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Autore: Mark MacKinnon    27/07/2011    5 recensioni
Questa non è casa tua.
Questa gente non è la tua famiglia, i tuoi amici, non importa quanto ci somiglino.
Non puoi stare qui.

Il capolavoro di Mark MacKinnon tradotto da Il Corra Productions, una delle ff più sconvolgenti mai scritte, torna riveduto e corretto.
"Diavolo, non posso biasimare Ryoga per non aver capito la differenza", disse alla fine. "Non potrei trovarla neanche io. Sembri proprio uguale a me".
"In un certo senso, io sono te".

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Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Shadow Chronicles' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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CAST A LONG SHADOW

di
Mark MacKinnon



traduzione
Il Corra Productions




II

Ranma 1 e 2





"Sai", dissi nel modo più noncurante possibile, "mi piace venire qui da solo, qualche volta. Giusto per stare un po’ lontano dai casini della palestra".
"Già. In effetti, sono la sola persona che conosce questo posto. O lo ero". La sua voce era calma, ma sapevo che lo avrei dovuto maneggiare con cura. Io... lui... diavolo, noi avevamo problemi con il nostro carattere a volte. Mi voltai lentamente per fronteggiare il mio altro io.
"Diavolo, non posso biasimare Ryoga per non aver capito la differenza", disse alla fine. "Non potrei trovarla neanche io. Sembri proprio uguale a me".
"In un certo senso, io sono te".
"Piantala!". La sua voce si indurì all’improvviso, e mi irrigidii nel vedere i suoi piedi scivolare leggermente, aumentando la distanza. Già, la sua reazione era proprio quella. Dannazione, a volte odio aver ragione.
"Allora qual è la situazione, eh? Specchi magici, incantesimi, pozioni, cosa? Qualsiasi sia il motivo per cui tu sei venuto qui, vediamo di concludere in fretta, perché questa città non ha bisogno di due Ranma Saotome". Poi sbatté le palpebre nel vedermi ridacchiare. "Ehi, cosa c’è di così divertente?".
"Beh, stavo solo pensando che per te è naturale pensare che io sia qui per causa tua. Dopo tutto, tutte le volte che succede qualcosa qui attorno, tu ci sei nel mezzo".
"Piantala di parlare come se mi conoscessi!".
"Senti, il punto è che io non sono venuto qui per causarti problemi, ok? Giuro. Ehi, forse che non ho una faccia onesta?". Si limitò a guardarmi, privo di espressione.
"E perché sei venuto qui?". Sospirai.
"Storia lunga. Fondamentalmente, sto scappando da qualcuno. Non volevo arrivare qui, essere coinvolto nella tua vita. Se ci fosse stato un altro modo...". Mi interruppi, guardandolo. Avrei potuto dire che stava ricordando che io avevo salvato Akane, che se non fossi arrivato probabilmente sarebbe morta, ora. Il suo atteggiamento si rilassò un poco.
"Scappavi, eh?", disse finalmente. "Perché?". Perché. La domanda da un milione di dollari. Perché. Perché ero cacciato. Perché non avevo nessun posto dove andare.
Perché ero spaventato. Non penso che gli sarebbe piaciuta nessuna di queste risposte, specialmente l’ultima. Qualche settimana prima, l’avrei pensata allo stesso modo riguardo lo scappare da una lotta, riguardo essere spaventato, ma un sacco di cose erano cambiate da allora.
"Sono nei guai, e qualcuno mi sta cercando. Inoltre, penso che abbia chiamato degli amici. Fino a ora, non ho avuto modo di decidermi sul da farsi".
"Se ti sta seguendo", disse cautamente Ranma, "significa che sta cercando anche me? Voglio dire, sarebbe capace di distinguerci?". Lo guardai a bocca aperta.
"Dannazione, sono un idiota!". Esclamai. "Non mi era neanche venuto in mente!". Non ero sicuro se lui fosse capace di distinguerci, non ero sicuro se per lui avrebbe fatto qualche differenza se avesse potuto. Dopo tutto, aveva detto che gli era stato ordinato di riportarmi indietro, e un Ranma poteva valere l’altro. E lui sapeva tutto di me, dove potevo andare, dove potevo essere catturato.
Dove vivevo.
"Cosa?", chiese Ranma, allarmato da qualsiasi cosa avesse visto sul mio volto.
"Potrebbe ripiegare su di te se non riesce a prendere me", balbettai. "E sa dove vivi. Non posso credere di essere stato così stupido...". Mi interruppi nel realizzare che stavo parlando con me stesso. La mia controparte si stava scagliando in direzione della palestra.
Rimasi piantato là, indeciso. Cosa diavolo dovevo fare ora? Avevo già compromesso fin troppo le loro vite. Dovevo andarmene da loro, da tutto quello che mi ero lasciato dietro.
Ma non potevo. Se un’ombra oscura stava per cadere sulle loro vite, bene, io ne ero la causa. Non volevo che il dolore che avevo dovuto soffrire infettasse chiunque altro. Dovevo tentare di rimettere le cose a posto, anche se significava consegnarmi a lui. Non volevo che nessun danno venisse a quella gente per causa mia. Forzai il mio corpo affaticato a rincorrere la forma scomparsa della mia controparte.
Mentre correvo verso le vicine luci della strada, mi resi conto che Ranma non aveva ricevuto le risposte che cercava. Fin troppo presto, anche lui se ne sarebbe accorto, e anche se meritava alcune risposte, non avevo assolutamente idea di cosa gli avrei detto.
Tutto ciò che sapevo era la verità, e non gliel’avrei detta per nessuna ragione.


