Mille, mille grazie per le vostre recensioni! Spero che continuerete a leggere la storia anche se devo avvertirvi. Perché:
Attenzione!
Scusate,
ma l'ultima volta mi sono dimenticata di avvertirvi che POTREBBE
essere che un personaggio morirà.
Questo sarà
una storia molto lunga. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere...
Tuttavia, buon divertimento ;)
2.
Servizio al telefono
Your
faith was strong,
But
you needed proof.
(Leonard
Cohen, Hallelujah)
Furioso, Don sbatté
la cornetta sulla basa proprio mentre Megan entrava in ufficio e si
levava il cappotto.
«Buongiorno! Di
cattivo umore?» lo salutò e si poteva sentire che
lei, invece, era
di ottimo umore.
«Dai, lasciami in
pace» brontolò Don e voltandosi di nuovo verso lo
schermo del suo
computer per trovare altri numeri di telefono non vide il suo volto,
su cui aleggiava un misto di offesa, presentimento e
preoccupazione.
«Che
c’è?»
chiese la donna con un tutt’altro timbro.
Don
poteva quasi sentire dalla sua voce che aveva aggrottato la
fronte.
«Niente» rispose
il più calmo
possibile. Eppure la sua voce suonava sempre
inconfondibilmente amara. Megan
gemette. «Oh,
avanti: lo sai che posso aiutarti solo se so di cosa si
tratta».
«Ho
chiesto per caso il tuo aiuto?»
Megan
tacque e Don si accorse che non poteva continuare così.
Nascose il
viso tra le mani: il fatto che fosse tanto esausto già di
mattina
fece scivolare ancora più giù il suo umore.
Si
strofinò gli occhi e si voltò verso di lei prima
di scusarsi: «Mi
dispiace, Megan. E’ solo…»
Tacque
e provò a concludere la frase con un gesto agitato della
mano, ma
Megan lo incalzò caricando lo sguardo di molte aspettative.
«Sì…?»
Don
gemette gravemente e si passò di nuovo le mani sopra la
faccia
stanca.
«Si
tratta di Charlie» confessò finalmente, senza
sapere se stesse
facendo la cosa giusta.
“Ah
sì” volle
rispondere Megan, ma si trattenne dal farlo: nonostante fosse
sorpresa dalla franchezza di Don, voleva ascoltare la storia fino
alla fine e non era raccomandabile interromperlo con una qualsiasi
ipotesi su argomenti famigliari.
«Avrebbe
dovuto chiamare ieri, ma non l’ha fatto».
L’attenzione
di Megan si acuì: per un attimo aveva dimenticato che
Charlie in
questo momento era coinvolto in una missione segreta. A questo punto
la possibilità che i due avessero in qualche modo discusso
si
riduceva di molto – e in ogni caso le ultime parole di Don
non
facevano pensare a nulla del genere. Sembrava trattarsi di altro.
Megan era timorosa per quello che avrebbe sentito, ma il suo boss
pareva essersi ammutolito.
«E
allora?» chiese.
«Niente
“allora“!»
insorse Don. «Non ha chiamato da ieri e nessuno vuole darmi
informazioni! Nessuno pare saper nulla e se sanno qualcosa, mi dicono
subito che lo mio status di sicurezza non è
sufficiente!»
Megan
sorrise, comprendendo a pieno il suo boss. Sapeva troppo bene quanto
fossero importanti i fratelli l’uno per l’altro e
poteva
immaginare quanto dovesse essere frustrante per Don non saper dove
fosse Charlie. Però la sua ragione gli impedì di
imitare Don in
quello scoppio di panico: sapeva come funzionavano i cervelli dei
matematici – insomma, era fidanzata con uno di loro. Sapeva
esattamente quanto confusi e smemorati potessero essere quei geni.
«Don, il fatto che Charlie
non
abbia chiamato non vuole dire niente. Sai com’è
quando è
circondato dai suoi numeri. Probabilmente si è semplicemente
dimenticato di chiamarti».
