Sollevò il capo, riaprì a stento gli occhi già chiusi -
strappando un ultimo istante alla sorte
soltanto per poterne ridere -
e su di lui posò quelle fessure taglienti come lame,
occhi morenti, ma occhi d'un dio.
Anche così Paride n'ebbe paura.
Tremando come una foglia al vento -
nemmeno la presenza d'Apollo al suo fianco,
che ancora sosteneva l'arco, poteva rassicurarlo allora -
si acquattò dietro a una colonna attenendo che la vita l'abbandonasse,
ancora temendo la sua vendetta.
Ma lì disteso come un cervo in agonia,
scossa dal dolore la divina bellezza,
Achille sorrideva tra sé.
Caduta era infine l'ora del rancore;
spenta nell'ironia del Fato
che aveva sentenziato la sua morte
per mano del più imbelle tra i principi troiani,
ma più ancora oscurata nell'ultimo sollievo.
Precipitoso, sorridente, correva verso la fine:
l'Ade, i campi Elisi, un luogo qualunque.
E gli uomini, la guerra, le pire su cui ardevano gli eroi,
quanta poca importanza avevano adesso;
persino l'agognata gloria gli sarebbe parsa poca cosa allora,
se non fosse stato per quel piccolo particolare: perché quella scelta
impulsiva e fatale
permetteva a lui, immortale, di raggiungerlo così presto.
L'attendeva, Patroclo, e l'eroe precipitoso correva.
L'Ade, i campi Elisi, un luogo qualunque:
dovunque egli fosse l'avrebbe trovato, raggiunto
e si sarebbero poi cercati una spiaggia solitaria,
il loro limbo di dimenticanza o d'eterna memoria,
infine soli
infine liberi.
Senza più profezie ad incombere sul capo,
senza più donne – madri, amanti, spose –,
talloni, dei, profezie di trionfo e di morte
e stretti, finalmente, in un destino comune.
La sola cosa che li avesse mai separati,
cosa d'un altra vita, adesso.