscire a violarne la mente.

Da un momento all’altro, si aspettava infatti che lei reagisse, sguainasse la bacchetta e lo allontanasse da sé, presagendo che cosa stava per fare.

Ma una parte remota della sua mente, registrò che invece lei non stava assolutamente reagendo. Cercava di divincolarsi, ma chiaramente non era forte quanto lui, e prese anche ad urlare, graffiandolo: “Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!”, ma, oltre a quello, nient’altro. Nemmeno nella sua mente.

E Draco si ritrovò nei suoi pensieri, senza che nulla lo ostacolasse.

La mente della Granger era un labirinto intricato, impervio, che si arrampicava in miliardi di pensieri scintillanti. Tutto, però, contrariamente a quanto Draco aveva rinnegato fino a quel momento, era bianco, puro, quasi accecante.

La mente di Hermione era il pieno e perfetto simbolo di quella che lei era; ci scommetteva Draco che, al contrario di molte altre donne, lei ascoltasse sempre prima la sua testa, e poi il suo cuore. E la sua testa era intricata di ragionamenti, idee, congetture che affollavano il suo cervello, ma al contempo, era anche una mente semplice, pura, incapace di concepire il male. Magari era sospettosa, diffidente, ma era sempre pronta a ricredersi.

Draco sentiva già dentro il pensiero della Granger contaminarsi al suo, si chiese ancora perché lei non lo fermasse, facendolo vagare indisturbato. Che fosse un’altra delle sue tattiche? Ma nella mente non poteva mentire, non poteva fingere cose false… doveva essere sincera. E quel candore, da bambina… con sgomento, si rese conto che doveva essere vero. Frugò nella sua mente, incontrando ricordi che non capiva e che non riusciva ad interpretare.

Un fiore giallo, sullo sfondo di una Firenze in piena estate.

Una collana d’oro giallo con un ciondolo quadrato, smaltato di un bel rosso acceso.

Uno spesso braccialetto d’argento, con una piccola piastrina di metallo piatto e liscio, che recava le sue iniziali.

… tutti ricordi, permeati di tristezza, di malinconia, di un’insicurezza che non ricordava che la Granger avesse mai avuto.

Cercando di non farsene sopraffare, continuò la sua ricerca, cercando di indirizzare il corso dei suoi pensieri verso Serenity e verso il nome Helena Jasmine Greengrass, comprendendo che così avrebbe capito perché fosse qui e quanto stesse cercando di capire del collegamento di lui, con loro. La risposta fu buia, oscura. La mente della Granger si offuscò, diventando nera come la pece.

Le tenebre sopraggiunte, per Draco, furono come sbattere la testa contro un muro. Furono uno shock, paragonabile alla scoperta rinascimentale che la Terra era tonda.

Scavò meglio, più a fondo, quasi arrivando al suo subconscio, ma la risposta era sempre quella. Chiara, netta, precisa.

Hermione Granger non era il Capo degli Auror, il giorno della morte di Helena. Lo era Beckwith, il suo vice. E non lo era da un po’.

Non conosceva il nome di Helena, era convinta che le Greengrass fossero solo due e non sapeva nulla nemmeno di Amos Diggory.

Meno che meno, di Serenity. Era insospettita dalla presenza di quella bambina, ma ammetteva che stava bene. Si chiedeva solo che diritto avesse Draco di tenerla con sé.

Basta. Nient’altro. 

Hermione Granger non sapeva nulla di lui. Perché allora era lì? Cercò di arrivare a quella risposta, ma penetrò troppo in fondo nella sua mente. Ne percepì il dolore al braccio, l’insicurezza… e la paura che aveva di lui.

E quel pensiero terrorizzato…Mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente…”.

Pensava che stava per ucciderla…non si era accorta che stava violando la sua mente…

Un conato di vomito lo costrinse quasi ad uscire dai suoi pensieri, quasi come se stesse fuggendo da lei. Se ne sentiva sporcato, come se l’avesse violentata. Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto… perché lei non era l’assassina di Helena.

Hermione non ne sapeva nulla. Quel giorno, per chissà quale motivo, c’era Beckwith al suo posto… ed intuiva dai suoi pensieri che c’era stato anche prima di quel giorno, ed anche dopo.

Fino insomma a quel momento… lei infatti di Helena non sapeva nulla.

Forse, non era nemmeno più il Capo degli Auror… possibile?

Batté le palpebre con foga sorpresa, ritornando in sé e lasciandole infine il polso, dopo averla guardata con un misto di curiosità e sollievo. La Granger si massaggiò piano il polso con l’altra mano, poi accorgendosi delle sue guance bagnate, cercò goffamente di asciugarsi, senza farsi vedere da lui. Un vuoto allo stomaco, l’aveva anche fatta piangere. Tremava persino, come un pulcino bagnato.

“Davvero non sapevi nulla di Serenity, Granger…”. La sua non fu una domanda, fu una constatazione. Una constatazione meravigliata, se ne rendeva conto. Era come se gli avessero rovesciato tutti i pensieri, la osservava immobile, incapace di fare qualsiasi cosa.

 “Te lo dovevo dire in ebraico antico, Malfoy?” aggiunse lei, massaggiandosi ancora il polso, gli occhi che scintillavano, roteando lontani, quasi a cercare una via di fuga “Non so nulla di Serenity, né tantomeno mi interessa… “.

Il labbro inferiore le tremava innaturalmente, battendo quasi sui denti, e Draco cercò di dirsi che era perché l’idiota non l’aveva fermato, mentre violava la sua mente, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo da lei.

“Si può sapere perché sei qui allora? Di nuovo, aggiungo…”.

“Non ti devo alcuna spiegazione, Malfoy…” rispose ancora la Granger, la voce che non cessava di tremare “Me ne sto andando e comunque è stato Seth a chiedermi di restare…”, ecco, tutto quel casino per Seth.

Hermione guardò ancora il polso rosso e buttò fuori cattiva: “…e poi non mi venire a dire che non sei come tuo padre…”.

“Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…” sputò fuori Draco, con espressione ovvia, roteando gli occhi annoiato dall’ennesima frase dello stesso tono della Granger.

Fu già allora, a rendersi conto, di che cosa stava cambiando lentamente.

Noia.

Non rabbia.

Era bastato assolverla dall’omicidio di Helena, per rendere quel commento della Granger innocuo. Anzi, quasi giustificato, visto che lei aveva pensato di morire. Come, lo poteva sapere solo lei.

Certo, quella constatazione lo lambì appena, morendo nel mare di insulti che si stavano già scambiando… restando interrotta come tre punti di sospensione, come una frase che non avrebbe mai completato per mesi.

Lui… come non avrebbe fatto probabilmente nemmeno lei.

Perché, anche se lei lo avrebbe chiamato Danny, accettando già da quella sera di reggergli un gioco che nemmeno conosceva…

Perché, anche se lei era lì per motivi che lui non poteva nemmeno immaginare e che avevano tutto della predestinazione…

… per tanto, troppo, tempo, la sua mente avrebbe sempre concepito solo un pensiero.

“I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli dei Serpeverde, eh Granger?”

 

Cerco ossessivamente di riflettere, di pensare, di fermare quelle immagini nella mia mente, ma lo specchio è di parere contrario. Il turbinare dei ricordi, riprende immediatamente.

 

La ragazza dormiva scomposta, agitata, muovendosi continuamente nel letto che non le apparteneva.

Draco si avvicinò sospettoso, guardandola con astio anche se lei non poteva accorgersene. Trasalì, una fitta improvvisa al cuore, quando lei si mosse e fece una piccola smorfia da bambina infastidita, spostando la coperta con un piede. Nella luce della luna, i capelli spettinati gli parvero più cespugliosi del solito in evidente contrasto con la maglia rossa da calcio che portava, e le ciglia recavano tracce di lacrime lontane che doveva aver pianto. Draco si sedette accanto, non riuscendo a smettere di guardarla, un dejà vu continuo nei sensi che lo frastornava. Sembrava… era del tutto identica a… lampo di consapevolezza.

Ancora.

Era la seconda volta che gli accadeva… perché?

O meglio, oramai, era indubbio che le volte in cui la Granger gli era sembrata Helena, stavano diventando decisamente troppe. Decisamente troppe, per non pensare che gli stesse venendo una specie di Alzheimer precoce e giovanile.

O evidentemente quel Dio che rinnegava dalla mattina alla sera, maledicendolo, aveva deciso un raffinato metodo per punirlo: mostrargli l’immagine più chiara della donna che amava, in quella che invece detestava.

Certo, ora sapeva perlomeno che la Granger non era la responsabile della morte di Helena e la collera eccessiva per lei, si era un po’ calmata, quasi accucciandosi in un angolo della sua mente. Ma, in fondo, lei era sempre l’incarnazione di tutto quello che detestava e che gli aveva rovinato la vita. La cieca virtù dei buoni, il patetico buonismo ipocrita degli Auror, colmo di procedure e inghippi burocratici, nelle cui maglie morivano centinaia di persone sotto l’egida di un’ingiusta giustizia.

