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Autore: y3llowsoul    27/06/2011    6 recensioni
Le quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo – tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie collabora a una missione segreta. Don cerca di venire a sapere qualcosa della faccenda, ma quando finalmente ci riesce, non è una ragione per rallegrarsene, e per la famiglia Eppes cominciano periodi brutti.
Genere: Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Don Eppes, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Mille, mille grazie per le vostre recensioni! Spero che continuerete a leggere la storia anche se devo avvertirvi. Perché:

Attenzione!
Scusate, ma l'ultima volta mi sono dimenticata di avvertirvi che POTREBBE essere che un personaggio morirà. Questo sarà una storia molto lunga. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere...

Tuttavia, buon divertimento ;)



2. Servizio al telefono

Your faith was strong,
But you needed proof.
(Leonard Cohen, Hallelujah)

Furioso, Don sbatté la cornetta sulla basa proprio mentre Megan entrava in ufficio e si levava il cappotto.
«Buongiorno! Di cattivo umore?» lo salutò e si poteva sentire che lei, invece, era di ottimo umore.
«Dai, lasciami in pace» brontolò Don e voltandosi di nuovo verso lo schermo del suo computer per trovare altri numeri di telefono non vide il suo volto, su cui aleggiava un misto di offesa, presentimento e preoccupazione.
«Che c’è?» chiese la donna con un tutt’altro timbro.
Don poteva quasi sentire dalla sua voce che aveva aggrottato la fronte.
«Niente» rispose il più calmo possibile. Eppure la sua voce suonava sempre inconfondibilmente amara. Megan gemette. «Oh, avanti: lo sai che posso aiutarti solo se so di cosa si tratta».
«Ho chiesto per caso il tuo aiuto?»
Megan tacque e Don si accorse che non poteva continuare così. Nascose il viso tra le mani: il fatto che fosse tanto esausto già di mattina fece scivolare ancora più giù il suo umore.
Si strofinò gli occhi e si voltò verso di lei prima di scusarsi: «Mi dispiace, Megan. E’ solo…»
Tacque e provò a concludere la frase con un gesto agitato della mano, ma Megan lo incalzò caricando lo sguardo di molte aspettative.
«Sì…?»
Don gemette gravemente e si passò di nuovo le mani sopra la faccia stanca.
«Si tratta di Charlie» confessò finalmente, senza sapere se stesse facendo la cosa giusta.
“Ah sì” volle rispondere Megan, ma si trattenne dal farlo: nonostante fosse sorpresa dalla franchezza di Don, voleva ascoltare la storia fino alla fine e non era raccomandabile interromperlo con una qualsiasi ipotesi su argomenti famigliari.
«Avrebbe dovuto chiamare ieri, ma non l’ha fatto».
L’attenzione di Megan si acuì: per un attimo aveva dimenticato che Charlie in questo momento era coinvolto in una missione segreta. A questo punto la possibilità che i due avessero in qualche modo discusso si riduceva di molto – e in ogni caso le ultime parole di Don non facevano pensare a nulla del genere. Sembrava trattarsi di altro. Megan era timorosa per quello che avrebbe sentito, ma il suo boss pareva essersi ammutolito.
«E allora?» chiese.
«Niente “allora“!» insorse Don. «Non ha chiamato da ieri e nessuno vuole darmi informazioni! Nessuno pare saper nulla e se sanno qualcosa, mi dicono subito che lo mio status di sicurezza non è sufficiente!»
Megan sorrise, comprendendo a pieno il suo boss. Sapeva troppo bene quanto fossero importanti i fratelli l’uno per l’altro e poteva immaginare quanto dovesse essere frustrante per Don non saper dove fosse Charlie. Però la sua ragione gli impedì di imitare Don in quello scoppio di panico: sapeva come funzionavano i cervelli dei matematici – insomma, era fidanzata con uno di loro. Sapeva esattamente quanto confusi e smemorati potessero essere quei geni.
«Don, il fatto che Charlie non abbia chiamato non vuole dire niente. Sai com’è quando è circondato dai suoi numeri. Probabilmente si è semplicemente dimenticato di chiamarti».
Don inspirò rumorosamente. Non voleva di nuovo perdere le staffe, ma i suoi nervi erano così tesi da potersi strappare e il livello di emozioni che riusciva a mostrare si era abbassato considerevolmente per questo. E se Megan adesso non avesse distolto quello sguardo stupido che aveva quando lui si comportava in modo esagerato e irrazionale, allora non avrebbe più potuto garantire niente.
«Non. Lo. Sopporto. Più! Lo capisci?» disse con irritazione, già sapendo che si sarebbe pentito della sua franchezza più tardi.
«Cosa non sopporti più?» chiese Megan.
«Tutto». Don aveva sempre più difficoltà a respirare normalmente. «Non voglio più restare seduto qui, all’oscuro di tutto. Voglio sapere che sta facendo Charlie. E voglio che torni.»
Megan rifletté. «Hai già chiesto informazioni ad altre squadre dell’FBI? O dalla NSA? Charlie qualche volta lavora anche per loro, no?»
La respirazione di Don accelerò e non fu più sicuro di essere in grado di mantenere la sua calma. «Certo che ho chiesto informazioni, ma credi sul serio che qualcuno di loro sia disposto a dirmi qualcosa? Non una parola, neanche una minima parola! Non mi dicono nemmeno se Charlie sta lavorando per loro o meno!»
«Nessuno ti deve un vecchio favore?»
«C’ho già provato» brontolò Don. «È stata la prima cosa che ho fatto».
Malgrado la sua furia per un attimo si sentì un po’ risoluto: sapeva che gli altri qualche volta lo consideravano un mostro nel mantenere il controllo. Megan forse condivideva quest’opinione - Don non ne era sicuro; in ogni caso ce la fece a mantenere la sua voce libera di biasimi.
«Vabbeh… allora devi semplicemente aspettare finché Charlie non ti chiamerà. Forse stasera».
Don la fissò. Megan l’aveva detto sul serio? Gli consigliava di rimanere seduto per il resto della giornata e fare il suo lavoro come se niente fosse successo?
Ma poi era successo qualcosa?
Don scosse la testa. Tutto questo lo rendeva pazzo. Avrebbe perso il senno, lo sapeva. Le sue preoccupazioni erano esagerate? Charlie non l’aveva chiamato ieri sera… e allora? Normalmente non telefonavano ogni giorno. Ma normalmente Don aveva almeno una vaga idea di dove suo fratello si trovasse.
C’era stato un tempo in cui non avevano mai saputo niente l’uno dell’altro. Di solito venivano a sapere per coincidenza dove si trovasse l’altro fratello e per sommi capi, anche cosa stesse facendo, ma all’epoca un vero interesse era raro, semplicemente perché avevano creduto di non poter superare le differenze dei mondi in cui vivevano.
Don quasi rise pensando alla differenza di preoccupazione per suo fratello che c’era fra prima e adesso. Si trattenne: in quel momento, si rese conto, aveva tanta più voglia di piangere.
«Hai già provato a chiamarlo sul suo cellulare?»
Don le scoccò uno sguardo irritato.
«Non l’ha portato con sé» rispose fra denti.
«Oh… mi dispiace, l’avevo dimenticato».
Che fortuna. Don invece non l’aveva dimenticato, almeno non per molto tempo, almeno non più da quando gli era venuto in mente, tre settimane fa, di provar a localizzare dove fosse tramite il segnale GPS del suo cellulare. Poi, però, si era ricordato che qualcuno – e chissà chi era questo “qualcuno” – aveva proibito a Charlie (Charlie, in realtà aveva usato il termine “sconsigliato”) di portare il suo cellulare in missione, per evitare tentativi di localizzazione. E il numero da dove Charlie telefonava ogni tanto era sempre protetto.
«E che ne dice tuo padre? O Larry e Amita?»
Don guardò Megan negli occhi, scuotendo la testa.
«Niente. Non lo sanno ancora. Non voglio che si preoccupino».
Megan aveva di nuovo quello sguardo di incredula indignazione. «Ma hai già informato l’intero apparato amministrativo della polizia americana?!».
«Voglio semplicemente sapere dove si trova Charlie, va bene? Non farebbe male a nessuno se si decidessero a dirmelo, finalmente».
«Non prendertela con me, Don» cominciò Megan e il timbro della sua voce fece sospettare Don che lei stesse per dire qualcosa per cui se la sarebbe presa sicuramente, «ma non pensi che questa… necessità di controllo sia un po’ esagerata? Su, chiama prima Larry, Amita e tuo padre, forse sanno qualcosa».
Don le lanciò uno sguardo pieno di dubbio, ma lei rispose con un sorriso incoraggiante. Va bene, perché no. Poteva solo far scoppiare il panico generale; tranne questo non c’era un problema.