Don
inspirò rumorosamente. Non voleva di nuovo perdere le
staffe, ma i
suoi nervi erano così tesi da potersi strappare e il livello
di
emozioni che riusciva a mostrare si era abbassato considerevolmente
per questo. E se Megan adesso non avesse distolto quello sguardo
stupido che aveva quando lui si comportava in modo esagerato e
irrazionale, allora non avrebbe più potuto garantire niente.
«Non.
Lo. Sopporto. Più! Lo capisci?» disse con
irritazione, già sapendo
che si sarebbe pentito della sua franchezza più tardi.
«Cosa
non sopporti più?» chiese Megan.
«Tutto».
Don aveva sempre più difficoltà a respirare
normalmente. «Non
voglio più restare seduto qui, all’oscuro di
tutto. Voglio sapere
che sta facendo Charlie. E voglio che torni.»
Megan
rifletté. «Hai già
chiesto informazioni ad altre squadre
dell’FBI? O dalla NSA? Charlie qualche volta lavora anche per
loro,
no?»
La respirazione di Don
accelerò e non
fu più sicuro di essere in grado di mantenere la sua calma.
«Certo
che ho chiesto informazioni, ma credi sul serio che qualcuno di loro
sia disposto a dirmi qualcosa? Non una parola, neanche una minima
parola! Non mi dicono nemmeno se Charlie sta lavorando per loro o
meno!»
«Nessuno ti deve un
vecchio
favore?»
«C’ho
già provato»
brontolò Don. «È stata la prima cosa
che ho fatto».
Malgrado
la sua furia per un attimo si sentì un po’
risoluto: sapeva che
gli altri qualche volta lo consideravano un mostro nel mantenere il
controllo. Megan forse condivideva
quest’opinione - Don non ne era sicuro; in ogni caso ce la
fece a
mantenere la sua voce libera di biasimi.
«Vabbeh…
allora devi semplicemente aspettare finché Charlie non ti
chiamerà.
Forse stasera».
Don la fissò. Megan
l’aveva detto sul serio? Gli consigliava di rimanere seduto
per il
resto della giornata e fare il suo lavoro come se niente fosse
successo?
Ma poi era successo
qualcosa?
Don scosse la testa. Tutto
questo lo rendeva pazzo. Avrebbe perso il senno, lo sapeva. Le sue
preoccupazioni erano esagerate? Charlie non l’aveva chiamato
ieri
sera… e allora? Normalmente non telefonavano ogni giorno. Ma
normalmente Don aveva almeno una vaga idea di dove suo fratello si
trovasse.
C’era stato un tempo in
cui non avevano mai saputo niente l’uno dell’altro.
Di solito
venivano a sapere per coincidenza dove si trovasse l’altro
fratello
e per sommi capi, anche cosa stesse facendo, ma all’epoca un
vero
interesse era raro, semplicemente perché avevano creduto di
non
poter superare le differenze dei mondi in cui vivevano.
Don
quasi rise pensando alla differenza di preoccupazione per suo
fratello che c’era fra prima e adesso. Si trattenne: in quel
momento, si rese conto, aveva tanta più voglia di piangere.
«Hai
già provato a chiamarlo sul suo cellulare?»
Don
le scoccò uno sguardo irritato.
«Non
l’ha portato con sé» rispose fra denti.
«Oh…
mi dispiace, l’avevo dimenticato».
Che
fortuna. Don invece non l’aveva dimenticato, almeno non per
molto
tempo, almeno non più da quando gli era venuto in mente, tre
settimane fa, di provar a localizzare dove fosse tramite il segnale
GPS del suo cellulare. Poi, però, si era ricordato che
qualcuno –
e chissà chi era questo “qualcuno”
– aveva proibito a Charlie
(Charlie, in realtà aveva usato il termine
“sconsigliato”) di
portare il suo cellulare in missione, per evitare tentativi di
localizzazione. E il numero da dove Charlie telefonava ogni tanto era
sempre protetto.