Era pur sempre, il Capo degli uomini che avevano trucidato i suoi… e sebbene per quel fatto, la rabbia fosse inferiore rispetto a quella che provava per la fine di Helena, questo non significava che rivedere quest’ultima nei lineamenti seri e morbidi della Granger, non fosse un pensiero che disarmava la sua mente, lasciandolo prostrato alla ricerca di una qualsiasi forma di spiegazione.

Continuò a guardarla, sporgendosi leggermente su di lei nel buio della stanza, analizzandone il viso con attenzione quasi maniacale.

Il mistero di quella somiglianza, non si ripeteva mai quando era cosciente di sé stessa, quando cioè era attenta al suo agire, impostata, rigida nelle sue regole di comportamento e nei suoi prescrittivi codici morali. Allora, assumeva la posa della cocca dei professori di Hogwarts, che tanto odiava, con la schiena dritta, le spalle aperte e l’espressione insofferente. Nulla di nuovo, e nulla di diversamente detestabile rispetto agli anni passati.

Ma, ora, per chissà che motivo, era uscito qualcosa da lei che non aveva mai riconosciuto in quegli anni. Ne trovava tracce pallide, dietro di sé, non le aveva mai notate veramente, senza impedire che si disperdessero nel tempo occorso tra di loro.

Forse aveva visto semplicemente visto la “vera” Granger. Quella, oltre quell’atteggiamento saccente e supponente, da Regina del Mondo. E forse quella Granger… assomigliava ad Helena.

Era una sensazione quasi impalpabile, lieve come un miraggio, che lo prendeva solo quando Hermione si comportava in modo naturale, senza freni e senza inibizioni.

Quando era sé stessa… ancora quella constatazione quasi fastidiosa lo raggiunse prima che lo potesse impedire a sé stesso.

Draco si prese la testa tra le mani, seduto ancora all’angolo estremo del letto, dove Hermione finalmente si era calmata un po’ e respirava con regolarità. Le gettò ancora uno sguardo, dopo aver distolto forzatamente lo sguardo da lei, assicurandosi che stesse ancora dormendo, soffermandosi ancora sui particolari del suo viso e quasi sincerandosi che quella somiglianza non fosse una specie di ictus del suo cuore, che oramai voleva vedere Helena ovunque.

La Granger non le somigliava affatto, se uno la guardava bene.

I capelli potevano essere quasi dello stesso colore, forse quelli di Helena erano leggermente più chiari, ma la loro forma era completamente diversa. Helena era sempre ordinata e perfetta, la Granger invece era sempre in disordine. Un disordine che però la rispecchiava appieno, che non appariva sciatto come a scuola e che la rendeva semplicemente ridicola.

No, adesso Hermione Granger era una donna, fatta e finita, e, come per molte altre cose, sembrava semplicemente superiore all’idea di una messa in piega perfetta.

Gli occhi, anche se adesso erano chiusi, erano il punto di maggiore difformità tra le due. Helena aveva occhi più allungati, quasi da gatta, e di quel turchino che incantavano tutto il mondo. Aveva inoltre un’aria sempre dolce, sempre indifesa, che la faceva apparire tremendamente friabile, sempre sul punto di rompersi o spezzarsi. La Granger, no. Gli occhi di Hermione Granger erano grandi, di un castano anonimo, che però si illuminava per i particolari più sciocchi. Si sorprendeva di tutto, per tutto… ma aveva già notato tantissime volte, da quando la conosceva, che erano semplicemente occhi curiosi, che rispecchiavano un’intelligenza vivace e dinamica. Per questo, erano occhi forti, serrati sotto palpebre sempre frementi di capire, occhi che ti scandagliavano alla ricerca del particolare che le sfuggiva. Lo aveva guardato così, per ore, prima a cena, dato che Seth aveva avuto la brillante idea di costringerlo a farla restare, oltre che imporgli persino di pensare all’idea di assumerla.

Come se cercasse davvero un lavoro… chissà che diamine voleva da lui…

Gli aveva dato sui nervi quello sguardo, aveva avuto la tentazione di schiantarla ogni secondo. Quello di Helena, invece, lo rimpiangeva come l’acqua in un deserto.

Eppure, c’era qualcosa, in lei… in Hermione Granger… che la rendeva tanto simile ad Helena. Qualcosa, nel modo di comportarsi, nell’aria da bambina, negli atteggiamenti aperti e limpidi, nei sorrisi luminosi. Qualcosa che, in Hermione Granger, usciva fuori solo quando non era con lui… ovvio. Lo vedeva adesso, mentre dormiva… lo aveva visto quel giorno al Ministero… lo aveva scorto nella sua mente… lo aveva intravisto, mentre giocava con Serenity o parlava con Seth.

Quando abbassava le difese, quando si sentiva sicura e tranquilla… quindi, con somma pace, quando non era con lui.

Le era uscito fuori solo un attimo, forse perché troppo spiazzata per rendersene conto, quando le aveva chiesto nervoso di non reggergli il gioco e lei aveva sbattuto le palpebre, confusa.

Gli era sembrata più piccola, con quelle spalle serrate a rinnegare chissà che pensiero nascosto. Gli era sembrata Helena, di nuovo.

Draco scivolò seduto sul pavimento, reclinando indietro la testa e poggiando la nuca sul materasso, lo sguardo fosco catturato dal soffitto, un cielo artificiale fatto apposta per lui, che oramai il cielo vero non lo guardava nemmeno più. Nel buio, solo una lama di luce argentea dalla finestra, proveniente da una falce di luna, sottile e affilata come la lama di un assassino, pronto a squarciargli la notte. Perfetto il silenzio, solo il respiro lieve di Hermione che dormiva alle sue spalle, una mano sotto il cuscino, le gambe rannicchiate in posizione fetale e le labbra rosse dischiuse. L’aveva guardata talmente tanto, cercando il motivo di quell’assurda somiglianza, che ne ricordava perfettamente le fattezze, dai piedi piccoli e nudi alle gambe tornite e scoperte, fino al collo bianco impreziosito da qualche ciocca di capelli… fino alle ciglia che sembravano più nere, bagnate di quelle lacrime che chissà perché aveva pianto.

Mentre dormiva, aveva bofonchiato qualche parola, agitandosi, qualcosa che curiosamente assomigliava alla parola “caminetto”. Poi aveva sorriso piano e si era calmata, addormentandosi profondamente. Ne aveva seguito ogni movimento, come quando guardava Serenity, nel cuore della notte, assicurandosi che stesse bene. Anzi… quella era la prima notte, che aveva trascorso senza guardare la bambina, cercando di scorgere in lei un ricordo nitido di Helena.

In compenso, ne aveva avuti decine di centinaia, quella sera, guardando la sua antica nemica.

Distogliendo lo sguardo da lei, Draco si rese conto, guardando in quel soffitto bianco, che l’immagine di Helena nel suo ricordo si era fatta più netta e chiara. Turbato, il cuore in gola, il respiro corto, si rese conto che la ricordava meglio, guardando Hermione. Poteva… poteva finire il ritratto di Helena, se l’avesse avuta lì tutto il giorno, se avesse potuto guardarla dormire, facendosi dominare da quella magia che non sapeva da dove provenisse. Avrebbe terminato il quadro di Helena… il surrogato della donna che amava e che avrebbe preso vita, dal suo amore ancora intoccabile per lei. Come Amos che ogni sera parlava con il ritratto di Daisy, anche lui avrebbe potuto vedere Helena e parlarle come prima.

Stringerla, baciarla, accarezzarla, no… sapere che era viva e reale, non più… ma al momento, si doveva accontentare di quello per andare avanti. Si doveva accontentare di Hermione Granger, della copia malriuscita di Helena, per andare avanti.

Restò lì, fino alle prime luci della giorno, lo sguardo fisso sul soffitto, le orecchie catturate dai rumori soffici di Hermione che aveva ripreso a rigirarsi nel letto. Quando lasciò la stanza, era freddo del piano per trattenere la Granger lì, assieme a lui, cieco e sordo dei soliti motivi che l’avrebbero spinto a gettarla in mezzo alla strada, appena si fosse svegliata, aggiungendo persino nuovi di segno opposto, come il fatto che avere un’Auror per casa poteva essere utile anche per proteggere Serenity.

Ogni particolare era perfetto, ognuno fatto apposta per legare Hermione a lui, a doppio filo. Un filo spesso, come non avrebbe mai nemmeno immaginato.

Un filo… rosso.

 

Il sole sorge e tramonta tre volte. Passano tre giorni.

… tre giorni, in cui, nonostante le sue premesse e il suo piano apparentemente perfetto, Draco si logora nel senso di colpa per i suoi genitori. E mi tiene alla larga.