"Ok, Scooter, provalo adesso!".
"Spiacente, Jack. Nada". Jack imprecò e strisciò lungo l’esiguo spazio di manovra. Spostò la torcia e raggiunse un altro pannello di controllo.
"Allora dev’essere...". Borbottò tra sé e sé. Strappò la copertura, che subito cadde e rimbalzò sulla sua fronte.
"Gaaaah!".
"Che fai laggiù, capo?". La voce scorporata di Scooter fluttuò fino a dove Jack stava sdraiato con la testa tra le mani, gemendo.
"Ah, lasciami stare. Sto solo aggiungendo un altro livido alla collezione". Jack spazzò la copertura contundente a lato e illuminò lo spazio che aveva celato.
"Capo?".
"Mmmmmh?".
"È rimasto a piede libero per più di diciotto ore ormai". Jack sospirò.
Non ancora.
"Lo so, Scooter...".
"Il regolamento dice...".
"Ho un certo margine di decisione in merito, Scooter".
"Non quanto pensi. Dovresti riparare la radio ora così potresti chiamare i rinforzi". Jack giocherellò distrattamente dentro il pannello e imprecò sottovoce.
"Niente rinforzi", disse alla fine. "Questo è il mio caso e lo risolverò a modo mio. Fine della storia".
"L’Ops non la vedrà in questo modo", replicò dubbiosamente Scooter. "Loro vogliono davvero questo tipo".
"Fanculo l’Ops", sbottò Jack. "Lo avranno quando sarò pronto".
"Jack". Ammonizioni, avvisi. Jack sospirò e lasciò il suo braccio cadere al fianco. Il sudore gli rigava il volto. Lavorare sopra la tua testa in uno spazio chiuso era stancante e non induceva al buon umore.
"Senti, non voglio che quegli imbranati dell’Ops mi fottano l’estrazione. Lui è stato assegnato a me e tratterò io con lui. Non lo prenderò finché non avrò qualche mezzo per controllarlo". Si tastò il brutto livido rossastro sotto l’occhio sinistro. "Non voglio un bis di questa mattina".
"Jack, questa è una situazione molto delicata. Che facciamo se decide di incontrare se stesso?".
"Non sarà così stupido. Non dopo quello che gli ho detto".
"E se lo farà?".
"Allora farò quello che deve essere fatto". Pausa. "Ok, che mi dici adesso?".
"Ancora nada".
"MERDA!".


Ranma alzò la finestra della cucina, cadendo al suolo senza far rumore mentre reggeva in equilibrio precario alcuni oggetti nella mano destra. Girò silenziosamente l’angolo e si diresse verso la palestra all’altro lato della casa. Controllando che nessuno lo vedesse, fece scorrere la porta e scivolò dentro.
Il sole era completamente tramontato, e l’interno della palestra era un patchwork di ombre, attenuate solo dalla leggera illuminazione delle luci della strada che filtravano dalle finestre. Ranma si tese mentre i suoi sensi cercavano un qualsiasi segno di movimento. Dov’era lui? Alla fine se n’era andato? Poi Ranma udì un leggero suono e girò su se stesso, assumendo automaticamente una posizione di difesa.
Il suono ritornò. Un russare. Ranma si rilassò, sospirò, e camminò verso la pozza d’ombra da dove il suono era arrivato. Chinandosi, poté intravedere l’altro Ranma, crollato contro il muro, il mento sul petto, profondamente addormentato.
"Beh, maledizione", sospirò Ranma. Si avvicinò un po’. "Ehi. Svegliati". Niente. Riprovò, un po’ più forte. Ancora niente. "Cavolo, quando la gente dice che sono duro da svegliare, non sta scherzando", mormorò alla fine. Posò le scodelle che stava portando sul pavimento e si chinò su un ginocchio, tenendo le mani tese all’altezza delle spalle. Poi le sbatté di fronte al naso dell’altro Ranma e gridò: "EHI!".
Improvvisamente si ritrovò in volo all’indietro. Piegò le braccia e le gambe raggomitolandosi, ruotò con facilità e atterrò rannicchiandosi.
Che diavolo? Non l’ho neanche visto muoversi!, pensò, scuotendosi dal pugno che l’aveva preso quasi completamente a fianco scoperto. Poteva vedere che l’altro Ranma era saltato in piedi e si stava guardando attorno freneticamente.
"Chi c’è? Fatti vedere!", gridò. Ranma si sorprese nel sentire quanta paura ci fosse in quella voce. Cosa diavolo gli stava succedendo?
"Ehi, amico, sono solo io", disse, avvicinandosi lentamente. L’altro Ranma sobbalzò al suono della sua voce, poi si girò per fronteggiarlo, come se non si sentisse sicuro di dove fosse. "Stai bene?".
"Uh... certo. Come no". Scosse la testa intontito. "Dovevo essere più stanco di quanto credessi".
"Ti ho portato qualcosa da mangiare. Attento a dove cammini, è vicino al tuo piede destro". Lui annuì e si sedette con la schiena contro il muro. Cominciò a divorare gli avanzi che Ranma aveva prelevato dalla cucina con un gusto che faceva impallidire anche il solito comportamento di Ranma a tavola. Ranma si sedette, guardandolo con curiosità. Un’ispezione della casa e dell’area circostante aveva rivelato che nessuno li stava spiando, il che andava bene per ora, ma non aveva intenzione di rilassarsi.
Il suo doppio aveva finito di divorare il cibo, e si lasciò cadere all’indietro con un sospiro. Era ovvio che non avesse mangiato per un po’ di tempo. Chiuse gli occhi e crollò contro il muro. Ranma vide la sua testa ondeggiare nella luce tenue, sempre più in basso finché il suo mento non toccò il petto. Sospirò.
"Ehi. EHI!". L’altro Ranma sobbalzò, a malapena sveglio.
"Eh? Oh, scusa". Sbadigliò scompostamente. "Sono distrutto. Comunque, grazie per il cibo, amico". Sbadigliò ancora, questa volta più a lungo. Ranma si ritrovò a sbadigliare in risposta.
"E adesso?"
"Ouf. Ora mi piacerebbe sentire la tua storia, ma non sono sicuro che tu riesca a rimanere sveglio fino alla fine". Ranma guardò l’altro, la sua stessa faccia che rispondeva allo sguardo, coperta dallo sfinimento e da qualche oscura preoccupazione.
Stranamente, Ranma si fidava istintivamente di lui. Si chiedeva come sarebbe stato se si fosse trovato lui, in fuga, solo, nessun posto dove andare e nessuno a cui rivolgersi. Abbandonò l’idea. Poteva essere anche quello, ma c’era qualcos’altro. Un’artista marziale deve imparare a fidarsi del suo istinto, e a prescindere da qualunque altra cosa, Ranma era un superbo artista marziale. Era sicuro che l’altro Ranma, chiunque fosse, non aveva intenzione di far del male agli abitanti della palestra.
Il fatto che avesse salvato la vita di Akane non guastava, poi.
"Senti, ho un’idea. Perché non resti qui stanotte?".
"Cosa?".
"Beh, non è che hai qualche altro posto dove andare, giusto?". Vide il suo doppio cercare qualche buona ragione per rifiutare e rinunciare.
"Ma... dove dormo?", argomentò.
"C’è un piccolo ripostiglio sul retro della palestra. Puoi rifugiarti là per stanotte. E domani resterai lì mentre io e Akane siamo a scuola. Giusto per precauzione. Poi avrò la mia spiegazione, ok?". Sembrava che l’altro Ranma stesse ancora pensando di rifiutare.
"Senti, amico, questo posto è una calamita per le assurdità", continuò. "Finiscono tutte qui prima o poi. Mi sentirei meglio se tu fossi qui domani, nel caso che questo tizio si faccia vedere".
"Ti fidi di me così tanto?", chiese l’altro Ranma. Ci fu un’espressione nel suo viso che Ranma non riuscì a decifrare.
"Hai salvato Akane, hai aiutato Ryoga e sai tutto del mio rifugio segreto. Tu dammi la tua parola che sarai qui domani pomeriggio con le risposte alle mie domande, e mi basterà". Ranma guardò nel volto in ombra del suo doppio, ingoiando i suoi dubbi. "Affare fatto?".
"Affare fatto". Mormorò alla fine l’altro. "Se sei sicuro di volerlo fare?".
"Ehi, nessun problema. Dopo tutto," disse Ranma, "hai una faccia onesta".
Aiutò l’altro a rimettersi in piedi, sperando come un dannato di non aver fatto un grosso errore.

