All’epoca Voldemort faceva molti
proseliti; le sue idee (le grandi famiglie purosangue devono dominare, mettere
in ginocchio i propri nemici - e prima di tutti i Babbani,
responsabili della decadenza della magia... della contaminazione del sangue)
trovavano sostenitori più o meno entusiasti in tutte
le fasce sociali, fra maghi di età diverse, diversa formazione.
Fra i giovani, le sue parole raccoglievano i consensi degli
esaltati, dei provocatori e degli irrequieti in generale; sia dei fanatici,
influenzati dai mistici richiami al mito del sangue puro e della supremazia sui
Babbani, che dei piantagrane, in cerca di una scusa
qualsiasi per menare le mani.
Le idee di Lord Voldemort facevano leva sulle paure dell’aristocrazia magica, sul terrore di perdere la propria autorità – e con l’autorità il potere, il denaro, il rispetto.
Di perdere tutto.
Nelle grandi famiglie – i Black, i Greengrass
e i Lestrange, i Burke, i Malfoy
– che avevano basato tutta la propria condotta sull’orgoglio e sullo status di
sangue, s’insinuava il timore di perdere la propria supremazia.
Dopo generazioni – decenni, secoli! - passati ad imprimere a fuoco nei figli e nei nipoti e nei pronipoti
(anni passati a ripeterlo a se stessi, continuamente, per tutta la vita) quali
erano gli onori e gli oneri legati indissolubilmente alla nobiltà – la lealtà
sopra ogni cosa, il dovere, l’onore... il rischio era di ritrovarsi ad essere delle
persone come le altre.
Di confondersi in mezzo agli altri.
Di non essere più nessuno.
E tutti quegli anni passati a costringere se stessi a mantenere un comportamento onorevole – tutto per niente...
Dopo quell’assolato pomeriggio sotto le querce (foglie rosse e gialle che turbinavano come coriandoli; cinque persone immobili come figure di un quadro, i visi congelati in espressioni di stupore, sgomento, confusione), non si era più parlato della proposta di Elessa.
Come se non fosse stato chiaro, fin da subito, che prima o poi si sarebbe arrivati a quello… Quando ognuno di loro, ogni momento – con gli
abiti che portava, le persone che frequentava, le abitudini che assumeva giorno
dopo giorno – aveva contribuito a spingerli tutti verso quel passo.
Tutti giravano attorno all’argomento in punta di piedi,
attenti a non toccarlo. Persino Nat, che fra tutti
era stato l’unico a mostrare all’inizio un cauto entusiasmo rispetto all’idea,
ora evitava accuratamente di farvi qualsiasi accenno, circospetto come un gatto
che schivi una pozzanghera.
Altea, che come gli altri aveva
espresso orrore e sconcerto (e in un qualche modo anche in buona fede, fermamente
convinta di essere davvero inorridita, di essere davvero sconcertata)
aveva però, in fondo in fondo – un’idea piccola piccola
sepolta sotto molti strati di civiltà e di superiorità morale - l’inconscia
sgradevole fastidiosissima sensazione che Elessa
avesse ragione – che i diritti di quelli come loro fossero davvero in
pericolo, necessitassero davvero di una protezione. E pensava anche – ma
di questo non poteva essere certa – che sotto le esclamazioni sgomente e gli
sguardi scandalizzati dei suoi amici ci fosse una consapevolezza simile, una simile paura.
Ad Altea ripugnava l’idea di Elessa.
Era logico che la ripugnasse (non era logico...?).
Unirsi a Lord Voldemort? Ma
andiamo!, quello era un assassino, aveva ammazzato
della gente, per l’amor del cielo!
Eppure...
Eppure le balenava di continuo questa immagine (fuggevole,
davvero, non più di una frazione di secondo per volta) davanti agli occhi,
della Sala Grande – ed era la sua Sala Grande, con le meravigliose
candele a mezz’aria come le aveva viste il suo primo giorno di scuola, coi tavoli di legno
vetusto e i camini scoppiettanti dal fumo profumato di resina, bellissima e
oscura e piena di magia – invasa da marmocchi in jeans che ridevano delle
tradizioni magiche, perché erano troppo stupidi per capirle.
No, riconobbe Altea, non troppo
stupidi. Troppo prevenuti. Troppo
abituati alla loro vita di corn flakes
e pattini a rotelle e gomma da masticare e... e tutte quelle altre cose assurde
che facevano i Babbani.