Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Donnie    31/05/2011    2 recensioni
A diciotto anni compiuti, Cloe non sa ancora cosa sia l'amore. Non conosce il sapore dei baci, né l'illecito rumore dei sospiri.
Cloe vuole essere una piccola Carrie Bradshaw, ma la sua vita non le dà alcuno spunto. Finché non ritorna suo padre. Finché non tradisce la sua migliore amica. Finché non comincia una relazione clandestina. Finché non si innamora di un altro. Finché non ci capisce più nulla.
Ne fa di guai, Cloe. Ma poi apre l'armadio, si mette un bel vestito, e cerca di aggiustare le cose... come sempre.
(I look sono realizzati su Polyvore)
Dal testo:
«Non hai risposto alla mia domanda: lo ami?».
E fu lì ed allora, seduta al centro della mia cucina, accoccolata su quella luminescente e surreale isola che non c’è, che di domande me ne posi un bel po’. Molte di più e molto più difficili di quella di Chris. Tutte quelle che avevo meticolosamente evitato, negli ultimi tempi.
Chi ero davvero?
Cosa volevo?
Ero in grado di amare con costanza?
Avrei saputo essere fedele ora e sempre alla persona che mi stava accanto?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Potevo non essere in ritardo anche il primo giorno di scuola? Esatto... non potevo. Perché c’era una strana forza che mi spingeva a fare presto, ad essere pronta, precisa e puntuale.
E quella strana forza aveva un nome. Un nome che conoscevo benissimo e che mi rimbombava nella testa, giorno dopo giorno.
Quella mattina, optai per un paio di jeans più lunghi, una canotta con una stilizzatuta molto simpatica di Minnie e, ovviamente, non rinunciai alle mie ballerine firmate Vivienne Westwood: avevo voglia di vedere qualche volto verde d’invidia.
Solo in nome della moda.
Haute couture, per la precisione.
Accesi la radio, per caricarmi un po’. Il volume era basso, per permettere al mio cervello di svegliarsi con la dovuta calma
Misi un paio di quaderni bianchi in borsa e una penna dall’inchiostro fucsia per appuntare i miei  pensieri, e intanto i Negramaro cantavano Mentre tutto scorre.
 

Usami, straziami, strappami l’anima,
fai di me quel che vuoi,
tanto non cambia l’idea che ormai ho di te.