Si era fatto tardi, e in casa tutto era silenzioso. Ranma chiuse silenziosamente la porta dietro di sé e scivolò sulle scale. Sua madre era stata abbastanza arrabbiata con lui quel giorno, il che quasi certamente significava che avrebbe dovuto ancora dividere la camera degli ospiti con suo padre.
Sospirò. Certi giorni si chiedeva perché i suoi genitori stessero ancora assieme. Certi giorni si chiedeva perché si fossero sposati all’inizio. Erano così diversi. Certo, il fatto che si fossero a malapena visti fino a poco tempo fa poteva aver esteso in qualche modo la vita del loro matrimonio. Si sentiva a disagio a interrogarsi sulla relazione dei loro genitori, ma di solito sembrava proprio che non avessero niente in comune eccetto lui, e non gli piaceva la sensazione che gli dava.
Al posto di una normale infanzia, si sentiva come se fosse stato una pedina in qualche strano gioco che i suoi genitori stavano giocando. Ora aveva bisogno di qualcuno per parlare di quello che stava succedendo, ma non si sentiva disposto ad andare da nessuno dei due.
Mentre saliva le scale ripensò a cosa aveva detto sua madre. Lui e Ryoga erano stati sconsiderati, e c’era un sacco di gente in quel cantiere. Non aveva pensato neanche per un istante alla loro sicurezza prima di scontrarsi con Ryoga nel bel mezzo di una strada pubblica. Avrebbe almeno potuto portarlo in un posto isolato prima. Lei aveva ragione; le tecniche che avevano imparato erano pericolose, potenzialmente letali, e dovevano essere gestite come tali. Ranma odiava sentirsi colpevole, ma stava cominciando a considerare seriamente la sua mancanza di disciplina. Se il suo doppio non fosse stato là, Akane sarebbe potuta morire. No. Doveva ammetterlo, anche solo con se stesso. Lei sarebbe morta. Non c’era stato tempo per nessuno di loro per reagire. Sentì un brivido, come se qualcuno stesse camminando sopra la sua tomba.
"Ragazzi, che giornataccia", mormorò. Poi sobbalzò quando la porta di Akane si aprì e una mano ne emerse per trascinarlo dentro.
"Ranma!", sibilò Akane. "Dove sei stato? Ero preoccupata!". Ranma sbatté le palpebre.
"Ehi, Akane, perché sei ancora in piedi?".
"Ti stavo aspettando, stupido! Hai trovato qualcosa?".
Ranma ricacciò indietro la sua irritazione, sentendo l’intera giornata scorrere davanti agli occhi in un unico momento da capogiro. "No, niente", mentì. Mentire ad Akane lo faceva sentire a disagio, ma non voleva che qualcun altro venisse a sapere del suo ospite non invitato finché non avesse padroneggiato la situazione. Se le cose si fossero davvero rivelate pericolose, non voleva che Akane venisse coinvolta. Lei incrociò le braccia e si voltò per guardare dalla finestra.
"Chi è lui, Ranma? Da dove viene? Perché ti assomiglia così tanto?". Ranma poteva vedere P-chan seduto sul letto, che lo guardava con attenzione.
"Senti, Akane, non ti preoccupare. Il tizio è senza dubbio un artista marziale, giusto? Tutti gli artisti marziali che si fanno vedere in città devono darmi la caccia e sfidarmi in qualche stupido duello o gara o che so io. È una specie di legge. Al diavolo, scommetto che a quest’ora domani ne saprò di questo tizio più di quanto voglia". Akane lo guardò.
"Non è divertente, Ranma". Sembrava irritata dal fatto che non prendesse le cose più seriamente.
"Rilassati, Akane. Ci vediamo domattina". Ignorando le sue proteste sussurrate, scivolò fuori dalla porta e si diresse in camera sua. Non voleva far arrabbiare Akane, ma dato che aveva deciso di non dirle niente di quanto stava accadendo, immaginò di dovercisi adattare.
Ragazzi, pensò, camminando a fatica verso il letto, almeno domani dovrà essere un giornata migliore di oggi.
Non voleva pensare a cosa sarebbe stato quel giorno se fosse stato peggiore.