Lo seguo nelle sue stanze vuote e deserte, accompagnato solo dai gemiti di Serenity e da una turba di pensieri con il medesimo tono e colore.

Tradimento, voltafaccia, inganno, imbroglio, truffa, raggiro, frode, doppiezza, defezione, abiura.

…solo quella parola, declinata in infiniti modi diversi.

Lo taglia come una lama sottile, insinuandosi rapidamente nei suoi pensieri, proiettando ombre lunghe sul ricordo di sua madre e di suo padre. Si accascia al suolo, si porta le mani nei capelli e si dice che ancora una volta, Helena è più importante di tutto.

E, se lui vuole dipingerla, deve tenermi lì, anche contro il mio volere. Anche contro la veste accecante di Auror, alias assassino, che mi vede addosso.

Anche contro i suoi, che da quegli stessi assassini, sono stati trucidati nella peggiore delle maniere.

E si sforza di non pensarci, rimane immoto ed immobile in una stasi prolungata, un’inerzia che non ha senso, una contraddizione di gesti e parole.

Non mi parla per tre giorni, se non per rade istruzioni sul lavoro, e non si interroga sul reale motivo per cui sono lì. Non mi guarda dormire, non prova a dipingermi, evita persino il mio sguardo, illudendosi quasi che io sia una specie di accessorio, che ha messo in casa costretto da qualcuno ed accanto al quale passa controvoglia, inarcando un sopracciglio.

Chiedendosi quasi: “Ma è ancora qui?!”, oppure dicendosi con le labbra arricciate: “Certo che è davvero disgustoso… me ne libererò un giorno…”.

La pigrizia di una cacciata definitiva, esibita ad arte ai suoi stessi pensieri, soccombe al sangue che ribolle nelle vene, sempre alla mia vista.

Non sono un accessorio, non sono una lampada kitsch, una scrivania di dubbio gusto estetico, una coperta dalla cromaticità imbarazzante.

Sono un passo sempre troppo pesante, fuori dalla sua porta. Sono una parola sempre troppo urlata, oltre un muro. Sono un respiro sempre troppo greve, attraverso il silenzio.

Sono… sempre troppo viva.

E sono anche nell’affetto di Seth e Serenity, sono anche nell’avversione di Astoria, che continua a litigare con lui per la mia inspiegabile permanenza.

Sono lo sguardo di Helena, che ancora non capisce da dove mi viene.

E, allora, colpa su colpa, rimorso su rimorso, disgusto su disgusto, trascorre le notti nel pianerottolo che divide l’appartamento di Seth dal suo. Le braccia conserte sul davanzale di una finestra, gli occhi ritagli di stelle, i pensieri avviluppati attorno al mio respiro, dietro una porta chiusa.

Un respiro così ordinario da poterlo scambiare con quello di un’altra. Con quello dell’altra. Helena.

Un respiro che, però, è essenza di un’espressione che può già figurarsi come troppo simile a quello di un’altra. A quello dell’altra. Ancora Helena.

Poi qualcosa si spacca, si spezza, con il tonfo di una ceramica rotta. Non riesco a coglierne i particolari precisi, sono come tagli su una tela da cui filtra una luce rossastra.

Cessa la pigrizia celata, cessa il rimorso, cessa anche l’inerzia.

E tutto, inspiegabilmente, cambia.

 

Poche, pochissime parole, pronunciate con voce affrettata e tagliente. Senza nemmeno una presentazione, un saluto.

Subito dopo che lo squillo del telefono aveva rotto il silenzio perfetto di quel pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di sconquassarlo fino alle ossa. Non aveva nemmeno visto chi era.

Aveva solo risposto.

Solo cinque parole.

“Non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.

Il sospiro, lieve, leggero, sfuggito quasi per caso, per una malaccorta dimenticanza. L’irritazione a quello sbuffo, come se pesasse tonnellate.

“Dì la verità, Potter… non avrebbe dovuto proprio scoprirlo… altro che non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.

Ancora un sospiro, stavolta studiato a tavolino, pathos e tormento. La sosta di un oggetto afferrato e spostato, solo per nervosismo.

“Immagino come sia andata… potrai ingannare lei, ma non me…”. La voce non ne voleva sapere di bloccarsi, continuava come il fiume che spaccava una diga.

Lui, ancora non parlava, Harry Potter ancora restava in silenzio, i minuscoli sospiri come tracce di vita neglettamente sfuggita.

E lui, Draco Malfoy, il traditore di ogni parte del mondo, scopriva la loquacità che non aveva mai avuto. E che avrebbe negato, dopo tre secondi netti.

“Il segreto di Stato, le indagini in corso… stronzate, Potter… lei avrebbe fatto storie… questa è la realtà. E vi serviva, la Granger… vi serviva…”.

Il pugno si contrasse, senza che lo potesse fermare. Lo guardò quasi a disagio, sgranando gli occhi grigi ed imponendo alle dita di aprirsi, dissimulando indifferenza. Ma restavano serrate, tremanti, livide.

“E’ perfetta, per quello che fa, no, Potter? Così pura, così ingenua, così pronta a credere che il mondo sia bianco e nero… è perfetta, no? Se avesse saputo, le avresti istillato il dubbio, e non sarebbe servita più… ovvio, naturale, potrai ingannare lei, ma non me, te lo ripeto…”. Assenso espresso in sospiri. Chi tace acconsente. E il pugno non ne voleva sapere di riaprirsi, di sciogliersi in una mano distesa, rilassata, noncurante.

“Lei non ha mai avuto nulla a che fare con questa storia… né con me…”. Esitazione, prima che se ne rendesse conto. Sentirsi perso, afferrare un angolo del tavolo come per reggersi, come se il mondo si rovesciasse.

Sfuggirono le parole, lasciarono un silenzio attonito dall’altra parte, muto anche di sospiri.

“Avrei dovuto saperlo…”.

Improvvisa fretta, dall’altro capo, come di angosciosa ansia, come di desiderio di strappargliela dalle dita, anche sotto la forma di quelle parole innocenti ed assolutamente innocue.

Draco sorrise senza accorgersene, amaramente, senza allegria. A Potter, era andata bene che, per anni, lui avesse maledetto la Granger, accusandola di ogni sciagura, ma ora che ammetteva che avrebbe sempre dovuto sapere che lei non c’entrava nulla con la morte dei suoi, come per quella di Helena, il Ministro si agitava, come se stesse per cadere dalla sedia.

“Malfoy, voglio solo sapere dov’è…”.

“Mi sembrava che ti sentissi tu in vena di fare conversazione…”.

“Sai dov’è?” ripeté lui monocorde, Draco poteva giurare di aver anche sentito la presa diventare più forte sulla cornetta del telefono.

Con il pollice già sul tasto rosso, pronto a riagganciare, il ragazzo biondo replicò atono, il pugno che ancora non ne voleva sapere di distendersi: “Non lo so Potter, ma anche se lo sapessi, non te lo direi…”, una piccola pausa per gustarsi quell’ansia crescente nel silenzio del Ministro, prima di concludere, riagganciando: “E’ la volta buona che io e la Granger parliamo seriamente, ci buttiamo il passato alle spalle e diventiamo amici del cuore, che ne dici, eh?”.

Non attese alcuna risposta, chiuse la conversazione, una risata di scherno sulle labbra sottili. Poggiò il cellulare sul tavolo, ovviamente aveva mentito. Chissà dov’era adesso, la Granger… era impossibile pensare di rivederla. E di parlarle ancora.

Lo aveva detto solo per fare innervosire Potter, con lo spettro di una assolutamente sgradita amicizia tra loro, figuriamoci. In un mondo perfetto, adesso lui starebbe a cercarla, per poi chiedergli di perdonarlo, per quello che aveva detto.

Anche se era solo la verità: schifosa, orribile, nauseante, crudele. Ma sempre tale.

Nel mondo perfetto, però, anche della verità si chiedeva scusa e lui avrebbe dovuto farlo, compito, come uno scolaro che svolge un tema sulle vacanze estive. E lei, magnanima come un’improbabile maestrina dalla penna rossa, ne avrebbe sorriso. E lo avrebbe perdonato, e tutto sarebbe andato a posto. Sarebbero diventati amici, e sarebbero solo state risate su confidenze, sorrisi su complicità.

Ma, nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione, lui scrollò le spalle e poggiò il cellulare sul tavolo, accarezzando il capo di Serenity che, spensierata, giocava nel suo box.

Controllò se Seth fosse tornato, ma si ricordò che era andato a trovare sua madre, incontrò April per le scale e le chiese di controllare la bambina per qualche attimo, mentre lui si faceva la doccia. April arrossì, annuì con il capo e salì nell’appartamento di Seth, dove aveva lasciato Serenity. Draco scese nel sotterraneo, osservando il dipinto di Helena, ancora incompleto. Si rammaricò di non aver fatto nemmeno uno schizzo della Granger. Salì di sopra, nel suo appartamento.