 
E sembrava scritta apposta per me quella canzone, per me e per la strana forza che mi spingeva verso la scuola.
Misi gli occhiali da sole. Con buone probabilità, ne avrei avuto bisogno al ritorno, per ricoprire le lacrime, per far credere al mondo che io non piangevo.
Rossa e selvaggia.
E forse, quel mondo, mi considerava così. Ma se ne erano accorti che i miei capelli non erano rossi? Erano arancioni. A-R-A-N-C-I-O-N-I.
Persino l’impiegato dell’ufficio comunale si era rassegnato davanti all’evidenza dei fatti quando, tre anni prima, avevo fatto la carta d’identità.
Alle otto ero già nel cortile della scuola. Parcheggiai lo scooter tra due auto che conoscevo bene, quella del professore di matematica e della professoressa di latino. Le auto intoccabili, insomma. Lì, il mio piccolo mezzo di trasporto blu notte sarebbe stato al sicuro, altro che antifurto.
Buttai lo sguardo qua e là, per cercare una capigliatura bionda che conoscevo benissimo.
Ed eccola lì, la mia forza invisibile.
Che mi usava, mi straziava e mi strappava l’anima, ma che poteva fare di me quello che voleva, perché tanto, sarebbe rimasto comunque la mia forza invisibile. Come una calamita che mi attirava verso di sé. E che poi mi respingeva.
Una calamita che si chiamava Jacopo.
Stava ascoltando la musica, mentre la testa ondeggiava ad un ritmo silenzioso e impercettibile, un ritmo che risuonava solo nelle sue cuffie. Una musica che non mi sarebbe piaciuta, ma che avrei definito carina solo perché piaceva a lui.
Che razza di gusti, Jacky. Quanto avrei voluto dirglielo.
Eravamo in classe insieme e gli stavo dietro dal primo istante del primo giorno di prima superiore.Mai avrei osato contraddirlo, mai avrei osato dirgli di no. Lui lo sapeva, lo sapeva benissimo... e, da bastardo qual era, sfruttava la situazione a suo vantaggio.
Ma il mio cuore batteva per lui e la mia parte polare- se davvero ce n’era una –viaggiava verso quella calamita così attraente e così lontana.
Mi avvicinai, facendomi coraggio, prima che qualche oca della mia classe fosse arrivata a starnazzare nel cortile ancora semivuoto.
Gli sfilai una cuffia, baciandogli la guancia.
«Jacky! Quanto tempo! Ti trovo abbronzato!» lo salutai, con la mia voce squillante.
«Ciao Clo! Anche io ti trovo bene... sempre più carina, eh? L’estate ti ha riempita di maschietti, scommetto...».
Mi diedi un pizzico, senza che se ne accorgesse.
Oddio, Jacky, JACOPO, la forza, la calamita... aveva detto a me- e sottolineo me -una cosa del genere?! Aveva usato nella stessa frase la parola carina e la parola maschietti... Oddio.
Perché nella vita non esisteva il tasto Pausa? E il Rewind? Dio, cosa avrei dato per un Replay.
«Non scherzare scemo! Io aspetto il principe azzurro, lo sai...». Sì, un principe azzurro con i capelli biondi e rasati, con gli occhi più chiari dei miei e con le cuffie sempre nelle orecchie. Un principe che se ne stava sempre in disparte, che era amico di tutti e che non sapeva mai nulla. Un principe che non aveva bisogno di chiedere, perché tutto gli era dovuto. E in quel tutto, ero inclusa io. L’unica della classe- o almeno così credevo –ad essere stata infettata dalla Jacky-dipendenza.
Improvvisamente mi venne in mente Ale. La camicia, i biscotti. Fu un flash improvviso.
Sì, come no... un flash!
Ma chi volevo prendere in giro? Ci avevo pensato tutta la notte. Ma a me non poteva piacere Alessandro... no. A me piaceva Jacopo, io vivevo per lui.
La nostra conversazione e i miei pensieri morirono lì, sovrastati dalle urla di Luca e Simone.
«Ciao belli!!!» li accolsi con un cinque, che batterono in contemporanea, uno sulla mano destra e l’altro sulla sinistra.
Poi arrivarono le ragazze e tutti gli altri, fino a raggiungere il totale di ventidue studenti, di cui dodici ragazze e dieci ragazzi... tutti pronti per iniziare l’ultimo anno nella quinta C del liceo scientifico Alessandro Manzoni.
Che poi, che senso aveva chiamare uno scientifico con il nome di un autore letterario?
La campanella ci trascinò in classe, con un suono acido e per niente piacevole, lasciando, fuori le porte delle aule, i dubbi più o meno stupidi e le vacanze più o meno belle che, ormai, erano giunte al termine.
Presi posto accanto ad Alice, mentre Isa e Angie si accomodarono dietro di noi, al terzo banco. Dietro ancora, Simone e Luca, al quarto e ultimo banco mentre avanti, al primo, Jacky e Paolo.
Perché è al primo che si copia meglio..., così aveva detto Jacopo.
E perché non dargli ragione se, per la prima volta nella storia del liceo Manzoni, potevo averlo così vicino?
La prima ora, con il professore di arte, si volatilizzò in chiacchiere e racconti sull’estate: c’erano quelle rimaste a casa, quelli che se l’erano spassata ad Ibiza, quelle che inventavano improbabili viaggi a Los Angeles o in Thailandia... ma che al massimo potevano aver fatto qualche bagno a dieci chilometri da casa.
La giornata, però, fu completamente dedicata ad Alice. A lei, che odiava stare al centro dell’attenzione e che, in quella classe, non si era mai sentita a suo agio. Fuori posto, diciamo. Eppure, quell’ingessatura parecchio ingombrante, l’aveva resa protagonista, per la prima volta.
Ci avrebbe fatto l’abitudine, era brava ad adattarsi, molto più brava di me. Così passammo le quattro ore successive ad ascoltare sempre la stessa versione dei fatti. Quella ufficiale... perché quella autentica era per pochi eletti.
«Sono caduta dalla bici... e mi sono fatta male... parecchio...», ripeteva, senza stancarsi. Sapeva anche aggiungere dei particolari ed erano sempre gli stessi. Ogni racconto combaciava perfettamente con il precedente, senza mai mostrare tentennamenti.
In pochi sapevamo la verità: era caduta, sì. Ma dal motorino, mentre guidava suo fratello. Lui non si era fatto niente di grave, solo qualche graffio, ma continuava a sentirsi in colpa per la frattura di Alice. E lei, buona come non mai, inventava mille storie per coprirlo, perché non era di certo a causa di Alessandro se un’auto li aveva travolti. Fortuna che avevano il casco.
A ricreazione, avevo preso un pennarello dall’astuccio super fornito di Angelica, intenzionata a fare qualche dedica su quel gesso troppo bianco, per i miei gusti.
«Se avessi qualcosa di ingessato, anch’io mi farei fare le dediche da Cloe... è bravissima... e poi ha una splendida calligrafia!» intervenne Jacopo.
Poteva sembrare un complimento, ma non lo era.
«Ma guarda che...» stava per esplodere Alice, che sapeva tutto e che aveva colto alla perfezione il significato nascosto dietro quelle parole.
«Shh- feci io –lascia perdere...» sussurrai, poi, mi rivolsi a lui: «Lo so, Jacky... ho una calligrafia splendida... me lo dicono tutti...» dissi, cercando di mettere in quel tutti la giusta enfasi, per fargli capire che su di me non aveva l’esclusiva. Quando invece, l’esclusiva ce l’aveva e come.
 
