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Autore: planet    09/10/2011    0 recensioni
I momenti più dolorosi della vita hanno piccole sfaccettature, a volte di speranza, altre di un ulteriore frustazione, altre ancora esprimono un dolore così lancinante che crederesti che la lama di una spada o di un coltello nella tua carne faccia meno male. Queste sfaccettature sono simili a quelle dei diamanti, ecco il perchè del titolo. Buona lettura!
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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241995

La vita non è che un sogno, più ti addentri in essa meno ti apparirà chiara.
 
-Prigioniero 241995! Alzati, è arrivata l’ora di chiudere la tua inutile esistenza!- Disse con disprezzo la guardia, lo odiava, li odiava tutti. Per lui gli errori non dovevano esistere, colui che sbagliava non aveva diritto ad una seconda opportunità, ciò, ovviamente, non valeva per lui. Il cervello del prigioniero si sarebbe fritto da lì a pochi minuti ma questo sembrava solo rallegrarlo. Il prigioniero si alzò dal sudicio letto sul quale aveva dormito per ben tre mesi e si avviò verso le grate. Altre due guardie affiancarono la prima che sorridendo aprì la cella, anche il tintinnio delle chiavi dava un rumore lugubre e triste. In quella situazione quel rumore poteva benissimo essere considerato quello di una campana che suonava l’ultimo rintocco della vita di un uomo. Il prigioniero che si accingeva ad uscire da quella che aveva considerato un po’ come la sua casa, si chiamava Mehemet, per i suoi giudici aveva prima stuprato e poi ucciso brutalmente due ragazze, una di quindici anni e l’altra di diciotto.
-Ma che fai? Il grande Mehemet piange? Oh poverino!- Una manganellata arrivò rapida sul gomito del prigioniero, il grido di dolore che sfuggì a Mehemet causò una grande ilarità tra i suoi carcerieri, tra tutti, tranne uno. George era l’unico, tra tutti quegli uomini di ghiaccio, che provava ancora dei sentimenti umani nei confronti dei suoi prigionieri.
-Basta! Micheal basta! Pover’uomo fra pochi minuti deve dire addio a questo mondo e tu lo tratti così?- Si passò la manica della giacca per asciugarsi il sudore sulla fronte. Non voleva trovarsi in una brutta situazione con i suoi colleghi, ma non sopportava neanche di vedere quell’ ingiustizia di proporzioni colossali.
-Ma io lo sto aiutando, in questo modo quando siederà sulla sedia elettrica non rimpiangerà la vita!- Rise sinceramente divertito da quanto aveva detto, continuando a sorridere con un urtone spinse il detenuto nel miglio. Il miglio era il percorso che ogni detenuto doveva effettuare per giungere alla sedia elettrica, per giungere alla purificazione delle loro colpe, per giungere alla morte. Le lacrime continuavano a scorrere imperterrite e senza freni sulle guance di Mehemet che, nonostante questo, appariva fiero ed orgoglioso, un grifone ferito all’altezza del cuore ma che ancora arranca, percorrendo i pochi metri che gli restavano, con sguardo fiero e giusto. Si era sempre detto innocente, nessuno gli aveva mai creduto. Colpa degli stereotipi. Un musulmano di origine araba in America che compare in un processo diviene automaticamente il più crudele serial killer della storia, per la maggior parte di tutti gli americani lui era un islamista, un pazzo furioso, e non perché ci fossero serie prove a suo carico, ma solo per la sua religione, solo per il colore scuro della sua pelle. Un uomo che paga con la vita il tragico errore di un altro, un innocente in più sulla coscienza del grande popolo americano. Mehemet ricordava che suo nonno gli aveva sempre detto che gli uomini prossimi alla morte diventano saggi, improvvisamente anche lui si sentì saggio, pensò alla vita, alla sua vita.
Si era trasferito in America per sfuggire alla guerra che stava imperversando nel suo paese, con lui era fuggita anche sua moglie, incinta di due gemelli. Il sogno americano aveva conquistato anche loro, la possibilità di una nuova vita, una vita senza ingiustizie. Tutto era perfetto, così perfetto da sembrare un sogno, ma tutti i sogni prima o poi finiscono, lasciando quella sensazione acre sul palato, una sensazione di delusione e stupore. Un giorno mentre si recava normalmente al lavoro vide un uomo bianco, alto e biondo che stava gettando un sacco nero in un bidone, il sacco aveva una strana forma ma non fu questo ad attirare l’attenzione dell’uomo, bensì il viso guardingo di colui che stava alzando con forza immane quei sacchi. Aspettò che si allontanasse e si portò vicino il bidone della spazzatura, una strana voce gli diceva di aprire quel sacco, pensando fosse la voce del suo Dio lo aprì con mani tremanti. Appena vide il contenuto gettò fuori un urlo che attirò l’attenzione di una decina di passanti, una donna, spinta dalla curiosità, sollevò il capo quel tanto che le bastava per vedere anche essa il contenuto. Vide un viso circondato da candidi capelli biondi sporchi di sangue, vicino quel viso ve ne era un altro, più piccolo e rotondo del primo. Quei volti le ricordarono quelli visti in televisione, erano i volti di due ragazze scomparse da una decina di giorni, appena rimembrò l’accaduto con quanta più voce aveva in corpo, additando l’uomo, ululò
-E’ lui! L’assassino delle piccole è lui! Prendetelo-
Tre uomini capendo a cosa si stesse riferendo la donna gli si scagliarono contro, urlando le peggio cose e picchiandolo selvaggiamente. Solo l’arrivo di una volante di polizia riuscì ad impedire la morte di Mehemet. A nulla valse il racconto di Mehemet, nessuno gli credette. “La tua storia non regge” era l’affermazione che quotidianamente era costretto ad ascolatare, un’affermazione che faceva più male di una stilettata, più male di un colpo di pistola. Al buio nella sua cella la domanda ricorrente nella mente di Mehemet era: Cosa ho fatto per meritarmi questo? L’unica risposta era il silenzio della sua cella. Un silenzio che sembrava scusarsi per quanto gli stava accadendo. A pochi metri della sedia l’unica cosa che quel grifone ferito continuava a fare era pensare. Ricordava sua moglie, i suoi figli, il suo paese lasciato per uno nuovo che gli aveva strappato ogni speranza di miglioramento.
-Non sono stato io- disse con voce flebile, così flebile che si perse tra le grandi mura del miglio. Quel sussurro però non sfuggì a Micheal che sorrise enigmatico, nella stesso corridoio si scontravano due emozione completamente opposte. La prima era soddisfazione mista a gioia, la seconda era pura rassegnazione. Riso e pianto. Micheal e Mehemet. Lo fecero accomodare sulla sedia, gli legarono i piedi e le mani per poi posare una spugna bagnata sulla sua fronte.
-Non sono stato io!- Gridò cercando di strappare le corde di cuoio che lo tenevano fermo, non riuscendoci chinò il capo e le lacrime cessarono di cadere.
-Tu che sei nei cieli sai che sono innocente, ti prego salva la mia anima condannata ingiustamente, veglia sui miei figli, guida mia moglie e libera la mia patria-
Morì subito dopo aver pronunciato la sua ultima frase, i pugni erano ancora serrati nel tentativo di ristabilire una calma perduta da tempo immemore.
Micheal lasciò la stanza con una scusa qualsiasi, si tolse la divisa da guardia carceraria e si guardò allo specchietto che portava sempre con sé. Sorrise nel vedere la sua immagine riflessa, era un uomo bianco, alto e biondo, o almeno era stato biondo, si era tinto i capelli all’incirca tre mesi prima…  
 

  
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