Gettò la camicia bianca e i jeans su una sedia, senza curarsene, e si infilò immediatamente in bagno, lasciando che l’acqua scorresse liberamente sul suo corpo, tappandogli le orecchie da milioni di pensieri che non voleva ascoltare, e che serrava dietro gli occhi chiusi. Perché, nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione, a Draco Malfoy importava solo di non poter completare il ritratto di Helena, senza che la Granger gli gironzolasse attorno, e stava già cercando un altro modo per farlo.

Ma ne era quasi sollevato, constatò con un sorriso rotto dalla cascata d’acqua, perché lei, la Granger, con quella assurda somiglianza stava diventando peggio di una droga, che non poteva finire bene.

Astoria parlava di un debole… che lui aveva per Hermione. Non parlava di cotta, attrazione o innamoramento, no.

Però sosteneva, urlando in tutti i modi che conosceva, graduando in un’ampia gamma di toni che andavano dallo stridulo all’acuto, che avesse un debole per lei.

Debole.

Un debole… non per la Granger, così stramaledettamente insopportabile, saccente, con le sopracciglia sempre aggrottate e l’espressione da Regina del Mondo.

No.

Decisamente, non per quella.

Ma, ancora, per quella che somigliava ad Helena… quella che non immaginava esistere nel corpo dell’amazzone, della guerriera Granger, quella che, tanto per intenderci, pur di non piangere, si mordeva le labbra a sangue.

Recettivo come sempre era stato, si era accorto dell’insolito silenzio che la coglieva a tratti, o della piega insolita delle sue labbra in determinati discorsi, o della nebbia vorticosa che ne velava lo sguardo in alcuni momenti. Ma poi lei indossava di nuovo la maschera dell’eroina del Mondo, ostentando cinismo ed indifferenza, nascondeva i segni delle crepe e tirava diritto. Come sempre… anche se era palese che le fosse successo qualcosa, nei giorni precedenti.

Qualcosa che l’aveva persino convinta a lavorare per lui.

Ed era in quei momenti, rari, fugaci, come stelle cadenti, che la Granger le somigliava ancora di più. E sapeva, Draco Malfoy, che un miracolo simile non poteva esistere due volte su quella Terra.

La magia di rivedere la donna che amava, in una che invece detestava.

E ora pensava solo a come ritrovare qualcosa di simile. Solo a quello. Perché lui era nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.

Pensava solo a quello…

Solo a quello.

Solo a quello.

Solo a quello.

Non al perché la Granger fosse improvvisamente diventata così insicura.

Non a cosa le fosse successo per renderla così.

Non alla sua espressione, quando le aveva detto la verità sui suoi.

Non al modo infantile che aveva di negare con il capo, mentre lui parlava.

Non alla preoccupazione di Potter su dove fosse.

Non al fatto che il Ministro l’avesse usata per anni, come la scintillante rappresentante di un presunto mondo vero, che doveva avere tutto della perfezione.

Lui, il solo orbo in un paese di ciechi, vedeva il mondo vero, che non era perfetto. E quindi di tutte queste cose, a lui non importava nulla.

Gli importava solo del quadro che non poteva terminare.

L’acqua scorreva sul suo corpo in lunghi ed ampi rivoli ghiacciati, facendo fiorire brividi tremuli lungo la sua pelle, giungendo a lambire l’ampia schiena dritta, le natiche, le gambe e i calcagni.

Con stizza, gli occhi chiusi, cercò di girare ancora il rubinetto, ma si rese conto che era giunto al limite. Sconcertato, si allontanò dal getto della doccia, valutando se semplicemente la caldaia non si fosse rotta e quindi non uscisse acqua calda. Inequivocabilmente, nuvole dense di vapore acqueo si sollevavano fuori dalla cabina di vetro trasparente, appannandola. L’acqua era bollente… era lui, Draco, che continuava a sentire freddo.

Con un gemito di fastidio, si rinfilò sotto la cascata ghiacciata d’acqua, cercando di fare in fretta e frizionando i capelli con energia, la voglia di mettersi persino a battere i denti per il gelo che sentiva. Forse aveva la febbre… la pelle tirava, come se si fosse fatta troppo piccola per contenere il suo corpo, come il vestito di un bambino cresciuto troppo velocemente da risultare ridicolo in panni troppo striminziti e stretti. La pelle, poi, era incandescente. Bruciava semplicemente, facendogli quasi salire le lacrime agli occhi, una sensazione fisica senza spiegazione, come se fosse stato al sole per decenni. A questo si aggiungeva un pizzicore diffuso sotto le piante dei piedi, simile ad un solletico di fastidio, che si propagava lungo gli arti inferiori in crampi quasi dolorosi.

Draco piegò la nuca, l’acqua che continuava a scorrere, non portando alcun refrigerio alla pelle congestionata, poggiando la fronte contro la parete di mattoni e dando dei piccoli colpi ritmici, che gli rimbombavano nel cervello. La gola gli stringeva una morsa soffocante, quasi come due mani serrate attorno alla sua pelle, come un serpente che la ostruisse completamente con la mole del suo corpo liscio e piatto.

Ma la cosa che gli dava più fastidio, era quella sensazione alla base del collo.

Impronta. Un’impronta. Come un segno che poi era bruciato come una malattia, su tutto il suo corpo. Letale, contagioso, e gli venne ancora da credere alle baggianate sui Mezzosangue e sul potere infettivo che avevano. Perché era meglio credere a quello, che ad altro, anche se sapeva che non era stato quel minuscolo contatto, il tutto, la causa, il momento determinante.

Credere che la Granger fosse infettiva, era meglio che ricordare che non era mai stata così vicina. Mai, in dodici anni.

Era più… reale.

Ma, dopo quel ricordo di dita affusolate, dalle unghie corte, che si artigliavano alla sua camicia, fu impossibile tornare indietro al mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.

Quello dove davvero gli importava solo di non poter finire il quadro di Helena.

Gli importava anche di quello… ma non solo di quello.

Il mondo vero, era diventato un altro.

Si era insinuato lento, subdolo nei suoi pensieri, in quei cinque secondi netti. O forse era accaduto anche prima, quando aveva scoperto che la Granger non c’entrava nulla con la morte di Helena.

Anzi, nemmeno la conosceva… quella rivelazione, effettivamente, aveva aperto un mondo, molto prima del fugace e furtivo contatto fisico che avevano avuto.

Nel primo caso, era stato un caso, ecco, in un ordine perfetto, composto dalle loro vite che erano sempre corse parallele.

Parallele, sì… perché, sebbene la loro distanza a volte fosse stata minima, mentre condividevano le stessi classi a scuola o la stessa casa a Grimmuald Place, lui ed Hermione Granger erano sempre stati due rette parallele.

Destinate a restare ognuno nel campo visivo dell’altro, ad ascoltare con l’orecchio disinteressato il rumore dei giorni altrui, a percepire un odore diverso contaminarsi a quello dell’altro… ma ferocemente destinate a non incontrarsi mai.

E quel contatto, quando quella mattina, lei gli era franata addosso, mentre apriva la porta della sua stanza, e si era aggrappata alla sua camicia per evitare di cadere, era stato. come un’ombra di vento.

Fugace, rapido, senza conseguenze, se non quella che, come sempre, Hermione Granger gli era parsa Helena. Ma era stato un secondo, sui cinque di quel contatto.

Un secondo che faceva franare il cuore, minava la sua ragione e resuscitava il suo dolore, ma sempre un secondo era stato.

Dopo quel secondo, era arrivato il solito profumo della Granger, tè nero e vaniglia, così diverso dalla ciliegia dolce di quello di Helena, perché era forte, penetrante, impossibile da ignorare, come era la stessa Granger.

E, riaprendo gli occhi, aveva scorto i suoi capelli annodati in una coda alta sul capo, da cui sfuggivano delle ciocche che le accarezzavano le spalle e che non sarebbero mai sfuggite al rigore di Helena. Ed anche quella vicinanza si era rivelata per quella che era, perché ogni spigolo, ogni incavo, ogni curva del corpo della Granger, incastrato anche per un millesimo di secondo con il suo, non combaciava per nulla.

Non era nata per questo Hermione Granger. Era nata per questo Helena Jasmine Greengrass, per essere il pezzo mancante.

Non era stato quello, il Big Bang, il momento determinante… il nuovo mondo era sorto, come un’alba violenta di colori e di luci, quando aveva letto nella sua mente, dove sapeva che non poteva mentire, della sua estraneità assoluta alla morte di Helena.