Ranma posò la sua scodella vuota con un sospiro. Non c’era assolutamente niente come una buona colazione per cominciare la giornata, specialmente quando cucinava Kasumi. O Ukyo. O anche Shampoo. Diavolo, diciamo pure che tutti tranne Akane andavano bene per lui. Non aveva dormito bene, interrogandosi sul suo doppio fuori in palestra. Si era ritrovato a cambiare la sua decisione ogni pochi minuti, e l’indecisione lo faceva impazzire. Aveva finalmente deciso di conservare il suo piano originario ed era scivolato in un sonno inquieto.
Scoccò una rapida occhiata ad Akane con la coda dell’occhio, quasi aspettandosi di vederla saltare su al mero pensiero di criticare la sua cucina. Invece, la vide finire la colazione con un ritmo più composto. La mattina era stata tranquilla finora, ma era una calma tesa e sgradevole. Kasumi aveva cercato di calmare suo padre la notte scorsa finché non si era quasi scongiurata la possibilità che facesse qualche gesto inconsulto, ma a Ranma non piacevano le occhiate ostili che si stava prendendo. Sotto uno scrutinio così pressante si tratteneva dal punzecchiare Akane, e la cosa lo rendeva irritabile. In genere, le risposte di Akane alle sue provocazioni erano un buon barometro di come si sarebbe sviluppata la giornata. Suo padre era taciturno, soprattutto perché era al momento un panda. Nabiki sembrava annoiata senza scaramucce tra i due fidanzati. Solo Kasumi sembrava immune al malumore.
Ranma controllò l’ora e si rese conto che avrebbero dovuto partire presto per la scuola. Aveva sperato di trovare un po’di tempo per scivolare nella palestra con un po’di cibo per il suo doppio, ma sembrava che non ne avrebbe avuto l’occasione. Sperò che l’altro Ranma fosse abbastanza furbo da restare nascosto e fuori dai guai fino al suo ritorno a casa.
Lui e Akane alla fine raccolsero le cartelle e si diressero alla porta. Mentre si infilavano le scarpe, Soun comparve nel corridoio.
"Akane, sei sicura di voler andare a scuola oggi?", chiese querulamente. Lei fece un suono a metà tra un sospiro e un grugnito.
"Papà, sto bene. Vorrei che tutti voi la smetteste di preoccuparvi tanto. Mi sono solo spaventata, non mi sono fatta nemmeno un graffio. Starò bene". Soun si girò per guardare Ranma.
"Confido che ti assicurerai che nulla accada alla mia bambina, Ranma", brontolò in un tono piuttosto diverso da quello che aveva usato con sua figlia.
"Certo. Non ti preoccupare, Tendo, la terrò d’occhio". Assicurò Ranma allegramente. Non notò l’espressione che passò sul volto di Akane al sentirlo. La ragazza scattò fuori dalla porta, prendendo Ranma alla sprovvista. Si affrettò a raggiungerla mentre Soun continuava a guardarli dall’entrata.
Ranma raggiunse Akane, abbandonando il suo solito percorso sulla recinzione per starle vicino. Gettò la cartella dietro la spalla e studiò la sua schiena rigida. L’umore di lei sembrava essersi deteriorato dalla notte scorsa. Anzi, sembrava affatto arrabbiata. Sospirò e cercò di pensare a cosa aveva fatto questa volta.
Questo sì che mi sembra familiare, pensò Ranma abbattuto. Cercò di pensare a qualcosa da dire per rompere il silenzio pieno di tensione, ma considerato il suo umore attuale temeva che Akane avrebbe trovato qualche modo per travisare qualsiasi cosa avesse detto. Almeno il silenzio era meglio di un battibecco, concluse.
Erroneamente, come avrebbe scoperto.
"Ranma!", sbottò finalmente Akane, girando su se stessa per fronteggiarlo. "Mi vuoi spiegare cosa stai PENSANDO di FARE?!".
"Ehi calma, Akane, sto solo...".
"Smettila di seguirmi in quel modo, mi stai innervosendo! Non ho bisogno di una guardia del corpo per andare a scuola, lo sai bene! Non sono una bambina indifesa! Posso cavarmela da sola!". Ranma sentì la sua faccia riscaldarsi sotto il suo sguardo, e istintivamente replicò.
"Uffa, ecco cosa succede quando cerco di essere gentile!".
"Gentile? Cosa c’è di gentile nel seguirmi con quello sguardo da imbranato?".
"Giusto! E poi non so perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di un maschiaccio privo di sex appeal come te!".
"Non ci sarebbe motivo di preoccuparsi per me se tu e Ryoga non…" Akane si interruppe di botto, realizzando cosa stava per dire. Il volto di Ranma si fece inespressivo, e la superò bruscamente, con la mascella contratta.
"Giusto". Akane lo guardò allontanarsi indifesa.
"Ranma, io... non volevo...". Non stava ascoltando. Come al solito. Akane strinse i denti per la frustrazione. "Aarrrrgghh! Ma perché dev’essere sempre così impossibile?".
Poi la rabbia l’abbandonò rapidamente come era arrivata, lasciandola confusa. Perché per una volta non potevano parlare e basta? Lei voleva soltanto che la smettesse di comportarsi in modo così colpevole. La faceva sentire colpevole in risposta. E a ogni modo, lui avrebbe dovuto sapere che lei odiava avere gente che stava in pensiero per lei.
La sua espressione si addolcì nel ricordare quando aveva guardato il suo viso mentre lui la riportava alla palestra, leggendo la preoccupazione nei suoi tratti.
"Stupido", disse dolcemente. Poi cominciò a rincorrerlo.