«E che ne dice tuo
padre? O Larry e Amita?»
Don guardò
Megan negli occhi, scuotendo la testa.
«Niente.
Non lo sanno ancora. Non voglio che si preoccupino».
Megan
aveva di nuovo quello sguardo di incredula indignazione. «Ma
hai già informato l’intero apparato amministrativo
della polizia
americana?!».
«Voglio semplicemente
sapere
dove si trova Charlie, va bene? Non farebbe male a nessuno se si
decidessero a dirmelo, finalmente».
«Non
prendertela con me, Don» cominciò Megan e il
timbro della sua voce
fece sospettare Don che lei stesse per dire qualcosa per cui se la
sarebbe presa sicuramente, «ma non pensi che
questa… necessità di
controllo sia un po’ esagerata? Su, chiama prima Larry, Amita
e tuo
padre, forse sanno qualcosa».
Don le
lanciò uno sguardo pieno di dubbio, ma lei rispose con un
sorriso
incoraggiante. Va bene, perché no. Poteva solo far scoppiare
il
panico generale; tranne questo non c’era un
problema.
«Eppes».
«Ciao,
papà».
«Donnie! Come
stai?»
Il
timbro della voce di Alan ebbe bisogno di solo mezzo secondo per
diventare preoccupato. «Perché chiami?
E’ successo
qualcosa?»
«No, papà, va
tutto bene. Mi
chiedevo semplicemente se Charlie avesse telefonato».
«Charlie?
No, non dall’altro ieri, no. Perché me lo
chiedi?»
«Così.
Non ne ero sicuro: credevo che mi avrebbe chiamato ieri, ma forse ho
capito male». Don sperava che suo padre avesse creduto a
quella
storia. Anche se la sua voce non era disinvolta come avrebbe
voluto.
«Sei sicuro?»
Ma
dai, un po’ di fiducia in tuo figlio! «Certo,
papà. Va
tutto bene. Ci vediamo. Ciao!»
«Sì, ciao,
Donnie…»
Ma Don aveva già
riattaccato.
Le due telefonate
successive non furono di maggiore aiuto e Don ricadde nel profondo
del suo malumore. Ma perché nessuno voleva aiutarlo?
Perché diavolo
quel progetto era tanto segreto? E perché nemmeno Charlie
gli aveva
detto niente? Certo, Don conosceva le prescrizioni di sicurezza e
sapeva che non esistevano inutilmente e che c’erano cose che
dovevano esser mantenute segrete per tutelare la sicurezza nazionale,
eppure… Perché nessuno voleva dirgli che stava
succedendo?
Verso
la sera, Don tornò nel suo appartamento. Mentre guidava il
SUV
badava meticolosamente che il suo cellulare stesse acceso e a portata
di mano. Era un miracolo se, con le occhiate di lato che lanciava sul
suo cellulare ogni sette secondi, non aveva ancora avuto un
incidente.
Arrivato nel suo appartamento,
Don ricordò in un modo sgradevole la serata precedente
mentre si
sedeva sul divano, una birra in mano, il cellulare sul tavolo. Il
cordless era posizionato sulla base, sul cassettone nel corridoio,
perché fosse sempre carico. La porta che dava sul corridoio
però
era aperta.
Alle nove meno dieci
controllò freneticamente se il suo telefonino avesse davvero
campo e
se il telefono fosse posizionato correttamente. Tutto era a posto,
sì
– eppure Charlie non aveva ancora chiamato.
Quella
sera Don non distolse il suo sguardo dall'orologio mentre la grande
lancetta dei secondi girava in tondo, la lancetta dei minuti la
seguiva lentamente e anche la lancetta delle ore avanzava sul suo
cammino circolare, una gara scorretta la cui fine era immediatamente
chiara per chiunque la osservasse. Le ore passarono e la scorta di
birra di Don volgeva alla fine.
Charlie
non chiamò.