Certo, quella rivelazione era stata come avere avuto sempre davanti agli occhi un bersaglio ben visibile nel buio, luminoso, tinteggiato di colori accesi, ed aver aspettato ogni minuto di scagliargli contro un dardo infuocato, aspettando che si avvicinasse al punto di poter colpire, per poi scoprire, in quel momento fatale, che non era il bersaglio che cercava. Ma, una parte non così piccola di lui, soffocata dai giorni intossicati d’odio per lei, forse non ci aveva mai creduto davvero che lei ne avesse colpa, lei, Hermione Granger, ingenua e trasparente come un’insopportabile mocciosa. Non avrebbe avuto quel viso così pulito e quella mente così candida, se ne avesse avuta colpa. Ed era anche certo che Hermione Granger non sarebbe mai riuscita ad ingannarlo, nemmeno volendo, contraffacendo il contenuto della sua memoria, in modo da indurlo in errore.

Ora, nel nuovo mondo, era scontato e banale che fosse Beckwith ad avere colpa dell’omicidio di Helena ed Amos.

Quella stessa piccola parte di lui gli suggeriva subdolamente, in un modo troppo confacente al vero per non crederci, che, se ci fosse stata davvero la Granger al suo posto, lei sarebbe intervenuta per fermare quell’omicidio, prima di tutto per il suo innato e detestabile spirito di giustizia, secondo, per mettersi le mani sui fianchi, guardarlo con superiorità e dirgli con aria saccente: “Te l’avevo detto io, che avevi bisogno degli Auror!”.

Ed Helena forse ne avrebbe riso…

Draco rabbrividì ancora, sotto il getto d’acqua bollente, c’era qualcosa di enormemente strano nell’immaginarle tutte e due assieme. La Granger… ed Helena.

Di primo acchito, poteva dire che era assurdo immaginarle assieme, così diverse, così lontane, contemporaneamente legate da lui e dal bisogno per una e per l’altra, e divise nettamente dai sentimenti che provava per una e per l’altra.

Ma dopo un attimo, curiosamente gli parve giusto immaginarle assieme… giusto… perché?

Evitò i suoi pensieri irrazionali, passandosi una mano tra i capelli bagnati, la sensazione di freddo che si ostinava a non passare.

I segnali del nuovo mondo, erano continuati come un’epifania divina, nei passi che li avevano legati da quella mattina.

Hermione Granger si era staccata, imbarazzata da lui, era rimasto sconcertato nel vederla arrossire davanti a lui. Doveva avere la febbre… in fondo, aveva anche gli occhi lucidi, scintillavano quasi, ma lei, come sempre, aveva tirato su con il naso ed aveva finto abilmente che le lacrime non fossero assolutamente presenti, nei suoi occhi d’agata. Come sempre.

Dopo pochi secondi era già lì a rispondergli a tono e a ritornare all’autentico motivo che l’aveva condotta lì: sapere la storia di Danny Ryan, quello che si era inventato, in modo da poter raccontare qualcosa di una sua presunta vita babbana a Seth, senza tradirlo.

Chiacchiere. Voleva indagare, tipico, era dannatamente cristallina, le si leggeva tutto in fronte, come se lo avesse stampato a caratteri di fuoco.

Ed infatti si era opposto, palesandole che non era decisamente il piano geniale che credeva. E lei, sorpresa, gli aveva rivelato il suo grande segreto.

Non era più una strega da due anni, interdizione all’uso della magia per abuso di potere… quindi non era più non solo il Capo degli Auror, non era proprio una strega. E quello collimò perfettamente con il ricordo chiaro che aveva visto nella sua mente, ossia che nel giorno della morte di Helena, la Granger non era al comando. Era vero, se mai avesse avuto bisogno di una conferma.

Aveva riso come un pazzo alla confessione della Granger, l’ennesima prova che viveva in un mondo nuovo. Lei che veniva punita per chissà quale motivo… e lui che viveva da babbano.

C’era un’ironia tale in quella vicenda, che gli aveva offuscato i ragionamenti, cosa a cui aveva contribuito anche l’espressione di lei, simile a quella di un pesce palla in posizione di combattimento.

Era rimasta sempre buffa la Granger… e già si stupì Draco di quel pensiero. Aveva pensato… buffa… non ridicola.

Il mondo nuovo.

Istintivamente, quando Hermione aveva cercato di allontanarsi, infastidita dalla sua risata, Draco l’aveva afferrata per il polso. Senza accorgersene, senza rendersene conto, quasi d’istinto. E si era chiesto perché, sbattendo le palpebre, mentre lei guardava la sua mano che la tratteneva.

L’aveva fermata, quando invece sarebbe stato meno scocciante che se ne fosse andata, magari offesa mortalmente. L’aveva fermata, quando non aveva alcuna intenzione di parlarle di Danny Ryan. L’aveva fermata, e si era stupito del fatto che, sotto la sottile pelle del polso, sentisse il suo cuore battere forte, come se avesse sempre creduto e pensato che la Granger non ce l’avesse un cuore, come se fosse invecchiata dai ragionamenti e dai pensieri, come se funzionasse con una serie di complicati ingranaggi.

Il mondo nuovo.

E poi lei lo aveva guardato e lui aveva acconsentito anche a parlarle di Danny Ryan, in fondo, con le sue domande curiose, Seth poteva oggettivamente metterla in difficoltà e costringerla a dire cose che poco avrebbero collimato con la sua versione dei fatti. Quindi, anche se era palese che lei voleva indagare su di lui, utilizzando lo schermo della sua identità babbana, era meglio darle comunque qualche particolare.

Draco chiuse velocemente il rubinetto dell’acqua, continuando a rabbrividire ed uscendo velocemente dal box doccia. Si annodò un asciugamano attorno ai fianchi, restando per qualche istante immobile, attonito, completamente catturato dal riflesso nello specchio, dai suoi occhi grigi che sembravano persino sillabare quelle tre parole, la chiave del nuovo mondo.

Avrebbe dovuto saperlo.

Che Hermione Granger non c’entrava nulla. Né con i suoi, né tantomeno con Helena.

Se comunque si sentiva la coscienza pulita, a posto, convinto com’era che fosse solo una colpa della ragazza non sapere nulla del posto dove lavorava, qualcosa, però, dietro di lui continuava a contorcersi. Il mondo nuovo.

Mentre fissava i suoi occhi, nel riflesso dello specchio, la madreperla parve quasi eclissarsi, tingersi di riflessi cioccolato, diventare una nebbia di lacrime e delle parole balbettate, con il pianto in gola.

Il mondo nuovo, anche se era stramaledettamente vero, non era ancora perfetto. Forse, non lo sarebbe mai stato. E Draco Malfoy, nonostante quel riflesso castano nei suoi occhi, pallido come un ricordo, ma vivido come un rimorso, si disse che non importava. Non era colpa sua, non era suo dovere trattenerla lì, spiegarle le cose, farle capire quanto fosse stata usata dai suoi amici.

Poteva anche dispiacergli, averle fatto del male così, specie ora che sapeva quanto lei fosse dannatamente innocente di tutte le colpe che le aveva riversato addosso, ma il senso di colpa era un nonnulla rispetto a quello che, di solito, provava per Helena e la sua morte; quindi sapeva ignorarlo, scansarlo, evitarlo.

Ma il mondo nuovo era di altro parere. Il mondo nuovo non poteva ignorarlo, scansarlo, evitarlo, ora che si era compiuto. Nemmeno quella sera. Specie quella sera.

Quando finalmente, assicurandosi che Astoria non fosse in giro per casa, Draco si decise ad uscire dal bagno, si rese conto che era già tardi, erano quasi le undici di sera. Il tempo era passato così velocemente, senza che se ne rendesse conto, e la cosa lo stupì alquanto, visto che, invece, le sue giornate avevano la strana abitudine di essere eterne e di non finire mai. Dopo essersi rivestito, andò a controllare ancora se Seth fosse tornato, ma in segreteria c’ era un suo messaggio che diceva che sarebbe rimasto a casa della madre, per quella notte. Anche Serenity dormiva già, comodamente distesa nel suo lettino, un pollice in bocca e l’espressione rilassata. Draco sorrise nel guardarla, accarezzandole lievemente i riccioli biondi, la bambina si spostò di lato nel sonno, continuando a respirare regolarmente. April evidentemente doveva averla messa a letto, dopo averle dato da mangiare, sul tavolo della cucina c’erano infatti dei residui di un omogeneizzato.

Aveva anche lasciato l’armadio aperto, mancava una coperta… non se ne preoccupò più di tanto, forse al locale non c’era molta gente e i suoi impiegati avevano pensato bene di trascorrere la serata, chiacchierando sulle scale, e magari faceva freddo. 

Draco ciondolò un po’ per casa, non aveva molta fame, quindi decise di prendere una boccata d’aria. Non aveva voglia di andare in giro, però, in fondo non era stato con Serenity tutto il giorno e non voleva che, se si fosse svegliata, non l’avesse visto di nuovo. Quindi, decise di uscire un po’ sul tetto, stranamente per la sua natura… quella sera, aveva voglia di stelle e di luci, anche striminzite ed artificiali.

Salì pigramente le scale, fino alla porta di metallo del tetto, che era accostata. Se ne chiese il motivo, ma pensò che doveva averla lasciata aperta qualcuno, senza darsene troppa pena.