Sedevo nel buio, angusto ripostiglio e non mi davo pace. Sapevo che era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, ma sfortunatamente non avevo scelta. Anche se fossi scivolato fuori senza farmi notare, non avevo alcun posto dove andare. E a ogni modo, avevo promesso a Ranma che avrei risposto alle sue domande.
Così dovevo solo decidere quanto dirgli.
Sospirai e mi sistemai contro un cavalletto coperto di vestiti. E poi perché i Tendo avevano una cosa così stupida in palestra? Non pulivano mai questa stupida stanza?
Mi irrigidii nel sentire la porta della palestra aprirsi, poi chiudersi. Per un momento da infarto credetti che qualcuno avesse udito i miei pensieri e stesse venendo a pulire il mio nascondiglio. Quella sarebbe stata la mia fortuna. Ma dopo qualche lungo minuto di agonia, capii che chiunque fosse entrato nella palestra stava soltanto là dentro in silenzio. Rimasi immobile, chiedendomi chi potesse essere. L’altro Ranma aveva deciso di saltare la scuola per confrontarsi con me adesso? Doveva essere impaziente di sapere chi fossi. Mi chinai in avanti e aprii silenziosamente uno spiraglio nella porta. Avvicinandomi con gli occhi allo stretto spazio, potei vedere una sezione della palestra. Vuota. Imprecai tra me. Non potevo rischiare di aprire di più la porta, e chiunque fosse entrato, non sembrava incline a entrare nel mio campo visivo.
Una scarica improvvisa di adrenalina ghiacciata mi fece rizzare ogni capello. Poteva essere lui? Mi aveva trovato così presto? Cominciai a allontanarmi dalla porta, chiedendomi cosa dovessi fare. Un pasto e una notte di sonno mi avevano schiarito la mente quanto bastava per chiedermi di nuovo se fosse stata una buona idea. Poi cominciai a sentire una voce dentro la palestra.
"Akane".
Che diavolo? Ryoga? Mi spostai nuovamente in avanti. Non potevo ancora vederlo, ma lo sentivo perfettamente. Che stava facendo qui?
"Akane", ripeté. Lo udii prendere un respiro profondo.
"A causa della mia sconsideratezza e mancanza di disciplina ti ho messa in pericolo. Anche se mi hai perdonato, non posso perdonare me stesso. Non così facilmente. Akane, questa è una promessa: mi allenerò duramente, e tempererò il mio controllo sopra le mia capacità così da non mettere più in pericolo un’innocente. Giuro di diventare un uomo, un uomo che non disonorerà mai il suo nome. Diventerò un uomo degno...". La sua voce si abbassò, ed esitò per un momento. "Degno del tuo rispetto... e amore".
Questo era stato poco più di un sussurro, ma lo potei sentire dentro alla palestra vuota come un urlo. Chiusi gli occhi e sospirai lentamente.
Oh, Ryoga. Così dannatamente testardo. Non era da lui rinunciare a qualcosa, non importa quanto potesse fargli male. Questo gli aveva permesso di padroneggiare la tecnica del Bakusai Tenketsu, ma sapevo che non gli avrebbe mai fatto vincere il cuore di Akane. Nel profondo, pensai che anche lui lo sapesse, ma comunque non lo avrebbe fermato dal tentare.
Ryoga, pensai tristemente. L’amore ci rende davvero dei pazzi, amico.
"È stato un discorso da valoroso, Ryoga". Sentii l’ansito di Ryoga alla nuova voce, abbastanza forte da mascherare il mio. Mi girai di nuovo verso la porta, sopprimendo un tremito. Conoscevo quella voce.
Mia madre.
Sua madre, ricordai a me stesso con rabbia. Non la tua. La tua è... è...
Morta. Mia madre era morta. Se non riuscivo neanche a pensare quella parola, come lo avrei potuto accettare?
E come lo puoi accettare, chiese una voce furtiva da qualche angolo buio, se si trova davanti a te nella palestra? Non avevo una risposta per questo.
"S-signora Saotome", balbettò Ryoga. Probabilmente si stava chiedendo se lei avesse sentito la fine del suo discorso. Sapevo che l’aveva fatto.
"Sono molto lieta di vedere che hai compreso la gravità degli eventi di ieri", disse con calore. La sentii entrare nella palestra dalla porta, e mi schiacciai ansiosamente contro lo spazio angusto sperando di catturare un’occhiata di lei, solo uno sguardo.
Come quando volevi solo vedere Akane una volta? Chiese aspramente la mia coscienza guasta. La ignorai.
"Signora Saotome, mi spiace davvero. Non volevo che succedesse". Disse Ryoga.
"Lo so, Ryoga", replicò lei, "ma la cosa più importante è che stai prendendo misure affinché ciò non avvenga mai più. Questo vale mille scuse. È l’atto di un uomo". La potevo sentire più chiaramente ora. Si stavano avvicinando!
"G-grazie", balbettò Ryoga.
"È solo la verità, Ryoga. Ti sei preso la responsabilità delle tue azioni, e questo è ammirabile. Confido che in futuro ricorderai quanto pericolose possano essere le tecniche che hai appreso".
"Lo farò".
"Bene". Poi entrarono nel mio campo visivo e il mio cuore si congelò. Mia madre aveva appoggiato una mano sulla spalla di Ryoga, fermandolo proprio dove li potevo vedere.
"Ryoga Hibiki", continuò gentilmente, "anche io sono stata giovane. Mi ricordo come i cuori giovani spesso agiscano con temeraria passione. So che le parole possono ferire e gli impulsi bollire il sangue. Tu e mio figlio siete più simili di quanto io sospetto nessuno di voi vorrebbe ammettere. Fieri. Testardi. Feroci. E rapidi nel giungere in difesa di chi volete bene". Le guance di Ryoga si tinsero di rosso vivo. "Io credo che tu sia un uomo di parola, Ryoga Hibiki. Così non ci sarà alcun bisogno di parlare di nuovo di questa questione". Lui annuì in silenzio, ancora rosso in faccia. Non gli piacevano molto gli elogi. "Sono curiosa di sapere perché non sei a scuola", disse lei, cambiando argomento. Ryoga si mosse a disagio.
"Io, uh... non sono stato a scuola negli ultimi tempi. Ho avuto dei... problemi." Già, problemi a trovare la scuola, pensai.
La mamma si limitò ad annuire.
"E cosa hanno detto i tuoi genitori al riguardo?".
"Non li vedo molto spesso", borbottò, guardando il pavimento. Lei aprì la bocca, poi evidentemente pensò che fosse meglio non interferire in quello che sembrava essere un affare di famiglia, e cominciò invece a camminare fuori dal mio campo visivo di nuovo.
"Dimmi, lo sa Soun Tendo che sei nella sua palestra?". Vidi la faccia di Ryoga impallidire mentre la seguiva.
"N-no, signora, ho solo pensato che avrei potuto allenarmi un po’ mentre aspettavo che Akane e Ranma tornassero a casa. Mi sembrava una buona idea stare un po’ lontano da loro". Disse timidamente.
"Sì, credo che sarebbe saggio da parte tua evitarlo per un po’, almeno finché non avrà modo di calmarsi. È molto protettivo con le sue figlie, lo sai, e non ha preso bene la notizia dell’incidente. Comunque, penso che alla fine vi perdonerà". La udii ridacchiare.
"Alla fine. Ti lascio al tuo allenamento, Ryoga. Lavora sodo".
I suoi passi si diressero verso la porta, e la sentii andarsene. Mi lasciai cadere contro il muro mentre ascoltavo Ryoga che cominciava a muoversi intorno al pavimento, riscaldandosi. I miei occhi bruciavano e sentivo un liquido caldo accumularsi e scorrere lungo il volto. Mi mossi lentamente, raccogliendo una lacrima con l’indice e portandola dove la potevo vedere, come se vedendola la potessi ridurre a una mera goccia d’acqua, invece che un segno di debolezza.
Ryoga che riceve consigli da mia... dalla madre di Ranma. Era qualcosa che avevo desiderato tante volte durante il mio allenamento, qualcosa che mi era stata negata. Avevo odiato mio padre per questo, anche se capivo perché l’avesse fatto. Mi mancavano la calma, il conforto e i consigli materni. Mia madre non mi aveva mai parlato nel modo in cui aveva appena parlato a Ryoga, mai, quando avevo bisogno di lei, e ora non l’avrebbe mai più fatto.
Mai più.