«Eppes».
«Ciao, papà».
«Donnie! Come stai?»
Il timbro della voce di Alan ebbe bisogno di solo mezzo secondo per diventare preoccupato. «Perché chiami? E’ successo qualcosa?»
«No, papà, va tutto bene. Mi chiedevo semplicemente se Charlie avesse telefonato».
«Charlie? No, non dall’altro ieri, no. Perché me lo chiedi?»
«Così. Non ne ero sicuro: credevo che mi avrebbe chiamato ieri, ma forse ho capito male». Don sperava che suo padre avesse creduto a quella storia. Anche se la sua voce non era disinvolta come avrebbe voluto.
«Sei sicuro?»
Ma dai, un po’ di fiducia in tuo figlio! «Certo, papà. Va tutto bene. Ci vediamo. Ciao!»
«Sì, ciao, Donnie…»
Ma Don aveva già riattaccato.
Le due telefonate successive non furono di maggiore aiuto e Don ricadde nel profondo del suo malumore. Ma perché nessuno voleva aiutarlo? Perché diavolo quel progetto era tanto segreto? E perché nemmeno Charlie gli aveva detto niente? Certo, Don conosceva le prescrizioni di sicurezza e sapeva che non esistevano inutilmente e che c’erano cose che dovevano esser mantenute segrete per tutelare la sicurezza nazionale, eppure… Perché nessuno voleva dirgli che stava succedendo?

Verso la sera, Don tornò nel suo appartamento. Mentre guidava il SUV badava meticolosamente che il suo cellulare stesse acceso e a portata di mano. Era un miracolo se, con le occhiate di lato che lanciava sul suo cellulare ogni sette secondi, non aveva ancora avuto un incidente.
Arrivato nel suo appartamento, Don ricordò in un modo sgradevole la serata precedente mentre si sedeva sul divano, una birra in mano, il cellulare sul tavolo. Il cordless era posizionato sulla base, sul cassettone nel corridoio, perché fosse sempre carico. La porta che dava sul corridoio però era aperta.
Alle nove meno dieci controllò freneticamente se il suo telefonino avesse davvero campo e se il telefono fosse posizionato correttamente. Tutto era a posto, sì – eppure Charlie non aveva ancora chiamato.
Quella sera Don non distolse il suo sguardo dall'orologio mentre la grande lancetta dei secondi girava in tondo, la lancetta dei minuti la seguiva lentamente e anche la lancetta delle ore avanzava sul suo cammino circolare, una gara scorretta la cui fine era immediatamente chiara per chiunque la osservasse. Le ore passarono e la scorta di birra di Don volgeva alla fine.
Charlie non chiamò.



  
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