L’aria della notte soffiò sul suo viso, spostandogli i capelli biondi dalla fronte, scompigliandoglieli. Aveva un odore buono quella notte, come di erba bagnata e fiori di glicine, anche se non immaginava nemmeno da dove potesse venire un profumo del genere in piena città. Probabilmente dai parchi di Notting Hill… e quella curiosità inconsueta, ancora nella sua natura, lo costrinse a fare qualche passo per affacciarsi alla ringhiera e strizzare gli occhi per vedere se effettivamente provenisse da lì.

Fu solo un attimo, ed un lieve bagliore aranciato, alla sua sinistra, catturò la sua attenzione. Sembrava venire dall’intercapedine tra la ringhiera e la caldaia. Si era subito spento, così come era nato, durando solo un secondo, eppure ancora quella strana curiosità non lo lasciava in pace. Era inconsueto per lui, abituato all’inerzia, essere invece quel giorno, così curioso di stelle, fiori e lucciole, ma non era una sensazione sgradevole.

Era solo diverso, vecchio come un ricordo ed, al contempo, nuovo.

Il mondo nuovo.

Si sporse leggermente verso la rientranza, invisibile per chiunque entrasse, a patto di avvicinarsi, e di primo acchito pensò solo che April si doveva essere impazzita, se lasciava le coperte in giro, senza alcuna spiegazione logica.

Fu alla seconda occhiata, che quel qualcosa dentro che si contorceva da quella mattina, riprese a muoversi nel suo stomaco con maggiore foga, inarcandosi, distendendosi, come un animale in gabbia. Draco trattenne uno spasmo involontario della mano, che si stava già di nuovo serrando, sorda alla sua volontà, mentre puntava lo sguardo sulla chioma castana che spuntava fuori dalla coperta a scacchi rossi e verdi.

Hermione non l’aveva visto, aveva il viso chino, probabilmente teneva la fronte poggiata sulle ginocchia. Ancora, con estrema certezza, seppe che, in quella sua morbida fortezza, non stava piangendo, ma probabilmente teneva gli occhi aperti, spalancati, fissi nei suoi pensieri. Incatenati ad una moltitudine asciutta di considerazioni. Desiderò, per un solo attimo, scavarle attorno un fossato, costruirle un muro alto, rendere davvero quella fortezza da bambina, una roccaforte inespugnabile.

Chiuderla a chiave, tenerla sottovuoto, in un castello dove nessuno la toccasse più. Toccare, non in senso fisico… non c’era possesso nel suo pensiero. C’era piuttosto la considerazione di tenere una creatura pura come lei, in una teca di cristallo.

Come la rosa della Bestia, nella favola babbana che raccontava a Serenity prima di dormire.

Non era possesso, era pietà umana. Impedire che un altro le facesse male… a costo di tenerla prigioniera.

Si riscosse da quel pensiero, sbattendo le palpebre, la Granger che ancora non si accorgeva di lui. Vide per la prima volta, nettamente, il mondo nuovo. Ne distinse i limiti, i confini, la spinta rivoluzionaria che stava imprimendo ai suoi pensieri.

Scorse persino fino a dove quella storia poteva portarlo.

Il suo primo pensiero, sgomento, da seccare la gola ed inaridire la bocca, fu: “Che diamine mi stai facendo, Hermione Granger?”.

Il suo secondo moto, istintivo, da bloccare il respiro e imprigionare le membra, fu di prendere la porta e di andarsene, lasciandola lì.

Ma il terzo momento, inevitabile, al punto di rinfrescare gola e bocca, e di sciogliere respiro e membra, furono quelle parole: ““Hai parlato con Potter, quindi…”.

Lei non parve nemmeno averlo sentito, come se si fosse congelata, il silenzio che non era silenzio che pesava su di loro, come una lapide di mille tonnellate. Fu di nuovo tentato di andare via e non tornare più, sensazione gemella di quel sentirsi stupido per averle chiesto qualcosa che già sapeva essere successo. Finalmente, dopo quelli che sembrarono anni, arrivò la sua voce.

Flebile, lieve, come un pigolio: “Perché farebbe qualche differenza?”.

“Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.

L’ironia venne fuori, senza controllo. Assieme al sollievo malcelato per sentire la sua voce, quasi come se avesse temuto per un solo secondo, che Hermione avesse perso per sempre la voce. Ancora, come in una fiaba, quella della Sirenetta, con lui al posto di quella strega, che le estirpava la parola dalle corde vocali, per fargli conoscere il suo grande segreto. Ma lei parlava ancora… ma non alzava il capo, restava a testa china, come se portasse semplicemente un peso troppo grande.

“Non credi di sopravvalutarti troppo?” aggiunse scettica, sempre immobile “In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…”.

“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy e quella è una polizza sulla vita…bè, ripensandoci, non è esattamente una polizza sulla vita, credo più su un’orribile morte e su tormenti eterni, ma nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.

Non riusciva a sentire che cosa stesse dicendo. Nella testa, aveva solo un pensiero. Una preghiera.

Alza il capo, guardami, inarca il sopracciglio ed ostenta ogni tua dote, Granger. Dimmi che sono un idiota, dimmi che non mi credi, dimmi qualsiasi cosa che mi faccia innervosire. O che mi faccia sorridere, mentre cerchi di essere implacabile, e sembri solo un buffo pesce palla in posizione da combattimento. Fammi desiderare di sbatterti per strada, fammi smettere questa ironia fastidiosa anche su mio padre, che non so da dove mi venga. O meglio, lo so da dove mi viene.

Mi viene dal pensiero che tu mi liberi da questo senso di colpa. Stupido, inutile, lercio. E dal desiderio. Che tu sorrida ancora.

Sii il dannato tormento dell’inferno, sii una schiavitù immorale, sii una droga insulsa… ma sorridi, Granger, dannazione.

Che diamine mi stai facendo, Hermione Granger?

“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”  la sentì obiettare contrariata, quasi come ci stesse credendo sul serio. Fece un passo, avvicinandosi e replicando convinto: “Questo veramente si chiama DNA, Granger…” .

“Credo di essermi persa nel sottotesto della conversazione…” chiese sconcertata, un’ombra di sorriso mentre finalmente sollevava gli occhi, anche se rifuggiva dal guardarlo “Stiamo per caso parlando in maniera civile? Anche se comunque in un modo alquanto contorto?”. Fu sufficiente. Quel sorriso fu sufficiente per farlo tornare in sé, per abbandonare quell’ansia senza senso e senza motivo. Vederla al sicuro nel suo castello di stoffa.

Nemmeno lui riusciva a guardarla.

Poteva dire che era vergogna, per la sofferenza che le aveva causato… il nuovo mondo avrebbe detto così? Il vecchio, sicuramente, avrebbe replicato che non si vergognava di guardarla, assolutamente. E perché, poi?

Lui aveva detto la verità, anche se faceva male… ma era lui, la vittima, non viceversa. Quindi poteva guardarla da un’altitudine di milioni di metri, con il mento alzato che sollevava sempre lei.

Ed invece… non ce la faceva. Temeva di vedere un segno qualsiasi sul suo volto… una prova, una traccia, un’orma delle sue parole.

E non c’entrava Helena… per la prima volta, nemmeno lei c’entrava nulla, non c’entrava pensare che, così, Hermione le avrebbe somigliato meno, ed addio progetto di dipingerla … c’entrava solo che non voleva lasciarle segni, non lui.

Non in quel modo. Non, dopo esserle entrato nella mente così. La sporcassero gli altri, con i loro ragionamenti e le loro congetture, ma non lui.

Ne aveva sporcate troppe, di persone pure.

Si sedette accanto a lei, che non parve nemmeno muoversi, per poi scrollare le spalle, dicendo, lo sguardo fisso davanti a lui: “Assolutamente no, Granger, sarà una tua impressione… stiamo parlando solo in modo contorto…”.

“Credo che questo sia al massimo che ci possiamo aspettare l’uno dall’altra, no?” la sentì sorridere ancora, una stretta tiepida al torace, la sensazione che, in fondo, non stesse poi così male. O che comunque poteva andare avanti.

Recuperò parte del suo autocontrollo, inarcando un sopracciglio e mormorando quasi offeso: “Sicuramente è il massimo possibile… e ti informo che è già stato un enorme sforzo… ne potrebbe andare della mia salute fisica e mentale…”.

“Lo capisco…” la sentì sospirare, guardando davanti a sé, esattamente come faceva lui, fingendo un’espressione seriamente preoccupata. Non cercava di guardarlo, nemmeno per sbaglio. Teneva le iridi puntate davanti a sé, come una statua di pietra, imitando il contegno rigido del suo corpo. Sicuramente, ora si sentiva debole, vulnerabile… o forse si vergognava per quello che aveva sostenuto per anni… le poteva essere tipico, conoscendola.