(La casa dove sono cresciuto non è stata risparmiata. La guardo intorpidito, senza voler entrare nel rudere. Se non trovo il suo corpo, allora c’è ancora speranza. Se non guardo, posso continuare a credere che può essere scappata, anche se so che non è quello che è successo.
Sono arrivato fin qui, e devo sapere fino in fondo. Non posso fermarmi finché non sono sicuro. Faccio un passo avanti, poi un altro. Avanzo oltre i resti distrutti della porta d’ingresso, e qualcosa brilla tra le macerie. Mi avvicino e vedo una katana, la sua lama sporca di qualche orribile liquido raggrumato...
"MAMMAAAAAA!")

Abbassai la testa sulle ginocchia e strinsi ferocemente le mani dietro di essa. Potevo sentire un grido che montava dietro la mia gola e lo combattei, combattei con tutta la mia forza. Non potevo farlo uscire nemmeno in parte, e non perché Ryoga fosse nella stanza a fianco. No, se cominciavo a urlare, non mi sarei mai più fermato. Mi avrebbe spezzato, e non avrei lasciato che succedesse. Combattei persino per respirare, per smettere di tremare come un bambino terrorizzato. Combattei la pena e la follia, e vinsi.
Vinsi.
Il respiro lentamente tornò sotto controllo, e mi accorsi che i denti mi dolevano dal tanto stringerli. Improvvisamente, la piccola stanza sembrò essere non più un rifugio, ma una prigione. Lentamente sciolsi le mani e lasciai cadere le braccia lungo i fianchi.
"Sbrigati a tornare a casa, Ranma", sussurrai. "Per favore. Non so quanto potrò resistere ancora".


Akane alzò lo sguardo al cielo e fece un sospiro di frustrazione. Ranma, pensò con un misto di stizza e preoccupazione. Avrebbe voluto scusarsi per quello che aveva detto prima, ma lo stupido l’aveva evitata tutto il giorno. Praticamene l’esatto opposto del giorno prima, ora che ci pensava.
Mi chiedo se questo significa che oggi sarà Ranma a rischiare di essere ucciso, pensò, per subito pentirsene. L’altro Ranma era ancora là fuori da qualche parte. Qualcosa non andava. Anche l’aria sembrava strana, caricata di presentimenti.
Si scosse con rabbia e si disse che stava rimbambendosi. Voci dell’incidente di ieri erano circolate, e l’umore di Akane non era migliorato dall’avere gente attorno a lei tutto il giorno.
E nemmeno, apparentemente, era migliorato quello di Ranma.
Vide un viso familiare che abbandonava la scuola e salutò con la mano.
"Ehi, Ukyo!". Ukyo si fermò e ricambiò il saluto con poco entusiasmo. Akane si rabbuiò. Ukyo si era comportata in modo strano dall’incidente, ora che ci pensava. Non aveva idea del perché, e non aveva tempo per scoprirlo. "Ehi, hai visto Ranma?", chiese senza fiato, correndo verso la ragazza in attesa. La ragazza diede nervosamente uno strappo al collare dell’uniforme, e Akane si chiese, non per la prima volta, perché Ukyo continuasse a vestirsi come un ragazzo quando veniva a scuola.
"Uh, no, Akane. Pensavo che fosse con te"
"Mi ha evitato tutto il giorno, e adesso sembra che sia tornato a casa senza di me".
"Oh. Litigato ancora, eh?". Ukyo girò lo sguardo, senza incontrare quello di Akane.
"Allora, ci sono novità?".
"Beh, devo andare. Spero che lo troverai". Ukyo trottò via, lasciando una scombussolata Akane in piedi fuori dai cancelli della scuola.
"Certo. Sicuro". Quella ragazza aveva senza dubbio qualcosa. Akane sospirò e si guardò attorno una volta ancora per trovare Ranma. Si chiese se lui fosse davvero arrabbiato con lei. Per qualche ragione, la prospettiva la faceva sentire come se avesse lo stomaco pieno di farfalle impazzite. Alla fine partì e si diresse verso casa, senza sapere se fosse arrabbiata o preoccupata.
Quella si stava rivelando una settimana davvero strana.