La fine delle lezioni arrivò anche quel giorno. Era solo il primo e già mi sentivo distrutta, figuriamoci nei seguenti centonovantanove più la maturità.
Evviva.
Certi pensieri mi mettevano un’angoscia incredibile ma, magari, Jacopo si sarebbe innamorato di me. Era il quinto anno, ormai, che avevo questa irrealizzabile speranza e sarebbe stato l’ennesimo anno di illusioni, di battiti accelerati. Solo i miei, però.
Perché io e lui eravamo su due pianeti opposti. Anzi, io mi sentivo un po’ come il suo satellite. Lui era il centro, il fulcro, il motore. E io gli giravo intorno, seguendo sempre la stessa traiettoria, senza mai sforare di un solo millimetro. Osservando la mia Terra da una postazione privilegiata, una postazione che solo io potevo occupare, che solo io potevo capire.
«Ti va se oggi ti chiamo?».
Jacopo. Jacopo?
Ma cosa era successo stamattina? Il sole delle vacanze gli aveva dato alla testa?
No, Cloe, no.
C’era aria di fregatura, lo percepivo benissimo, una sensazione troppo vivida per non darle ascolto. Ma, puntualmente, non ci feci caso.
Era sempre stato così con Jacky. Un susseguirsi di brutti sogni che diventavano realtà, un sesto senso che si era affinato parecchio, ma al quale io non davo mai retta.
E sbagliavo, sbagliavo, ma erano errori che volevo commettere, perché sbagliando mi avvicinavo a lui. Due passi verso la mia calamita.
Poi ritornavo con i piedi per terra, con le ferite che bruciavano di batosta e delusione. E indietreggiavo di dieci passi, un costo per niente equo.
Ma era Jacopo, era il primo ragazzo che mi aveva fatto battere il cuore, il primo che mi aveva fatto desiderare un bacio, una carezza.
Che non erano arrivati, ma che forse, un giorno...
«Sul cellulare... oggi non sono a casa!». Cercai lo sguardo complice di Alice, ma ne trovai uno un po’ giudice.
Mi aveva vista soffrire in silenzio ed il mio silenzio le aveva fatto parecchio male. Non voleva un bis, no di certo.
«Sì, oggi sta da me!» disse, concentrandosi, per rendere il suo tono il più acido possibile. Non so se ci riuscì: in presenza di quel ragazzo, io vivevo nell’ovatta. Il mondo mi sembrava più leggero, più semplice. Il mondo, mi sembrava lui.
E forse, l’errore era proprio quello.
Tornando a casa, misi gli occhiali da sole solo per sentirmi più bella. Più rossa e selvaggia,perché il mondo, probabilmente, mi voleva così.
 
Una volta sul letto, con il mio portatile tra le mani, continuai a pensare ai passi indietro e ai passi avanti. In fondo, tra me e Jacopo non c’era nulla di concreto, se non questo platonico gioco che ci avvicinava e ci allontanava.
E mi sembrava proprio di averlo avvicinato stamattina, senza aver fatto nessun passo indietro.
Ripensai ad Alex. Ma perché si insinuava così spesso tra le mie collaudate certezze?
Chi era per scombussolare quell’equilibrio interiore che mi ero creata nei quattro anni precedenti?
Io volevo Jacky. Ero innamorata di lui. Dovevo esserlo. Non avevo buttato i migliori anni della mia adolescenza fantasticando su qualcosa di inesistente.
Il pc, ormai carico, mi offrì un documento vuoto su cui lavorare, una pagina da riempire. Ed io, le pagine, sapevo riempirle benissimo.
 