Si stupì per un istante di quante cose, suo malgrado, sapesse di lei, prima che Hermione riprendesse a parlare: “Deduco che adesso sia al momento per me di fare l’enorme sforzo…”, poi la sentì appena bisbigliare piano: “Scordati la targa per quest’anno, Malfoy… penso che la vincerà il Ministro Potter…sì, Harry Potter… il Ministro della Magia e il più grande bugiardo del mondo…”.

“Il Ministro?!!! No, non è possibile!” mormorò autenticamente scioccato, era così strano sentire quelle parole sulle labbra della Granger, era tipo come sentir dire a Voldemort che i mezzosangue erano dei validi elementi della Comunità magica. La sentì sorridere, ma poi fermarsi di botto, come se improvvisamente si fosse ricordata che non era il caso di stare lì, con lui, a ridere di Potter. Giusto, che fosse il mondo nuovo, non implicava ugualmente che non fosse un mondo assurdo ed illogico.

Come era assurda ed illogica quella vicinanza, da vecchi amici…

Non erano vecchi amici, dannazione… non erano nulla. Perché erano lì? Assieme? Perché era ancora lì, lei? Perché era ancora lì, lui?

Non lo sapeva… ed era un fastidio atroce, non saperlo.

Poggiò il braccio piegato sul ginocchio, sospirando e sentendo lo sguardo di Hermione addosso. Per la prima volta, sembrava solo curiosa, non arrabbiata, non irritata verso di lui. Ed anche lui, in fondo, era solo curioso.

Una curiosità, l’uno per l’altra, scoperta dopo anni… quando si dice, un mondo assurdo… si erano passati accanto per anni, e solo adesso erano curiosi l’uno dell’altra.

Ma c’era una cosa che lo incuriosiva più di tutto… ora, in quell’istante, che forse era il massimo della confidenza tra di loro ed in cui doveva sembrargli Helena più di tutte le altre volte, Hermione non le assomigliava affatto. Le gambe ancora piegate, il mento poggiato sulle ginocchia, gli occhi rossi ma asciutti, i capelli spettinati ed agitati dal vento… non le somigliava più. Ma era soprattutto l’atteggiamento, ora, a renderle diverse.

Helena avrebbe pianto, se la sarebbe presa con lui, probabilmente se ne sarebbe andata via.

Hermione non piangeva, era stranamente gentile, non accennava a muoversi di un passo.

Cercò di cancellare quei pensieri, tornando a concentrarsi su di lei, aggiungendo in tono noncurante: “Nel suo caso, si dovrebbe parlare di omissione, non di bugia vera e propria…”. Gli era venuto anche di difendere Potter, incredibile… ma ovvio.

In fondo, era davvero difficile avere a che fare con una donna del genere, diamine… come la si faceva a guardare in faccia, con quegli occhi indagatori che aveva, e dirle la verità?

Si riscosse, però, da quel pensiero, Potter era pur sempre il suo migliore amico. Era un suo compito. Inoltre dubitava anche che fosse stata solo una dimenticanza, anzi… sicuramente non glielo aveva detto, perché era utile averla al suo servizio.

“Non pensavo davvero che non lo sapessi… ero convinto, insomma, che il Capo degli Auror le sapesse queste cose…” aggiunse dopo un po’, la voce che si piegava in un accento di scusa, prima che lo potesse impedire.

“Teoricamente sì…” rispose lei senza esitazione, sollevando il mento e raddrizzando la schiena “Ma Harry mi ha spiegato che Scrimeogeor ne ha combinate molte per mettere tutto a tacere. Nessuno ne ha mai parlato, nonostante alla fine della guerra di cose simili ne venivano fuori ogni giorno. Abusi di potere, violenze, razzie. Ma mai sugli Auror… soprattutto per quanto riguardava loro, il Ministro fu molto prudente. Seppellì ogni cosa, voleva che la gente avesse fiducia negli Auror e nella loro rettitudine. Una cosa del genere avrebbe tolto anche questo alla gente, anche quella residua fiducia. Quando Harry l’ha scoperto, ha deciso che sarebbe stato meglio lasciare le cose com’erano per evitare ulteriori scandali… ormai era passato del tempo ed alla fine Harry la pensava come Scrimeogeor. Mi ha detto che c’era la guerra e, se dovessimo condannare ogni persona per ogni tipo di crimine, bè non la finiremmo più… tutti sanno che gli Auror hanno ucciso i tuoi, non è accusare qualcun altro, questo ha detto… e ha aggiunto che non è propriamente utile in questo momento che tutti sappiano come li hanno uccisi… quindi, gli Auror sono rimasti al loro posto e nessuno ha più parlato di questa storia. Quando sono subentrata io nella carica di Capo degli Auror, hanno logicamente supposto che non sarei stata d’accordo con la decisione del Ministero, quindi non mi hanno detto nulla in modo da impedire che creassi problemi o avessi remore verso i responsabili…”.

“E’ quello che avresti fatto?” le chiese, senza nemmeno accorgersene, le parole che fluirono veloci, mentre si voltava verso di lei, puntando gli occhi nei suoi. Nel buio che li circondava, non riusciva a distinguere nettamente i particolari del suo viso, quelli che, per tante ore, aveva scrutato alla ricerca di quelli di Helena. Ma, ora più che mai, non sembrava Helena, ed ancora si chiese quando e perché gli sembrasse lei. La Granger aveva gli occhi lucidi, spalancati, ma colmi delle solite luci che risplendevano come lucciole impazzite. Il solito sguardo da Granger, simile a quello di una bambina curiosa, che a volte inteneriva, a volte innervosiva, sempre faceva sentire a disagio, perché sembrava che stesse sempre alla ricerca del particolare che le sfuggiva, il pezzo che non tornava. Era lo sguardo di una maestrina, che impartisce le lezioni… ma adesso stranamente era più soffice, più lieve, mentre sembrava quasi arrossire. Era lui, forse, che la stava mettendo a disagio, adesso, guardandola.

Ma, come sempre, lei non l’avrebbe mai ammesso, infatti si limitò a deglutire, ma restò con gli occhi fissi nei suoi, come se cercasse di trasmettergli qualcosa, al di là delle sue parole.

Sussurrò serissima, le labbra rosse si aprirono appena: “Non sarei nemmeno diventata un’Auror, se avessi saputo una cosa del genere…”.

“Non è vero…” le rispose d’istinto, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei. Non le credeva… non fino a quel punto. Stava mentendo, era sempre stata brava con le frasi d’effetto. Era nata per fare l’Auror e non poteva essere così idiota da non farlo solo per un episodio. Stava esagerando… ovvio. Evidentemente era in vena di spararle grosse, in modo che lui si fidasse di lei.

Era il mondo nuovo, d’accordo, ma non era ancora arrivato il tempo della fantascienza. Non la odiava più, d’accordo, poteva stimarla, va bene… arriviamo anche che le faceva tenerezza, al pari di Serenity… ma da qui, alla fiducia, ne correva di acqua sotto i ponti… e soprattutto ne correvano di parole non così assurde come quelle.

Ma lei non si arrese, figuriamoci, non si arrendeva mai. Le ritornò la cadenza autoritaria consueta: “E’ verissimo, invece…ho deciso di essere un’Auror per impedire che tutto quello che avevo passato durante la Guerra capitasse a qualcun altro… volevo disperatamente che tutto quello che Voldemort e i Mangiamorte hanno fatto, fosse solamente un ricordo. Se un Auror è capace di fare cose del genere, se è tenuto al suo posto perché in fondo non ha fatto niente di così grave, se tutti hanno pensato che si poteva chiudere un occhio, se persino Harry ha concluso che a creare problemi potevo essere solamente io e non tutti gli altri… bè, allora vuol dire che non era decisamente la mia strada…”.

Ingenua, stupida dannata ingenua… ti faranno a pezzi, un giorno o l’altro…

Loro ti avrebbero fatto a pezzi… sai, quante volte ho raccontato a mio padre di quello che mi facevi passare a scuola? Sai quanto avrebbe voluto ucciderti lui? Sai quanto avrebbe riso, se ti avessero catturato?

Avresti avuto lo stesso destino di mia madre, idiota… anzi peggio… perché sei ancora giovane… e sei anche carina, Granger… ti avrebbero violentato fino alla pazzia… cresci, dannazione, prima che ti facciano a pezzi…

“Anche se hanno ucciso due persone che, se ne avessero avuto la possibilità, ti avrebbero fatto fuori senza tanti complimenti?” replicò arrogante, guardandola ancora.

Avrebbe voluto prenderla a schiaffi, per farle entrare quei concetti basilari nella testa, spiegandole che non era compito suo salvare il mondo, ma cercò di calmarsi e di far filtrare via quel nervosismo, che lei gli metteva addosso.

In fondo, non era la sua balia.