Ranma-chan camminava oziosamente lungo la cima della recinzione, strizzando via l’acqua dalla camicia. Pensò malinconicamente ai giorni che seguirono la maledizione di Jusenkyo, quando sembrava che lei non riuscisse a rimanere asciutta per alcuna ragione. Non era rimasta in quella situazione a lungo, comunque, perché l’esperienza le aveva inculcato qualcosa. La sua mente ritornò all’ospite che la aspettava alla palestra, e alle risposte che la stavano aspettando con lui. Aveva preso in considerazione l’idea di non andare a scuola quella mattina, ma anche se non l’avrebbe ammesso con nessuno, era preoccupata per Akane, e non aveva voluto perderla di vista.
E alla fine guarda che cosa ne aveva ottenuto.
"Stupido maschiaccio. Se pensa di essere più al sicuro senza di me, allora vada". Ranma-chan camminava imbronciata sulla recinzione, ignorando gli sguardi che riceveva dai passanti. Poi saltò giù per terra e sospirò. Le accuse di Akane non l’avrebbero preoccupata così tanto se non avesse pensato che potevano essere vere. Akane era più al sicuro quando lei non era in giro? Ci aveva rimuginato su per la maggior parte del tempo, quando non si chiedeva cosa avrebbe raccontato il suo doppio. Non era stata per niente capace di concentrarsi. Alla fine, era schizzata fuori dalla classe per poter evitare Akane. Non poteva aspettare più a lungo. E non voleva alcuna distrazione. Stava andando dritta alla palestra per risolvere almeno uno dei suoi troppi problemi.
Quando arrivò a casa, scivolò attorno il fianco della casa e spiò dalla finestra della cucina. Vedendo che era vuota, scivolò dentro e saccheggiò il frigo. Il Ranma nella palestra sicuramente non aveva mangiato, e Ranma non voleva distrazioni mentre si facevano la loro chiacchierata. Reggendo con facilità il suo bottino su una mano riscivolò fuori dalla finestra, chiudendola dietro di lei. Aggirò la casa, si diresse alla palestra, pregustando la conversazione che stava per avere.
Non udì lo strano rumore ronzante che era cominciato dentro la casa.