L’amore è davvero un semplice gioco? In fondo, ci si prende e ci si lascia, si sta fermi un giro... si va pure in prigione, la prigione del cuore. E spesso si pesca una carta imprevisti. Ma se l’amore è quello vero, quello che riempie lo stomaco di farfalle, si può anche arrivare al traguardo.
E, il bello di quell’amore lì, è che si ha voglia di vincere in due... perché non c’è niente di meglio che dividere il podio con la persona che si ama e che ha amato giocare con noi.
Teoricamente, noi donne dovremmo essere esperte di questo gioco, eppure, nessuno si è ancora accorto che le istruzioni per l’uso non sono state mai decifrate. Sappiamo solo che bisogna stare attente ai dadi doppi e ai tre passi indietro. Perché quando si indietreggia è come saltare nel buio, non si sa mai quanto è profondo. 
Allora è meglio proseguire su una strada già tracciata e credere nel destino?
Oppure dobbiamo essere aperte alle deviazioni?
Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova?
E se trovassimo di meglio? E se il salto nel buio fosse morbido? E se l’imprevisto fosse piacevole?
Giochiamo, possiamo solo giocare. Aspettiamo il nostro turno, chiudiamo gli occhi, tiriamo i dadi.
E giochiamo.

 
Anche io volevo giocare. Che Alessandro fosse la mia carta imprevisti?
No. Io amavo Jacky. Punto. Volevo giocare per lui, ne ero convinta, ormai.
Più o meno.
Passai il pomeriggio ad ascoltare musica e a cantare a squarciagola. Non dovevo pensare. Più che altro, dovevo smettere di guardare il cellulare, in attesa di una chiamata.
Ero diventata quasi ossessionata dall’idea che improvvisamente potesse scaricarsi la batteria o che tutti i ripetitori Vodafone della zona esplodessero, lasciandomi senza campo.
Assurdo, vero, ma la telefonata non arrivava.
Feci una doccia veloce e poi andai da Alice. Avevo bisogno di parlare. O forse di stare in silenzio. In compagnia, però.
Inconsciamente e, giuro, senza nemmeno farci caso, mi truccai con più cura del solito: matita nera, mascara, lucidalabbra.
Oddio, più che rossa e selvaggia potevo sembrare rossa- arancione! -e molto, molto chic.
Non ero una fanatica della moda, ma dello stile. Il mio stile, però.
 
Ad aprirmi la porta, questa volta fu proprio Alessandro.
«Ciao, Cloe! Mia sorella è in cucina...».
«Grazie, Ale... vado subito...» dissi, cercando di dileguarmi il prima possibile.
Meno lo vedevo, e meglio era. Giusto?
«Aspetta, Cloe! Ricordami che ti devo un favore...», mi trattenne lui.
Mi voltai di scatto, per guardalo negli occhi. Colpita e affondata.
«U-un f-favore? Perché?».
Ero sorpresa, confusa e... beh, nella lista avrei aggiunto anche ammaliata. Sì, come aggettivo ci stava piuttosto bene.
«Sì, per il consiglio che mi hai dato ieri... chiedi quando vuoi...».
Era una mia impressione, o era leggermente in imbarazzo?
Cominciavo a sentire anche qui una nuvola di ovatta che mi coccolava.
Oddio, Cloe, no... è Alessandro. È il fratello di Alice! Diamine, lo conosci da una vita... perché proprio ora? mi ripetevo.
Ma l’ovatta era morbida, piacevole.
«Scemo! Mica te l’ho cucita la camicia? Ti ho solo detto come metterla!», riuscii a dire, ridendo. Una risata nervosa, a dire la verità.
Feci un cenno con la mano e balbettai qualcos’altro. Meglio andare da Alice, altrimenti mi avrebbe data per dispersa.
«Come va la gamba?» chiesi, ritornando nel mondo reale.
Contemporaneamente, una suoneria bizzarra, appositamente creata per me proprio da Alice, mi avvisava di una chiamata in arrivo. Gettai frettolosa le mani nella mia borsa enorme, quella che Ali ed io avevamo comprato in un mercatino del centro... la mia era bianca, la sua nera. Ma erano identiche. Un po’ come noi, così uguali... e così diverse.
Quando, finalmente, i miei occhi incrociarono il display, Alice scosse la testa.
Jacopo.
Puff.
E l’ovatta di pochi minuti prima svanì del tutto. Al suo posto, qualcosa di diverso, sempre ovatta, ma diversa. Sorvolai su quella differenza non proprio impercettibile.
Che stupida.
«Pronto? Ah, ciao Jacky... sei tu...».


D o n n i e 's Cupcake;
Ho visto con piacere che qualcuno ha iniziato a seguire la storia. Sarei felice di leggere qualche recensione, anche negativa. 
Ad ogni modo, penso che aggiornerò la storia con molta regolarità, visto che è già completa (sono quasi 40 capitoli) ed ha bisogno solo di qualche correzione qua e là. Grazie ancora per la pazienza nella lettura e scusate se i capitoli sono troppo lunghi. :)
 
 
 
 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Donnie