“Soprattutto in quel caso…” mormorò lei, abbassando lo sguardo “Volevo dimostrare che non sono come loro… ed invece alla fine non c’è nessuna differenza… uccidere una persona fa parte del pacchetto. E sembra quasi che non ci si possa tirare indietro, nemmeno volendolo… quindi, se è così, è chiaro che non è più quello che posso fare… non voglio uccidere nessuno, né ora né mai… chiunque egli sia…”.

La ferita c’era, nell’anima, fresca. Era solo lei che non la dava a vedere… ma non significava che non ci fosse.

Che uno non mostri le ferite… non significa che non le subisca.

Hermione Granger, forse, veniva anche ferita più volte delle persone comuni, visto com’era fatta… sempre a difendere valori, in cui non credeva più nessuno… ma non lo dava mai a vedere.

“E adesso? Che cosa farai?” le chiese lui, ancora, tornando a guardarla in viso. Ancora curioso.

La vide inarcare un sopracciglio, mentre lo guardava con espressione assolutamente sconvolta: “Ma stai bene, Malfoy? Non è che hai contratto qualche rarissima malattia infettiva? Ti stai davvero interessando a che cosa ho intenzione di fare?”.

Ecco, accidenti alla curiosità… se la doveva segare quella lingua…

“Non mi sto assolutamente interessando a te, Granger…” aggiunse calmo e freddo, incrociando le braccia e distogliendo ancora lo sguardo da lei “Mi sto interessando alla mia cameriera, non ad altro… e alla mia salute, se Seth dovesse scoprire che ti ho licenziato di nuovo…”. Già, soprattutto alla sua salute… tra l’emicrania post Astoria che inveiva perché lei lavorava ancora qui, e quella post Seth che uggiolava perché lei non lavorava più qui… era peggio la seconda.

Almeno Astoria la poteva far tacere, minacciando davvero di rompere la Promissio Gemina… con Seth non aveva armi di ricatto.

“Vuol dire che lavoro ancora qui?” chiese lei meravigliata, spalancando gli occhi, avvicinandosi quasi a lui, come se non credesse alle sue orecchie “Ma non avevi detto che…”.

“Ricordo perfettamente che cosa ho detto…” la interruppe lui, velocemente. Ovvio, non si poteva accontentare di quattro parole in croce, bisognava ricordare che l’aveva licenziata… e mettere il dito nella piaga sul senso di colpa di averle rovinato la carriera da aspirante omicida... lei però non aggiunse altro e le fu quasi grato per questo. Quasi, ovviamente. Ci mancava esserle grato, oggi.

“Almeno per il momento, la decisione è sospesa, Granger… è solo per il party, sia chiaro… è tra pochi giorni e non farei mai in tempo a trovare un’altra cameriera, ammesso che Seth non mi ammazzi prima…” aggiunse risoluto e deciso a chiudere immediatamente quella conversazione imbarazzante.

“Non avevo pensato a nulla di diverso da questo” sorrise lievemente, guardandolo.

… la ferita è ancora lì… ma almeno sorride, di nuovo. 

“Ecco, appunto…” trattenne tutto sé stesso, per non sorriderle in risposta. Che diamine, si stava rincretinendo del tutto, se si metteva anche a sorriderle… qualcosa filtrò sul suo viso, ma si affrettò ad alzarsi e a voltarsi prima che se ne accorgesse.

Ispirazione improvvisa… sorrideva, certo, ma in modo più debole. La ferita c’era, che non la mostrasse non significava nulla.

Non voleva essere stato lui ad infliggerla… avrebbe dovuto pensarci Potter, non lui. Ancora.

“E comunque, Granger…” aggiunse di spalle, poco certo di voler vedere che cosa avrebbero riflesso i suoi occhi. Al suo cenno d’assenso, proseguì:  “Ero davvero convinto che tu lo sapessi…”.

 “Non importa…” sussurrò lei, in un flebile sospiro gemello del suo.

“Smetterai di essere un’Auror?”. Dannata curiosità idiota.

“Non lo so… in fondo, ho due anni per decidere… la condanna finirà allora… finalmente qualcosa di positivo in questa storia…”.

“Fai come vuoi, sei libera di farlo, ma…” esitò, non voleva dire più nulla, ma non poté impedirlo a sé stesso, inspirò profondamente: “… ma non farlo per questa storia… non se lo meritano…”.

L’avrebbero fatta a pezzi, se avessero potuto. Cresci, dannazione, Granger.

“Sarò io a giudicarlo questo, Malfoy…” replicò fredda “So solamente una cosa… se dovessi tornare, non avrò pace finché non avrò gettato ad Azkaban i responsabili della fine dei tuoi… e questa è una promessa…”.

Non sapeva che farsene delle sue promesse. Specie di quella, poi.

“Non è necessario…” le disse, voltandosi nella sua direzione, sibilando gelido come il vento che gli scompiglia i capelli biondi: “A me non interessa che siano morti, non mi interessa come sia successo, né chi sia stato a farli fuori… meritavano quello che gli è successo ed è giusto che sia finita così… non me ne frega nulla di questa storia… e tu non mi devi niente… come non mi doveva nulla il Ministero… ho accettato quello che mi stavano dando perché mi conveniva, non per altro… non voglio essere risarcito per qualcosa che forse avrei finito per fare io stesso se le cose fossero andate avanti… e comunque non voglio essere in debito con nessuno, tantomeno con te… spero che questo sia chiaro…”.

“Cristallino, Malfoy…” ribadì a sua volta, guardandolo dal basso, ma con uno sguardo da far dubitare che fosse ancora seduta “Con una sola obiezione… anche a me non interessa nulla, ma di quello che potrai dirne tu… lo farò per me, non per te. Tu non mi dovrai nulla, mai… perché lo farò soltanto per me e per quello che dovrebbero essere gli Auror… non per te. Questo, scordatelo, Malfoy…”.

“Fai come ti pare…” le rispose acido, prima di voltarsi. Figuriamoci, fa sempre come gli pare…

Sparì, chiudendosi la porta alle spalle, sospirando per la fine di quell’estenuante conversazione. Era assurdo tutto quello che era successo… l’aveva trattenuta di nuovo lì… e nemmeno con la certezza, dopo quella sera, che lei somigliasse effettivamente ad Helena. Quella sera, non l’aveva più rivista in lei. Era peggio dell’enigma della Sfinge, accidenti a lei.

Solo a letto, si concesse il lusso di un nuovo sorriso, ripensando a quella situazione.

Afferrò il cellulare, scorse l’ultima chiamata, quella che aveva rotto il silenzio perfetto di un pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di sconquassarlo fino alle ossa. Spinse il tasto verde, attese in linea, prese fiato quando qualcuno rispose.

Poche, pochissime parole, pronunciate con voce affrettata e tagliente. Senza nemmeno una presentazione, un saluto.

“… la Granger è qui, Potter… ma ci resta…”.

 

Ed ecco qua, il nuovo capitoletto!! E premetto che come sempre è stato un parto plurigemellare!! Il motivo è chiaro, è passato tantissimo tempo dal mio ultimo aggiornamento… ma a parte i soliti problemi di ispirazione e di immedesimazione in Draco, cosa che mi riesce sempre difficile dato che non voglio trasformarlo in un personaggio melenso, ho avuto anche alcuni casini fastidiosi che mi hanno impedito di scrivere… oltre che lo studio…! Lasciamo perdere, J ma adesso sono tornata con vostra gioia, spero…! Mi sono fermata qui nei ricordi di Draco, per due motivi: il primo strettamente pratico, e che chi mi segue su FB già conosce… c’era un altro ricordo da inserire, che io ho definito “tenero” e che mi piace alquanto… ma purtroppo mi sta prendendo tempo ed è passato davvero troppo dall’aggiornamento. Secondo motivo, più teorico: volevo che il chappy finisse qui, concludendo la fase dell’odio di Draco per Herm, mentre dal prossimo apriremo la parentesi della progressiva amicizia, stima ed amore. Nell’ultimo ricordo, infatti, ne ho messo le premesse, come vedete…J Purtroppo i ricordi mi prenderanno ancora molto tempo, non ne posso tralasciare molti e soprattutto devo rivedere che cosa ho scritto, ai tempi, dal punto di vista di Hermione, per far collimare il tutto… e sono passati quasi 2 anni dal primo capitolo! J Chiedo scusa se non riesco ad inserire i ringraziamenti per le scorse recensioni, ma ho come sempre il tempo contato, ma davvero ringrazio tutti coloro che mi seguono, sia che recensiscano, sia che leggano solamente, sia che mi contattino su Fb, sia per altre vie, sia coloro che mi stanno aiutando a rendere questa storia più bella di quanto già non sia… in particolar modo, mi sento di ringraziare la mia cara Nadia che come sempre mi ha dato tanti consigli per questo capitolo (oltre che ascoltarmi in decine di crisi esistenziali diverse!) e Ophelia che con il suo affetto è riuscita a tirarmi su in parecchie occasioni… grazie davvero!! Un enorme bacio Cassie!:D

 

 

   
 
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