Alzai lo sguardo quando la porta si aprì quietamente. Un’apprensiva ragazza dai capelli rossi introdusse la testa all’interno, poi sorrise nel vedermi.
"E così sei ancora qua", disse. Posò alcune scodelle e una tazza sul pavimento.
"Dove sarei potuto stare?", chiesi acidamente. Ranma-chan mi guardò con curiosità.
"Tutto bene?".
"Pessima giornata", borbottai. Lei annuì.
"Beh, ti ho portato qualcosa da mangiare. Ho immaginato che stessi digiunando". Guardai il cibo e feci una smorfia.
"Non ho fame", dissi duramente. Il mio stomaco scelse proprio quel momento per tuonare, sbugiardandomi.
"Uh uh", disse Ranma-chan. Sospirai e presi il cibo, accennando la mia gratitudine. Cominciai a riversare riso freddo in bocca con un paio di bacchette.
"Allora, cominciamo con la classica domanda", disse Ranma-chan, guardandomi mangiare. "Chi...".
L’aria venne attraversata da uno strillo acuto. Lasciai cadere la scodella mentre Ranma saltava in piedi.
"AKANE!", gridammo insieme. Ci lanciammo fuori dalla palestra, portandoci verso il giardino. Potevo sentire grida e agitazione, e capii che doveva essere lui. Mi aveva seguito, e ora i Tendo erano nei guai. Se avesse fatto loro del male, giurai a me stesso che avrebbe pagato. L’avrei ucciso con le mie mani.
Akane...
Girammo l’angolo e ci bloccammo subito. Potevo vedere la mamma, con la sua katana fasciata in mano, dietro un panda arrabbiato. Il signor Tendo e Ryoga stavano facendo scudo a Kasumi e Nabiki con i loro corpi, in posizioni rigide e infuriate.
Tutti stavano guardando Akane. Lei era in piedi, con i suoi grandi occhi puntati sulla canna della pistola nella mano dello straniero.
Era lui. Era un occidentale alto, vestito di un lungo cappotto nero. Dietro di lui, una normalissima porta si alzava senza sostegno nell’aria. Lo straniero dai capelli scuri era troppo lontano per ciascuno di noi perché potessimo raggiungerlo prima che sparasse ad Akane. Sentii Ranma tendersi dietro di me, e alzai la mano per trattenerlo.
"Dimmi solo che non ci saranno problemi", stava dicendo con un tono molto ragionevole. Il signor Tendo sembrava in procinto di esplodere, e il panda ringhiava minaccioso.
"Sono qui", dissi a voce alta. Lo straniero si spostò in modo da abbracciare tutti con lo sguardo. Potei vedere il brutto livido sotto il suo occhio destro, e sentii un’improvvisa scarica di gioia rabbiosa. Il tipo poteva essere battuto. Io ne ero la prova. Lui socchiuse gli occhi e si rivolse a me.
"Saotome. Imbecille, cosa hai fatto? Perché sei venuto qui? Non hai sentito quello che ti avevo detto?". Potevo avvertire nell’aria il trauma di tutti mentre realizzavano che c’erano due Ranma, un ragazzo e una ragazza. Non ero sicuro che Jack sapesse della maledizione. Diavolo, cosa stavo pensando? Lui doveva saperlo. Lui sapeva tutto.
Me l’aveva già provato.
"Lascia andare Akane, Jack. È me che vuoi, ricordi? Non ti sei preoccupato di lei prima. Di nessuno di loro".
Qualcosa guizzò nei suoi occhi a quelle parole. Sperai fosse colpa.
"Saotome, non so se ti rendi conto di quanto sia seria la situazione", ringhiò.
"Non so se ti rendi conto di cosa ti accadrà se fai del male ad Akane", ribatté Ranma-chan. Le lanciai un’occhiata di avvertimento. Non sapevo a cosa poteva arrivare Jack, e non volevo pressarlo troppo.
Non mentre Akane si trovava davanti alla pistola.
"Saotome", disse, ignorando Ranma, "cosa ci fai qui? Eh? Questa non è casa tua. Questa gente non è la tua famiglia, i tuoi amici, non importa quanto ci somiglino. Non puoi stare qui. Non funzionerà. Devi venire con me, è l’unica soluzione. Non rendere le cose più difficili di quanto siano". Mi guardò fermamente, parlando come un uomo ragionevole che fa una semplice richiesta. Se si ignorava il fatto che stava tenendo Akane sotto tiro, naturalmente. Aprii la bocca per dirgli che sarei andato con lui se solo la avesse lasciata andare.
"Codardo". La parola risuonò come scolpita nel ghiaccio. Mi voltai per vedere la mamma, con l’impugnatura della katana, ora priva di fascia, a portata di mano. Era difficile credere che fosse la stessa donna che aveva parlato così dolcemente a Ryoga nella palestra poco prima. Jack spostò lo sguardo su di lei.
"Prego?".
"Sei un codardo. Tieni in ostaggio una ragazza, fai domande, ti comporti come se fossi il capo". Si mosse con deliberata lentezza e strinse l’impugnatura della katana.
"Senta, signora...".
"Mi chiamo Nodoka Saotome. Ranma è mio figlio. Akane è la sua fidanzata. Non ti lascerò far del male alla mia famiglia". Il panda si spostò per coprire meglio la mamma e ringhiò minacciosamente, il suo folto pelo drizzato. Ryoga fece scrocchiare sonoramente le nocche, il signor Tendo si illuminò e Ranma si mosse, obbligando Jack a spostare lo sguardo verso di noi.
Non andava per niente bene. Eravamo in troppi, troppo dispiegati, dividevamo la sua attenzione. Più questa faccenda continuava più aumentavano le possibilità che qualcuno provasse ad attaccare. E se succedeva, qualcuno si sarebbe fatto male. Dovevo fermarli subito. Mi dovevo arrendere.
Poi udii Ranma ansimare, e vidi cosa stava guardando.
Oh, CAVOLO. Apparentemente, Akane si era riscossa dal trauma.
La sua aura stava cominciando a brillare di un blu intenso. Le sue mani, ancora lungo i fianchi, si stavano chiudendo in pugni. I muscoli della sua mascella si stavano contraendo spasmodicamente.
Akane era infuriata. Pistola o no, stava per perdere la calma.
"Akane, no!", gridai. Jack aveva notato la luce e si era allontanato di un passo, sbarrando gli occhi. Sapevo che si stava ricordando del mio attacco energetico. Forse pensava che anche Akane ne fosse capace. Fece un altro passo, ponendosi di fronte alla porta sospesa, con la pistola ancora puntata su Akane.
"Quarantotto ore, Saotome. Poi tornerò, e farai meglio a essere pronto a partire con me". La porta si aprì. Akane aveva cominciato a ringhiare, e fissò l’uomo in ritirata.
"Tuuuuuuuuu...", ansimò. L’aura si intensificò. Lui si voltò e saltò attraverso la porta, che si richiuse di botto. Tutti cominciarono a muoversi insieme, ma Akane era la più vicina. La vidi caricare il pugno mentre si lanciava sulla porta.
"BASTARDO!". Scagliò un pugno terrificante con tutta la sua forza. Sfortunatamente la porta scelse quel momento per svanire con un leggero ronzio. Lei perse l’equilibrio e cadde pesantemente a faccia in giù. Un secondo dopo, era circondata da persone ansiose.
"Akane!".
"Stai...".
"Tutto ok, sorellina?".
"LA MIA BAMBINA!".
"Cara...". Akane si alzò a sedere, disgustata.
"Argghhhh! È scappato! Quel... quel...". Stava tremando; per la rabbia, lo shock ritardato, l’eccesso di adrenalina, o tutti i sopracitati, non ne ero sicuro. Ma era incolume. Questo era ciò che importava veramente. Le sorrisi con sollievo e lei rispose al sorriso. Poi il suo sorriso vacillò, e guardò alla rossa dietro di me. Mi resi conto che nessuno parlava più. Guardavano tutti me.
"Ranma?", chiese Akane a voce bassissima. La mamma si schiarì la gola.
"Non credo che ci abbiano ancora presentato", disse dolcemente. La guardai, guardai tutti loro, con le parole di Jack che mi riecheggiavano nella mente.

(Questa non è casa tua. Questa gente non è la tua famiglia, i tuoi amici, non importa quanto ci somiglino. Non puoi stare qui)

Aveva ragione, naturalmente, ma io avevo portato il caos nelle loro vite, e il minimo che dovevo loro era una spiegazione.
"Sono, uh, Ranma Saotome", dissi alla fine, grattandomi timidamente la nuca. "Mi dispiace".





Fine seconda parte.

Revisione versione originale inglese: 27 Luglio 1997
Revisionata traduzione italiana: 10 Maggio 1998
Betalettura a cura di TigerEyes: 27/7/2011

Nel caso doveste riscontrare refusi che mi sono sfuggiti, vi prego di segnalarmeli, grazie.
   
 
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